materiali foucaultiani II,3

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materiali foucaultiani peer reviewed

DIREZIONE & REDAZIONE

Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli

COMITATO SCIENTIFICO

Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert, Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot, Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis, Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti, Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer, Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala, Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière, Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, Ann Laura Stoler, William Walters, Robert J.C. Young

Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.

© 2013 mf/materiali foucaultiani www.materialifoucaultiani.org e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org

ISSN 2239-5962 Grafica e impaginazione | Daniele Lorenzini Immagine in copertina | progettazione . Orazio Irrera realizzazione . Andrea Buscarinu


materiali foucaultiani ANNO II, NUMERO 3

GENNAIO-GIUGNO 2013

SOMMARIO 3 L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli Michel Foucault: un phénomène de bibliothèque? Spunti di riflessione a partire da un’installazione di Joseph Kosuth

Foucault e la letteratura 11 Miriam Iacomini Introduzione. Sulle ragioni di una pubblicazione postuma 25 Miriam Iacomini Nota alla traduzione 27 Michel Foucault Linguaggio e letteratura 69 Jean-François Favreau La distanza che ci separa dalla letteratura 91 Miguel Morey Un mormorio infinito… Ontologia della letteratura e archeologia del sapere 105

Bruno Moroncini La letteratura e il diritto alla follia. Blanchot, Foucault e la questione della letteratura

Saggi 127 Gianluca Vagnarelli Medicalizzazione e potere in Naissance de la clinique

Forum:

Foucault, migrazioni e confini

149 L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli Nota introduttiva 153 Risposte di Nicholas De Genova 179

Risposte di Brett Neilson

201

Risposte di William Walters


Michel Foucault: un phénomène

de bibliothèque?

Spunti di riflessione a partire da un’installazione di Joseph Kosuth di Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


È passato poco meno di un anno da quando a Parigi, durante la nuit blan-

che del 6 ottobre 2012, Joseph Kosuth, uno dei più importanti esponenti dell’arte concettuale, ha reso omaggio a Michel Foucault attraverso una suggestiva installazione realizzata sulla sommità della Bibliothèque nationale de France “François Mitterrand”. Lungo le vetrate della facciata interna dell’ultimo piano di tutti e quattro gli enormi plessi a forma di libro aperto progettati da Dominique Perrault, Kosuth ha fatto posizionare dei tubi al neon, la cui luce ha proiettato nella notte parigina il passaggio di Les mots et les choses che abbiamo a nostra volta riprodotto in copertina. Non era certo la prima volta che Kosuth prendeva spunto da una citazione tratta da Foucault, come quella che aveva fatto da esergo all’esposizione parigina della fine del 2006 alla Galleria Almine Rech, intitolata Du phénomène à la bibliothèque. In quell’occasione, negli stretti corridoi geometricamente ritagliati tra i molteplici strati di libri che ricoprivano per intero il pavimento della sala, erano stati installati dei pannelli di vetro retro-illuminati a neon bianco, tra le cui luminescenze apparivano le immagini di alcuni particolari delle biblioteche appartenute a importanti filosofi e scrittori (tra i quali Nietzsche, Derrida, Sartre, Beauvoir, Bachelard, Camus), e su cui erano sovraimpresse citazioni tratte da alcune loro opere. Del resto, sin dalla metà degli anni sessanta, con il suo celebre One and Three Chairs, che aveva preceduto di appena un anno la pubblicazione di Les mots et les choses, Kosuth aveva iniziato a mostrare i complessi rapporti tra oggetto, immagine e parola in termini che non potevano non entrare in risonanza con quelli usati da Foucault per parlare del linguaggio divenuto oggetto e, più in particolare, dello spazio che, al suo interno, viene ad occupare la letteratura. E infatti è proprio un passaggio sulla letteratura e sull’“intransitività radicale” data dal ripiegarsi del linguaggio su se stesso che Kosuth ha deciso di mettere in rilievo nella recente installazione alla BnF, ulteriore elaborazione di una ricerca artistica tesa a concepire l’opera d’arte come lo studio e la presentazione delle molteplici relazioni tra gli elementi che la costituiscono e attraverso i quali essa produce senso. Ma, lungi da ogni chiusura in una autoreferenzialità esclusivamente formalistica, con il passare degli anni Kosuth ha problematizzato sempre più il ruolo che assume il contesto sociale, culturale e architettonico in cui l’opera d’arte viene generata, rendendo la complessità di rapporti che esso introduce uno dei fattori di maggior dinamismo e apertura della materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 3-9.


4 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli sua produzione artistica. Raccogliendo in un certo senso la sollecitazione foucaultiana a trasformarsi in un etnologo della propria cultura, l’artista diventa, secondo Kosuth, un antropologo impegnato a cogliere gli aspetti situazionali dell’arte e le abitudini cognitive presenti nelle nostre società, al fine di inspessire la stratificazione dei livelli di senso delle proprie opere, proponendo infine, attraverso di esse, una riconcettualizzazione del mondo capace di renderci in qualche modo stranieri a noi stessi. Ciò che di caratteristico presupponeva una simile impresa era il fatto di rivolgersi criticamente verso le forme di interazione dello spettatore/ fruitore con gli stimoli che un’opera d’arte è in grado di produrre, in modo tale che chi si rapporta con un’opera d’arte arrivi a partecipare, attraverso la propria ricezione, a una costruzione plurale di senso che, pertanto, non potrà mai dirsi definitivamente compiuta. Le realizzazioni di Kosuth giungono quindi a includere, nei meccanismi di funzionamento dell’arte stessa, tutta una serie di posizioni di riflessività con le quali quest’ultima cerca di fare i conti in anticipo e, allo stesso tempo, non cessa mai di mettersi dinamicamente in relazione. Tale costitutiva apertura, propria della produzione artistica di Kosuth, che nell’installazione alla BnF è stata significativamente messa in atto utilizzando una citazione tratta da Foucault, non poteva lasciarci indifferenti: al contrario, ci ha sollecitati a interrogare riflessivamente, attraverso di essa, la nostra posizione. La prima cosa che di quest’opera ci ha colpiti era il fatto che chi si aggirasse intorno alla biblioteca non riuscisse a leggere completamente la citazione di Foucault in cima alle quattro torri. Era come se, in qualche modo, da qualunque punto (esterno alla biblioteca) si guardasse, la particolare conformazione architettonica della biblioteca stessa ponesse una parte sempre diversa del testo di Foucault sotto barratura. Gli eventuali fruitori dell’installazione erano quindi costretti ad accedere all’unico spazio scopico dal quale era possibile, mediante un movimento circolare dello sguardo, ricostruire nella sua interezza la frase foucaultiana: il perimetro delimitato dalle terrazze interne della biblioteca. Tuttavia, secondo le intenzioni di Kosuth, anche da qui la porzione di testo foucaultiano che si distribuiva sulla sommità dei quattro edifici a forma di libro doveva apparire come estrapolata da un testo più ampio, che essa stessa finiva a sua volta per porre sotto barratura. In questo senso, la frase di Foucault non era che l’inizio di una lettura che poteva continuare solo all’interno dei locali della biblioteca. Ma


Michel Foucault: un phénomène de bibliothèque? 5

persino qui, e in virtù della stessa dinamica, cimentarsi con Les mots et les choses avrebbe a sua volta rinviato a un labirinto borgesiano, costituito dai milioni di libri conservati nella biblioteca e dal numero esponenzialmente più alto di rimandi incrociati e di percorsi di lettura possibili. Ci siamo quindi chiesti se anche per noi completare una frase foucaultiana, passare attraverso tutti i suoi scritti, se non addirittura attraverso tutti i testi da lui citati o semplicemente consultati, si dovesse risolvere esclusivamente in questo pressoché infinito avvitamento esegetico, che ci avrebbe condotti nell’unico luogo in cui, in fondo, una simile impresa avrebbe potuto essere tentata, ovvero le sale di lettura di una biblioteca. In altre parole, Foucault è soltanto un phénomène de bibliothèque? Continuando a spostarci tra la fitta rete di senso e i suoi molteplici rinvii interni per trovare una risposta a questa domanda, ci siamo accorti che, nell’installazione di Kosuth, la citazione foucaultiana avrebbe forse potuto fornirci un modo diverso di vedere le cose. Quel che era in gioco, nel passaggio tratto da Les mots et les choses ripreso da Kosuth, era la letteratura, la cui autonomia era storicamente emersa proprio come limite rispetto a quella tendenza interna all’episteme occidentale che aveva trasformato il linguaggio in oggetto di conoscenza. Se si vuole, l’esperienza cui dava luogo la letteratura aveva reso il linguaggio stesso una sorta di limite invalicabile, che si opponeva alle oggettivazioni delle scienze umane che avevano sorretto lo sviluppo delle moderne società occidentali. Se la letteratura ha condotto il linguaggio a scintillare nel bagliore del proprio essere, è perché la sua intransitività radicale, il suo ripiegarsi su se stessa, sin dalla soglia della modernità, «si stacca da tutti i valori che potevano nell’età classica farla circolare (il gusto, il piacere, il naturale, il vero), e fa nascere nel proprio spazio tutto ciò che può garantirne il diniego ludico (lo scandaloso, il brutto, l’impossibile)»1. E d’altra parte, molte delle macchine letterarie così care a Foucault conservano la traccia di questo inesauribile sforzo di contestazione dal quale sono state generate e che costituisce, nondimeno, una sorta di sfondo imprescindibile sul quale soltanto il linguaggio messo in opera dal «semplice atto di scrivere» può brillare in tutta la sua intensità. M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966, p. 239; trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1967, p. 324. 1


6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli Il ruolo svolto dalla letteratura nell’economia di Les mots et les choses anticipa del resto alcuni importanti sviluppi del pensiero foucaultiano successivo: se, da un lato, la letteratura sembrava far presagire che i blocchi epistemici (come pure le corrispettive rotture tra un’episteme e un’altra) presi in esame in questo libro fossero già da allora suscettibili di essere saturati da quell’insieme di rapporti che la dimensione extradiscorsiva del potere intrattiene con il sapere, dall’altro lato la sua forza di negazione appare invece prolettica rispetto a una genealogia dell’attitudine critica sulla quale, dal 1978 in poi, Foucault non cesserà più di interrogarsi, fino a giungere alla nota interpretazione del cinismo antico, nel cui orizzonte “lo scandaloso, il brutto, l’impossibile” diventano elementi etici e strategici indispensabili per interrompere le modalità attraverso le quali le relazioni di potere si riproducono. Non a caso, proprio nell’ultimo corso al Collège de France, l’arte e la letteratura saranno chiamate in causa nella misura in cui intercettano le linee di propagazione del modo di essere proprio dei cinici all’interno della cultura occidentale. Ci siamo così accorti di come, nell’installazione di Kosuth, il passaggio foucaultiano non invitasse soltanto a intraprendere il percorso interpretativo suggerito dalla lettura di una frase sempre da completare, e che infine conduceva nelle profondità della biblioteca. In virtù della consistenza materiale della sua inscrizione nelle gigantesche pagine di vetro e cemento degli edifici della BnF, quella frase sembrava infatti rinviare allo stesso gesto di sottrazione critica operato dalla scrittura letteraria, mostrando come l’apparente autoreferenzialità, che ne costituiva la caratteristica più saliente, presupponesse uno spazio ad essa esterno che doveva essere interrotto e contestato. Letta da questa prospettiva, la citazione foucaultiana sembrava allora mettere in moto non solo una catabasi esegetica verso l’interno della biblioteca, ma anche un’estroflessione critica verso una forma più ampia di testualità che lo spazio labirintico della biblioteca non avrebbe potuto né contenere, né esaurire: la testualità del contesto sociale e culturale entro cui l’inscrizione del testo foucaultiano era stata materialmente realizzata. Tuttavia, proprio nella misura in cui la carica detonante e negativa della scrittura che Kosuth prendeva in prestito da Foucault investiva questo spazio fatto dalle norme e dalle convenzioni che guidano le nostre interazioni quotidiane (così come, del resto, il rapportarsi stesso con quella forma di opera d’arte contestuale che è l’installazione kosuthiana), diventava altresì chiaro che il regime temporale entro il quale lo scintillio della


Michel Foucault: un phénomène de bibliothèque? 7

scrittura sarebbe potuto apparire in tutta la sua forza era quello dell’attualità, intendendo con tale espressione ciò che nell’oggi ci rende differenti da quello che siamo stati fino a ieri. In questo senso, l’attualità giungeva a delimitare il luogo di un costante esercizio critico nei confronti dei saperi e dei poteri che ci costituiscono storicamente nel nostro presente, quello stesso presente a partire dal quale, secondo Foucault, ogni genealogia dovrebbe avere inizio. Il brano di Foucault utilizzato da Kosuth appariva dunque come una soglia in grado di mettere in relazione percorsi di senso opposto, articolandoli ma forse, allo stesso tempo, creando anche suggestivi cortocircuiti: da un lato, la frase sembrava poter essere completata nel senso suggerito dalla lettura, e per farlo occorreva proseguirla entro il regime testuale e architettonico della biblioteca; dall’altro, la stessa frase, pur alludendo a un ripiegamento del linguaggio su se stesso, faceva nondimeno apparire, quasi in filigrana, ciò a cui questo movimento tentava di sottrarsi, caricando tanto l’inscrizione del testo foucaultiano, quanto l’atto stesso di scrittura effettuato attraverso l’installazione nel suo complesso, di una forza critica il cui senso era del tutto aperto anche verso l’esterno. Ora, questa duplicità, essenziale per tenere assieme i molteplici livelli di senso generati dall’installazione di Kosuth, entrava in risonanza anche con il nostro progetto, che ha sempre mirato a coniugare l’esigenza di una rigorosa esegesi dei testi foucaultiani con la necessità di tracciare la cartografia dei loro usi più svariati, disseminati nella molteplicità di spazi e di tempi del nostro presente globale. In maniera forse più immediata, l’installazione di Kosuth costituiva uno dei migliori esempi di quanto i differenti usi di Foucault possano spingersi molto oltre il tipo di testualità presente in ogni biblioteca. D’altronde, abbiamo più volte sottolineato quanto per noi sia cruciale la questione degli usi del pensiero di Foucault, rischiando forse di dare adito ad equivoci, come quello per cui, in nome dell’idea di “uso”, chiunque possa sentirsi in un certo senso legittimato ad affermare qualsiasi cosa su Foucault o ad appropriarsi dei suoi strumenti concettuali in modo ingiustificato o scorretto. Ma anche dinanzi a simili casi, che di certo meritano tutte le critiche e le rettifiche che sollevano di fatto tra gli studiosi di Foucault, ci sembra importante ribadire che la questione dell’uso della cassetta degli attrezzi foucaultiana non può essere cancellata a priori per lasciare spazio soltanto a una ricostruzione storico-filologica dei testi che Foucault ci ha lasciato. Una tale pretesa finirebbe, da un lato, per mancare


8 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli le potenzialità critiche che la boîte à outils foucaultiana offre ancora oggi per il nostro presente e, dall’altro, per squalificare pregiudizialmente qualsiasi tentativo, sia esso fruttuoso o meno, di usare Foucault al di là dei precisi ambiti problematici dei quali egli si è direttamente occupato. In fin dei conti, riflettendo su questa installazione, è innanzitutto e ancora una volta sulla questione degli usi che ci siamo soffermati, dal momento che l’opera di Kosuth ci invita ad approfondire con maggiore accuratezza i nessi che intercorrono tra due contesti di enunciazione materialmente e temporalmente differenti, eppure tenuti assieme dalla medesima frase. Ed è proprio nell’orizzonte aperto e mutevole inaugurato da questo scarto – sempre diverso a seconda degli usi particolari che si tenta di fare di Foucault – che cerca di collocarsi anche il nostro progetto. Ma proprio quando si è trattato di concepire una copertina che permettesse di evidenziare tale prossimità, siamo giunti alla conclusione, per certi versi un po’ paradossale, che un dialogo tra le immagini dell’installazione di Kosuth e le esigenze del nostro progetto non poteva avere luogo se non al prezzo di alcune rilevanti distorsioni iconografiche. Infatti, la superficie su cui avremmo voluto inscrivere il passaggio di Les mots et les choses, la copertina di una rivista che sarebbe circolata gratuitamente su internet, sembrava imporci vincoli particolari, di certo diversi da quelli che le torri a forma di libro aperto della BnF avevano imposto a Kosuth – vincoli che ci impedivano di riprodurre telle quelle questa sua realizzazione. Dalla nostra prospettiva, la frase foucaultiana doveva essere completata a partire dalla costruzione di uno spazio visivo che non poteva essere quello chiuso e stereometrico della biblioteca che cerca di catturare al proprio interno i potenziali lettori. Al contrario, sulla nostra copertina, questa frase – che la configurazione architettonica della biblioteca aveva messo sotto barratura per tutti coloro che cercavano di leggerla dall’esterno – doveva essere riportata in uno spazio scopico aperto, da cui essa risultasse interamente leggibile, per alludere, attraverso tale gesto, alla pluralità degli usi che di essa è possibile fare. Si trattava, in un certo senso, di restituire altrimenti, tramite l’elaborazione di una nuova immagine, la stessa forza di disseminazione delle questioni inaugurate dalle opere foucaultiane, nonché la loro capacità di replicarsi in forme molteplici e talvolta irregolari. Alla luce di simili esigenze, era inoltre abbastanza chiaro come questa dispersione indefinita, che il nostro progetto cerca di favorire, non potesse essere contenuta in una biblioteca, per quanto la biblioteca resti un pun-


