IT'S DIFFERENT MAGAZINE 47

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It’s Different magazine edizioni Mille srl anno 8 n.47/2017. free press Autorizzazione Tribunale di Ravenna n.1329 del 05/05/2009 - itsdifferent.it

© ANNALISA CECCOTTI

VITA CONTEMPORANEA


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Piazza Saffi, 13 Punta Marina Terme (Ra) Tel.0544.437228 www.ristorantecristallo.com chiuso mercoledĂŹ



info@itsdifferent.it n.47/ 2017 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Carlo Lanzioni - Claudio Notturni - Mara Pasti Lehila Laconi FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto info@millemedia8.it

Ravenna via Cavina, 19 tel.0544.684226 - 348.7603456 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE:GRAF srl Edizione Emilia Romagna

RIVISTA ACCEDITATA

74°MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA La Biennale di Venezia 2017

COPERTINA HAIR : MASSIMILIANO RICCI OUTFIT : MIRKO TOMEI MODEL : GIADA BY CASTING FIRENZE MAKE UP : LARA QUERCIOLI PHOTO : ANNALISA CECCOTTI


MATTIA ZOPPELLARO IMPREVEDIBILE E SPIAZZANTE

ALESSANDRO GASSMAN,DI LUI,2016

Di Tobia Donà Ama l’imprevedibile e lo spiazzante. Lo attrae tutto ciò che è diverso dal suo sentire ed esplora mondi e situazioni che stanno ai margini. “Il mio posto ideale è ciò che mi è estraneo!” afferma Mattia Zoppellaro, fotoreporter e ritrattista di eccezionale talento. Hanno posato per lui le maggiori star della musica e non solo. E pensare che tutto ha avuto inizio dal suo primo amore, il Cinema. Negli anni novanta ha documentato con i suoi reportage il fenomeno dei rave, partecipando a queste grandi feste esclusivamente non autorizzate, in giro per l’Europa. Appassionato di musica è interessato maggiormente a suscitare domande piuttosto che dare risposte. Mattia Zoppellaro sta percorrendo una carriera professionale di primissimo piano ed è uno dei maggiori fotografi del settore musicale. Per le riviste Rolling Stone, Mojo, Nme, Vanity Fair, Sunday Times Magazine, El Pais e molte altre, egli ha ritratto vere e proprie leggende viventi, da Patti Smith a Iggy Pop e Lou Reed, fino a


WES ANDERSON, IL, 2014

Usain Bolt, al regista Wes Anderson e, persino Giulio Andreotti. Sembra che tutti, ma proprio tutti, abbiano posato per lui che sognava di diventare regista. Ma la vita si sa, percorre strade imprevedibili e sono appunto alcune circostanze concomitanti che, dalla piccola Rovigo, cittadina dov’è nato, lo hanno condotto prima a Londra e poi a Milano, inseguendo la fotografia e il suo appetito di curiosità. Ora vive e lavora in queste due straordinarie metropoli e la santificazione delle star e la capillare diffusione dei miti, passano anche attraverso la sua lente. La ricetta Zoppellaro è semplice: il divo non si venera ma va ricercato in lui ciò che vi è di più umano. Ed ancora, luce naturale e due obbiettivi al massimo, anzi meglio uno soltanto. Ecco come si trasferisce in fotografia la natura delle stelle, inafferrabili ed immaginifiche. Pur rigidamente commissionati i suoi scatti manifestano un segno individuale e riconoscibile. Abbiamo la sensazione che i suoi ritratti siano frutto di un incontro casuale e non previsto. Il soggetto sembra colto di sorpresa e potremmo addirittura pensare che si chieda il perché di quell’obbiettivo che il fotografo gli punta contro. Visi immobili senza la minima intenzione di apparire atteggiati a una determinata espressione. I volti di Zoppellaro non si preoccupano di suscitare maggior interesse di quello che già, senza sforzi apparenti, destano nello spettatore. Presenze che bastano a se stesse, racchiuse in un cerchio di verità.


DAMON ALBARN LEADER DEI BLUR,(LONDON) ROLLING STONE, 2014

Mattia che cosa si prova a fotografare una star? Quando scatto non penso mai di avere difronte una star. Cerco di famigliarizzare e creare un common ground parlando del più e del meno. E’ assolutamente importante il dialogo poiché considero il ritratto il frutto di un incontro, ciò che scaturisce tra fotografo e soggetto. Immagino non sia sempre facile. Ti capita di essere emozionato? Si certo, ricordo quando sono stato avvisato dell’incontro con Lou Reed. Il mio idolo! Un maestro di vita dal quale ho tratto molti insegnamenti. Forse più che da parenti e amici. E come andò l’incontro? Abbiamo parlato di fotografia, sua grande passione. Di fotocamere e obbiettivi. Lou era un geek di tecnica e attrezzatura, conosceva tutto. Era un vero nerd della fotografia. Dal ritratto che gli hai fatto direi che andò ottimamente. Quindi è la fotografia il tuo cavallo di battaglia durante lo shooting? No, uno degli argomenti ricorrenti è il calcio, quello mi salva sempre. Con John Lydon dei Sex Pistols, abbiamo parlato dell’Arsenal. Poi dipende dalle circostanze del momento. Con David Gilmour dei Pink Floyd abbiamo scattato a casa sua al mare e abbiamo parlato di spiagge, di Brighton, di Howth. Patty Smith ha capito che ero italiano dal mio accento e mi ha detto che Venezia è la sua città preferita. Con lei ho parlato delle chiese, dei campi dei posti migliori dove andare a mangiare. La mia regolala generale è non parlare mai del loro lavoro. Fotografare volti arcinoti è più facile o difficile? Da una parte hai un immaginario collettivo col quale confrontarti dall’altro diventa più difficile essere originali e fare qualcosa di nuovo. Interpretare volti conosciuti a livello globale in maniera originale e diversa è la sfida principale del mio lavoro. Ad esempio Keith Richards è spesso ritratto con la sigaretta in bocca ed è oramai un classico. Io cerco di allontanarmi il più possibile da queste tipologie.


LOU REED, NEW YORK CITY, GENNAIO 2012

DAMON ALBARN LEADER DEI BLUR,(LONDON) ROLLING STONE, 2014

Dalle tue immagini emerge una predilezione per alcuni obbiettivi. Come tu sai il 50 mm restituisce un’immagine volto vicina a quella percepita dai nostri occhi. Ecco io il 50 mm evito sempre di utilizzarlo poiché la mia visione vuol essere diversa da quella naturale. Mi piace il grandangolo, il 35 mm, anche il 24 mm, ma non oltre, per non entrare nel grottesco. Quando invece voglio mostrare l’anima della persona che ho difronte, scelgo l’85 mm, che mi aiuta a focalizzarmi sul carattere del personaggio, sui suoi occhi. Anche lo sfocato subito dietro aiuta molto ad isolare lo sguardo e a renderlo penetrante. Ora per motivi di schiena (l’osteopata mi ha ordinato di non portare pesi) ho fatto una grossa cernita del mio materiale. Porto con me soltanto il 35 e l’85 mm. Questo far di necessità virtù mi ha permesso di rendere il mio linguaggio più personale e riconoscibile. Quindi hai bandito pesanti attrezzature e trolley pieni di luci? Secondo me la luce migliore al mondo è quella del sole, e cerco sempre di muovermi in modo tale da poterla sfruttare al meglio e per quel che mi riguarda due lenti sono sufficienti per il lavoro che svolgo. Sei tu a decidere le location dove lavorare? E’ il loro management ad avere l’ultima parola. Capita che si debba necessariamente scattare in studio, per scelta del loro ufficio stampa, ma capita anche che mi sia chiesto di avanzare le mie proposte e che si scatti la mia idea. Quindi lavori con naturalezza anche in studio? In studio mi avvalgo di assistenti che mi supportano con le luci e sono sempre molto aggiornati, spesso ne sanno più di me. Io illustro ciò che voglio ottenere e loro mi aiutano in tutto il processo di realizzazione. Vedo molte tue fotografie di gruppi, come quelle fatte ai Depeche Mode. Il gruppo è più facile o difficile da scattare? Per ragioni estetiche è assolutamente più semplice fotografare la singola persona, è la cosa più normale in fondo. Molto più complicato è gestire la composizione di un gruppo. I quattro della band in fila davanti a un muro sono un clichè da evitare come la peste. Evito sempre le pose più banali e cerco di non sfociare mai nel caricaturale. Usi indifferentemente il bianco e nero e i colori, come avviene la scelta? Solitamente decido prima se lavorare con l’uno o con l’altro anche se con l’avvento del digitale si scatta sempre a colori e poi si trasforma in B/N. Ma diciamo che in generale decido molto prima, anche se una particolare atmosfera sul set può indurmi a cambiare idea, quando trovo i colori particolarmente interessanti. Per molto tempo ho lavorato esclusivamente in B/N,


