Quotidiano Meeting, lunedì 22 agosto 2016

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PRIMO PIANO

Il bacio dopo gli anni di piombo L’ex terrorista Maria Grazia Grena abbraccia la figlia di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 «Volevamo vita, abbiamo generato morte. Ho chiuso col passato quando ho ascoltato l’urlo di chi chiedeva perché» «Che cosa è la giustizia? Nessuno di noi lo sa veramente, eppure è un desiderio che tutti abbiamo dentro». Agnese, figlia del grande statista democristiano Aldo Moro ucciso dalle Brigate Rosse, apre così il suo intervento in un salone strapieno, “Così le nostre vite sono cambiate: la giustizia oltre la pena”, coordinato dal vice presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e introdotto dal docente di criminologia Adolfo Ceretti. Vi ha preso parte anche l’ex appartenente ai gruppi armati degli anni 70 Maria Grazia Grena. Una domanda forte, bruciante, da parte di chi ha perso il padre e che, ha detto Agnese, provoca rabbia, odio, dolore e assenza sconfinata. «La strada offerta a chi ha questa domanda - ha aggiunto - è quella della giustizia penale, che certamente è necessaria, ma non basta a colmare quello di cui hai disperato bisogno: fare domande a loro, a chi ha generato morte, chiedere come è possibile che tu abbia ucciso mio padre». Ma davanti non hai nessuno. È davanti a questa apparente sconfitta, come ha sottolineato il professor Ceretti, che nasce quello che è un termine inso-

lito: la giustizia riparativa. Neanche questa placherà certe ferite, ma permetterà, attraverso un percorso e un dialogo, di “decosizzarsi”, altro termine innovativo ma pieno di significato. Sia le vittime sia coloro che hanno generato violenza, hanno concordato Agnese Moro e Maria Grazia Grena, infatti finiscono per perdere la

«Sia le vittime sia i colpevoli devono tornare a essere persone» L’abbraccio tra Agnese Moro (a sinistra) e Maria Grazia Grena all’inizio dell’incontro di ieri sera

loro umanità: «Volevamo la vita, abbiamo generato la morte» ha detto la Grena, che comunque non ha mai sparato un colpo di arma da fuoco e ha saldato tutti i suoi debiti con la giustizia. «Pensavo di aver chiuso con il mio passato - ha spiegato - ma non è stato così finché non ho accettato di sentire l’urlo di chi ci chiedeva perché avevamo fatto quello che abbiamo fatto. Accogliendo

quell’urlo sono tornata nel profondo della mia umanità». «Sia vittime che colpevoli - ha ricordato Agnese Moro - devono tornare a essere persone». È accettando questa sfida che le due donne hanno preso parte a un percorso guidato e accompagnato con altri familiari di vittime del terrorismo e a ex terroristi, raccontato nel volume «Il libro dell’incontro, vittime e responsabili della

lotta armata a confronto», a cura di Adolfo Ceretti, Giuseppe Bertagna e Claudia Mazzucato. Solo in un dialogo, in una apertura all’altro, nel riconoscere che è un bene per me anche chi ci ha fatto male, è possibile la rinascita della nostra umanità. Queste due grandi donne lo hanno testimoniato con forza, nelle lacrime della Grena e nel bacio che l’ex terrorista ha dato alla

figlia dello statista a inizio incontro. La giustizia riparativa allora, come ha detto Marta Cartabia in conclusione, «non è solo un invito ai giuristi a riconsiderare il concetto di giustizia, ma un invito a ciascuno di noi perché i conflitti non sono solo le tragedie mondiali, ma anche quelli che ci portiamo a casa, in famiglia, nei luoghi di lavoro». Paolo Vites

«Ho le chiavi della mia cella ma dall’amore nessuno fugge» Così in Brasile l’associazione Apac trasforma i detenuti in “recuperandi” «Questa esperienza nasce dal desiderio di amare l’uomo per quello che è e non per quello che ha fatto». Così Javier Restàn, curatore della mostra “Dall’amore nessuno fugge”, descrive il cuore pulsante dell’associazione Apac (Associazione per la protezione e l’assistenza dei carcerati) in Brasile. L’Apac sorge negli anni Settanta dal desiderio di un gruppo di cristiani di migliorare le condizioni disumane dei detenuti nelle carceri brasiliane. Non ci sono guardie, né armi, né cani, né filo spinato, e le chiavi delle porte le hanno i detenuti stessi che sono chiamati con il termine “recuperando” per dare un’accezione positiva alla loro condizione. Sopra ogni ingresso si erge la scritta: «Qui entra

l’uomo, il delitto rimane fuori». Una prigione coinvolta dal progetto Apac, generalmente detiene circa centocinquanta “recuperandi” (in tutto sono più di duemila). Tra questi, da ricordare è certamente la figura di Josè, condannato all’ergastolo ed evaso numerose volte dalle dure prigioni tradizionali brasiliane in cui è stato detenuto. Giovane, abile, forte e da anni ormai richiuso in una prigione gestita secondo il metodo dell’associazione Apac. Alla domanda di molti giornalisti sul perché non tenti di fuggire anche da questo carcere, risponde con fermezza: «Perché dall’amore nessuno fugge». Questa realtà nasce senza alcuna pretesa, non è il risultato di qualcosa di cercato ma un frutto ina-

spettato. È un fatto che cresce, coinvolgente, capace di attrarre non solo i cristiani ma anche gli atei più convinti perché affascinati dalla possiblità di fare un percorso umano anche nella situazione più difficile e disperata. Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale) collabora a questo progetto in partnership con Apac, riscontrando a volte anche qualche difficoltà poiché non tutta l’opinione pubblica brasiliana lo vede di buon occhio. Molti si chiedono perché criminali di ogni genere debbano essere perdonati. Il carcere però non nasce solo a scopo punitivo ma necessariamente deve anche avere una funzione educativa. Senza questo aspetto, una volta usciti di prigione i carcerati tornano a

Una visita guidata alla mostra allestita nella Piazza A5 del Meeting

delinquere. La fiducia nell’altro è decisiva, non si può ridurre tutto solo a una mera catena di riabilitazione e rieducazione. Si gioca tutto sulla libertà delle persone, che devono sentirsi ed essere trattate come tali se si vuole che cambino. Anche da un punto di vista economico questo progetto conviene sotto tutti i punti di vista: l’amministrazione delle necessità quotidiane, la cucina e la pulizia delle celle è affidata ai detenuti. I volontari che aiutano questi uomini guardano in un altro

modo la persona, la valorizzano. A chi chiede ai “recuperandi” che differenza vi sia con le altre carceri, essi rispondono: «In questo luogo veniamo chiamati per nome e non per numero di divisa». È inspiegabile e incredibile come tutto ciò possa verificarsi. Questa è un’opera di Dio, non può esserci altra risposta. Non ci sono rivolte, evasioni, aggressioni ma semplicemente dei “recuperandi” che aiutano altri “recuperandi”, uomini che aiutano altri uomini Luca Rimmauro


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