Michel Foucault: un phénomène de bibliothèque? 9

to di passaggio obbligato. Al contrario, essa doveva manifestarsi iconograficamente mettendo lo spazio chiuso della biblioteca sotto barratura, minando visivamente l’idea che la biblioteca possa considerarsi la radice unica e monumentale di ogni conoscenza. Come la stessa traiettoria della riflessione foucaultiana ha messo in evidenza, il regime testuale della biblioteca rischia, a lungo andare, di coincidere con quello dell’archivio, che si costituisce obliterando la volontà anonima e impersonale che gli consente di ordinare e di preservare selettivamente il sapere, restituendolo attraverso le forme continuistiche di una tradizione e dei suoi corpi dottrinari. La possibilità di trasmettere e di preservare testi, come Foucault non ha mai smesso di ricordarci, rinvia invece a una scena esteriore, quella dimensione agonistica che è propria delle relazioni di potere e all’interno della quale ogni sapere che si afferma lo fa a scapito di altri saperi che vengono sconfitti, squalificati e dimenticati per sempre. Per tali ragioni, la critica radicale che innerva le genealogie foucaultiane ha bisogno di trovare il suo punto di inizio, nel quale saggiare la sua effettiva capacità di inscrizione materiale e politica, in un presente attraversato da tensioni e lotte. Ecco la scena che dovrebbe fornire, a chi studia storicamente la formazione dei saperi, la percezione del gioco di continuità e discontinuità che caratterizza i più diversi tipi di antagonismo e di resistenza che sono alla base di ogni esigenza di accesso critico a quei saperi che le biblioteche ordinano e conservano. Bologna, Parigi, Pisa, Tunisi agosto 2013 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Foucault e la letteratura


Introduzione. Sulle ragioni di una pubblicazione postuma Miriam Iacomini

È a tutti noto il diktat foucaultiano sulle pubblicazioni postume: nulla

di ciò che non sia stato affidato all’editore mentre il filosofo era in vita dovrebbe diventare testo. Nessuno scritto inedito, sia esso la trascrizione di un intervento, di una conferenza, di una lezione o di un’intervista, dovrebbe essere dato alle stampe e diffuso. Al più, tutta la mole di lavoro prodotta da Foucault può essere all’occorrenza consultata e, previa autorizzazione, utilizzata e citata in studi e saggi. E chissà se Foucault avrebbe mai accettato tale compromesso. Ciò nonostante, il lascito foucaultiano è costantemente eccepito, e a ogni piè sospinto si pubblicano e si traducono in piena regola gli inediti1. È il caso anche di queste conferenze, che vengono qui tradotte per la prima volta in italiano con formale autorizzazione della famiglia Foucault e delle Éditions de l’EHESS, ma che erano del resto già apparse in traduzione spagnola nel 1996, come fiore all’occhiello di un volume che propone altri scritti foucaultiani degli anni sessanta, usciti in diverse riviste e poi raccolti nel primo tomo dei Dits et écrits2. È d’obbligo, dunque, dar conto della scelta fatta, cioè spiegare i motivi che mi hanno spinta a tradurre Langage et littérature, dattiloscritto che riproduce un seminario che Foucault tenne nel dicembre del 1964 presso l’università belga di Saint-Louis, a Bruxelles. Innanzitutto, c’è da dire che Foucault, suo malgrado, è “autore”, è cioè uno di quei personaggi intorno ai quali si è di fatto addensata l’attenzione della critica, e intorno ai quali la critica riconosce un elemento addensante rispetto a una molteplicità di scritti. Quindi, «tutto ciò che egli ha scritto o detto, tutto ciò che egli ha lasciato» può essere traccia ascrivibile all’interno della sua “opera”3 – intendendo con questo termine, problematico In tal senso, il caso più indicativo è rappresentato dalla pubblicazione dei corsi tenuti da Foucault al Collége de France che, da quindici anni a questa parte, vengono proposti alle stampe con metodica regolarità. 2 Cfr. M. Foucault, De lenguaje y literatura, Ediciones Paidós, Barcelona 1996. 3 M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, in «Bulletin de la Société Française de Philosophie», n. 63 (1969); trad. it. Che cos’è un autore?, in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, 1

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 11-24.


12 Miriam Iacomini e ambiguo, quell’insieme di segni che ci permette di ricostruire il percorso intellettuale e culturale di un autore, al quale, per chi volesse seguire l’insegnamento foucaultiano, non bisogna necessariamente attribuire uno “statuto realista”. Per Foucault, infatti, assegnare all’individuo-autore «una istanza “profonda”, un potere “creatore”, un “progetto” che costituirebbe il luogo originario della scrittura»4, rappresenta esattamente il limite della critica letteraria tradizionale, nonché uno dei modi attraverso i quali esercitare potere con il discorso5. Ma se si vogliono considerare i testi di Foucault come tracce e segni che ci possono aiutare a ricostruire un pezzo del suo percorso intellettuale, allora è evidente che negli inediti che si sceglie di pubblicare si devono poter identificare alcuni elementi assenti in quelli editi – come se tali elementi potessero costituire le tessere mancanti nel puzzle delle opere pubblicate. E, considerato l’ uso misurato di riferimenti bibliografici fatto da Foucault, è possibile ammettere che nei testi editi di tessere mancanti ce ne siano diverse. Quindi, incontrandone alcune negli scritti inediti, è senz’altro opportuno farne tesoro. Ora, sono convinta che in Langage et littérature si possano trovare proprio alcuni di questi elementi che ci aiutano a completare, rendendolo più organico e compiuto, il quadro dell’attività critico-letteraria svolta da Foucault negli anni sessanta. Il testo, come anticipato, è la trascrizione di due conferenze tenute nel 1964. È quindi naturale che in esso siano presenti temi, argomentazioni, esempi e interpretazioni già utilizzati in interventi precedenti e/o contemporanei6, e che Foucault non cesserà di riprendere, riutilizzandoli in modo Milano 2004, p. 5. È noto come Foucault, in questo saggio, metta in discussione proprio le nozioni di autore e di opera. Rispetto al primo termine, che viene messo in relazione a tutte le forme di scrittura e non soltanto, quindi, a quella letteraria, egli afferma di voler prendere le distanze proprio dall’immagine tradizionale dell’autore in quanto soggetto che garantisce fondamento, unità e coerenza all’opera. La nozione di opera, invece, viene da Foucault radicalmente problematizzata a partire da un interrogativo sulla sua natura e sui suoi rapporti con l’autore: «Che cos’è un’opera?», si chiede Foucault, «che cos’è questa strana unità alla quale diamo il nome di opera? Quali elementi la compongono? Non è un’opera ciò che è stato scritto da colui che ne è l’autore?» (ivi, p. 4-5). 4 Ivi, p. 11. 5 Sui rapporti tra discorso, critica e potere, si veda M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 2004. 6 Per i riferimenti bibliografici puntuali, rimando all’apparato critico che correda la traduzione qui presentata delle conferenze di Saint-Louis.


Introduzione. Sulle ragioni di una pubblicazione postuma 13

coerente, fino a quando l’analitica del potere non lo impegnerà del tutto. Anche in queste conferenze, per esempio, Foucault utilizza alcuni nomi propri7, come quello di Sade e di Diderot; anche qui si percepisce chiaramente l’insegnamento ereditato da Blanchot e Bataille, sebbene i due autori non vengano mai citati direttamente; pure in quest’occasione Foucault riflette sulla spazialità dell’opera, sulla natura della letteratura e sui rapporti che essa intrattiene con il linguaggio e con la critica; infine, come accade altrove, Foucault dimostra di essere in medias res, cioè di riflettere a partire da e con gli esponenti della cosiddetta Nouvelle critique8. Ciò nonostante, credo che nelle conferenze di Saint-Louis ci siano alcuni passaggi argomentativi inediti. Si tratta di riflessioni determinate, a mio avviso, proprio da quella domanda “Che cos’è la letteratura?”9, così insidiosa e complessa, che apre la prima conferenza, e che già era stata posta da Sartre e Blanchot. Tale interrogativo, infatti, impone un certo andamento argomentativo, perché obbliga Foucault a prendere di petto non solo il problema del rinnovamento della critica, ma anche quello del È noto come Foucault, nella sua produzione, individui spesso autori e opere considerandoli emblemi di una certa situazione o di un certo evento. È il caso, ad esempio, di Sade che, anche in queste conferenze, viene utilizzato come nome proprio perché la sua opera determina l’avvento della Letteratura. Sulla questione dei nomi propri in Foucault, cfr. M. Cometa, Modi dell’ékphrasis in Foucault, in M. Cometa e S. Vaccaro (a cura di), Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2007, pp. 39-61. 8 Nelle conferenze di Saint-Louis, la questione dei rapporti tra linguaggio e letteratura viene affrontata a partire dalla domanda “Che cos’è la letteratura?”, interrogativo che conduce Foucault ad intraprendere una riflessione articolata e complessa, che si sviluppa a più livelli e che riguarda i concetti di letteratura, linguaggio, critica e scrittura. Affrontare la questione della letteratura all’interno di questa costellazione concettuale non costituisce certamente una novità nel panorama francese degli anni sessanta. A partire dalla seconda metà del secolo scorso, infatti, si è assistito al tentativo di rinnovare l’attività critica in campo letterario, attraverso un notevole sforzo teorico volto a superare tutta una serie di pratiche interpretative legate, da un lato, a categorie descrittive e, dall’altro, a una ricerca di tipo filologico o psicologico. Il riferimento è ovviamente al movimento della cosiddetta Nouvelle critique, che in modo molto generale può dirsi caratterizzato dalla ricerca della pluralità dei livelli presenti in un’opera, e da un approccio esplorativo del testo articolato in sinergia con i risultati delle più avanzate e attuali scienze umane: dalla psicoanalisi alla sociologia, dallo strutturalismo alla semiologia, dall’antropologia alla simbologia. Ora, lavorando sulla nozione di letteratura, credo che Foucault, in queste conferenze più che altrove, cerchi di portare avanti l’argomentazione inserendosi all’interno del dibattito in corso e sovrapponendo l’istanza del rinnovamento critico alle esigenze della propria prospettiva filosofica. 9 Cfr. J.-F. Favreau, La distanza che ci separa dalla letteratura, infra, p. 70. 7


14 Miriam Iacomini rapporto tra opera e letteratura, che qui – atto unico nella vasta produzione foucaultiana – conduce esplicitamente a una riflessione sul concetto di scrittura a partire o, meglio, sull’esempio di Barthes. Ma procediamo con ordine e vediamo in che modo Foucault arriva a Barthes. Il punto di partenza dell’argomentazione è la consapevolezza che l’istanza critica intorno alla letteratura non è una questione che riguarda la critica letteraria poiché, ci dice Foucault, tale domanda «è per noi associata all’esercizio stesso della letteratura»10. Essa, cioè, si insinua nel volume, nel percorso, o se si preferisce nello spazio che si dà tra letteratura e opera. Uno spazio che, nel corso del tempo, non è stato sempre uguale a se stesso, ma che, secondo il filosofo, si definisce in modo molto tipico a partire da una certa soglia che segna la distanza infima, ma infinita, tra epoca classica e moderna. Tale soglia è collocata da Foucault, in tutti i suoi testi, nel medesimo punto11, vale a dire tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, quando, come ci viene detto in questa occasione, «la letteratura […] ha cessato di essere un rapporto puramente passivo di sapere e di memoria, ed è divenuto un rapporto attivo, pratico, un rapporto oscuro e profondo tra l’opera mentre si compie e il linguaggio stesso»12. Essa subisce quindi una trasformazione radicale, profonda e irreversibile, che si compie senza M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 27. «La soglia che separa le due concezioni», scrive Miguel Morey commentando Langage et littérature, «si situa tra la fine del XVIII e i primi del XIX secolo e, volendola indicare in termini epici, ha il punto di rottura nella rivoluzione francese, ovvero nel momento della messa in scena della Morte di Dio nella ghigliottina e della conseguente nascita dell’Acefalo. Non c’è un’altra soglia così ben definita da Foucault nei suoi lavori archeologici, ed essa, d’altronde, è anche presente nei testi del suo percorso genealogico, come in Surveiller et punir (1975). Ora, per definire tale soglia, Foucault in qualche caso partirà da molto lontano (dal Medioevo in Histoire de la folie, dal Rinascimento in Les mots et les choses), in altri prolungherà l’analisi fino al nostro presente (come in Les mots et les choses, testo per il quale Foucault ha considerato il sottotitolo Une archeologie du structuralisme); infine, altre opere si legano strettamente al periodo che segna la soglia in questione (è il caso di Naissance de la clinique e di Surveiller et punir). In ogni caso, come succede nel testo di cui ci occupiamo, lo zenit di quel cambiamento di cui noi siamo eredi si colloca nel medesimo punto, e con esso troviamo sempre l’avvertenza secondo la quale, se siamo capaci di percepire questa mutazione, è perché abbiamo stabilito con essa una distanza che può essere indicativa del fatto che la nostra esperienza (della pazzia, della malattia clinica, dell’uno dell’umanesimo o delle scienze umane, e anche della letteratura) è alla vigilia di una nuova mutazione»; M. Morey, Un mormorio infinito… Ontologia della letteratura e archeologia del sapere, infra, p. 98. 12 M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 29. 10 11


Introduzione. Sulle ragioni di una pubblicazione postuma 15

soluzione di continuità rispetto al suo statuto precedente, cioè rispetto al modo d’essere della letteratura nell’epoca classica, periodo durante il quale la Letteratura, in quanto opera di un soggetto finalmente espropriato della propria funzione autoriale, non esisteva13. L’affermazione secondo cui la Letteratura non è sempre esistita viene spiegata ed enfatizzata da Foucault in due modi. Innanzitutto, il filosofo afferma che le opere dei grandi autori dell’antichità, da Dante a Cervantes a Euripide, «appartengono alla letteratura solo nella misura in cui, in questo momento, fanno parte della nostra letteratura, grazie a un certo rapporto tra linguaggio e opera che, di fatto, ci riguarda. Quindi», conclude, «fanno parte della nostra letteratura, ma non della loro, per la semplice ragione che la letteratura greca non esiste, così come non esiste la letteratura latina»14. Si tratta di una posizione che Foucault supporta, in modo non lineare – del resto, l’intera conferenza presenta un andamento colloquiale e discontinuo –, rinviando ai lavori di Georges Rispetto ai rapporti tra soggetto e autore, credo che il testo che più di ogni altro chiarisca in che modo la scrittura letteraria possa essere considerata un’esperienza di depotenziamento del soggetto sia il Raymond Roussel. Secondo Foucault, infatti, nelle opere di Roussel l’invenzione narrativa non è affidata a una progettualità creativa, ma alle parole, alla loro duplicità semantica, alla loro inesauribile ricchezza fonetica, alle omonimie, al libero e spontaneo gioco di associazioni tra immagini e linguaggio. Di modo che, fatalmente, si inverte il rapporto tra autore e opera: la fonte del contenuto letterario diventa la parola, anziché essere l’autore, e il luogo dell’espressione non è più il libro ma lo scrittore che si fa strumento neutro nell’accogliere il libero gioco delle parole. Un altro esempio di depotenziamento del soggetto nella sua funzione autoriale, Foucault lo individua nelle opere sia teoriche che letterarie di Blanchot, al quale riconosce il merito di aver sottratto l’invenzione narrativa alla progettualità del romanzo, affidandola all’esperienza di scrittura. Un’esperienza che è sovrana solo nel momento in cui l’autore, posto di fronte allo spazio bianco del foglio, cede all’oblio, dimentica di compiere il progetto e contrappone alla verità dell’opera dispiegata l’inoperosità, lo zelo della noncuranza. Emblematica, in tal senso, è la figura di Orfeo (richiamata da Foucault anche nel corso delle conferenze di SaintLouis) che, «nella sua migrazione, dimentica l’opera che deve compiere», e che, proprio nel momento in cui sta per raggiungere Euridice, cede al desiderio, viene risucchiato dall’oblio e si volta. Orfeo perde così la sua amata, ma consegna la letteratura a una forma di esperienza di scrittura che rende il soggetto uno strumento neutro e l’opera sovrana, ovvero inscindibile dalla sua attualità. Cfr. M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1963; trad. it. Raymond Roussel, Cappelli, Bologna 1978. Cfr. anche M. Blanchot, Le regard d’Orphée, in L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1955; trad. it. Lo sguardo di Orfeo, in Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967 e Le chant des sirènes, in Le livre à venir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L’incontro con l’immaginario, in Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969. 14 M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 28. 13