agli inizi della mia carriera. Come hai iniziato? Il mio primo amore è stato il cinema. Ho cominciato come assistente sul set di L’estate di Davide, un film di Carlo Mazzacurati. Era il 1996 e le mie mansioni erano molto banali. A Molfetta, dove ci eravamo recati per girare alcune scene, mi fu chiesto di tenere a bada dei bambini che si aggiravano attorno al set. Avevo con me la macchina fotografica e cominciai a scattare loro delle fotografie. La cosa funzionò, riuscii a coinvolgerli in una sorta di gioco. Tornato a Rovigo sviluppai il rullino bianco e nero e stampai nella camera oscura che avevo allestito in una stanza nelle casa di mia nonna. Le foto erano molto belle ed ero veramente contento del risultato. Poi sono arrivati i reportage sui rave? Certo, da lì è sbocciato il mio amore per la fotografia e nello stesso periodo frequentavo i rave sempre con la macchina fotografica al collo, caricata esclusivamente col bianco e nero. Fu proprio il protagonista del film di Mazzacurati, l’attore non professionista Stefano Campi, che una sera mi propose di recarci a Bologna a un rave. Io non sapevo neppure cosa fossero. Fatto sta che scattare in questi posti mi affascinò in modo incredibile, e quel reportage, che ho titolato Dirty Dancing e che ho realizzato in cinque o sei anni in giro per l’Europa, è ancora uno dei miei lavori più riusciti. Quindi devi tutto al cinema? Assolutamente (sorride). Per molti anni non potevo fare a meno di guardare più di un film al giorno e anche se ora sono passato alle serie TV, continuo a sentire la necessità di sfamare il mio desiderio di narrazione e di immagini. Ma è a Londra che arriva la svolta professionale. Mi trovavo a Londra per realizzare un lavoro commissionatomi da Fabrica e lì ho mostrato il portfolio con tutti i miei lavori alle riviste musicali che mi interessavano maggiormente. Altra mia grande passione, da Rolling Stone a Classic Rock. Sono piaciuto e sono arrivati i primi lavori su commissione. Sono rimasto a Londra per una settimana, poi due, finché mi sono ritrovato a viverci. Il link con la musica lo avevi sin da giovanissimo? Si, ho sempre frequentato amici che suonavano in una band, ma la mia individualità mi ha spinto più verso le arti visive che quelle musicali. Ora fotografi solo le star? Assolutamente no, quello che mi interessa veramente sono le persone, chiunque siano, purché abbiano qualcosa d’importante da dire attraverso la propria personalità e il mondo esterno, la miglior ambientazione dove fare fotografie.


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QUADRI VIVENTI Di Lehila Laconi I giardini verticali sono veri e propri “quadri viventi”, realizzati con piante di diverse specie, e concepiti per rivestire pareti o interi edifici in esterno, oppure per creare meravigliose pareti e quadri viventi in interni, utilizzando tecnologie idonee e piante adatte al luogo. Nulla a che vedere con una qualsiasi pianta rampicante: i giardini verticali sono un innovativo sistema di pareti vegetali, che nasce da un sofisticato concept artistico e tecnologico. Le pareti verdi verticali sono una meraviglia di arte e vita vegetale, appagante per la vista e per il nostro stato d’animo e rendono uniche le superfici verticali indoor e outdoor. La NASA da tempo effettua approfondite ricerche scientifiche sulla capacità delle piante di migliorare la qualità dell'aria. Gli studi sono stati portati avanti anche da altri istituti di ricerca: è emerso che alcune piante assorbono elementi inquinanti e ci regalano aria più pulita, ricca di ossigeno, anche negli spazi interni, dove spesso la qualità dell'aria è persino peggiore di quella esterna. Il verde vivente, infatti, assorbe i più insidiosi fattori inquinanti che si trovano tra le


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le mura domestiche, negli uffici e in altri ambienti indoor, come la formaldeide o le sostanze emanate da impianti di riscaldamento e climatizzazione. In questo modo il verde ci aiuta a prevenire e risolvere una serie di disturbi fisici tipici della Sick building syndrome (SBS), "sindrome dell'edificio malato". Le piante hanno la capacità di contribuire al nostro benessere psicofisico grazie ai loro colori e alle energie che ci comunicano. Il verde trasmette pace, equilibrio e speranza; la presenza di piante vicino a noi ha il potere di ridurre disagi, stress e di migliorare l’umore. Grazie agli innovativi sistemi di giardino verticale oggi disponibili sul mercato, è possibile portare il verde indoor e outdoor senza consumi di spazio a terra, sfruttando le pareti verticali. Un’idea che offre non solo la bellezza che soddisfa lo sguardo, ma anche tutte quelle preziose virtù benefiche che la natura ci mette a disposizione e la spiritualità ci regala, portando serenità, benessere ed effetti antistress. La parete verde ha importanti requisiti di sostenibilità ambientale. Il verde verticale migliora l’isolamento termico e riduce drasticamente il consumo di energia, sviluppando un microclima localizzato. In base all’altezza, orientamento e posizione degli edifici circostanti, la facciata può subire fluttuazioni della temperatura (escursione termica diurna/notturna e nelle stagioni) e subire un’esposizione costante a sole e vento. Tra la facciata e il verde verticale, grazie alle nuove tecnologie applicative, rimane uno strato di aria che ha un potente effetto isolante. La facciata verde è quindi sinonimo di risparmio energetico, in una logica di architettura ecosostenibile e di migliore qualità di vita. Grazie ai giardini verticali, anche l’inquinamento acustico viene ridotto, poiché le pareti verdi diminuiscono in modo naturale la riflessione del suono negli ambienti domestici, commerciali e nei luoghi di lavoro, riducendo lo stress provocato dai rumori fastidiosi che penetrano negli ambienti dove viviamo e lavoriamo. Il giardino verticale assorbe i rumori provenienti dall’esterno, che non colpiscono direttamente le pareti e vengono quindi percepiti meno negli spazi interni “protetti” dal verde verticale. Ove necessario e richiesto, nella parte posteriore della struttura portante è possibile installare speciali pannelli fonoassorbenti che garantiscano un ulteriore ed efficace isolamento acustico. I sistemi verticali sono, per lo più, muniti di strutture metalliche portanti o


