2011 05 18, orbecchi, la stampa, la psiche sotto l'occhio di darwin

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FISICA

ANTROPOLOGIA

MISTERI

Tre cervelli in fuga e i raggi gamma

I cacciatori di fossili fanno pace a New York

Le follie virali di uomini e animali

La storia di 3 italiani in 3 continenti e gli studi su uno dei grandi fenomeni del cosmo.

Si chiamano Leakey e Johanson e hanno messo fine a una lite trentennale.

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Batteri e virus possono trasformare i comportamenti di animali ed esseri umani?

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ARCOVIO PAGINA 30

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BECCARIA PAGINA 31

MAZZOTTO PAGINA 33

TUTTOSCIENZE ENERGIA. IL «FLARE GAS» CHE VIENE SPRECATO PER MANCANZA DI INFRASTRUTTURE È PARI AL 5% DELLA PRODUZIONE MONDIALE

Analisi MAURILIO ORBECCHI

La psiche sotto l’occhio di Darwin

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e grandi domande sull'uomo hanno determinato la nascita di tre settori culturali: la religione, la filosofia e, recentemente, la psicologia. Sono discipline che derivano da persone con idee eterogenee su aspetti essenziali della vita, e producono pertanto differenti visioni del mondo. La scienza, invece, in radicale antitesi a questo modo di procedere, porta a risultati che possono essere controllati empiricamente. Per questo motivo riesce a superare le differenze tra le diverse opinioni e a imporsi nel mondo contemporaneo come il più importante elemento di condivisione interculturale e universale tra gli esseri umani (se non prendiamo in considerazione le frange di quanti hanno problemi con il pensiero razionale). I risultati scientifici sono di tale rilevanza, rispetto alla conoscenza che l'uomo ha di se stesso, da incidere direttamente anche negli altri settori. Religione, filosofia e psicologia conservano certo una loro libertà espressiva, ma non hanno più tutta la libertà: il limite risiede proprio nell'impossibilità di contraddire in maniera troppo palese le scoperte scientifiche. Se un tempo era possibile costruire una filosofia che individuava nell'acqua e nel fuoco il principio di ogni cosa, oggi sarebbe insensato continuare a farlo. CONTINUA A PAGINA 32

TUTTOSCIENZE MERCOLEDÌ 18 MAGGIO 2011 NUMERO 1469 A CURA DI: GABRIELE BECCARIA REDAZIONE: GIORDANO STABILE tuttoscienze@lastampa.it www.lastampa.it/tuttoscienze/

Il falò da 20 miliardi di dollari Lo studio: ogni anno si butta l’equivalente di un giacimento di metano LUIGI GRASSIA

’è un giacimento di metano che produce 150 miliardi di metri cubi all’anno, ma tutto il suo gas viene bruciato e buttato via per niente, perché nessuno si dà la pena di utilizzarlo. I tecnici chiamano queste elusiva risorsa «flare gas»; è quel metano le cui gigantesche fiamme baluginano giorno e notte da tanti pozzi di petrolio sparsi nel mondo e che vediamo spesso in televisione. Nelle foto notturne dallo spazio le torce del «flare gas» contendono la luminosità a quella delle città, soprattutto in zone come l’Africa occidentale, il Medio Oriente, la Russia. Per fortuna, ci sono anche centinaia di impianti petroliferi attrezzati per recuperare questo metano; però ce ne sono moltissimi (la maggior parte) in cui il gas naturale viene trattato come un rifiuto di cui liberarsi. Il problema ha origine nel sottosuolo, dove il petrolio è mescolato al metano e ad altri gas (butano, propano) ridotti

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Le emissioni extra di anidride carbonica equivalgono a quelle di 77 milioni di auto