16 Miriam Iacomini Dumézil15, i cui studi dimostrano che, similmente a quanto accade per il suo “statuto” interno, anche la funzione della letteratura nelle società non è sempre stata la stessa. E se oggi la letteratura si situa accanto ai segni del consumo e dell’economia, c’è stato un tempo in cui essa aveva «la funzione significante di un rituale sociale o di un rituale religioso»16. In seconda istanza, per sottolineare che la nascita della Letteratura, in quanto luogo che scava al proprio interno la domanda sul proprio statuto, è un evento recente, Foucault marca la distanza che separa l’epoca classica da quella moderna. Si tratta di una distinzione che il filosofo, in quegli anni, utilizza moltissimo. Non solo nei testi principali, da Storia della follia a Nascita della clinica e a Le parole e le cose – opera che molto argomenta a proposito del passaggio dalla classicità alla modernità –, ma anche negli scritti dedicati alla letteratura, rispetto ai quali le conferenze di Saint-Louis, pur chiarendo alcune argomentazioni presenti altrove, non aggiungono sostanzialmente nulla di nuovo17. Anche in Langage et littérature, infatti, Foucault ribadisce che, nell’epoca classica, il rapporto tra opera e linguaggio era mediato dalla rappresentazione: il testo era “opera” solo nella misura in cui era racconto, e il linguaggio era letterario solo se riusciva a restituire, attraverso figure retoriche, immagini e torsioni di parole, quello che era il Linguaggio primo, muto e raccolto, che conteneva e tratteneva la verità, infine restituita alla chiarezza delle forme grazie alla trasparenza dei segni linguistici. Nell’epoca classica, dunque, la Letteratura non esisteva perché «era linguaggio, vale a dire Salvatore Natoli, nell’introduzione a La verità in gioco, afferma che Dumézil è stato uno dei principali riferimenti teorici di Foucault, al pari di Nietzsche, Heidegger e della coppia Marx-Freud. «Da Dumézil», scrive, «Foucault ha appreso la possibilità di porre significati in catena, di rilevare corrispondenze, di costruire serie, individuandone le funzioni strutturanti – le invarianti – e le rispettive leggi di trasformazione»; S. Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005, p. 8. 16 M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 55. 17 Foucault, infatti, in queste conferenze come in altri articoli e saggi che scrive durante gli anni sessanta, fa riferimento a due “luoghi” all’interno dei quali la letteratura si è nel tempo installata: la Retorica e la Biblioteca. La prima costituisce lo spazio all’interno del quale è stata possibile, fino a Mallarmé, una scrittura letteraria come parola mediatrice tra linguaggio umano e Parola Prima. La Biblioteca, invece, costituisce lo spazio della parola letteraria che, finalmente emancipata dal riferimento all’autorità, trova la propria forza in un gesto radicale di scrittura che è trasgressione e contestazione del diffuso mormorio dei discorsi già pronunciati e dei libri già scritti. Cfr. M. Foucault, Le langage à l’infini, in «Tel Quel», n. 15 (1963); trad. it. Il linguaggio all’infinito, in M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 73-85. 15


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trasparenza, circolazione senza sedimento, concorso ideale di uno Spirito universale e di un segno decorativo senza spessore e senza responsabilità. È noto che solo verso la fine del XVIII secolo questa trasparenza comincia ad intorbidirsi, la forma letteraria sviluppa un nuovo potere, indipendente dalla sua economia e dalla sua eufemia; essa affascina, disorienta, ha un peso; la Letteratura non è più intesa come un modo di circolazione socialmente privilegiato, bensì come un linguaggio compatto, profondo, pieno di segreti, offerto come sogno e allo stesso tempo come minaccia»18. È significativo che questa citazione, che a mio avviso illustra molto bene la distanza che divide letteratura classica e moderna, non sia tratta da Foucault, ma da Barthes, autore con il quale, evidentemente, il filosofo dialogava in modo intenso, e il cui nome appare in modo esplicito proprio in queste conferenze. In realtà, in Langage et littérature Foucault non cita Barthes solo a proposito della distanza che separa la letteratura classica dalla Letteratura, ma anche per introdurre, o più semplicemente per esemplificare, un certo modo di affrontare la critica di un testo letterario. Nella prima occorrenza, Foucault fa riferimento a Barthes per dar conto del tipo di rapporto che si instaura, nell’opera, tra linguaggio e letteratura; mentre nella seconda conferenza, il filosofo si appoggia a Barthes quando si propone di esplorare i vari livelli in cui può articolarsi la critica letteraria di stampo semiologico19. Si tratta di un passaggio molto interessante, perché Foucault usa le posizioni semiologiche non solo per proporre un’alternativa all’ipotesi di una critica basata sulla nozione linguistica di metalinguaggio20, ma anche per avviare la riflessione sul concetto di scrittura21. Foucault, infatti, definendola come insieme di segni «attraverso R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Seuil, Paris 1953; trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 2003, pp. 4-5. 19 Interessanti sono le considerazioni di Axel Honneth sull’incidenza che la semiologia ha avuto nella formazione del pensiero foucaultiano. In particolare, il critico tedesco fa riferimento al rapporto tra Foucault e la semiologia strutturalista, cercando di sottolineare come tale corrente di pensiero lo abbia equipaggiato di uno sguardo critico capace di dislocare la centralità della soggettività nelle varie pratiche, compresa quella della scrittura letteraria. Cfr. A. Honneth, Kritik der Macht. Reflexionsstufen einer kritischen Gesellschaftstheorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986; trad. it. Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Dedalo Libri, Bari 2002, cap. 4 («L’analisi storica del discorso. I paradossi di un approccio semiologico alla storia del sapere»), pp. 167-216. 20 Cfr. M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, pp. 47-48. 21 Sulla nozione di scrittura nel “primo” Foucault, mi permetto di rinviare al mio Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2008 (cfr. in particolare «Appendice. Sulla scrittura», pp. 255-271). 18


18 Miriam Iacomini i quali l’atto di scrivere si ritualizza fuori dal dominio della comunicazione immediata»22, dimostra di appoggiarsi proprio alla concezione di scrittura elaborata da Barthes. Si tratta, a mio avviso, di un rinvio non solo significativo, ma anche ricco di spunti, poiché ci spinge inevitabilmente a cercare, nelle prime riflessioni elaborate dal semiologo, un qualche chiarimento in merito al concetto di scrittura che Foucault sembra qui utilizzare. Il testo cui volgere l’attenzione potrebbe essere Il grado zero della scrittura, pubblicato nel 1953. In quest’opera, Barthes esplora la nozione di scrittura da vari punti di vista e affronta le diverse questioni che, in quegli anni, tale nozione suscitava. Egli, infatti, indaga la nozione di scrittura non solo analizzandone i rapporti con l’opera, il linguaggio e la letteratura, ma anche approfondendo l’implicazione personale, morale ed etica dello scrittore nell’atto di produrre della Letteratura. In particolare, nel primo paragrafo della Parte Prima, Barthes affronta di petto proprio lo statuto della nozione di scrittura, chiedendosi esplicitamente: “Che cos’è la scrittura?” La sua risposta è determinata e precisa. Egli distingue, all’interno di un testo, tre livelli – quello della lingua, quello dello stile e quello della scrittura – e riconosce ad ognuno di essi una peculiare posizione rispetto alla Letteratura. Il primo livello è quello della lingua, che per Barthes è «solo un orizzonte umano che instaura sullo sfondo una certa familiarità», che offre un insieme opaco di materiali e che, aggiunge, rassicura pur senza lasciare spazio all’esercizio libero della scrittura. La lingua, infatti, è per lo scrittore «una specie di linea la cui trasgressione potrebbe designare una metanatura del linguaggio»23. Essa è quindi limite estremo che sta al di qua della Letteratura. C’è poi lo stile, nozione che, in modo opposto e complementare a quella di lingua, sta al di là della Letteratura. Lo stile, infatti, è linguaggio incarnato, oserei dire parafrasando Barthes, che lo definisce come la verticalità della lingua insinuata nel corpo e nel passato, nella vita e nell’attualità dello scrittore, il quale usa le parole sotto l’impulso della Necessità. Lo stile, quindi, «è la “cosa” dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione, è la sua solitudine, […] non è affatto il risultato di una scelta, di una riflessione sulla Letteratura. Esso è la parte privata del rituale, si leva dalle profondità mitiche dello scrittore e si espande indipendentemente dalla sua responsabilità»24. Lo stile, pertanto, manca di quella connotazione moM. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 56. R. Barthes, Il grado zero della scrittura, cit., p. 9. 24 Ivi, p. 10. 22 23


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rale ed etica che appartiene, invece, al terzo livello in questione, vale a dire alla scrittura, che viene concepita da Barthes come una funzione, poiché si dà nel rapporto tra Natura e Necessità, ovvero tra lingua e stile. Lo scrittore è, infatti, colui che «riconduce deliberatamente l’esigenza di un linguaggio libero alle sorgenti di questo linguaggio e non già al termine della sua commerciabilità»25. E il riferimento è ovviamente alla letteratura di consumo che, sottoposta alle leggi di mercato, mai si assume il rischio di una scrittura responsabilmente libera e che, per ciò stesso, diventa cifra e segno della Letteratura. Ora, Foucault sembra utilizzare le tesi barthesiane, qui fin troppo velocemente riprese e riepilogate, quando parla della scrittura come elemento che conferisce alla Letteratura il compito di «definire da sola i segni e i giochi attraverso i quali diventa, precisamente, letteratura». Tale compito è nuovo. La letteratura, scrive Foucault, «da quando esiste dopo la scomparsa della retorica, non ha più il compito di raccontare qualcosa, aggiungendovi poi i segni manifesti e visibili della letteratura, che sono proprio i segni della retorica. Infatti, da quando la retorica, che era un tempo incaricata di dire ciò che doveva essere un bel linguaggio, è scomparsa, la letteratura è obbligata ad avere un linguaggio unico, e tuttavia un linguaggio sdoppiato, poiché, narrando una storia o raccontando qualcosa, in ogni istante deve mostrare e rendere visibile cos’è la letteratura, cos’è il linguaggio letterario»26. A partire da qui, ovvero dalla consapevolezza che la Letteratura, come Barthes insegna, ha al proprio interno gli elementi, ovvero i segni, che la definiscono come tale, Foucault procede all’individuazione dei modi attraverso i quali è possibile analizzare i segni dell’autoimplicazione presenti in un’opera. Nel fare ciò, Foucault affronta temi già frequentati: parla della duplicità del linguaggio, che fa dell’opera un simulacro; rinvia al concetto di linguaggio esoterico, echeggiando la batailleana sovranità del linguaggio; ritorna su quella struttura di ripetizione interna all’opera che mostra di considerare probabilmente «costitutiva dell’essere stesso della letteratura, se non in generale, almeno della letteratura occidentale»27. E, anche in questo caso, Foucault cita l’esempio di Le mille e una notte. Tuttavia, se è vero che le conferenze di Saint-Louis non aggiungono nulla di nuovo alla riflessione Ivi, p. 13. M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 37. 27 Ivi, p. 52. 25 26


20 Miriam Iacomini sull’auto-implicazione dell’opera, sebbene chiariscano alcuni passaggi argomentativi già utilizzati in altre occasioni, altrettanto vero è che qui compare un nome proprio mai richiamato altrove: Proust. Il più celebre tra i romanzi dello scrittore francese viene infatti utilizzato da Foucault per dare conto degli elementi teorici sui quali elabora la nozione di Letteratura. Proust diventa quindi emblema del linguaggio letterario in quanto linguaggio esoterico, della nozione di opera in quanto simulacro e della possibilità di intraprendere un percorso critico analizzando la spazialità interna di un testo. Credo sia opportuno sottolineare tale uso di Proust e l’esplicito riferimento alla Recherche perché, insieme al richiamo a Barthes, rende queste conferenze preziose, ovvero ragionevolmente degne di pubblicazione: in esse, infatti, sono contenute diverse tessere che possono aiutarci a completare il quadro dell’intensa attività critico-letteraria svolta da Foucault negli anni sessanta. Senza voler anticipare troppo del contenuto di Langage et littérature, mi sembra utile accennare al modo in cui Foucault utilizza la Recherche per esemplificare uno degli elementi essenziali di un’opera letteraria: la sua costante assenza nell’essere presente attraverso il testo. Ragion per cui «non c’è l’essere della letteratura, c’è semplicemente un simulacro, un simulacro che è tutto l’essere della letteratura»28. Come noto, Foucault si confronta con la nozione di simulacro in un saggio del 1964, intitolato La prosa di Atteone. In questo testo, Foucault fa riferimento a Klossowski come a un autore che sviluppa la trama delle proprie opere utilizzando la forza del simulacro, inteso proprio come immagine «dipendente da una verità sempre retrocedente». Secondo Foucault, infatti, i testi di Klossowski si caratterizzano per un incessante movimento che, pur capovolgendo continuamente le situazioni e i personaggi, non arriva mai a un’epifania reale. Quindi, se in Klossowski «i buoni diventano cattivi, i morti resuscitano, i rivali si rivelano complici, i carnefici sono degli astuti salvatori»29, non è perché tali capovolgimenti debbano risolversi, come vorrebbe la dialettica, nella Verità. Al contrario, nelle opere dello scrittore francese, ogni nuovo cambiamento produce una scoperta che «rende l’enigma più profondo, moltiplica l’incertezza, e svela un elemento soltanto per velare il rapporto che esiste fra tutti gli altri»30. Klossowski si colloca così all’interno della letteratura, ovvero nella distanIvi, p. 38. M. Foucault, La prose d’Actéon, in «La Nouvelle Revue Française», n. 1 (1964); trad. it. La prosa di Atteone, in M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 92-93. 30 Ivi, p. 93. 28 29


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za implicita, contenuta e trattenuta nell’identità di Medesimo e Altro, che apre un volume nel quale l’opera si dà. Similmente accade in Proust. Nella Recherche, infatti, secondo Foucault, l’opera non è mai data nella sua compattezza e interezza: «essa non è altro che il progetto di fare un’opera, il progetto di fare letteratura, poiché l’opera concreta è incessantemente trattenuta sulla soglia della letteratura»31. E se, da un lato, la scrittura comincia nel momento in cui la vita di Proust viene sospesa, dall’altro, l’opera può cominciare solo nel momento in cui la scrittura si ferma – quando, cioè, il tempo per l’opera ormai è “perduto”. Si apre così un certo spazio, un volume, uno spessore all’interno del quale è possibile tentare un’analisi delle strutture significanti interne all’opera. Si tratta dell’eventualità, che – avverte Foucault –per il momento è solo un programma, di inaugurare uno studio dei segni «mediante i quali un’opera si designa all’interno di se stessa, e all’interno di se stessa si rappresenta (re-présente) con una certa forma e con un certo aspetto». E in queste conferenze, Foucault accenna a un’analisi semiologica interna al testo, confrontando i segni dell’auto-implicazione nell’Odissea, che rinviano a un rituale di lutto – poiché «l’opera non designa se stessa se non nella morte, e precisamente nella morte dell’eroe» –, con quelli della Recherche, dove i segni dell’auto-implicazione sono dati «nella forma dell’illuminazione eterna; [essi sono dati] bruscamente nel momento in cui, a proposito di un asciugamano damascato, o di una madeleine, o dell’irregolarità del selciato nella corte dei Guermantes, che ricorda l’irregolarità del selciato di Venezia, qualcosa come la presenza eterna, illuminata, assolutamente felice dell’opera si dà precisamente a colui che la sta scrivendo»32. In entrambi i casi, il tentativo foucaultiano è di indagare su quello spazio che, aprendosi tra linguaggio e testo, permette all’opera di autorappresentarsi nella sua peculiare struttura narrativa. Questi esempi rinviano chiaramente a una prospettiva critica di stampo semiologico. E, in effetti, nelle conferenze di Saint-Louis, Foucault parla proprio della possibilità di una critica letteraria impostata sull’idea che si possano di volta in volta individuare diversi insiemi di riferimento, a partire dai quali analizzare i testi letterari. In quest’ottica, le opere possono essere intese come segni, poiché, connettendosi orizzontalmente con altri elemen31 32

M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 38. Ivi, p. 57.