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autoportanti di supporto applicabili su qualsiasi superficie muraria, mono o bifacciali, accuratamente studiate e modificabili in funzione delle esigenze tecniche ed ambientali. Comprendono differenti tipologie di piante, selezionate in base alle esigenze funzionali richieste dalla committenza e in base all’effetto estetico/visivo desiderato. L’illuminazione artificiale viene prevista se la luce naturale non è sufficiente per il naturale ciclo biologico di vita e sviluppo delle piante; la luce è funzionale anche per ottenere situazioni notturne scenografiche, di grande suggestione. I giardini verticali sono sempre provvisti di un impianto di fertirrigazione controllabile da remoto, in grado di fornire automaticamente un corretto apporto di acqua e sostanze nutritive necessarie al sano sviluppo delle essenze vegetali. Le caratteristiche di peso della struttura e del suo spessore vengono studiate e proposte dai tecnici in funzione della situazione a cui sono destinate, studiando le esigenze specifiche in sede di progetto preliminare ed esecutivo. In un giardino verticale è anche possibile coltivare una vasta scelta di piante di piccole dimensioni, preferibilmente perenni e sempreverdi, per ridurre al minimo le necessità di sostituzione tipiche delle piante annuali e stagionali a ciclo breve. Grazie alle specie perenni e sempreverdi il giardino verticale sarà sempre in vegetazione, anche nella stagione invernale, senza mai perdere le sue qualità estetiche e vegetali. La preferenza andrà a specie con basse esigenze di manutenzione, che non richiedono potature o annaffiature frequenti. La scelta è vasta e varia, e si possono avere moltissime diverse specie preferibilmente tappezzanti e con sviluppo prostrato, tra cui anche piante con fioriture e aromatiche ricche di profumo, per un effetto scenico e multisensoriale davvero stupefacente. La manutenzione dei giardini è molto ridotta ma è un punto fondamentale, da non sottovalutare. E’ perciò consigliato un piano di manutenzione specializzata a ciclo trimestrale, semestrale o annuale che comprenda personale tecnico specializzato per la pulizia e la potatura delle piante, eventuali trattamenti fitosanitari, il controllo e la pulizia dell’impianto di fertirrigazione e dei filtri, la sistemazione del tessuto/feltro di supporto eventualmente logorato.

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ROUTE 66 THE MOTHER ROAD

OF AMERICA Oltre 4.000 km on the road e 15 giorni per attraversare 12 stati. Quando io e la mia amica Vanessa abbiamo deciso di avventurarci nella mitica Route 66, non avevamo idea di cosa ci aspettasse realmente, ma durante questo straordinario viaggio abbiamo scoperto che realtà e leggenda possono coesistere nella medesima dimensione. Con l’immaginazione abbiamo fantasticato sulle storiche immagini dei road movie americani, come Thelma & Louise o Easy Rider, ma ciò che ancora non sapevamo era che il nostro viaggio ci avrebbe catapultato indietro nel tempo di oltre 50 anni. In fondo, viaggiare “a caccia della 66” significa andare a ritroso nel tempo fino al 1926, quando viene ufficialmente inaugurata ed Henry Ford annuncia a Detroit la massiccia produzione in serie delle sue auto. Prende il via un periodo di boom economico, che in 40 anni porta alla nascita dei primi cinema drive-in, delle leggendarie insegne al neon, dei numerosi loghi delle stazioni di servizio “Phillips 66” e dei chioschi di hamburger drive through, ai bordi della main street d’America. L’automobilista si imbatte in gigantesche insegne poste ai lati della strada che promettono meraviglie, come finti attacchi fra cow-boys e indiani, insidiosi cobra nelle fattorie e cose simili. Questo retaggio culturale in continuo movimento, la nascente


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industria del turismo, i riflessi scintillanti delle vernici e delle cromature, rappresentano il progresso, ciò che spinge masse di cittadini ad andare verso ovest, un po’ per necessità e un po’ perché attratti dalle promesse di prosperità e ricchezza. Ma la vera magia di questi luoghi risale all’intramontabile mito della “rincorsa del West”: carovane di servi e braccianti ribelli, diseredati e vittime della Grande Depressione, voltano le spalle ai latifondisti europei, sbarcati sulla costa atlantica, per dirigersi a Ovest, cullati dal sogno di poter possedere una terra propria. Dopo esser stata la protagonista di alcuni componimenti poetici, come quelli di Kerouac e di altri esponenti della beat generation, la strada diventa un modo concreto per far viaggiare i propri sogni, partendo da Chicago fino a raggiungere la California.

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La strada non è più solamente un luogo di transito, ormai si afferma come un vero e proprio fenomeno di costume, uno stile di vita, una moda, un sinonimo di libertà, un cavalcavia di ogni frontiera. E allora, tutti a dormire nei Motel con le insegne al neon, mangiare in una tavola calda, muoversi in auto, in moto, su un bus Greyhound o semplicemente facendo l’autostop. La voglia di viaggiare si fonde con la voglia di andare. Comincia così il nostro viaggio sulla Route 66. Dopo tre giorni in giro per Chicago, saliamo a bordo della nostra super auto e dall’incrocio tra la Adams e la Michigan, luogo in cui ha fisicamente inizio la mitica Route 66, ci dirigiamo verso Ovest, destinazione molo di Santa Monica. Ben 2400 miglia ci attendono. La nostra compagna di viaggio è la radio. Percorrere la Route 66 è come vivere un lungo film d'avventura, in cui non può mancare una colonna sonora. Le radio e la musica, come i Fast Food e i Motel, sono un pezzo d'America e fanno parte del fascino e dello stile della Route 66. Ascoltando John Denver, finestrini aperti e capelli al vento, ci lasciamo alle spalle lo skyline di Chicago. L’insegna Route 66 spunta all’improvviso in prossimità del villaggio di Wilmington, dove ci imbattiamo nel primo dei tanti muffler man: il famoso Gemini Giant, un enorme pupazzo raffigurante un astronauta. Durante gli anni 60 questi enormi personaggi in fibra di vetro servivano per attirare clienti nelle numerose attività che nascevano lungo la strada. Ad Atlanta ne incontriamo un altro: stavolta si tratta del Tall Paul, il mitico taglialegna Paul Bunyan, che stringe in mano un hot dog dalle dimensioni epiche. Attraversando le verdi praterie del Missouri, raggiungiamo St Louis e il suo grandissimo arco: il Gateway Arch di Eero Saarinen, porta simbolica verso il West. La campagna rurale dell’Oklahoma nasconde l'America tradizionale, quella delle vecchie stazioni di servizio, delle poste dei pony express, delle caffetterie familiari…insomma, la mitica provincia americana. Passando per Erik, impossibile non far visita ad Harley e Annabelle. Favolosi è la parola che meglio li descrive. Vestiti ancora da figli dei fiori, vivono nella piccola cittadina dove sono proprietari di un

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negozio strabordante di cimeli della Route, che è in realtà un’arena in cui, insieme ai loro visitatori, si esibiscono cantando. Ci ritroviamo così con un tamburello in mano, insieme a un gruppo di motociclisti, a intonare una rivisitazione della famosa canzone, Get Your Kicks On Route 66 che cantava Nat King Cole negli anni '40, invitando tutta l’America a divertirsi. È un loro modo speciale di far vivere ai visitatori lo spirito della vecchia madre. Prima di proseguire scopriamo una pasticceria molto carina: The Sugar Shack. L’arredamento e gli oggetti al suo interno sono tipici degli anni 60; in bella mostra in vetrina, ci sono invece tante torte e dolci coloratissimi tra cui scegliere. La proprietaria Cathy Shirey, gentilissima ci accoglie con un sorriso e ci offre il caffè. La semplicità e la cordialità delle persone che incontriamo ci stupiscono e ci affascinano. Attraverso gli antichi territori di caccia al bisonte, delle grandi tribù indiane dei Cheyenne e degli Arapaho, giungiamo in Texas. Sulla strada, un vecchio mulino ruota solitario in un campo di grano. Ci addentriamo nelle suggestive piane desolate: regione di cowboys, pozzi di petrolio e grandi ranch. A Groom ,vediamo la Water Tower inclinata, che insieme al Cadillac Ranch di Amarillo, costituiscono due particolari attrazioni della Historic Route in Texas. Ad Adrian siamo a metà strada, 1139 miglia per arrivare a Los Angeles, 1139 miglia fatte da Chicago. Il caffè del Midpoint offre una buonissima torta chiamata “brutto pasticcio”. Un simpatico texano col cappello da cowboy ci offre un caffè. La cordialità della provincia americana comincia a diventare una piacevole abitudine e si riparte, sempre col sorriso sulle labbra.