La Nigeria è uno dei Paesi produttori di petrolio dove vengono bruciate (sprecandole) le maggiori quantità di metano

allo stato liquido dalla pressione. Man mano che risalgono verso la superficie, attraverso le condutture dei pozzi trivellati dall’uomo, le componenti di questa poltiglia idrocarburica vengono sempre meno trattenute dalla pressione e così si separano. Il metano si rigassifica, un po’ come fanno le bollicine dell’acqua minerale o dello champagne. Se la compagnia petrolifera è interessata solo al greggio, e non ha attrezzato il pozzo per catturare anche il gas, il metano deve essere bruciato. Non basta liberarlo in atmosfera: se si facesse così, potrebbe saturare l’ambiente intorno al pozzo e poi decidere di accendersi per conto suo ed esplodere, distruggendo l’installazione. Quando sentiamo citare 150 miliardi di metri cubi all’anno di «flare gas» sprecato, la cifra può dirci tutto o niente. Ma per dare un’idea più chiara, corrisponde a quasi il doppio del consumo annuale di metano di un grande Paese come l’Italia (siamo sugli 80 miliardi

di metri cubi). Il «flare gas» rappresenta il 5% del metano estratto nel mondo. E, bruciando ogni anno 150 miliardi di metri cubi di gas, si scarica nell’atmosfera tanta anidride carbonica quanta ne emettono 77 milioni di auto di media cilindrata. Settantasette milioni. Anche a voler considerare solo quest’ultimo aspetto della questione, sembra paradossale dannarsi l’anima, con grande impegno di tecnici e sacrificio di investimenti economici, per limare qua e là le emissioni delle auto, degli aerei, degli impianti industriali, delle case, eccetera, mentre quelle torce colossali stanno lì a bruciare sopra i pozzi di petrolio giorno e notte, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, per decenni. Eppure non ci vorrebbe tantissimo sforzo a migliorare le cose. Le tecnologie per recuperare il metano ci sono e sono né più né meno che quelle ordinarie per estrarre, trasportare e utilizzare il metano. Il gas naturale anziché bruciato può es-

sere usato in loco per produrre elettricità; oppure incanalato nelle condutture dei metanodotti; oppure liquefatto e trasportato su navi-cisterna verso mercati lontani; oppure riiniettato nei pozzi petroliferi, un espediente che ha senso perché, essendo greggio e metano mescolati nelle profondità dei giacimenti, tenere alta la pressione sotterranea del gas agevola l’estrazione del petro-

«Le alternative: nuovi gasdotti, liquefazione oppure generazione di elettricità in loco» lio e prolunga la vita del pozzo. Un rapporto della General Electric, il gruppo multinazionale che costruisce apparati industriali per l’energia e altro, calcola che, con adeguati investimenti, recuperando il «flare gas» i produttori di petrolio in tutto il mondo potrebbero ricavare almeno 20 miliardi di dollari all’anno. Lentamente, il

pianeta si sta rendendo conto che adeguare gli impianti sarebbe un affare, ma al ritmo attuale, secondo i calcoli della Ge (che ha dati di prima mano su tutto il mercato globale), ci vorranno più di 10 anni, mentre «con un’adeguata accelerazione degli investimenti - dice Michael Farina, “program manager” di Ge Energy e autore dello studio - si potrebbe attrezzare tutto il mondo al recupero del “flare gas” in meno di cinque anni». Però, i produttori di petrolio devono stanziare le risorse necessarie (e questo non dovrebbe essere un problema: a loro i soldi non mancano) e devono prendersi il disturbo di scegliere la tecnologia più adatta: se il pozzo è vicino a zone di consumo, va bene costruire un metanodotto, e, se è lontano da città ma vicino a un porto, si può pensare a un impianto di liquefazione, e così via. L’Eni nei suoi pozzi fa tutte queste cose, ma la prima opzione è sempre l’impiego per la produzione di elettricità a beneficio delle popolazioni locali:

Antonio Vella, direttore operations della divisione Exploration and Production del gruppo, fa l’esempio della Nigeria e del Congo, dove quello del «flare gas» è un problema storico: «In quei Paesi siamo stati pionieri nella produzione di energia elettrica per le comunità e nella ri-iniezione di gas in giacimento». Schema poi applicato da Eni in altri Paesi africani. Esistono anche apposite tecnologie per recuperare metano dalle deiezioni zootecniche - che sarebbe la definizione elegante dello sterco e dell’orina di mucche, maiali, galline eccetera. È tutta roba ecologica, naturale, alternativa. Inoltre si produce in piccoli impianti decentrati a contatto con la natura. Il Centro di ricerca ambiente e materiali dell’Enel è attivo in questo senso già dai primi Anni 90 e ha attrezzato molti allevamenti per ricavare energia extra. La miscela gassosa che si ottiene è composta di metano in proporzione fra il 65 e l’80%. Anziché «flare» è «fart gas».


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