22 Miriam Iacomini ti, acquistano significato all’interno della rete in cui si radicano e si analizzano. Tra i diversi livelli di analisi, Foucault ricorda innanzitutto quello della semiologia culturale che, volendo indagare sui vari elementi che compongono il vasto universo della cultura in generale, considera la letteratura come segno di quell’insieme. Ragion per cui essa, come si è già accennato, non ha sempre avuto lo stesso significato nelle diverse epoche storiche. Un altro livello possibile di analisi del testo letterario è quello della semiologia linguistica, che propone un’analisi dei segni verbali interni al “sistema opera”. In tal caso, la critica «definisce le scelte che possono essere fatte, le strutture alle quali tali scelte sono sottomesse, perché sono state fatte, il grado di libertà che è dato in ogni punto del sistema e che giustifica la struttura interna dell’opera»33. Infine, in queste conferenze, Foucault individua altri due livelli di analisi semiologica: uno relativo alle forme di auto-rappresentazione, cui ho accennato a proposito dell’Odissea e della Recherche; l’altro relativo alle forme dell’auto-implicazione proprie di una scrittura esoterica, capace di tradire, sovvertire, trasgredire il codice della lingua che utilizza34. Vi è poi un ultimo asse di ricerca esplorato da Foucault in Langage et littérature, e non indicato altrove. Esso ha a che vedere, ancora una volta, con la spazialità dell’opera, tema sul quale Foucault insiste molto in queste conferenze, prendendo posizione anche nei confronti di tutta quella tradizione filosofica e critica che ha avallato un’analisi letteraria fondata sul presupposto che il linguaggio sia connotato storicamente, quando, secondo Foucault, esso ha una “natura” determinata dalla spazialità che lo contraddistingue. «L’essere del linguaggio è spazio», afferma Foucault, «perché ogni elemento del linguaggio non ha senso se non nella rete di una sincronia; perché il valore semantico di ogni parola e di ogni espressione è definito nel ritaglio di un quadro, di un paradigma; perché la successione stessa degli elementi, l’ordine delle parole, le inflessioni, gli accordi tra le Ivi, p. 56. Nell’ambito della critica letteraria foucaultiana, la nozione di “esoterismo strutturale” è, a mio avviso, una delle più interessanti. Essa, infatti, costituisce una sorta di perno attorno al quale ruota l’affinità tra letteratura, follia, scrittura e assenza d’opera. Sono questi i temi che vengono affrontati, nei rispettivi articoli, da Bruno Moroncini e da Jean-François Favreau. In proposito, rinvio ancora una volta al mio Le parole e le immagini, cit., cap. 4 («Archeologia e letteratura»), §4 («Foucault critico letterario e archeologo della conoscenza: un rapporto osmotico»). In particolare, la questione dell’esoterismo strutturale è trattata nel §4.2 («Lo spazio aleatorio e la letteratura»), pp. 228-238. 33 34


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differenti parole obbediscono, con più o meno libertà, alle esigenze simultanee, architettoniche e di conseguenza spaziali, della sintassi. Infine, l’essere del linguaggio è spazio perché, in senso generale, non c’è segno significante se non grazie a leggi di sostituzione e di combinazione di elementi, dunque grazie a una serie di operazioni definite su un insieme e, per ciò stesso, in uno spazio»35. Insistendo sulla “spazialità” del linguaggio, Foucault, per dimostrare la possibilità di un’impostazione critica che possa dare conto della dimensione spaziale dell’opera, cita diversi autori, tra i quali Jean Rousset, che ha svolto un’interessante analisi del teatro di Corneille. In particolare, il filosofo fa notare come Rousset abbia elaborato un’analisi del teatro classico francese insistendo sulla struttura narrativa “a volta” e “a spirale”, tipica non solo delle opere di teatro, ma anche di alcuni elementi architettonici del Seicento (Foucault ha in mente, in particolare, il drappeggio ascendente caratteristico della scultura barocca). Un altro riferimento interessante, rispetto alla proposta di analizzare la spazialità interna di un’opera, è quello alle analisi di Jean-Pierre Richard su Mallarmé, che cercano di mostrare come l’uso degli oggetti all’interno della scrittura rinvii al modo in cui il poeta usa le parole. Lo spazio ambiguo degli oggetti mallarmeani, «che svelano e nascondono al tempo stesso, è probabilmente lo spazio stesso delle parole di Mallarmé. La parola, in Mallarmé, ostenta la propria ricchezza, ripiegando, infossando sotto questo sfoggio ciò che sta dicendo. Essa è ripiegata sulla pagina bianca, in modo da nascondere quello che ha da dire, ma fa sorgere, nel movimento del ripiegamento su di sé e nella distanza, ciò che dimora irrimediabilmente assente»36. Anche in questo caso, però, non mi spingo oltre per non disturbare la lettura delle conferenze, alla quale rinvio per gli approfondimenti necessari. Mi premeva soltanto rimarcare come Langage et littérature non solo ci permette di aggiornare il pensiero foucaultiano sul rapporto tra linguaggio, letteratura e critica, ma anche di rilanciare la riflessione esplorando nuovi percorsi e rinnovando quelli già battuti. Da quest’ultimo punto di vista, è possibile provare a porre nuove domande, sulla base delle quali riprendere in mano la questione della critica in Foucault. Per esempio, queste conferenze potrebbero spingerci a interrogarci sull’uso che Foucault fa della nozione jakobsoniana di “metalinguaggio” e, quindi, ad approfondire la 35 36

M. Foucault, Linguaggio e letteratura, infra, p. 60. Ivi, p. 65.


24 Miriam Iacomini sua relazione con la linguistica. Oppure, potrebbero stimolarci a indagare alcuni temi sui quali la critica non si è ancora soffermata: penso al rapporto tra Foucault e la semiologia, oppure al problema delle relazioni tra segno, significato e significante nella parola letteraria, tema che apre l’interessante contributo di Bruno Moroncini. Sarebbe poi possibile proporre, con il supporto dei nuovi elementi presenti in Langage et littérature, ulteriori considerazioni sulle implicazioni e i continui rinvii che legano letteratura e archeologia in Foucault – ed è proprio in tal senso che si muove il saggio di Miguel Morey. Infine, altre suggestioni capaci di dare nuovo respiro alla critica foucaultiana che cerca di indagare i rapporti tra il filosofo e la letteratura, riguardano le riflessioni sulla spazialità dell’opera che, se da un lato rinviano a Blanchot, il grande assente delle conferenze, dall’altro, come ci dimostra Jean-François Favreau, ci permettono di pensare a Foucault come a colui che «fa della letteratura moderna lo svelamento delle “prosperità del vizio” della parola, il racconto del viaggio nello spazio del linguaggio e il gioco tragico di quell’eroe contemporaneo che è lo scrittore»37. Si tratta di spunti così stimolanti da giustificare appieno, a mio avviso, la pubblicazione di un altro inedito di Foucault, la cui opera, come si addice ai classici del pensiero, non smette di sollecitare l’attenzione dei critici. Miriam Iacomini m_iacomini@libero.it

. Introduction. On the Reasons of a Posthumous Publication The choice of publishing the translation of Langage et littérature is motivated on the basis of some good reasons. This text, in fact, although it is coherently inscribed in the archaeological horizon, contains some themes never treated elsewhere: the veiled polemics with Jakobson and the problematization of the concept of metalanguage; the confrontation with Barthes and with the semeiologic literary criticism; the clear appreciation of the critic-literary modalities that, referring to the Nouvelle Critique, propose an analysis of the “spatiality” of the work. Keywords: Literature, Language, Work, Writing, Archaeology, Criticism, Author. 37

J.-F. Favreau, La distanza che ci separa dalla letteratura, infra, p. 79.


Nota alla traduzione Miriam Iacomini

Nel dicembre del 1964, Michel Foucault conduce, presso l’università

belga di Saint-Louis, a Bruxelles, un seminario di due incontri intitolato Langage et littérature e dedicato al rapporto tra linguaggio, letteratura e critica. Di questo seminario ci rimangono due dattiloscritti pressoché identici: uno conservato presso l’università di Bruxelles e l’altro all’IMEC di Caen, nel “fondo” Michel Foucault. Del primo testo è stata pubblicata la traduzione in spagnolo1, mentre la presente edizione italiana fa riferimento alla copia depositata all’IMEC2. Il principio che mi ha guidata nella traduzione è stato quello dell’aderenza al testo francese, che è con ogni probabilità la trascrizione puntuale delle conferenze, delle quali, però, non possediamo la registrazione. Quindi, pur cercando di muovermi con cautela e mantenermi nell’ambito di una traduzione rispettosa e fedele all’originale, ho ritenuto necessario effettuare alcuni interventi per “limare” lo stile che, a tratti, era troppo legato alla retorica orale: ho perciò glissato su alcune ridondanze, eliminato certe inutili ripetizioni e rimosso talune formule e allitterazioni ampollose ed eccessive. Inoltre, è stato talvolta necessario intervenire per semplificare la sintassi di frasi e periodi complessi e lunghi, inevitabile riscontro di un’oratoria ricca di incisi e a tratti eccessivamente prolissa. Ciò ha comportato un lavoro attento sulla punteggiatura e sulla ridistribuzione dei capoversi. Ciò nonostante, ho cercato di non rinunciare del tutto all’andamento discorsivo e colloquiale tipico di un intervento seminariale. Ho infatti ritenuto opportuno non mortificare quella che potrei chiamare l’enfasi Cfr. M. Foucault, De lenguaje y literatura, Ediciones Paidós, Barcelona 1996. Avevo già concluso il lavoro di traduzione quando ho appreso della pubblicazione delle conferenze di Saint-Louis in edizione francese, all’interno del volume La grande étrangère. À propos de littérature (Éditions de l’EHESS, Paris 2013), a cura di Philippe Artières, Jean-François Bert, Mathieu Potte-Bonneville e Judith Revel. Mi è stato tuttavia possibile consultare tale edizione e apportare alla traduzione italiana le poche modifiche che mi sono parse necessarie. 1 2

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 25-26.


26 Miriam Iacomini della comunicazione orale, l’unica in grado di restituire l’atmosfera capace di rendere partecipe l’uditorio rispetto a un “pensiero in atto”. Si tratta di una scelta motivata dalla considerazione che, durante la conferenza, come spesso accade anche nei testi pensati e scritti per essere pubblicati, Foucault non vuole semplicemente consegnare il risultato di un’analisi già conclusa; al contrario, egli sembra voler pensare ad alta voce e in modo interlocutorio una questione, quella del rinnovamento della critica letteraria, che occupa costantemente l’intero primo decennio della sua riflessione. Per quanto riguarda, invece, l’apparato critico che arricchisce il testo, mi sono limitata ad inserire alcune note che potessero assolvere a tre diversi compiti: 1) rinviare ai più significativi testi foucaultiani scritti fino al 1964 e che si occupano dei temi trattati durante la conferenza. Rispetto a questa scelta, ho fatto solo alcune eccezioni che ho ritenuto opportune per completezza di informazione. In ogni caso, non ho mai rimandato a opere pubblicate dopo il 1970; 2) offrire i riferimenti bibliografici delle opere e degli studi che lo stesso Foucault richiama durante la conferenza; 3) chiarire alcuni passaggi argomentativi che, senza tale delucidazione, avrebbero potuto appesantire la lettura del testo e renderne oscuro il movimento complessivo. Ringrazio Denys Foucault e Francine Fruchaud, gli eredi di Michel Foucault, nonché le Éditions de l’EHESS per aver autorizzato la presente traduzione, Henri-Paul Fruchaud per il suo aiuto prezioso e la direzione di «materiali foucaultiani» per aver accettato di pubblicare questo testo e per avermi sostenuta e incoraggiata durante il lavoro.


Linguaggio e letteratura 1 Michel Foucault

Prima sessione

La domanda, divenuta ormai celebre, “Che cos’è la letteratura?” è per 2

noi associata all’esercizio stesso della letteratura, come se questa domanda non fosse posta da una terza persona che si interroga su uno strano oggetto a lei esteriore, ma come se avesse origine esattamente nella letteratura: come se porsi la domanda “Che cos’è la letteratura?” coincidesse con l’atto stesso dello scrivere. “Che cos’è la letteratura?” non è dunque una domanda di critica letteraria, né una domanda che storici e sociologi si pongono davanti a un certo fatto di linguaggio. È piuttosto una cavità che si è aperta nella letteratura, una cavità dove la letteratura dovrebbe collocarsi e raccogliere tutto il suo essere. Titolo originale: Littérature et langage, © Éditions de l’EHESS, 2013. Per questa traduzione italiana, ho preferito mantenere il titolo delle conferenze riportato sul dattiloscritto consultabile all’IMEC di Caen, e citato d’altronde anche nella Chronologie di Daniel Defert (cfr. M. Foucault, Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol. I, p. 34), ovvero Langage et littérature. 2 In Francia, tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, nell’ambito della cosiddetta Nouvelle critique, si è sviluppato un intenso dibattito sulle nozioni di letteratura e di critica letteraria, che ha coinvolto non solo filologi e linguisti, ma anche antropologi, semiologi e filosofi. Tra i vari autori che si sono interessati alla questione dal punto di vista filosofico, ponendosi direttamente l’interrogativo sulla natura della letteratura, ne ricordo almeno tre: Blanchot, Bataille e Sartre, senz’altro ben noti a Foucault. Cfr. M. Blanchot, Comment la littérature est-elle possible ?, J. Corti, Paris 1942 e L’espace lettéraire, Gallimard, Paris 1955; trad. it. Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967; G. Bataille, La souveraineté (1953), in Œuvres complètes, vol. VIII, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La sovranità, Il Mulino, Bologna 1990; J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la littérature ?, in «Les Temps Modernes», vol. 2 (1947), nn. 17-22; trad. it. Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 11-139. È opportuno segnalare che, nel corso del 1964, Foucault si confronta con la nozione di letteratura in due significativi dibattiti pubblici. Cfr. M. Foucault, Débat sur le roman e Débat sur la poésie, in «Tel Quel», n. 17 (1964), ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., vol. I, pp. 338-390 e 390-406. 1

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 27-67.


28 Michel Foucault Nell’affermazione, che ho appena fatto, secondo la quale la letteratura si colloca nella domanda “Che cos’è la letteratura?”, appare immediatamente un paradosso, in ogni caso una difficoltà. Questa domanda, infatti, è molto recente; in modo approssimativo, si può dire che, mentre la domanda “Che cos’è la letteratura?” è giunta a noi e si è potuta formulare solo dopo l’opera di Mallarmé, la letteratura ha l’età, il tempo e lo statuto civile del linguaggio umano in quanto tale. Eppure, non sono affatto sicuro che la letteratura sia così antica come si ha l’abitudine di sostenere. Sicuramente sono due millenni che esiste qualcosa che retrospettivamente abbiamo l’abitudine di chiamare “la letteratura”. Ma credo sia esattamente questo ciò su cui bisogna riflettere, perché non è così scontato che Dante, Cervantes o Euripide appartengano alla letteratura. Essi, infatti, appartengono alla letteratura solo nella misura in cui, in questo momento, fanno parte della nostra letteratura, grazie a un certo rapporto tra linguaggio e opera che, di fatto, ci riguarda. Quindi, fanno parte della nostra letteratura, ma non della loro, per la semplice ragione che la letteratura greca non esiste, così come non esiste la letteratura latina. In altre parole, se il rapporto tra l’opera di Euripide e il nostro linguaggio è letterario, il rapporto tra questa stessa opera e il linguaggio greco non è certamente tale. Per spiegarmi, vorrei distinguere molto chiaramente tre cose. Innanzitutto, c’è il linguaggio. Voi sapete che il linguaggio è al tempo stesso il mormorio di tutto quello che è pronunciato, e il sistema trasparente grazie al quale, quando parliamo, siamo compresi. In breve, il linguaggio è contemporaneamente tutto l’insieme delle parole accumulate nella storia e il sistema stesso della lingua. Dunque da un lato c’è il linguaggio, dall’altro c’è l’opera. Esiste cioè una configurazione del linguaggio che si ferma su di sé, si immobilizza, costituisce uno spazio che le è proprio, blocca in questo spazio lo scorrimento del mormorio, ispessisce la trasparenza dei segni e delle parole e innalza così un certo volume opaco e probabilmente enigmatico. Ed è questa configurazione che costituisce un’opera. Poi c’è un terzo termine, che non è esattamente né opera, né linguaggio: è la letteratura. La letteratura non è la forma generale di ogni opera di linguaggio, non è il luogo universale dove si situa l’opera di linguaggio. È, in qualche modo, un terzo termine, il vertice di un triangolo attraverso il quale passa la relazione tra il linguaggio e l’opera, e tra l’opera e il linguaggio.


Linguaggio e letteratura 29

Credo che sia una relazione di questo genere ad essere designata dal termine “letteratura” nella sua accezione classica. Nel XVII secolo, “letteratura” voleva semplicemente indicare la familiarità che qualcuno, nel momento stesso in cui utilizzava il linguaggio ordinario, poteva avere con le opere di linguaggio. Indicava l’uso, la frequentazione per mezzo della quale si recuperava, al livello del linguaggio quotidiano, quello che era in sé e per sé un’opera. Questo rapporto, che costituiva la letteratura nell’epoca classica, non era che una questione di memoria, di familiarità, di sapere: era un affare di accoglienza3. Ora, questo rapporto tra linguaggio e opera, che passava attraverso la letteratura, a partire da un certo momento, ha cessato di essere un rapporto puramente passivo di sapere e di memoria, ed è divenuto un rapporto attivo, pratico, un rapporto oscuro e profondo tra l’opera mentre si compie e il linguaggio stesso; o ancora tra il linguaggio nel momento della sua trasformazione e l’opera che sta per realizzarsi. Il momento storico nel quale la letteratura è diventata il terzo termine attivo del triangolo, si situa evidentemente tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, nelle vicinanze di Chateaubriand, di Madame de Staël, di La Harpe, ovvero nel momento in cui il XVIII secolo si volge a noi, chiude su sé e porta con sé qualcosa che ora ci è sottratto, ma su cui dobbiamo soffermarci a riflettere, se vogliamo rispondere alla domanda “Che cos’è la letteratura?”. Si ha l’abitudine di dire che la coscienza critica, l’inquietudine riflessiva su ciò che è la letteratura, si sia introdotta molto tardi, nella rarefazione, nel prosciugamento dell’opera; nel momento in cui, per ragioni puramente storiche, la letteratura non è stata più capace di donarsi altro oggetto che se stessa. 3 È opportuno ricordare fin da subito che Foucault, riflettendo sul modo di essere della letteratura, distingue due epoche – una definita classica e l’altra moderna – caratterizzate in base alla maniera in cui si concretizza, nella scrittura, il rapporto del linguaggio con se stesso. In particolare, Foucault afferma che, mentre nell’epoca classica lo spazio letterario era tutto contenuto nel rapporto tra discorso originario e linguaggio umano (che aveva il compito di restituire il linguaggio primo e sovrano altrimenti muto e inaccessibile), nell’epoca moderna, ormai orfana del riferimento a una Parola Prima, il linguaggio letterario si sorprende invischiato all’interno di un inedito rapporto con se stesso. Nel corso delle conferenze di Saint-Louis, Foucault torna più volte su questa distinzione, che aveva del resto già affrontato nel saggio del 1963 intitolato Le langage à l’infini. Cfr. M. Foucault, Le langage à l’infini, in «Tel Quel», n. 15 (1963), pp. 44-53; trad. it. Il linguaggio all’infinito, in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 73-85, in particolare pp. 84-85.