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Il paesaggio brullo che segue quello del Texas ci avvisa che stiamo raggiungendo il New Mexico; qui non abbiamo bisogno della radio. Il silenzio delle vaste distese aride e delle montagne rocciose sembra rimandarci la voce degli indiani, che per secoli hanno vissuto nascosti in mezzo ai canyon. Al calar della sera tutto s’incendia e le prime stelle si affacciano su di noi. Vale la pena fermarsi ad ascoltare il sussurro della notte. L’alba ci mostra le tipiche case Adobe dai variopinti colori della terra che si stagliano contro l’azzurro del cielo: siamo a Taos. Gli indiani del Pueblo sono persone molto riservate, ma col passare degli anni hanno capito che essere più espansivi con i turisti va a vantaggio del loro stesso sostentamento. Sulle facciate delle abitazioni sono appese trecce di peperoncini rossi e nell’aria si diffonde il profumo del pane appena sfornato: riaffiorano, come per magia, ricordi della nostra infanzia. L’atmosfera del villaggio è quasi mistica e, non a caso, nei dintorni è possibile visitare il Santuario di Chimayo, da tutti conosciuto come la Lourdes Americana. Al suo interno una curiosissima cappella chiamata del Santo Nino di Chimayo è interamente stipata di ex voto, soprattutto calzini e scarpine colorate di bambini. Lasciando il New Mexico, facciamo sosta all’Aurelia’s Diner: il tempio del miglior Chili! Tom e Michelle Duckett accolgono tutti col sorriso e tanta cortesia.

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L’arredamento ha un’aria pulita e frizzante, con decorazioni bianche e rosse, tipicamente anni '60, che col sole della sera ci regalano una visione dalle cromature spettacolari. Prima di arrivare in Arizona è d’obbligo una sosta a Gallup. La città offre una sistemazione imperdibile per la notte: l’Hotel El Rancho. Sembra di essere sul set di un vecchio film western, inoltre ogni stanza ha il nome di una celebrità che vi ha soggiornato in passato: John Wayne, Katherine Hepburn, Spencer Tracy, Kirk Douglas, Humphrey Bogart e anche presidenti come Reagan ed Eisenhower. Attraversiamo il cartello che segna l’entrata in Arizona, forse lo stato più affascinante. Poco prima di giungere a Holbrook, davanti ai nostri occhi si apre l’ingresso del Petrified Forest National Park, il parco di conifere fossilizzate dalla cenere vulcanica, che comprende il Painted Desert, l’incredibile distesa di tavolati d’argilla cangiante. Percorrendo le sue strade, il silenzio ci accompagna con lievi soffi di vento brullo. Passiamo poi per Holbrook, dove il Wigwan Motel è una delle attrazioni più caratteristiche: un hotel costituito da 16 teepee in cemento per giungere a Flagstaff. Questa cittadina si trova all’inizio delle zone più interne e selvagge dell’Arizona, in cui si ha un primo assaggio del West. Non tanto per il clima mite e temperato e per i boschi che la circondano, ma piuttosto per l’atmosfera, che nel centro cittadino fra la vecchia stazione e i numerosi locali, è molto suggestiva. Non siamo molto distanti dal Grand Canyon, sulla strada infatti cominciano ad apparire i primi cartelli che segnano le indicazioni per raggiungerlo. Non fa parte della Route, ma da anni è divenuta una deviazione obbligatoria per

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tutti i viaggiatori, e anche per noi sarà così. Poco prima di giungere a Williams, svoltiamo sulla 64, una lunga strada circondata di pini, rocce rosse e marmo nero che miglia dopo miglia si srotola ai nostri piedi per portarci di fronte alla più grande pagina della storia geologica del mondo. Questo è il Grand Canyon National Park: il risultato di 6 milioni di anni di erosioni, cedimenti ed eruzioni vulcaniche. La contemplazione di questo meraviglioso spettacolo della natura annulla il tempo e qualsiasi distanza, liberando emozioni, pensieri e sogni. Al calar della sera si torna però alla realtà; ormai gli ultimi raggi di sole accendono i picchi rocciosi per poi inghiottirli silenziosamente nel buio. Il viaggio sulla Mother Road continua attraverso distese polverose e assolate punteggiate da cactus. Ci accompagnano Keith Urban con la sua “Sweet thing”, l’aria calda della sera e l’odore dell’asfalto. Incrociamo e sorpassiamo numerosi camion, probabilmente gli stessi che ritroviamo in sosta all’Hackberry General Store, un must assolutamente imperdibile. Quella che sembra una vecchia stazione di benzina si rivela una delle attrazioni più interessanti da visitare lungo la Route 66: non vende gas

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ma quasi ogni cosa che abbia a che fare con la vecchia Route. Un luogo pieno di cimeli e auto d’epoca memorabili. Bevendo una bibita ghiacciata, servita dallo stesso proprietario John Pitchard, sfogliamo le innumerevoli mappe, i libri, curiosiamo tra segnali e manufatti sulla Route 66, lasciando che i ricordi di un’epoca meravigliosa si risveglino nella nostra mente. A Seligman, non si può mancare una visita ad Angel Delgadillo, storico barbiere della Route, nonchè fondatore della Historic Route 66 Association: un’organizzazione nata per ridare vita, lustro e interesse turistico a luoghi altrimenti destinati a perdersi nella memoria. Da quì raggiungiamo un’altra pseudo-città fantasma: Afton. In questa piccola cittadina è quasi impossibile non imbattersi nella Afton Station di Laurel e David Kane, proprietari della vecchia stazione di benzina Packards del 1930. Entrando ti accorgi che non è solo un piccolo gioiellino della Route, ma un luogo in cui i viaggiatori stanchi possono fermarsi per una sosta, scambiare quattro chiacchiere con Laurel o con qualcuno dei volontari che ogni giorno, attraverso i loro racconti, fanno sì che la Route esista ancora. Ron Jones è uno di loro. Meglio conosciuto da tutti come "Tattoo Man", Ron è un uomo la cui passione per la strada è così profonda da imprimersela sulla pelle. Nel giro di 10 anni tra schiena, gambe e braccia ha raggiunto il

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numero di 81 tatuaggi, tutte icone provenienti dalla Route. La bellezza del viaggio on the road sono gli incontri. Conosci personaggi pazzeschi ma anche persone come noi, con cui puoi condividere storie, emozioni e sogni. Dopo poche parole ti senti parte di quella storia, come se anche tu l’avessi vissuta e ti sembra di essere sempre stata lì, da tempo immemore. All’improvviso, quella che sembra una strada trafficata lungo un rettilineo che si perde all’orizzonte, oltre la curva, ti ritrovi ad attraversare una delle tante città abbandonate e in rovina, perché tagliate fuori dal flusso del traffico delle nuove interstate. Pit-Stop. Il silenzio, rotto solo dal vento e dal cigolio di una vecchia insegna arrugginita, è quasi palpabile. L'atmosfera che si respira è magica e inquietante. Non sono luoghi tristi ma parte della strada e della sua storia e, come tali, vanno visti per capire l’importanza della Route e chi l’ha realmente vissuta. In lontananza, come il richiamo di una cometa, vediamo la luce di El Dorado. Dalla collina di San Bernardino, un tappeto di migliaia di luci si srotola fino all’oceano. Los Angeles ci accoglie in tutta la sua magnificenza al calar della sera. La Dream Factory, sempre soleggiata, con distese di palme, grandi auto e bellissima gente, è presto sotto ai nostri piedi. La Route 66 si trasforma così nel viale di Santa Monica, attraversa Hollywood e Beverly Hills fino a terminare sulla Santa Monica Boardwalk e quindi sull’Oceano Pacifico. Di fronte alla targa che idealmente segna la fine della Mother Road d’America, i nostri pensieri vanno alle generazioni di persone che per oltre 50 anni sono arrivate fino a qui con la meraviglia negli occhi e la speranza nel cuore. La R66 è a rischio estinzione ma, grazie alle persone che ancora la vivono e la proteggono, numerose città stanno organizzando una rete di servizi e itinerari con i luoghi più rappresentativi, anche se non è difficile incontrare luoghi ancora dimenticati. La sua sopravvivenza dipende da quanti ne sapranno riconoscere il richiamo e capirne la bellezza intrinseca,. Così la 66 rivive grazie alla memoria di tanti, e ora anche un po’ della nostra.

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USA. RENO, NEVADA1960 MARILYN MONROE DURING THE MISFITS ELLIOTT ERWITT/MAGNUM PHOTO

ELLIOTT ERWITT PERSONALE

Come ormai d'abitudine, i Musei San Domenico di Forlì dedicano i mesi precedenti le grandi mostre di febbraio (nel 2018 sarà protagonista il Rinascimento, ndr) alla fotografia. Dopo i numeri vertiginosi ottenuti da Steve Mc Curry e Sebastião Salgado, si è deciso di puntare su un altro nome eccellente: Elliott Erwitt. Personae, inaugurata in occasione della Settimana del Buon Vivere a fine settembre, è una retrospettiva di Elliott Erwitt che comprende non solo i suoi scatti in bianco e nero, diventati ormai iconici, ma anche la sua produzione a colori, rimasta fino a questo momento inedita, permettendo così di comporre un quadro completo del suo lavoro. Oltre all'eleganza del suo “sguardo”, la caratteristica che si rileva in maniera costante nei suoi scatti è l'umanità in essi sottesa, quella comprensione profonda della nostra natura, dolente ma pure ironica -come dimostrano i lavori fatti sotto lo pseudonimo di André S. Solidor- che rende Erwitt il “fotografo della commedia umana”. Da Marylin Monroe a Che Guevara,


USA. LAS VEGAS, NEVADA 1957 SHOWGIRLS ELLIOT ERWITT/MAGNUM PHOTOS

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USA. RENO, NEVADA1960 THE MISFITS ELLIOTT ERWITT/MAGNUM PHOTO

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innumerevoli celebrità sono state ritratte con precisione tecnica ed empatia umana, facendone emergere la complessità del loro quotidiano. Erwitt ha applicato lo stesso trattamento anche alla gente comune da lui fotografata, come il titolo della mostra sottolinea. 170 scatti, scelti personalmente dall'autore, una storia di storie, il racconto per immagini degli ultimi sessant'anni del ventesimo secolo in una mostra emozionante, curata da Biba Giacchetti e promossa da Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì.


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PIZZI CANNELLA

ALL’ERMITAGE DI SAN PIETROBURGO

Di Francesca Lombardi I “ritratti” dei maestosi lampadari dell’Ermitage di San Pietroburgo, realizzati da Pizzi Cannella, saranno in mostra nella città russa già dal 19 maggio scorso, (Second floor, Winter Palace, Rooms 314, 316-319). La personale, che sarà visitabile nelle stanze del Palazzo d’Inverno fino al 15 ottobre, a cura di Danilo Eccher e Natalia Demina, è organizzata dal Museo Statale dell’Ermitage in collaborazione con Il Cigno GG Edizioni, i Musei di San Salvatore in Lauro, la Galleria Mucciaccia di Roma e l’Archivio Pizzi Cannella. L’evento è patrocinato dal Consolato generale italiano a San Pietroburgo.


It’s Different magazine

“Pizzi Cannella. Salon de Musique and Other Pictures” è il titolo della mostra allestita nelle stanze del Palazzo d’Inverno. “È la prima volta che una raccolta di lavori realizzati dall’artista romano viene esposta in Russia – spiega Natalia Demina – La personale è divisa in due parti: la prima è costituita da sette opere di grandi dimensioni, di circa tre metri per tre, realizzate tra il 2016 e il 2017, che rappresentano un omaggio di Pizzi Cannella alla città di San Pietroburgo, all’Ermitage e al Palazzo d’Inverno. La seconda parte dell’esposizione invece è composta da opere realizzate in un arco di tempo più ampio. Si tratta di tele realizzate con tecnica mista, dove viaggi immaginari, mappe del mondo, cattedrali e vedute sono la chiave che permette il passaggio da un interno all’altro, in cui Pizzi Cannella è un viaggiatore immaginario che dipinge ciò che crea stando all’interno del suo studio.” Pizzi Cannella nasce nel 1955 a Rocca di Papa (RM). Comincia a dipingere da piccolo. Dal 1975 frequenta il corso di pittura di Alberto Ziveri presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e contemporaneamente si iscrive al corso di Filosofia all’Università La Sapienza. Ha la sua prima personale nel 1977, alla Galleria La Stanza di Roma. Nel 1982 stabilisce il suo studio nell’ex pastificio Cerere, nel quartiere di San Lorenzo, dando vita, insieme a Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio e Marco Tirelli, alla Scuola di San Lorenzo. Negli anni tiene numerose mostre personali e collettive in Musei e in Gallerie in Italia e all’estero. La mostra è composta da circa trenta tele dell’artista, sette delle quali sono dedicate a San Pietroburgo. “Gli altri lavori che esporremo all’Ermitage sono indipendenti da questo ciclo di quadri ma comunque introducono ai miei Interni ”. Non mancano alcuni degli oggetti e i simboli che Pizzi Cannella utilizza da circa trent’anni: vedute, mappe del mondo, vestiti. “Il legame della città dell’Ermitage con la cultura e con l’arte italiana è storia – spiega l’artista -. Sono onorato, quindi, di appartenere a questa cordata e di portare il mio contributo all’arte contemporanea”. Pizzi Cannella ama definirsi orgogliosamente “pittore” e pensa che ancora valga la pena dipingere. “La pittura è la strada maestra, quella dove mi piace passeggiare, dove incontro vecchi compagni di strada”. “La mostra di Pizzi Cannella che viene attualmente proposta all’Ermitage – spiega Sergej Androsov, direttore del dipartimento dell’ “Arte figurativa dell’Europa Occidentale” dell’Ermitage – si compone di opere di cui è possibile rintracciare l’evoluzione, dai primi anni del XXI secolo fino al 2016. È assolutamente evidente quanto la sua maniera pittorica abbia subito in questo arco di tempo delle sostanziali trasformazioni; i suoi bruschi