30 Michel Foucault A dire il vero, mi sembra che il rapporto della letteratura con se stessa, la questione di ciò che essa è, appartenga originariamente alla triangolazione dalla quale nasce. La letteratura non è il fatto, per un linguaggio, di trasformarsi in opera, non è nemmeno il fatto, per un’opera, di essere fabbricata con un linguaggio. La letteratura è un terzo punto, differente dal linguaggio e dall’opera, esteriore alla loro corrispondenza, che disegna uno spazio vuoto, un biancore essenziale dove nasce la questione “Che cos’è la letteratura?”, un biancore essenziale che, in verità, è questa stessa domanda. Di conseguenza, questa domanda non si sovrappone alla letteratura, non si aggiunge alla letteratura attraverso una coscienza critica supplementare: è l’essere stesso della letteratura, originariamente lacerato e fratturato. In realtà, non ho intenzione di parlarvi né dell’opera, né della letteratura, né del linguaggio. Vorrei piuttosto mettere il mio linguaggio, che sfortunatamente non è né opera, né letteratura, nella distanza, nello scarto, nel triangolo, nella dispersione originaria dove l’opera, la letteratura e il linguaggio si abbagliano a vicenda, cioè si illuminano e si accecano reciprocamente, affinché qualcosa del loro essere arrivi furtivamente fino a noi. Siete forse un po’ urtati e delusi da quel poco che ho da dirvi. Ma a me piacerebbe solamente che fosse per voi evidente questa cavità del linguaggio che non smette di scavare la letteratura da quando esiste, vale a dire dal XIX secolo. Vorrei che sentiste almeno la necessità di liberarvi dell’idea che la letteratura ha dato di sé, idea secondo la quale è un linguaggio, un testo fatto di parole – di parole come le altre –, che sono però talmente studiate e cesellate che, attraverso di esse, passa qualcosa di ineffabile. Mi sembra che la letteratura non trasmetta qualcosa di ineffabile ma che, al contrario, sia formata da un non-ineffabile, da qualcosa che si potrebbe chiamare, nel senso stretto e originario del termine, “favola”. Essa, cioè, è fatta di qualcosa che si può raccontare e si può dire. Ma questa favola è detta in un linguaggio assente, omicida e doppio, che è simulacro, e grazie al quale mi sembra sia possibile un discorso sulla letteratura. Un discorso che è altra cosa rispetto alle allusioni di cui si sente parlare da centinaia di anni a proposito del silenzio, del segreto, dell’indicibile, delle modulazioni del cuore e di tutte queste suggestioni dell’individualità sulle quali la critica, fino ad ora, ha costruito la propria inconsistenza. La prima constatazione da fare è che la letteratura non è un semplice fatto di linguaggio che si lascia penetrare poco a poco dalla questione sottile e secondaria della sua essenza e del suo diritto all’esistenza. La let-


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teratura, in se stessa, è una distanza scavata all’interno del linguaggio, una distanza incessantemente percorsa e mai realmente superata. È una specie di linguaggio che oscilla su se stesso, una sorta di vibrazione sul posto. Ma queste parole, oscillazione e vibrazione, sono inadeguate e piuttosto inappropriate, perché lasciano supporre che ci siano due poli, che la letteratura sia al tempo stesso letteratura e linguaggio, e che ci sarebbe tra letteratura e linguaggio come un’esitazione. Invece, il rapporto con la letteratura è preso interamente nello spessore assolutamente immobile dell’opera e, allo stesso tempo, è il rapporto attraverso il quale l’opera e la letteratura si eludono reciprocamente. Ma allora, perché e quando l’opera diviene letteratura? Il paradosso dell’opera è precisamente questo: essa è letteratura dall’istante stesso in cui inizia, dalla sua prima frase, dalla pagina bianca. Forse è realmente letteratura solo in questo momento e su questa superficie, nel rituale preliminare che traccia alle parole il loro spazio di consacrazione. Di conseguenza, da quando la pagina bianca comincia a riempirsi, da quando le parole cominciano a trascriversi su questa superficie ancora vergine, da quel momento ogni parola è in qualche modo assolutamente deludente in rapporto alla letteratura, perché non c’è alcuna parola che appartenga, per essenza e per diritto di natura, alla letteratura. Infatti, non appena una parola viene scritta su una pagina bianca, che dovrebbe essere la pagina della letteratura, essa non appartiene più alla letteratura, e questo significa che ogni parola reale è in qualche modo una trasgressione che si compie in rapporto all’essenza pura, bianca, vuota, sacra della letteratura; una trasgressione che non fa dell’opera la realizzazione della letteratura, ma la sua rottura, la sua caduta, la sua effrazione: è l’effrazione che compie ogni parola prosaica e quotidiana, senza statuto né prestigio letterario, non appena viene scritta. “A lungo, mi sono coricato di buonora”. È la prima frase di Alla ricerca del tempo perduto4. Questa frase è sicuramente un ingresso nella letteratura, ma è evidente che non c’è una sola di queste parole che appartenga alla letteratura. Questa frase è un ingresso nella letteratura non perché costituisce l’entrata in scena di un linguaggio completamente bardato dai segni, dai blasoni e dagli stemmi della letteratura, ma semplicemente perché è l’irruzione del linguaggio tout court su una pagina bianca; è l’irruzione del Cfr. M. Proust, À la recherche du temps perdu (1913-1927); trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, BUR, Milano 2006. 4


32 Michel Foucault linguaggio, senza segni né armi, sulla soglia di qualcosa che non prenderà mai corpo. Queste parole, infatti, ci conducono fino alla soglia dell’incessante assenza della letteratura. D’altra parte, è caratteristico della letteratura – della letteratura del XIX secolo, quella che ha offerto alla cultura occidentale questa configurazione strana sulla quale ci interroghiamo – il fatto che, da quando esiste, si sia sempre assegnata un certo compito, e che questo compito sia precisamente l’assassinio della letteratura. A partire dal XIX secolo, tra le opere che si susseguono, non si tratta più del rapporto tra l’antico e il moderno, di quel rapporto contestato, reversibile, e anche molto interessante, sul quale tutta la letteratura classica si è interrogata. Il rapporto di successione che appare dal XIX secolo è un rapporto in qualche modo più aurorale, di compimento e di omicidio iniziale della letteratura. Baudelaire non è rispetto al Romanticismo, Mallarmé non è rispetto a Baudelaire, il Surrealismo non è rispetto a Mallarmé quello che Racine è stato rispetto a Corneille, o che Beaumarchais è stato rispetto a Marivaux. In realtà, la storicità che appare nel XIX secolo nel campo della letteratura è una storicità completamente nuova, che non si può in alcun senso assimilare a quella che ha assicurato la continuità o la discontinuità della letteratura fino al XVIII secolo. La storicità della letteratura, nel XIX secolo, non passa attraverso il rifiuto, l’arretramento o l’accoglienza delle altre opere. La storicità della letteratura passa obbligatoriamente attraverso il rifiuto della letteratura stessa, e questo rifiuto va considerato in tutta la complessa trama delle sue negazioni. Ogni atto letterario nuovo, che sia quello di Baudelaire, di Mallarmé o dei Surrealisti poco importa, implica, almeno credo, quattro negazioni, quattro rifiuti, quattro tentativi di omicidio: rifiutare la letteratura degli altri; rifiutare agli altri lo stesso diritto di fare della letteratura – contestare che le opere degli altri appartengano alla letteratura; rifiutare a se stessi – contestare a se stessi – il diritto di fare della letteratura; rifiutare di fare o di dire altre cose, nell’uso del linguaggio letterario, che non siano l’omicidio sistematico e compiuto della letteratura. Dunque, credo si possa dire che, dal XIX secolo, ogni atto letterario si dà e prende coscienza di sé come una trasgressione di questa essenza pura e inaccessibile che sarebbe la letteratura. E tuttavia, in un altro senso, credo si possa dire che, dal momento in cui ogni parola è scritta su questa famosa pagina bianca a proposito della quale ci interroghiamo, essa accenna a qualcosa che è la letteratura – perché non è una parola normale,


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una parola ordinaria. Ogni parola, a partire dal momento in cui è scritta sulla pagina bianca dell’opera, è una sorta di segnale intermittente che intercetta qualcosa che chiamiamo letteratura. Perché, a dire il vero, niente in un’opera di linguaggio somiglia a quello che si dice quotidianamente. In essa, niente vi è del vero linguaggio. Vi sfido a trovare un solo passaggio di un’opera qualunque che si possa dire veramente preso in prestito dalla realtà del linguaggio quotidiano! So bene che qualche volta ciò accade, so bene che un certo numero di persone hanno utilizzato esattamente dei dialoghi reali, qualche volta incisi al registratore. Butor, per esempio, nella descrizione di San Marco5, ha sovrapposto al racconto della basilica la registrazione dei dialoghi della gente che la visitava e che faceva commenti, alcuni riguardanti la chiesa e altri la qualità dei gelati che potevano gustare sul posto. Tuttavia, l’esistenza di un linguaggio reale registrato e introdotto nell’opera letteraria non è diversa dal foglio incollato in un quadro cubista, che non è utilizzato per dare una connotazione di “verità” all’opera, ma è là per squarciare lo spazio del quadro. Analogamente, quando il linguaggio vero è introdotto realmente in un’opera letteraria, è usato per squarciare lo spazio del linguaggio, per dargli, in qualche maniera, una dimensione sagittale che, per sua natura, non avrebbe. In tal modo, l’opera non esiste se non nella misura in cui, in ogni istante, tutte le parole sono volte verso la letteratura, sono illuminate dalla letteratura; e, contemporaneamente, l’opera non esiste se non nella misura in cui la letteratura, che tuttavia sostiene ogni parola – e fin dalla prima –, è allontanata e profanata. Se volete, si può dire che l’opera come irruzione sparisce e si dissolve nel mormorio che è il recupero della letteratura; non c’è opera che non divenga, così, un frammento di letteratura, un pezzo che non esiste se non perché attorno, avanti e dietro di essa, c’è qualcosa come la continuità della letteratura. Mi sembra che questi due aspetti, quello della profanazione e quello del rinvio continuamente rinnovato di ogni parola verso la letteratura, ci permettano di tratteggiare due figure esemplari e paradigmatiche di ciò che è la letteratura – due figure estranee, e che tuttavia forse si appartengono. Una è la figura della trasgressione, della parola trasgressiva, e l’altra, Cfr. M. Butor, Description de San Marco, Gallimard, Paris 1963; trad. it. Descrizione di San Marco, Abscondita, Milano 2003. Foucault si occupa di Butor anche in un altro saggio del 1964, intitolato Le langage de l’espace. Cfr. M. Foucault, Le langage de l’espace, in «Critique», n. 203 (1964), ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., vol. I, pp. 407-412. 5


34 Michel Foucault al contrario, è la figura di tutte quelle parole che indicano la letteratura; da una parte, quindi, c’è la parola trasgressiva, dall’altra ciò che chiamerei il recupero della biblioteca. Una è la figura del divieto, del linguaggio al limite, dello scrittore rinchiuso; l’altra, al contrario, è lo spazio dei libri che si accumulano, che si appoggiano gli uni agli altri, e dei quali ciascuno non ha che l’esistenza merlata che lo ritaglia e lo ripete all’infinito sul cielo di tutti i libri possibili6. È evidente che Sade7 è stato il primo ad articolare, alla fine del XVIII secolo, la parola di trasgressione; si può anche dire che la sua opera costituisca il punto che, al tempo stesso, raccoglie e rende possibile tutta la parola di trasgressione. L’opera di Sade, non c’è dubbio, è la soglia storica della letteratura. Essa è, in un certo senso, un gigantesco pastiche. Non c’è una sola frase di Sade che non sia interamente rivolta verso qualcosa che è stato detto prima di lui, dai filosofi del XVIII secolo, da Rousseau; non c’è un solo episodio, non una sola delle scene, insopportabili, raccontate da Anche in questo caso è opportuno anticipare alcuni elementi che verranno ripresi e chiariti nel corso delle conferenze. Nel distinguere due epoche della letteratura, Foucault non solo individua per entrambe un peculiare rapporto del linguaggio con se stesso, ma anche un determinato “luogo” all’interno del quale tale rapporto prende forma e si concretizza. Nello specifico, Foucault afferma che, nell’epoca classica, l’esperienza letteraria, definendosi all’interno dello spazio aperto tra Parola Prima e linguaggio umano, si colloca nella Retorica; nell’epoca moderna, invece, lo spazio del linguaggio è definito dalla Biblioteca, ovvero dal superamento trasgressivo e omicida che reitera e al tempo stesso distrugge l’infinito mormorio del discorso e l’accumulo indefinito dei libri già scritti. La Biblioteca si costituisce, quindi, come luogo privilegiato di un’opera sovrana e negligente, possibile solo grazie a un gesto trasgressivo, eccessivo e “inutile”. Cfr. M. Foucault, Il linguaggio all’infinito, cit., in particolare pp. 84-85; Préface à la transgression, in «Critique», nn. 195-196 (1963), pp. 751-769; trad. it. Prefazione alla trasgressione, in M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 55-72; La pensée du dehors, in «Critique», n. 229 (1966), pp. 523-546; trad. it. Il pensiero del fuori, in M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 111-134. 7 Foucault fa spesso riferimento alle opere di Sade, citandole in diversi contesti. Per il filosofo, infatti, Sade è un autore che può essere analizzato e utilizzato nella sua emblematicità da vari punti di vista. Di seguito si segnalano alcuni scritti degli anni sessanta che contengono interpretazioni in linea con le argomentazioni utilizzate in queste conferenze, dove l’opera di Sade viene messa in relazione al passaggio dall’epoca classica a quella moderna, e quindi all’avvento della Letteratura. Cfr. M. Foucault, Il linguaggio all’infinito, cit., pp. 77-83; Prefazione alla trasgressione, cit., pp. 55-72; Les mots e les choses, Gallimard, Paris 1969; trad. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, pp. 229-230. Foucault, pur non avendo mai dedicato una monografia alla figura di Sade, nel marzo del 1970 pronuncia a Buffalo due conferenze sullo scrittore francese; cfr. M. Foucault, Conférences sur Sade, in La grande étrangère. À propos de littérature, Éditions de l’EHESS, Paris 2013, pp. 145-218. 6


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Sade che non sia in realtà il pastiche derisorio e completamente profanatore di una scena di un romanzo del XVIII secolo – è sufficiente, d’altronde, seguire i nomi dei personaggi per capire esattamente di chi Sade abbia voluto fare il pastiche profanatore. Ciò significa che l’opera di Sade ha avuto la pretesa di essere la cancellazione di tutta la filosofia e di tutto il linguaggio ad essa anteriori, e la cancellazione di tutta la letteratura attraverso la trasgressione di una parola che profanava la pagina ridivenuta, così, bianca. La nomina senza reticenze, i movimenti che, nelle famose scene erotiche di Sade, percorrono meticolosamente ogni possibilità, tutto ciò non è altro che un’opera ridotta alla sola parola di trasgressione, un’opera che, in un certo senso, cancella tutte le parole mai scritte, aprendo in questo modo uno spazio vuoto nel quale la letteratura moderna avrà il suo luogo. Credo che Sade sia il paradigma stesso della letteratura. La figura di Sade, che è quella della parola di trasgressione, ha il suo doppio nella figura del libro che si mantiene nella sua eternità; ha il suo doppio nella biblioteca, vale a dire nell’esistenza orizzontale della letteratura, esistenza che, in realtà, non è semplice, non è univoca, e della quale credo Chateaubriand sia il paradigma gemello. Non c’è assolutamente alcun dubbio che la contemporaneità di Sade e Chateaubriand non sia un caso, nella letteratura. Sin dalle prime righe, l’opera di Chateaubriand vuole essere un libro, vuole mantenersi al livello del mormorio continuo della letteratura, vuole collocarsi subito nello spazio di eternità polveroso che è quello della biblioteca assoluta. Sin dal principio, mira a raggiungere l’essere solido della biblioteca, facendo così indietreggiare in una sorta di preistoria tutto quello che è stato detto o scritto in precedenza. Quindi, pur distanti di qualche anno, Chateaubriand e Sade costituiscono le due soglie della letteratura contemporanea. Atala e La Nouvelle Justine8 sono state scritte più o meno nello stesso periodo. Sicuramente sarebbe facile avvicinarle o contrapporle, ma ciò che bisogna tentare di comprendere è il sistema stesso della loro appartenenza, la piega all’interno della quale nasce in quel momento, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, in tali opere e in tali esistenze, l’esperienza moderna della letteratura. Esperienza che credo non sia separabile dalla trasgressione e dalla morte: non è dissociabile dalla Cfr. F.-R. de Chateaubriand, Atala (1801); trad. it. Atala, René, Garzanti, Milano 1989, pp. 3-91; D.A.F. de Sade, La Nouvelle Justine ou les Malheurs de la vertu (1797); trad. it. La nouvelle Justine, 3 voll., Guanda, Milano 1978. 8


36 Michel Foucault trasgressione che Sade ha vissuto per tutta la propria vita e per la quale ha pagato con la libertà, né dalla morte che ha ossessionato Chateaubriand dal momento in cui ha cominciato a scrivere; era infatti evidente, per lui, che la parola che scriveva aveva senso nella misura in cui era in qualche modo già morto, cioè nella misura in cui la parola fluttuava al di là della sua vita e della sua esistenza9. Mi sembra che la trasgressione e il passaggio oltre la morte rappresentino le due grandi categorie della letteratura contemporanea. Se volete, si potrebbe dire che, nella letteratura, in questa forma di linguaggio che esiste dal XIX secolo, non ci sono che due soggetti reali, due soggetti che parlano – Edipo per la trasgressione e Orfeo per la morte. E, allo stesso tempo, non ci sono che due figure di cui si parla e verso le quali, a voce bassa e indirettamente, ci si indirizza – la figura di Giocasta profanata, la figura di Euridice perduta e ritrovata. Dunque, mi pare che le categorie della trasgressione e della morte, o se preferite del divieto e della biblioteca, distribuiscano pressappoco quello che si potrebbe chiamare lo spazio proprio della letteratura. È in ogni caso a partire da questo spazio che appare qualcosa come la letteratura. È importante rendersi conto che l’opera letteraria non proviene da una sorta di biancore che precede il linguaggio, ma dal recupero della biblioteca e dall’impurità già omicida della parola. È infatti a partire da quel momento che il linguaggio realmente rinvia a noi e, allo stesso tempo, alla letteratura. L’opera rinvia alla letteratura: che vuol dire? Vuol dire che l’opera “chiama” la letteratura, dandosi un certo numero di segni che provano, a se stessa e agli altri, che è davvero letteratura. Questi segni reali, attraverso i quali ogni parola e ogni frase indicano la loro appartenenza alla letteratura, sono ciò che la critica recente, dopo Roland Barthes, chiama “la scrittura”10. La scrittura rende ogni opera una piccola rappresentazione, come un modello concreto di letteratura. Detiene l’essenza della letteratura, ma ne Il riferimento, in questo caso, è probabilmente alle celebri Memorie di Chateaubriand che, come noto, verranno pubblicate postume per volontà dell’autore. Cfr. F.-R. de Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe (1848-1850); trad. it. Memorie d’oltretomba, Einaudi, Torino 1995. 10 Barthes si è occupato della nozione di scrittura fin dai suoi primi interventi critici, e già nel 1964 aveva pubblicato almeno due testi importanti nei quali tale nozione veniva tematizzata e discussa. Cfr. R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Seuil, Paris 1953; trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 2003 e Essais critiques, Seuil, Paris 1964; trad. it. Saggi critici, Einaudi, Torino 2002. 9


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restituisce allo stesso tempo l’immagine visibile, reale. In questo senso, si può dire che ogni opera mostra non solo ciò che dice, ciò che racconta, la sua storia, la sua favola; ma in più mostra che è letteratura. Però non lo mostra in due tempi, un tempo per il contenuto e un tempo per la retorica: lo fa nella sua unità. Questa unità è testimoniata dal fatto che la retorica, alla fine del XVIII secolo, è scomparsa. Che la retorica sia scomparsa significa che la letteratura è incaricata, a partire da questa scomparsa, di definire da sola i segni e i giochi attraverso i quali diventa, precisamente, letteratura. Se volete, si può dire che la letteratura, da quando esiste dopo la scomparsa della retorica, non ha più il compito di raccontare qualcosa, aggiungendovi poi i segni manifesti e visibili della letteratura, che sono proprio i segni della retorica. Infatti, da quando la retorica, che era un tempo incaricata di dire ciò che doveva essere un bel linguaggio, è scomparsa, la letteratura è obbligata ad avere un linguaggio unico, e tuttavia un linguaggio sdoppiato, poiché, narrando una storia o raccontando qualcosa, in ogni istante deve mostrare e rendere visibile cos’è la letteratura, cos’è il linguaggio letterario. Si può quindi dire che la letteratura è un linguaggio unico, ma contemporaneamente sottomesso alla legge del doppio. Accade alla letteratura quello che accade al sosia in Dostoevskij. Il sosia, in Dostoevskij, è la distanza già data nella nebbia e nella notte, è quest’altra figura attraverso la quale non cessiamo, dietro ogni angolo di strada, di essere sdoppiati e che, tuttavia, allo stesso tempo, viene incontro al passante, e questo fino al panico, che fa riconoscere il sosia nel momento in cui ci si trova di fronte a lui11. Questo gioco è simile a quello che si produce tra l’opera e la letteratura: l’opera precede incessantemente la letteratura, la letteratura è questa specie di doppio che passeggia davanti all’opera. L’opera non la riconosce mai, pur incrociandola senza sosta, e quindi manca il momento di panico che si trova in Dostoevskij. Nella letteratura, infatti, non c’è mai incontro assoluto tra opera reale e letteratura in carne ed ossa. L’opera non incontra mai il suo doppio, essa è la distanza che c’è tra linguaggio e letteratura, è quella specie di spazio di raddoppiamento, quello spazio dello specchio, che si può chiamare simulacro12. Credo che, se si interroga l’essere stesso Cfr. F.M. Dostoevskij, Dvojnik (1845); trad. it. Il sosia, Garzanti, Milano 1981, cap. 5, pp. 47-56. 12 Sulla nozione di simulacro, cfr. M. Foucault, La prose d’Actéon, in «La Nouvelle Revue Française», n. 1 (1964); trad. it. La prosa di Atteone, in M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 87-100. 11


38 Michel Foucault della letteratura, se si interroga la letteratura a proposito di ciò che essa è, non si possa rispondere che una cosa: non c’è l’essere della letteratura, c’è semplicemente un simulacro, un simulacro che è tutto l’essere della letteratura. Mi sembra che l’opera di Proust ci mostri molto bene come e in che senso la letteratura sia simulacro. Alla ricerca del tempo perduto, si sa, non è il racconto del cammino che va dalla vita di Proust all’opera; essa, infatti, inizia dal momento in cui la vita di Proust, la sua vita reale, la sua vita mondana, si sospende, si interrompe, si ferma su se stessa, e nella misura in cui la vita si richiude su di sé, l’opera può inaugurare ed aprire il proprio spazio. Ma la vita di Proust, quella reale, non è mai raccontata nell’opera e, d’altra parte, quest’opera, per la quale Proust ha sospeso la propria vita, ha deciso di interrompere la propria vita mondana, non è mai data, perché Proust racconta esattamente come arriverà a quest’opera che dovrebbe cominciare dalle ultime righe del libro, ma che in realtà non è mai data nella sua completezza. Così, in Alla ricerca del tempo perduto, la parola “perduto” ha almeno tre significati. Innanzitutto, vuol dire che il tempo della vita appare ora come rinchiuso, lontano, irrecuperabile, perduto – per l’appunto. Poi, vuole indicare il tempo dell’opera, che non può più essere completata, perché quando il testo realmente scritto finisce, l’opera non è più là: il tempo dell’opera, che non ha potuto compiersi in questo racconto che doveva narrarne la genesi, è stato sprecato prima, non solo nella vita reale, ma nel racconto che Proust fa del modo in cui scriverà la sua opera. Infine, questo tempo senza scopo né luogo, questo tempo senza tempo che fluttua verso la deriva – come perduto tra il linguaggio soffocato di tutti i giorni e quello scintillante dell’opera infine illuminata –, questo tempo che vediamo apparire nell’opera stessa di Proust senza una cronologia reale, è un tempo perduto che non può essere ritrovato se non come i granelli d’oro, cioè sotto forma di frammenti. Così, in Proust, l’opera non è mai data nella letteratura: essa non è altro che il progetto di fare un’opera, il progetto di fare letteratura, poiché l’opera concreta è incessantemente trattenuta sulla soglia della letteratura. Infatti, dal momento in cui il linguaggio reale che racconta l’arrivo della letteratura farà silenzio, poiché infine l’opera possa apparire nella sua parola sovrana e inevitabile, da quel momento l’opera si compie e il tempo è terminato. Tanto che si può dire, in un quarto senso, che il tempo è perduto nel momento stesso in cui è ritrovato.


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In un’opera come quella di Proust, quindi, non si può dire che ci sia un momento che sia realmente opera, non si può dire che ci sia un solo momento che sia realmente letteratura. Infatti, tutto il linguaggio di Proust, tutto questo linguaggio che ora leggiamo, che chiamiamo opera e del quale diciamo che è letteratura, se si chiede cos’è, non per noi, ma in sé, si vedrebbe che non è né opera, né letteratura, ma una specie di spazio intermedio e virtuale come quello, che si può vedere ma mai toccare, degli specchi; ed è proprio questo spazio di simulacro a dare all’opera di Proust il suo vero volume. In questo senso, bisogna ammettere che il progetto di Proust, l’atto letterario che egli ha compiuto da quando ha cominciato a scrivere la propria opera, non ha realmente alcun essere assegnabile, né può essere collocato in un punto qualsiasi del linguaggio o della letteratura. Nell’opera di Proust, infatti, non si trova che il simulacro della letteratura; e l’apparente importanza del tempo, in Proust, deriva semplicemente dal fatto che il tempo proustiano, che è da un lato dispersione e avvilimento, e dall’altro ritorno e identità dei momenti felici, non è che il progetto interno, tematico, drammatizzato, raccontato, recitato, di questa distanza iniziale tra l’opera e la letteratura che costituisce, credo, l’essere profondo del linguaggio letterario. Dunque, se dovessimo caratterizzare ciò che è la letteratura, da un lato incontreremmo la figura negativa della trasgressione, del divieto e del recupero simbolizzata da Sade; dall’altro, l’immagine dell’uomo che discende nella tomba con il crocifisso in mano, l’immagine dell’uomo che scrive dall’oltretomba – incontreremmo cioè la figura della morte e del simulacro simbolizzata da Chateaubriand. Incontreremmo poi altrettante figure, non direi negative, ma senza positività alcuna, tra le quali l’essere della letteratura mi sembra fondamentalmente disperso e diviso. Ma per definire ciò che è la letteratura ci manca ancora, forse, qualcosa di essenziale. In ogni caso, c’è qualcosa che non abbiamo ancora detto, e che tuttavia è storicamente molto importante per sapere cosa sia questa forma di linguaggio che è apparsa a partire dal XIX secolo. È evidente che la trasgressione non è sufficiente a definire la letteratura, perché c’è stata sicuramente della letteratura trasgressiva prima del XIX secolo. È poi evidente che nemmeno il simulacro è sufficiente a definire la letteratura, perché, prima di Proust, c’è stato qualcosa come il simulacro. Pensate a Cervantes, che ha scritto il simulacro di un romanzo; pensate


40 Michel Foucault anche a Diderot, con Jacques le Fataliste13. In tutti questi testi, si trova uno spazio virtuale nel quale non c’è né letteratura, né opera, e dove pertanto c’è continuamente scambio tra opera e letteratura. “Ah, se io fossi romanziere”, dice Jacques le Fataliste al suo padrone, “quello che vi racconterei sarebbe molto più bello della realtà che vi narro; se volessi abbellire tutto quello che vi racconto, vedreste come, in quel momento, ci sarebbe della bella letteratura. Ma non posso, io non faccio della bella letteratura, sono obbligato a raccontarvi quello che…”14. Ed è in questo simulacro della letteratura, in questo simulacro del rifiuto della letteratura, che Diderot scrive un romanzo che è in fondo il simulacro di un romanzo. In effetti, il problema del simulacro, per esempio in Diderot, e del simulacro nella letteratura a partire dal XIX secolo, è importante per introdurci in ciò che mi pare centrale nella letteratura. Sapete che, in Jacques le Fataliste, la storia si sviluppa su più livelli. Il primo livello è il racconto, fatto da Diderot, del viaggio di Jacques, detto il Fatalista, e dei dialoghi tra lui e il suo padrone. Poi, questa narrazione è interrotta da Jacques, che prende la parola al posto di Diderot e si mette a raccontare dei propri amori. Il racconto degli amori di Jacques è a sua volta interrotto da una serie di storie di terzo livello, quelle in cui, per esempio, le locandiere, il capitano, ecc., raccontano i propri aneddoti. E così, all’interno del romanzo, abbiamo tutto uno spessore di racconti che Cfr. D. Diderot, Jacques le fataliste et son maître (1780); trad. it. Jacques il fatalista, BUR, Milano 2008. È interessante ricordare che Foucault fa riferimento a Diderot non solo nella nota introduzione alla Terza Parte di Storia della follia, utilizzando il protagonista de Il nipote di Rameau, personaggio buffo e folle, come emblema dei rapporti tra follia e ragione nel XVIII secolo, ma anche nel già citato saggio Le langage à l’infini, dove l’opera di Diderot viene richiamata, similmente a quanto accade nelle conferenze di Saint-Louis, come esempio di raddoppiamento del linguaggio che, però, non colloca l’esperienza di scrittura all’interno della dimensione letteraria moderna. Cfr. M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris 1972; trad. it. Storia della follia, Rizzoli, Milano 1998, pp. 285-293 e Il linguaggio all’infinito, cit., pp. 76-77. 14 Questa citazione, come la successiva, non è letteraria. È quindi possibile supporre che Foucault abbia voluto semplicemente restituire l’atteggiamento derisorio e scanzonato che Diderot dimostra di avere nei confronti dei romanzi picareschi e di genere. Atteggiamento che, in effetti, viene reso nel romanzo proprio attraverso le parole di Jacques, voce narrante che più volte denuncia la propria incapacità di raccontare i fatti in modo letterario, e attraverso i commenti dello stesso Diderot che, come noto, durante il racconto si rivolge spesso al lettore ribadendo come le grottesche vicissitudini narrate non siano frutto della sua fantasia, ma fatti che si impongono nella loro evidente realtà. 13


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si incastrano come matrioske, ed è questo che costituisce la parodia del romanzo d’avventura in Jacques le Fataliste. Ma ciò che è importante, che mi sembra caratteristico, non è tanto l’incastro dei racconti l’uno dentro l’altro, quanto il fatto che, in ogni istante, Diderot faccia indietreggiare il racconto, imponendo alle storie che si incastrano delle figure retrograde che conducono incessantemente verso un linguaggio neutro, un linguaggio primo, che è il linguaggio di tutti i giorni, il linguaggio di Diderot, il linguaggio stesso dei lettori. Queste figure retrograde sono di tre tipi. Ci sono innanzitutto le reazioni dei vari personaggi del racconto, che interrompono continuamente ciò che ascoltano. Poi ci sono i protagonisti della storia sovrapposta, che appaiono all’improvviso – a un certo punto, per esempio, la locandiera narra la vicenda di qualcuno che non si vede e che è semplicemente presente nel racconto, ma ecco che, bruscamente, compare come personaggio vero, quando invece non aveva uno statuto se non all’interno della narrazione della locandiera. Infine, come terza figura, c’è Diderot, che si rivolge senza posa al proprio lettore per dirgli: “Dovete trovare straordinario quello che vi racconto, ma è così che è accaduto; certamente questa avventura non è conforme alle regole della letteratura, né è conforme alle regole dei racconti ben fatti, ma io non sono il padrone dei miei personaggi, loro mi sovrastano, sono arrivati nel mio orizzonte con i loro passi, con le loro avventure, con i loro enigmi, e io non faccio che raccontarvi le cose così come sono effettivamente accadute…”. Così, dal cuore più nascosto e più indiretto del racconto, sino a una realtà che è contemporanea, anzi, perfino anteriore alla scrittura, Diderot non fa altro che sganciarsi, in un certo senso, dalla propria letteratura. Egli cerca in ogni istante di mostrare che tutto ciò che scrive non è letteratura, e che in effetti c’è un linguaggio immediato e primo, il solo che sia solido, sul quale si trovano costruiti arbitrariamente e gratuitamente gli stessi racconti. Questa struttura è tipica di Diderot, ma si trova anche in Cervantes, e in un’infinità di racconti dal XVI al XVIII secolo. Per la letteratura, vale a dire per questa forma di linguaggio che si inaugura nel XIX secolo, i giochi come quelli di Jacques le Fataliste, di cui vi ho appena parlato, non sono in realtà che giochi di parole. Quando Joyce, ad esempio, si diverte a scrivere un romanzo15 che, se volete, è interamente costruito sull’Odissea, non fa come Diderot, che costruisce un’opera sul 15

Cfr. J. Joyce, Ulysses (1922); trad. it. Ulisse, Mondadori, Milano 2000.