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cambiamenti sono tali da indurre stupore”. Gli organizzatori della mostra e in particolare lo stesso artista hanno scelto di mostrare soprattutto le opere dell’ultimo periodo, e per questo motivo un numero cospicuo di lavori è unificato dal tema dei “Salon de Musique”. “È un motivo che fece la sua comparsa per la prima volta in un lavoro del 1996 e poi nell’opera intitolata “Solo”, realizzata tra il 2005 e il 2006 – prosegue Androsov -. Su uno sfondo scuro si staglia nettamente il contorno di un lampadario. L’artista gioca con il contrasto tra un lampadario acceso e splendente e altri due spenti, che nel loro trovarsi accanto al primo appaiono ancor più scuri. Simile per il periodo in cui fu realizzata è anche la prima variante della composizione intitolata “Salon de Musique” (2005-2006). Lampadari dalle forme più strane per conformazione e dimensioni si allineano contro uno sfondo neutro di colore nero. La luce illusoria che ne emana non è in grado di vincere la profonda oscurità della superficie della tela, ma l’artista non aspira affatto a una qualunque concretizzazione dello spazio o del sito dell’azione. Per questo i lampadari sembrano, piuttosto, il riflesso di oggetti reali esistenti al di fuori della tela. Nei quadri più recenti di Pizzi Cannella – aggiunge – questo tema ha conosciuto un ulteriore sviluppo che ha visto l’artista ispirarsi ai lampadari che decorano sia le sale dell’Ermitage che del Palazzo d’Inverno. Si tratta di opere d’arte che, benché sembrino trovarsi all’esterno del campo di osservazione dei visitatori del museo, svolgono tuttavia un ruolo importantissimo nell’allestimento degli interni del palazzo”. La personale è corredata da un catalogo in russo, in inglese ed italiano, che si avvale dei contributi, oltre che di Sergej Androsov e di Danilo Eccher, di Francesco Nucci, neurochirurgo appassionato di arte contemporanea, presidente della Fondazione “Volume” di Roma, e di un’intervista di Lea Mattarella, docente di Storia dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Roma e prestigiosa firma del quotidiano “La Repubblica”. Il catalogo dell’esposizione, intitolato “Pizzi Cannella. Salon de Musique and Others Pictures” è realizzato da Il Cigno GG Edizioni. “La mostra – evidenzia Mattarella – sottolinea l’amore che Pizzi Cannella ha nei confronti della pittura, che per lui è un luogo da abitare, una vera e propria dimora in cui ritrovarsi. Che inquadri un lampadario o una lucertola, una collana o una mappa, un abito o un vaso, Pizzi rende tutto prezioso con la qualità straordinaria di una pittura sensuale, capace realmente di costruire mondi.” “Tutta l’arte di Pizzi Cannella – conclude Eccher – è un continuo alternarsi di emersioni e sprofondamenti, di ‘messe a fuoco’ vicine e lontane, di voci soliste e coro che si confondono e sussurrano il mistero della complessità. Pizzi Cannella è soprattutto un pittore, i suoi piedi sono immersi nel colore, la sua mano è allenata, la sua memoria passeggia nella storia, il suo sguardo non ha nostalgie ed è splendidamente immerso nella sua contemporaneità.”

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It’s Different magazine Diego Finotto

venice live 74° MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA

Si è conclusa circa un mese fa la 74ª Mostra Internazionale d' Arte Cinematografica di Venezia e, come sempre, It's Different si trovava al Lido per documentare fotograficamente uno dei principali eventi della cultura italiana, anche se da tempo i Leone d'Oro assegnati cadono in un oblio quasi immediato. Ma questa volta potrebbe andare diversamente. Erano ventuno i film in concorso e la giuria presieduta da Annette Bening ha scelto di assegnare il premio più alto a “The shape of water” di Guillermo del Toro, presentato in anteprima (arriverà nei cinema americani l'8 dicembre, mentre sarà in quelli italiani a partire dal 15 febbraio 2018). Pubblico e critica si sono trovati d'accordo nel considerare estremamente emozionante questa pellicola: romantica,


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sessualmente esplicita, incentrata sul concetto dell'alterità, la storia è ambientata negli Stati Uniti degli anni '60 ed è vista con gli occhi di Eliza, una donna delle pulizie orfana e muta dalla nascita, che vive in un appartamento sopra un cinema di periferia e lavora in un centro di ricerca militare di Baltimora, dove un giorno arriva una creatura aliena, muta come lei. Tra i due nascerà una connessione che porterà Eliza a scoprire se stessa. Manca forse quel quid necessario a fare di un bel film un capolavoro, ma si può essere d'accordo con il direttore della Mostra, Alberto Barbera, che prevede un'alta consonanza tra gusti del pubblico e quelli della giuria che, pur avendo votato La forma dell'acqua a maggioranza quasi assoluta, ha avuto compito non facile nello scegliere un titolo tra tanti, ugualmente papabili. Qualità dei film a parte, il glamour è stato sicuramente un elemento d'interesse per tutti coloro che si sono affollati attorno al red carpet. Resterà nella storia lo splendido scatto che ha visto sorridenti e abbracciati i vincitori del Leone d'Oro alla carriera, Robert Redford e Jane Fonda, antichi

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Julianne Moore


Matt Damon

compagni di set e nuovamente insieme per il film prodotto da Netflix Le nostre anime di notte, tratto dal romanzo di Kent Haruf e proiettato a Venezia proprio in occasione della consegna del premio. Al contrario delle edizioni precedenti, che vedevano regolarmente campeggiare una madrina della kermesse, quest'anno si è preferito declinare il ruolo al maschile e assegnarlo ad Alessandro Borghi -astro nascente del cinema italiano - vestito Gucci dalla testa ai piedi, in ogni possibile versione. La firma preferita dalle presenze femminili è stata indubbiamente quella di Alberta Ferretti. Julianne Moore, invece, che è stata premiata col Franca Sozzani Award, in memoria della direttrice di Vogue recentemente scomparsa, ha preferito indossare un abito rosso in tulle firmato Valentino. Presente alla mostra come regista di Suburbicon, interpretato dalla stessa Moore e Matt Damon, George Clooney ha calcato il tappeto rosso al braccio della splendida moglie Amal Alamuddin, in abito lilla Versace.I controlli per pubblico, fotografi e giornalisti, ovvi in un evento di tale portata e in un

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Donald Shuterland

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Eva Riccobono

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Donatella Versace Pierpaolo Piccioli

Isabella Ferrari

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Chiara Ferragni


Robert Redford

periodo così peculiare, non sono stati particolarmente asfissianti e ciò ha contribuito a rendere l'atmosfera molto vitale, grazie anche alle numerose sezioni del concorso e alla qualità delle proposte. Sembra essere un segnale preciso verso la rinascita di una kermesse che ha alle spalle parecchi edizioni incolori, anche se alcuni hanno avuto comunque modo di criticare un'eccessiva presenza straniera, dalle giurie alle pellicole . Alcuni film nostrani hanno comunque rappresentato una gradevolissima sorpresa: dai Manetti Bros., con la loro Ammore e malavita, una commedia musicale su Napoli con Claudia Gerini e Giampaolo Morelli, al primo cortometraggio di Gianni Amelio Casa d'altri, un quarto d'ora intriso di Amatrice e della sua tragedia, a The leisure seeker di Paolo Virzì con Helen Mirren e Donald Sutherland, liberamente tratto da In viaggio contromano di Michael Zadoorian, edito da Marcos y Marcos. Applauditissimo a Venezia, stroncato dalla critica americana,

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Jane Fonda

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Amal Alamuddin Clooney

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questo film vede protagonisti due anziani che vogliono sfuggire insieme a un futuro di cure mediche imposte dai figli, che li vedrebbe irrimediabilmente separati, saltando sul loro vecchio camper e imboccando la Old Route 1 verso Key West. Quello che a John manca in memoria, è ampiamente compensato dalla lucidità, che abita però un corpo minato e ormai fragile, al contrario di quello, ancora forte e possente del marito. Questo viaggio è l'occasione per gettare uno sguardo al passato, aprendo porte segrete mai neppure sospettate, e constatando tutta l'estraneità al presente, in un' America non più riconoscibile, mentre si avvicendano scene comiche ad altre decisamente drammatiche nel dipanarsi di una storia che, grazie anche alla superlativa bravura dei protagonisti, resta nel cuore.Quest'anno il Leone d'Oro non è rimasto in casa, ma le premesse affinché questo accada l'anno prossimo ci sono tutte. E It's different sarà lì per raccontarvelo.