42 Michel Foucault modello dei racconti picareschi; quando Joyce ripete Ulisse, lo fa perché, nella piega del linguaggio ripetuto su se stesso, possa apparire qualcosa che non sia, come in Diderot, il linguaggio di tutti i giorni, ma la nascita stessa della letteratura. Joyce, cioè, fa in modo che, all’interno del suo romanzo, delle sue frasi, delle parole che utilizza, del racconto infinito della giornata di un uomo come tanti, in una città come tante, si crei una cavità, che sia al tempo stesso l’assenza della letteratura e la sua imminenza, che coincida con il fatto che la letteratura è là assolutamente – ed è là assolutamente perché si tratta di Ulisse –, ma nella distanza più prossima alla sua lontananza. Da qui nasce, probabilmente, la configurazione che è essenziale all’Ulisse di Joyce. Da una parte, ci sono le figure circolari: c’è la circolarità del tempo – poiché il racconto si dispiega in una giornata, dal mattino fino alla sera –, e quella dello spazio – poiché il protagonista passeggia facendo il giro della città. Poi, al di fuori di queste figure circolari, c’è una specie di rapporto perpendicolare e virtuale, un rapporto biunivoco tra ogni episodio dell’Ulisse di Joyce e ogni avventura dell’Odissea. E, in virtù di questo rapporto, in ogni istante le avventure del protagonista di Joyce non sono sdoppiate e sovrapposte a quelle di Ulisse, sono al contrario scavate da questa presenza-assenza dell’eroe dell’Odissea, che è il detentore, ma il detentore assolutamente lontano e mai accessibile, della letteratura. Per riassumere tutto questo, si potrebbe forse dire che l’opera di linguaggio, nell’epoca classica, non era veramente letteratura. Perché non si può dire che Jacques le Fataliste o i libri di Cervantes, Racine, Corneille o Euripide sono letteratura solo per noi, e solo nella misura in cui li integriamo al nostro linguaggio? Perché il rapporto di Diderot con il suo linguaggio non era questo rapporto letterario di cui vi ho parlato poco fa? Mi sembra che si possa dire questo: nell’epoca classica, in ogni caso alla fine del XVIII secolo, ogni opera di linguaggio esisteva in funzione di un certo linguaggio muto e primitivo che l’opera era incaricata di restituire. Questo linguaggio muto era, in qualche modo, lo sfondo iniziale e assoluto sul quale tutta l’opera si dispiegava e all’interno del quale si collocava. Esso, linguaggio anteriore ai linguaggi, era la parola di Dio, era la verità, era il modello, erano i classici, era la bibbia, era il linguaggio che donava alla stessa parola biblica il suo senso assoluto, vale a dire il suo senso comune. C’era quindi una specie di libro preliminare, che era la verità, la natura, la parola di Dio, che allo stesso tempo nascondeva in sé e pronunciava tutta la verità. E questo linguaggio sovrano e trattenuto era tale che, da una


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parte, ogni altro linguaggio – ogni linguaggio umano –, se voleva essere un’opera, doveva semplicemente tradurlo, rintracciarlo, ripeterlo, restituirlo; dall’altra parte, questo linguaggio di Dio, o della natura, o della verità, era nascosto: era il fondamento di ogni svelamento e al contempo, non potendo essere trascritto direttamente, era esso stesso celato. Di qui, la necessità di quegli slittamenti, di quelle torsioni di parole, di tutto quel sistema che si chiama precisamente la retorica. Dopotutto, le metafore, le metonimie, le sineddoche, ecc., che cos’erano se non lo sforzo di ritrovare, con parole umane – che sono oscure e nascoste a loro stesse –, attraverso un gioco di aperture e mediante percorsi tortuosi, questo linguaggio muto che l’opera aveva il senso e il compito di restituire e restaurare? In altre parole, tra un linguaggio loquace che non affermava niente, e un linguaggio assoluto che diceva tutto ma non rivelava nulla, occorreva un linguaggio intermedio che riconducesse il linguaggio loquace al linguaggio muto della natura e di Dio. E questo linguaggio era precisamente la letteratura. Se, con Berkeley e con i filosofi del XVIII secolo, chiamiamo segni quelli che venivano indicati dalla natura o da Dio, si può dire, molto semplicemente, che l’opera classica era caratterizzata dal dover ricondurre lo spessore, l’opacità, l’oscurità del linguaggio, alla trasparenza e alla luminosità stessa dei segni, mediante un gioco di figure che erano le figure della retorica. Al contrario, la letteratura, per il mondo occidentale, o almeno per una parte del mondo occidentale, è cominciata quando si è ammutolito questo linguaggio che non aveva smesso di essere ascoltato, di essere percepito, di essere supposto per oltre due millenni. A partire dal XIX secolo, infatti, si smette di ascoltare questa parola prima, e al suo posto si fa intendere l’addensamento e l’infinito mormorio delle parole già dette. In queste condizioni, l’opera non potrà più prendere corpo nelle figure della retorica, che valgono come segni di un linguaggio muto e assoluto; essa parlerà attraverso un linguaggio che ripete e che al tempo stesso cancella, con la forza della sua ripetizione, tutto quello che è stato detto, avvicinandolo il più possibile a sé, al fine di riafferrare l’essenza della letteratura. Si può dire, se volete, che la letteratura sia cominciata il giorno in cui è subentrato, al posto della retorica, qualcosa che si potrebbe chiamare il volume del libro. D’altra parte, è molto curioso constatare che il libro è divenuto molto tardi un evento nell’essere della letteratura. Esso, infatti, ha ottenuto cittadinanza nella letteratura quattro secoli dopo essere stato realmente, ma-


44 Michel Foucault terialmente inventato. E il libro di Mallarmé, progetto fondamentalmente naufragato, progetto che non poteva non naufragare, è il primo libro della letteratura; si può dire che sia l’incidenza del successo di Gutenberg sulla letteratura. Infatti, il libro di Mallarmé, che vuole al tempo stesso ripetere e annientare tutti gli altri libri, che vuole sfiorare nel suo biancore l’essere definitivamente sfuggito della letteratura, risponde al grande libro muto, ma pieno di segni, che l’opera classica tentava di ricopiare e di rappresentare. Il libro di Mallarmé risponde a questo grande libro, ma al tempo stesso lo sostituisce: è la constatazione della sua scomparsa. Ora si capisce perché il fascino, e non solo il fascino, ma anche l’essenza dell’opera classica, non fosse altro che rappresentazione (re-présentation). Essa doveva rappresentare (re-présenter) un linguaggio che già esisteva, ed è per questo che l’essenza stessa dell’opera classica, che sia in Shakespeare o in Racine, si trova sempre nel teatro, là dove si è nel mondo della rappresentazione. Al contrario, l’essenza della letteratura, nel senso stretto del termine, si trova, a partire dal XIX secolo, non più nel teatro, ma precisamente nel libro. È infatti in questo libro che uccide tutti gli altri e che, allo stesso tempo, assume su di sé il progetto sempre deluso di fare letteratura, che la letteratura trova e fonda il proprio essere. Anche se il libro esisteva, e con una realtà molto densa, secoli prima dell’invenzione della letteratura, non era il luogo della letteratura, ma un’occasione materiale di trasmettere il linguaggio. Prova ne sia che Jacques le Fataliste scappava, o cercava di scappare senza sosta dalla tentazione dei libri d’avventura, attraverso quei balzi all’indietro di cui abbiamo parlato; analogo è il caso del Don Chisciotte di Cervantes. Ma se la letteratura realizza il proprio essere nel libro, pur non realizzando l’essenza del libro – il libro, d’altronde, non ha un’essenza al di là di quello che contiene –, è perché la letteratura sarà sempre il simulacro del libro: si comporta come se fosse un libro, finge di essere una serie di libri. Inoltre, se la letteratura realizza il proprio essere nel libro, pur non accogliendo l’essenza del libro, è perché non può compiersi se non attraverso l’aggressione e la violenza contro tutti gli altri libri: attraverso l’aggressione e la violenza contro l’essenza plastica, derisoria, femminile del libro. La letteratura è trasgressione, la letteratura è la virilità del linguaggio contro la femminilità del libro. Ma che cosa può essere, in fondo, la letteratura se non un libro tra tutti gli altri, un libro con tutti gli altri, nello spazio lineare della biblioteca? Che cosa può essere la letteratura se non, precisamente,


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una fragile esistenza postuma del linguaggio? Ora che tutto il suo essere è nel libro, la letteratura, fatalmente, non può essere altro che uno spettro. Così, nello spessore aperto e chiuso del libro, nei fogli che sono al tempo stesso bianchi e coperti di segni, in questo volume unico – perché ogni libro è unico, ma simile a tutti, perché tutti i libri si somigliano –, quello che si raccoglie è qualcosa come l’essere stesso della letteratura. Letteratura che non bisogna intendere né come linguaggio dell’uomo, né come parola di Dio, né come linguaggio della natura, né come linguaggio del cuore o del silenzio. La letteratura è un linguaggio trasgressivo, è un linguaggio mortale, ripetitivo, doppio; è il linguaggio del libro stesso. Nella letteratura non c’è che un soggetto che parla ed è il libro, questo oggetto che Cervantes avrebbe voluto bruciare, dal quale Diderot, in Jacques le Fataliste, avrebbe voluto scappare, all’interno del quale Sade è stato rinchiuso, e nel quale noi, oggi, siamo ancora rinchiusi.

Seconda sessione

Ieri ho provato a dirvi qualcosa sulla letteratura, su questo essere di ne-

gazione e di simulacro che prende corpo nei libri. Questa sera vorrei fare un passo indietro e tentare di aggirare un po’ le cose che io stesso vi ho detto. Dopo tutto, è veramente così chiaro, così evidente, così immediato che si possa parlare di letteratura? Cosa si ha come fondamento e come orizzonte quando se ne parla? Niente di più, probabilmente, che il vuoto da essa lasciato attorno a sé. Un vuoto che autorizza a pensare una cosa strana, forse unica, e cioè che la letteratura sia un linguaggio che parla di sé all’infinito. Ma che cos’è questa duplicazione incessante della letteratura attraverso il linguaggio sulla letteratura? Che cos’è questo linguaggio letterario che autorizza all’infinito le esegesi, i commentari, i raddoppiamenti? Credo che questo problema non sia chiaro. Non è chiaro in sé, e mi sembra che oggi lo sia ancor meno. Non è chiaro oggi, e meno che mai, per un certo numero di ragioni. La prima è che si è prodotto di recente un cambiamento in ciò che possiamo chiamare critica. Si potrebbe dire che mai lo strato del linguaggio


46 Michel Foucault critico è stato più denso di oggi, mai si è così spesso utilizzato il linguaggio secondo della critica, e mai – reciprocamente – il linguaggio assolutamente primo, il linguaggio che non parla che di se stesso e a nome proprio, è stato proporzionalmente più esile di quanto non lo sia oggi. Ora, questo ispessimento, questa moltiplicazione di atti critici, si accompagna a un fenomeno quasi contrario, che credo sia il seguente: la figura del critico, dell’homo criticus, che è stata inventata intorno al XIX secolo tra La Harpe e Sainte-Beuve, va scomparendo nel momento stesso in cui si moltiplicano gli atti della critica. Gli atti critici, infatti, proliferando e disperdendosi, si sparpagliano e vanno a collocarsi non più nei testi predisposti alla critica, ma nei romanzi, nei poemi, eventualmente nelle riflessioni dei filosofi. I veri atti della critica bisogna cercarli, oggi, nei poemi di Char, nei frammenti di Blanchot o nei testi di Ponge, molto più che in questa o quella parte di linguaggio che sarebbe destinata esplicitamente, e grazie al nome del proprio autore, ad essere un atto di critica. Si potrebbe dire che la critica diventa una funzione generale del linguaggio in generale, senza una propria struttura e senza un proprio contenuto. Attualmente, e questa è la terza ragione che rende difficile comprendere cosa sia oggi la critica letteraria, appare un nuovo fenomeno: si sta stabilendo, da linguaggio a linguaggio, un rapporto che non è più esattamente un rapporto critico o che, in ogni caso, non è più conforme all’idea che ci si faceva tradizionalmente della critica come istituzione giudicante, gerarchizzante, come istituzione mediatrice tra un linguaggio creatore, un autore creatore e un pubblico consumatore. Oggi, infatti, si sta configurando un rapporto molto differente tra un linguaggio che si può chiamare primo, e che noi chiamiamo più semplicemente letteratura, e questo linguaggio secondo che parla della letteratura e che si chiama, di solito, critica. In effetti, la critica, per stabilire la relazione con la letteratura, si muove attualmente in due direzioni nuove. Da una parte, mi sembra che la critica miri a fissare, riguardo alla letteratura e al linguaggio primo, una sorta di rete oggettiva, discorsiva, dimostrabile, giustificabile in ognuno dei suoi punti; essa, cioè, mira a un rapporto dove ciò che è importante, ciò che è costitutivo, non è il gusto del critico, un gusto più o meno segreto, o più o meno evidente; infatti, ciò che è essenziale, in questo rapporto, è un metodo di analisi necessariamente esplicito che può essere un metodo psicoanalitico, linguistico, tematico, formale, o come volete. La critica, dunque, si sta ponendo il problema del suo fondamento, nell’ordine della positività o della scienza.


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Dall’altra parte, la critica gioca un ruolo completamente nuovo rispetto a quello di una volta, che era il ruolo di intermediario tra scrittura e lettura. All’epoca di Sainte-Beuve, dopo tutto, che cosa significava fare critica? Significava fare una specie di lettura privilegiata, prima, una lettura più aurorale di tutte le altre, che permetteva di rendere la scrittura dell’autore – necessariamente un po’ opaca, oscura o esoterica – accessibile a questi lettori di seconda fascia, che saremmo tutti noi, che hanno bisogno di passare attraverso la critica per comprendere quello che leggono. In altri termini, la critica era la forma privilegiata, assoluta e prima della lettura. Ora, mi sembra che quello che c’è di importante, oggi, nella critica, sia che essa sta passando dalla parte della scrittura. E questo in due modi. Innanzitutto, perché la critica si interessa sempre più non al momento psicologico della creazione dell’opera, ma alla scrittura, allo spessore stesso della scrittura degli scrittori, che ha le sue forme e le sue configurazioni. Poi, perché la critica, che ha smesso di voler essere una lettura migliore e più aurorale o meglio equipaggiata, sta diventando anch’essa un atto di scrittura. Una scrittura probabilmente seconda in rapporto a un’altra, ma una scrittura che forma con tutte le altre un groviglio, una rete, un intrigo di punti e di linee. Questi punti e queste linee della scrittura in generale si incrociano, si ripetono, si ricoprono, slittano, per formare, finalmente, in una neutralità assoluta, quella che si può chiamare la totalità della critica e della letteratura, cioè l’attuale geroglifico fluttuante della scrittura in generale. Vedete in quale ambiguità ci troviamo quando si tratta di provare a pensare cosa sia questo linguaggio secondo, che viene ad aggiungersi al linguaggio primo della letteratura, e che pretende di tenere su questo primo linguaggio un discorso assolutamente positivo, esplicito, interamente discorsivo e dimostrabile, e che allo stesso tempo prova ad essere un atto di scrittura come la letteratura. Come arrivare a pensare questo paradosso, come la critica possa arrivare ad essere un linguaggio secondo e, nello stesso tempo, un linguaggio primo, è quello che vorrei provare a chiarire con voi, per sapere, infine, che cos’è la critica. Sapete che, piuttosto recentemente, forse una dozzina di anni fa, non di più, per provare a spiegare che cos’è la critica, un linguista, Jakobson, ha introdotto una nozione presa in prestito dai logici, la nozione di meta-


48 Michel Foucault linguaggio16. E ha suggerito che, dopo tutto, la critica è un metalinguaggio come la grammatica, la retorica e più in generale la linguistica. Si tratta evidentemente di una nozione molto seducente, che, in prima battuta, ha l’aria di essere perfettamente calzante, poiché la nozione di metalinguaggio ci mette in presenza di due qualità che sono in fondo essenziali per definire la critica. La prima è la possibilità di definire le proprietà, le forme, i codici, le leggi di un linguaggio dato attraverso un altro linguaggio; e la seconda qualità del metalinguaggio è che il linguaggio secondo, attraverso il quale si possono definire le forme, le leggi e i codici del primo linguaggio, non è necessariamente e sostanzialmente differente dal linguaggio primo, perché, dopo tutto, si può fare il metalinguaggio del francese in francese, lo si può fare sicuramente in tedesco, in inglese – non importa in quale lingua –, come lo si può fare in un linguaggio simbolico inventato a tale scopo; ma si può anche fare il metalinguaggio del francese in francese, dell’inglese in inglese, e così via. Di conseguenza, in questa possibilità di arretramento assoluto in rapporto al linguaggio primo, si ha l’opportunità di tenere su di esso un discorso puramente logico, e di essere comunque sul suo stesso piano. Tuttavia, in fin dei conti, non sono sicuro che questa nozione di metalinguaggio, che ha l’aria di definire almeno astrattamente il luogo logico in cui la critica potrebbe collocarsi, debba essere utilizzata per definire che cos’è la critica. In effetti, per spiegare questa mia reticenza rispetto alla nozione di metalinguaggio, bisognerebbe forse ritornare un attimo su quello che dicevamo ieri a proposito della letteratura. Vi ricorderete che il libro ci era apparso come il luogo della letteratura, cioè come lo spazio in cui l’opera si dà il simulacro della letteratura, in un certo gioco di specchi e di irrealtà, all’interno del quale il problema è, al tempo stesso, quello della trasgressione e quello della morte. Se provassimo ad esprimere la stessa cosa, ma nel vocabolario degli specialisti del linguaggio, forse si potrebbe dire che la letteratura è di certo uno degli innumerevoli fenomeni di parola effettivamente pronunciati dagli uomini, e che essa, come tutti i fenomeni di parola, non è possibile se non nella misura in cui queste parole sono integrate in una lingua, nell’oR. Jakobson, Linguistics and Poetics, in T.A. Sebeok (a cura di), Style in Language, Technology Press/Wiley, New York–London 1960, pp. 350-377; trad. it. Linguistica e poetica, in R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 181-208. 16