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Colin Firth


ANTONELLA POTENTE

LA SCELTA DELLE DONNE La Biennale di Venezia / Teatro 2017 La scelta delle donne Di Antonella Potente

Il direttore della Biennale Teatro che si è conclusa a settembre, Antonio Latella ha scelto per questo suo primo incarico di raccontare il teatro proponendo delle “personali”che privilegiano il cambiamento e lo sviluppo del lavoro di un regista teatrale. Rilanciato soprattutto dalle donne regista, più o meno famose, questo tipo di teatro risulta capace di sperimentazione e di una nuova codifica, in grado quindi di creare dibattito. Diretto da Maria Grazia Cipriani e fondato nel 1983 con lo scenografo e costumista Graziano Gregori, il Teatro del Carretto ha presenziato con tre spettacoli che segnano trent'anni di lavoro, un


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teatro da camera intimo e artigianale. Il primo spettacolo presentato “Biancaneve” ripropone la fiaba con una soluzione particolare dove i personaggi sono minuscoli burattini che si alternano ad un'unica persona in scena, la matrigna con una enigmatica doppia maschera. L'uso della maschera sottolinea l'ambiguità tra realtà e finzione e il rapporto di scala non inficia la narrazione anzi la esalta, quasi a sottolineare l'impasse tra tempo teatrale e quello scandito dalla favola. La visionarietà in “Pinocchio” sviluppa con inquietudine frammentata da ironia i chiaroscuri della storia del Collodi lasciando la figura di Geppetto come una presenza sottintesa quasi ad evidenziare le disillusioni e le difficoltà della vita. Un cupo passaggio dall'innocenza del bambino e dal favoloso al crudo mondo adulto. E' un teatro in cui il corpo attoriale non ha mai una seconda parte ma contribuisce fin dalle prime battute alla creazione degli spettacoli apportando con i propri gesti ed esperienze personali fondamentali estensioni. Con il movimento e la voce informa e costruisce la scena. I suoni e le musiche del sound designer Hubert

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Westkemper strutturano lo spettacolo sostituendo il testo, e come più veline sovrapposte, il teatro diventa uno spazio per suggerire od evocare, un territorio composto da molteplici abilità. L'idea dello scenografo per “Le mille e una notte” è di conferire allo spazio scenico una sorta di eco del proscenio con armadi che si aprono o che svelano i contenuti narrativi, una sorta di scrigno dove gli spettatori recuperano vari indizi sulle varie ambientazioni. Per la regista la cornice di Sharazade, e quindi come una storia può salvare le donne, è il pretesto per sviluppare tanti racconti: dalla cronaca dell'acido alle figure femminili protagoniste di altri testi teatrali come Ofelia o mitologiche come Arianna. Una sovrapposizione drammatica di figure che sottende la brutalità dell'uomo ma ci induce a pensare ad una figura femminile che spesso si trasforma in volenterosa vittima. L'animalesco o il narcisistico ma anche il furibondo come Orlando non si relaziona mai alla parola amore, consegnandoci la figura di un uomo incapace di decifrare il mondo femminile di donne che amano troppo.

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La foglia d’oro è in Myanmar la forma più comune di offerta religiosa al Buddha. Nei templi si possono vedere moltitudini di fedeli nell’atto di appiccicare il sottilissimo strato di metallo prezioso su una statua o addirittura sullo stupa (la cupola del tempio). In molti casi la scultura, nel corso degli anni, perde la sua forma originale a forza dei riporti quotidiani. Queste foglie vengono realizzate per la maggior parte a Mandalay. Passeggiando per la zona sud-est della città l’orecchio capta facilmente il rumore incessante dei martellatori che con mazze da 6 chili battono pile formate da fogli di pergamena alternati a micro strati d’oro che si assottiglia sempre di più, dopo circa 6 ore il prodotto è pronto, mani sapienti lo tagliano e lo confezionano in buste di carta per la vendita. Claudio Notturni [info@sturbgraphic.com]


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ANNALISA CECCOTTI DALLA LUCE ALL’OBBIETTIVO

Bisogna ammetterlo, noi di It's Different abbiamo un vero debole per le foto di copertina e i loro autori. Una fotografia non è solo la somma dei suoi componenti -dalla luce all'obiettivo, dal modello alla stampama è soprattutto lo sguardo di chi la realizza, che opera un vero e proprio atto di creazione. Ciascuna di esse è unica e irripetibile, come ogni numero del nostro magazine. E noi pensiamo che in uno scatto sia racchiuso qualcosa di davvero prezioso, che nasce da un semplice gesto, ma porta dentro una storia che a volte ci permettiamo di raccontarvi. Annalisa Ceccotti è l'autrice dello scatto sulla cover, e abbiamo il piacere di presentarvela.



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Raccontaci un po' di te “Sono nata 37 anni fa a Massa e da quasi 20 vivo in Versilia. La mia vita è molto frenetica, non mi fermo mai: ho mille impegni e mille passioni, e in tutto questo ci sono Mariasole e Alice -le mie due figlie che amo alla folliauna gatta, sette tartarughe, un pesce rosso ed un coniglio, Roger. Nel weekend aiuto mio marito che ha un locale a Forte dei Marmi, Almarosa , e porto avanti la fotografia, il mio grande amore.” Quando è nata questa tua passione? “Circa dieci anni fa , un po' per caso se vogliamo. Le mie figlie erano ancora piccole ed un'amica, Eleonora Frescobaldi ( moglie del marchese Frescobaldi degli omonimi vini, ndr) mi chiese se poteva fargli dei ritratti, che vennero poi stampati su tela. Il risultato fu strepitoso! Decisi che dovevo provare anch'io, per continuare a far loro altri scatti simili, durante tutto il corso della loro infanzia. Così, comprai la mia prima reflex e frequentai un corso base che trovai nella mia città, l'unico vicino, visto che non avevo modo di spostarmi troppo lontano. Da allora in poi, non mi sono mai fermata. L'arte ha sempre fatto parte di me, del resto: ho frequentato il liceo artistico, l'accademia di belle arti di Carrara e poi la facoltà di architettura a Firenze, dove ho vissuto qualche anno.” Qual è la fase del tuo lavoro più coinvolgente? “Il genere di fotografia che svolgo è per lo più fashion, quindi ho spesso a che fare con modelle. Il momento che preferisco è quello della preparazione, che va dal trucco all' outfit: c'è modo di entrare in confidenza con i tuoi soggetti, parlare, capire che tipo di personalità ti trovi di fronte. È bello entrare un po' nel loro mondo. Spesso in questa fase si instaurano amicizie, anche durature. Il tuo soggetto si deve fidare un po' di te e tu devi dare il massimo. Cerco di metterle a loro agio rendendole partecipi per tutto lo shooting e mostrando loro come stanno venendo gli scatti. A volte capita di lavorare con modelle che hanno poca esperienza, quindi cerco di aiutarle nelle pose e spero sempre di lasciar loro qualcosa di me. Mi è capitato anche di scattare con modelle alla loro prima volta e poi scoprire che sono riuscite a fare strada. Questo mi ha dato molta gioia.” Cosa cerchi di rappresentare con i tuoi scatti, e come? Premesso che sono sempre molto critica con il mio lavoro e sempre alla ricerca dello scatto perfetto, quello che spero emerga dai miei scatti è l'anima di chi ho di fronte. Adoro il ritratto perché amo gli occhi delle persone, amo scattare le donne e tirar fuori il bello da ogni donna, la loro parte sensuale e anche solare. Amo una fotografia raffinata , elegante e moderna.

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Hai delle "ossessioni", per così dire? Non ho temi fissi, anzi. Cerco di affrontare i lavori con un minimo di preparazione su ciò che ho in mente di realizzare, ma improvviso molto. Sono sempre molto positiva. Forse l'unica ossessione è proprio la fotografia!” Cosa e chi riesce a ispirarti? Quali sono i tuoi punti di riferimento artistici? Grandi film, pittori o fotografi, oppure un libro, una location, una bella donna, uno sguardo, un viaggio. Vivo in funzione della fotografia. Se sono in giro e vedo un angolo carino, penso: 'ecco, qui verrebbe uno scatto strepitoso!' e già vedo come metterei la modella, come la vestirei, quale trucco sarebbe perfetto...” Potresti raccontarci com'è nata la copertina su questo numero di It's Different? Avevamo voglia di un progetto solo 'nostro'. Spesso quando ti propongono un lavoro devi attenerti a delle regole che il committente impone, quindi non sei mai libero di esprimere la tua arte come vorresti. Con 'nostro' intendo l'unione che è nata tra me ed un mio grande amico e stilista, lo strepitoso Mirko Tomei. Io e lui dividiamo lo studio. La nostra 'fashion Frida' è nata dalla voglia di proporre una Frida Kahlo in chiave moderna. Lui ha messo a disposizione i suoi capi pazzeschi ed io la mia arte. Abbiamo dato pieno spazio alla nostra

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creatività e il risultato lo avete visto. Di grande aiuto è stato il parrucchiere Massimiliano Ricci, di Viareggio, che ha capito subito quale idea avevano in mente ed ha realizzato acconciature perfette. Anche l'agenzia Casting di Firenze è stata fantastica: ci ha mandato Giada, una modella perfetta per quello che volevamo noi. Abbiamo fatto un po' di ricerca per i background e poi tutto è venuto facile.” Progetti futuri? “Tanti! Sono contentissima dello spazio che divido con altri artisti a Pietrasanta, lo Studio 11. Qui, oltre a me e Mirko, c'è Andrea Pepe, un fotografo di reportage, e Massimo Bondielli, regista. Nel nostro spazio si respira arte: abbiamo un grande ingresso, che usiamo come sala mostre e presentazioni, poi una sala grande in cui si trovano due sale posa. È uno spazio stimolante, creativo. Da qui nascono gran parte delle nostre idee, che sono veramente tante. Nel frattempo posso dire di essere contenta perché mi arrivano proposte di lavoro interessanti, è una crescita continua. La fotografia è tanto per me, mi ha aiutato in alcuni periodi, sempre mi ha fatto evadere e sognare. Tutt'ora è per me fonte di energia pura.”


L'intervista è praticamente finita, ma lei ci tiene ad aggiungere un'ultima cosa e l'accontentiamo volentieri, perché è in grado di riassumere tutto ciò che Annalisa Ceccotti è. “Le foto parlano: possiamo mettere dieci fotografi, con un identico set, e ognuno farà una cosa diversa. La tua fotografia è ciò che sei tu: i libri che hai letto, i film che hai visto, i tuoi viaggi , la tua famiglia e l'educazione che ti ha trasmesso. Dalle fotografie emerge sempre la personalità di chi le realizza , un po' come nell'arte. Un grande fotografo non ha bisogno di firmare la sua fotografia. La fotografia stessa deve essere la sua firma.”


MILO MANARA PALAZZO PALLAVICINI

L’incantevole Palazzo Pallavicini, dimora settecentesca di proprietà privata, in via San Felice 24 a Bologna, a pochi passi dalle Due Torri e da Piazza Maggiore, riapre nuovamente i battenti, dopo un eccezionale restauro parziale a cura della Pallavicini S.r.l, per ospitare prestigiosi eventi culturali, al pari dei più illustri palazzi bolognesi. L'edificio prende il nome da uno dei proprietari, Gian Luca Pallavicini (Genova, 1697-1773), condottiero e ministro dell’impero di Carlo VI d’Asburgo e di sua figlia, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria e madre della Maria Antonietta regina di Francia, decapitata durante la Rivoluzione Francese. Grazie a lui, l’edificio divenne la sede di una corte europea dagli scenari di una vera e propria reggia. Vì s’intrecciarono rapporti con la diplomazia internazionale sullo sfondo di feste,


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banchetti, concerti e il passaggio di teste coronate. La sera del 26 marzo 1770 il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart ebbe la ventura di esibirsi proprio nel salone del Burrini, alla presenza dell’alta aristocrazia europea e di settanta dame cittadine. Qui Mozart incontrò i grandi protagonisti della musica europea, come Farinelli, il musicologo Charles Burney e padre Martini, e con le sue visite rinnovò il gusto musicale in città. La magnificenza del Palazzo s’incrementò negli anni a seguire con il conte Giuseppe Pallavicini (1756-1818) che, raggiunta la maggiore età e divenuto proprietario dell’edificio, decise di trasformare il palazzo in uno stabilmento neoclassico d’avanguardia di


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altissimo livello. Tanta maestosità e prestigio, dunque, in un luogo le cui pareti respirano le memorie di un tempo e dove, fra storia e stili epocali, si vivrà una nuova era di fasti, grazie a un programma culturale straordinario. Palazzo Pallavicini ospita attualmente la grande mostra “Nel segno di Manara. Antologica di Milo Manara”, a cura di Claudio Curcio e promossa dal gruppo Pallavicini S.r.l in collaborazione con Comicon. Si tratta di una tra le più importanti esposizioni mai realizzate sulla vasta e celebre produzione artistica del fumettista altoatesino. L’evento animerà le sale dello storico palazzo fino al 21 gennaio 2018 e renderà omaggio all’artista con un percorso espositivo di ben

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circa 130 opere. Padre dell’immaginario erotico -e non solod’intere generazioni, dagli anni Ottanta in poi Milo Manara ha rivoluzionato l’universo dei fumetti con il suo tratto inconfondibile, influenzando e ispirando centinaia di autori in Europa, negli USA e in Giappone. È approdato al linguaggio fumettistico con l’intenzione di costruire un proprio ruolo nella società e nel giro di quarant’anni è diventato uno degli autori contemporanei italiani tra i più conosciuti in tutto il mondo. È così che il percorso espositivo a Palazzo Pallavicini, diviso in sette sezioni, va ad abbracciare sia la sua produzione a fumetti sia il suo lavoro d’illustratore per la stampa, il cinema e la pubblicità:


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dalle tavole quasi mai viste di Un Fascio di Bombe fino all’assoluta anteprima delle tavole del secondo volume dedicato a Caravaggio, ancora non disponibile in libreria. Tra i capolavori dei primi volumi, sono esposte le tavole da Il Gioco e Il Profumo dell’Invisibile, con protagonista il suo alter ego Giuseppe Bergman, le pagine dei fumetti nati dalla collaborazione con l’amico e maestro Hugo Pratt (Manara fu l’unico disegnatore che il grande autore veneziano ha selezionato per le sue sceneggiature) e quelle de I Borgia, in collaborazione con Alejandro Jodorowsky. Non mancheranno le tavole di Viaggio a Tulum e Il Viaggio di G. Mastorna detto Fernet, nate dalla

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collaborazione d’eccezione con Federico Fellini e, in via esclusiva, una serie di preziosi disegni autografati dal regista riminese, insieme a degli storyboard e delle indicazioni che lo scrupoloso Fellini mandava al giovane Manara come canovacci per le sue storie. L’esposizione presenterà anche alcuni dei lavori più datati, mai o raramente esposti al pubblico, come la serie d’ illustrazioni ispirate ai testi di Shakespeare o le tavole realizzate per le celebrazioni del 250° anniversario della nascita di W. A. Mozart, esposte nella sala di Palazzo Pallavicini che porta il nome del compositore salisburghese, in memoria della sua già citata esibizione del 1770. Un’altra sezione propone per la prima volta al pubblico italiano gli acquerelli realizzati nel 2016 per un’asta di beneficenza, con soggetto la mitica Brigitte Bardot. Contemporaneamente, il Comune di Saint Tropez installerà in

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Place Blanqui una statua dedicata all’attrice francese, che è stata ideata proprio a partire da uno dei disegni di Manara e sotto la sua supervisione. Inoltre, a Palazzo Pallavicini saranno presentate le recentissime illustrazioni realizzate per il magazine francese LUI, con protagoniste alcune splendide attrici contemporanee e delle illustrazioni personali inedite prodotte per la famiglia. In questo modo, la mostra vuole essere un viaggio completo nella carriera di un grande esploratore, rivolta agli appassionati del fumetto, ma anche a chi di Manara conosce solo il tratto o il nome. Un invito, insomma, a perdersi nei dettagli delle sue tavole originali per godere della magia del disegno che nessuna stampa potrà mai riprodurre su carta, in un palazzo che è esso stesso un richiamo irresistibile alla bellezza, ancora tutto da scoprire.


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