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rizzonte generale che costituisce il codice di una lingua data. Dunque, la letteratura come atto di parola non è possibile se non in rapporto a questa lingua, a queste strutture codificate che rendono trasparente ogni parola della lingua effettivamente pronunciata, consentendole di essere compresa. Se le frasi hanno un senso è perché ogni fenomeno di parola si trova collocato nell’orizzonte virtuale, ma assolutamente costrittivo, della lingua. Tutte queste sono nozioni, beninteso, molto conosciute. Ma potremmo dire che la letteratura è un fenomeno di parola estremamente singolare, che si distingue probabilmente da tutti gli altri fenomeni di parola? In effetti, la letteratura è una parola che obbedisce al codice nel quale è collocata ma, nel momento stesso in cui ha inizio e in ciascuna delle parole che pronuncia, compromette il codice nel quale si trova situata e compresa. Ogni volta che qualcuno prende la penna per scrivere qualcosa, c’è letteratura solo nella misura in cui l’obbligo del codice si trova sospeso nel gesto stesso della scrittura, in modo tale che, al limite, questa parola può non obbedire al codice della lingua. Se però ogni parola scritta da un autore davvero non obbedisse al codice della lingua, non potrebbe assolutamente essere compresa: sarebbe una parola di follia17 – ed è forse qui che risiede la ragione dell’appartenenza essenziale della letteratura e della follia, oggi. Ma questa è un’altra questione. Quindi, possiamo dire semplicemente che la letteratura è il rischio, sempre preso e sempre assunto da ogni parola di una frase di letteratura, che la singola parola o la singola frase, e poi tutto il resto, possano non obbedire al codice. Le due frasi: “A lungo, mi sono coricato di buonora”, e “A lungo, mi sono coricato di buonora” – la prima è quella che dico, la seconda è quella che leggo in Proust – sono esattamente identiche dal punto di vista verbale, ma sono, in realtà, profondamente differenti. Infatti, dal momento in cui la frase è stata scritta da Proust all’inizio di Alla ricerca del tempo perduto, è possibile che nessuna di queste parole abbia esattamente il senso che diamo loro quando le pronunciamo quotidianamente; è Molteplici sono i riferimenti al rapporto tra letteratura e follia in opere come Storia della follia, Raymond Roussel, Le parole e le cose e L’ordine del discorso. Cfr. M. Foucault, Storia della follia, cit.; Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1963; trad. it. Raymond Roussel, Cappelli, Bologna 1978; Le parole e le cose, cit.; L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 2004. Su tale argomento, non mancano poi interessanti passaggi anche in alcuni saggi critici degli anni sessanta. Cfr. M. Foucault, La folie, l’absence d’œuvre, in «La table ronde», n. 196 (1964), pp. 11-21; trad. it. La follia, l’opera assente, in M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 101-110. 17


50 Michel Foucault anche possibile che la parola abbia sospeso il codice dal quale era stata presa in prestito e che ognuna di queste parole non abbia esattamente il senso che pensiamo. C’è, se volete, un rischio sempre essenziale, fondamentale, sempre incancellabile nella letteratura: il rischio dell’esoterismo strutturale18. Potrebbe darsi benissimo che il codice non sia rispettato; in ogni caso, la parola letteraria ha sempre il diritto sovrano di sospendere questo codice, ed è la presenza di questa sovranità, anche se non è esercitata, che costituisce probabilmente il pericolo e la grandezza di ogni opera letteraria. In questo senso, non mi sembra che il metalinguaggio possa essere realmente applicato come metodo per la critica letteraria, né che esso possa proporsi come orizzonte logico nel quale collocare la critica. Perché il metalinguaggio implica precisamente che si faccia la teoria di ogni parola effettivamente pronunciata, a partire dal codice stabilito per la lingua. Ma se il codice si trova compromesso dalla parola, se il codice può addirittura non valere in modo assoluto, allora non è possibile fare il metalinguaggio di una simile parola, si è obbligati a ricorrere a qualcos’altro. Quindi, a cosa ricorrere per definire la letteratura, se non si fa uso della nozione di metalinguaggio? Forse bisognerebbe essere più modesti, e invece di suggerire senza alcuna prudenza questa parola – metalinguaggio – interamente attraversata dalla logica, si potrebbe molto semplicemente partire da un’evidenza quasi impercettibile, ma decisiva: il linguaggio è forse il solo essere assolutamente ripetibile che esista al mondo. Sicuramente ci sono altri esseri, al mondo, che sono ripetibili: si trova due volte lo stesso animale, si trova due volte la stessa pianta; ma, nell’ordine della natura, la ripetizione non è che un’identità parziale e d’altronde perfettamente analizzabile in modo discorsivo. Credo non ci sia ripetizione, in senso stretto, se non nell’ordine del linguaggio. Probabilmente, un giorno, bisognerà fare l’analisi di tutte le forme possibili di ripetizione che ci sono nel linguaggio; ed è forse nell’analisi di queste forme di ripetizione che si potrà tentare di abbozzare qualcosa come un’ontologia del linguaggio. La nozione di “esoterismo strutturale” viene utilizzata da Foucault per connotare la scrittura letteraria in quanto movimento che, analogamente a come fa la parola della follia, è capace di scavare all’interno del proprio linguaggio quella cavità in cui l’opera si dona, rendendosi autonoma dal codice di appartenenza. Su questa familiarità di letteratura e follia, oltre ai testi già citati, si veda anche M. Foucault, Kyôki, bungaku, shakai, in «Bungei», n. 12 (1970), pp. 266-285; trad. it. Follia, letteratura, società, in M. Foucault, Archivio Foucault 1. Follia, scrittura, discorso, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 262-285. 18


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Diciamo, in modo molto semplice, che il linguaggio non smette di ripetersi. Questo lo sanno bene i linguisti, che hanno mostrato quanti pochi fonemi sia necessario conoscere per costituire il vocabolario totale di una lingua. Gli stessi linguisti, come gli autori dei dizionari, sanno anche quante poche parole occorrano per arrivare a costituire tutti gli enunciati possibili, infiniti, quantità necessariamente aperta, che sono gli enunciati che pronunciamo tutti i giorni. Non smettiamo di utilizzare una certa struttura di ripetizione, ripetizione fonetica, ripetizione semantica delle parole; e poi si sa che il linguaggio può ripetersi, può ripetersi nella voce vicina e nel momento immediatamente successivo all’esposizione. Si può dire la stessa frase, si può dire la stessa cosa con altre parole, ed è precisamente in questo che consiste l’esegesi, il commento, ecc.; si può anche ripetere un linguaggio nella sua forma, sospendendone interamente il senso, ed è quello che fanno i teorici del linguaggio quando ripetono una lingua nella sua struttura grammaticale e nella sua struttura morfologica. Vedete in quali e quanti modi il linguaggio sia il solo luogo dell’essere nel quale qualcosa come la ripetizione sia assolutamente possibile. Ora, questo fenomeno della ripetizione è sicuramente una proprietà costitutiva del linguaggio, che però non resta neutra o inerte rispetto all’atto di scrittura. Scrivere non è aggirare la ripetizione necessaria del linguaggio; scrivere, in senso letterario, è mettere la ripetizione nel cuore stesso dell’opera; e forse bisognerebbe dire che la letteratura occidentale – perché non conosco le altre e non so cosa se ne possa dire – è necessariamente cominciata al fianco di Omero, che ha utilizzato una sorprendente struttura di ripetizione nell’Odissea. Vi ricorderete del canto ottavo dell’Odissea, e in particolare del momento in cui Ulisse, arrivato dai Feaci, non si è ancora fatto riconoscere. Ulisse è invitato al banchetto dei Feaci, nessuno lo ha riconosciuto, ma la forza nei suoi occhi e il trionfo sui suoi avversari, pur non tradendo la sua vera identità, hanno mostrato che è un eroe. Egli è dunque là e nascosto. E, nel mezzo del banchetto, un aedo arriva e comincia a cantare. Comincia a cantare le avventure di Ulisse, comincia a cantare le prodezze di Ulisse: avventure e prodezze che, dal momento che Ulisse è là, si stanno compiendo sotto gli occhi stessi dell’aedo. Queste prodezze, ancora lungi dall’essere terminate, contengono il proprio racconto come uno dei propri episodi, poiché appartiene alle avventure di Ulisse che, a un certo punto, egli senta un aedo cantare le avventure di Ulisse. E così, l’Odissea si ripete


52 Michel Foucault all’interno di se stessa, possiede una specie di specchio centrale, nel cuore del proprio linguaggio, tanto che il testo di Omero ruota su se stesso, si avviluppa e si sviluppa intorno al proprio centro, raddoppiandosi secondo un movimento che gli è essenziale. Questa struttura, che del resto si incontra molto spesso, mi sembra si ritrovi anche ne Le Mille e una notte. Sapete, infatti, che c’è un racconto de Le mille e una notte dedicato alla storia di Shèhèrazade che narra le mille e una notte a un sultano per sfuggire alla morte19. E così si ha questa struttura di ripetizione che, probabilmente, è costitutiva dell’essere stesso della letteratura, se non in generale, almeno della letteratura occidentale. C’è però una distinzione molto importante da fare tra questa struttura di ripetizione e la struttura di ripetizione interna che troviamo nella letteratura moderna. Abbiamo visto che, nell’Odissea, il canto infinito dell’aedo inseguiva Ulisse cercando di afferrarlo e, allo stesso tempo, abbiamo visto che il canto dell’aedo, che era sempre già cominciato, gli andava incontro: lo accoglieva nella sua leggenda e lo faceva parlare nel momento stesso in cui taceva, lo svelava quando si nascondeva. Nella letteratura moderna, invece, l’auto-referenza della letteratura è probabilmente molto più silenziosa rispetto a questa lunga articolazione raccontata da Omero. È probabile che la letteratura moderna ripeta se stessa nello spessore del suo linguaggio, mediante quel gioco di parole e di codici di cui vi ho parlato un momento fa. In ogni caso, vorrei chiudere queste considerazioni sul metalinguaggio e le strutture della ripetizione suggerendovi di pensare che la critica possa essere definita, in un modo molto ingenuo, non come un metalinguaggio, ma come la ripetizione di ciò che vi è di ripetibile nel linguaggio. Da questo In Le langage à l’infini, Foucault fa esplicito riferimento a tale racconto che, come noto, è l’introduzione alla raccolta di fiabe. In quest’episodio iniziale, egli rintraccia il fulcro della struttura a specchio che caratterizza l’opera letteraria. Ne Le mille e una notte, scrive Foucault, «un episodio raccontato da Shèhèrazade racconta come Shèhèrazade è stata obbligata durante Mille e una notte ecc. La struttura a specchio è qui esplicitamente data: proprio al centro di se stessa l’opera innalza una specchiera (spazio fittizio, anima reale) dove ella appare come in miniatura e si precede da se stessa dal momento che è proprio lei che si racconta in mezzo a tante altre meraviglie passate, in mezzo a tante altre notti. E in questa notte privilegiata, così simile alle altre, si apre uno spazio simile a quello in cui essa dà luogo soltanto ad uno strappo infimo, che rivela nello stesso cielo le stesse stelle»; M. Foucault, Il linguaggio all’infinito, cit., p. 77. Cfr. Introduzione, in Le mille e una notte, Newton Compton, Roma 2009, pp. 13-26. 19


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punto di vista, la critica letteraria non farebbe che inscriversi nella grande tradizione esegetica che è cominciata, almeno per il mondo greco, dai primi grammatici che hanno commentato Omero. Si potrebbe anche dire, in via approssimativa, che la critica è puramente e semplicemente il discorso dei doppi, vale a dire l’analisi delle distanze e delle differenze nelle quali si distribuiscono le identità del linguaggio. Assumendo questa posizione, comparirebbero tre forme possibili di critica. La prima sarebbe la scienza, o la conoscenza, o il repertorio di tutte le figure attraverso le quali gli elementi identici del linguaggio sono ripetuti, variati, combinati – come si variano, si combinano o si ripetono gli elementi fonetici, gli elementi semantici, gli elementi sintattici. In breve, la critica intesa come scienza delle ripetizioni formali del linguaggio ha un nome, ed è esistita per lungo tempo: è la retorica. C’è poi un’altra scienza dei doppi: è l’analisi delle identità, o delle modificazioni, o delle mutazioni di senso, attraverso la diversità dei linguaggi – è lo studio di come si può ripetere un senso con parole differenti. Questo è pressappoco quello che ha fatto la critica “classica”, da SainteBeuve fino ai nostri giorni, tentando di ritrovare l’identità di un significato psicologico, storico, o di una tematica qualsiasi, attraverso la pluralità di un’opera. Ecco ciò che si chiama tradizionalmente “la critica”. Mi domando allora se non potrebbe esserci posto, e se non ci sia già un posto, per una terza forma di critica, che sarebbe la decifrazione dell’auto-referenza e dell’implicazione dell’opera in quella spessa struttura di ripetizione di cui vi ho parlato poco fa a proposito di Omero; e se non potrebbe esserci posto per l’analisi della curva mediante la quale l’opera si designa sempre all’interno di se stessa e si dà come ripetizione del linguaggio attraverso il linguaggio. Mi sembra che sia proprio l’analisi dell’implicazione dell’opera stessa, l’analisi di questi segni attraverso i quali l’opera non smette di designarsi al proprio interno, a dare significato a queste imprese diverse e polimorfe che si chiamano, oggi, analisi letteraria. E vorrei mostrarvi come questa nozione di analisi letteraria, che è utilizzata e applicata da persone diverse – Barthes, Starobinski, ecc. –, possa fondare, aprire e risolversi in una riflessione quasi filosofica, giacché non pretendo di fare vera filosofia più di quanto non pretendessi, ieri, di fare vera letteratura. Sarò nel simulacro della filosofia come ieri la letteratura era nel simulacro della letteratura. Dunque, vorrei sapere se non è verso un simulacro della filosofia che queste analisi letterarie potrebbero condurci.


54 Michel Foucault Mi sembra che i tentativi di analisi letteraria che sono stati fatti finora si potrebbero accorpare e collocare su due grandi direzioni differenti. Gli uni riguardano i segni attraverso i quali le opere si designano all’interno di se stesse, gli altri, invece, riguardano il modo in cui si spazializza la distanza che le opere prendono all’interno di se stesse20. Innanzitutto, vi parlerò, a titolo puramente programmatico, delle analisi che sono state fatte e che si possono probabilmente fare per mostrare come le opere letterarie non smettano mai di designarsi al loro interno. Sapete che è una conquista paradossalmente recente quella di pensare l’opera letteraria non come formata da idee, bellezza o sentimenti, ma semplicemente dal linguaggio. Dunque, a partire da un sistema di segni. Ma questo sistema di segni non è isolato, fa parte di tutta una rete di altri segni – i segni che circolano in una data società –, segni che non sono linguistici, ma che possono essere economici, monetari, religiosi, sociali, ecc. Qualsiasi momento della storia di una cultura si scelga di studiare, c’è sempre uno stato generale di segni in generale; ciò significa che bisognerebbe stabilire quali sono gli elementi che fanno da supporto ai valori significanti, e a quali regole obbediscono questi stessi elementi significanti nella loro circolazione. Poiché l’opera letteraria è una manipolazione concordata di segni verbali, si può essere sicuri che l’opera letteraria fa parte, come regione, di una rete orizzontale, muta o loquace poco importa, ma sempre scintillante, che nella storia di una cultura forma, in ogni momento, quello che si può chiamare lo stato dei segni. Di conseguenza, per capire come la letteratura si manifesta, bisognerebbe sapere come essa si dà significato, come È molto difficile stabilire con esattezza i percorsi che Foucault tenta di tracciare ponendo al centro della critica la spazialità del linguaggio e dell’opera. Prova ne sia che, in queste conferenze, come d’altra parte negli scritti degli anni sessanta, egli non riesce ad andare oltre l’indicazione programmatica. È poi ben noto che, a partire dagli anni settanta, Foucault si occuperà di altro. Non è quindi azzardato concludere che la ricerca di nuovi percorsi interpretativi costituisce di fatto un lavoro incompiuto, solo parzialmente abbozzato. Anche durante queste conferenze, Foucault si accontenta di delineare alcuni itinerari, insistendo non su due, ma su tre possibili modi di analizzare la spazialità di un’opera. A suo avviso, sarebbe necessario studiare: 1) lo spazio culturale all’interno del quale la letteratura si colloca, acquisendo un valore specifico; 2) lo spazio dell’auto-implicazione, che rinvia alla capacità dell’opera di donare significato al proprio linguaggio; 3) lo spazio che, aprendosi tra linguaggio e testo, permette all’opera di auto-rappresentarsi nella sua peculiare tessitura narrativa. È evidente che, nell’ottica foucaultiana, i tre momenti si sovrappongono e, sicuramente nei primi due casi, rinviano a una prospettiva semiologica. 20


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è significata e dove si situa nel mondo dei segni di una società, cosa che praticamente non è mai stata fatta per le società contemporanee, cosa che bisognerà fare prendendo forse come modello un lavoro che si occupa di culture molto più arcaiche delle nostre – penso agli studi sulle società indo-europee condotti da Georges Dumézil21. Egli ha mostrato come le leggende irlandesi, o le saghe scandinave, o i racconti storici dei romani così come sono riportati da Tito Livio, o le leggende armene, come tutto questo insieme, che si può chiamare “opere di linguaggio” – se si vuole evitare la parola letteratura –, quindi come tutte queste opere di linguaggio facciano parte in realtà di una struttura di segni molto più generale; e come non si possa comprendere cosa siano realmente queste leggende, se non a condizione di ristabilire l’omogeneità di struttura che c’è tra questi racconti e, per esempio, questo o quel rituale religioso o sociale che si trova nella società iraniana, o in un’altra società indo-europea. A partire da questi studi, si scopre che la letteratura, in quelle società, funzionava come un segno essenzialmente sociale e religioso, e che essa esisteva, ed era al tempo stesso creata e consumata, solo nella misura in cui assumeva a sua volta la funzione significante di un rituale sociale o di un rituale religioso. Ai nostri giorni, è probabile – bisognerebbe però stabilire l’attuale stato dei segni nella nostra società – che la letteratura non si situi accanto ai segni religiosi, ma forse più vicino ai segni del consumo e dell’economia. Ma, in fondo, non ne sappiamo nulla, mentre bisognerebbe ricostruire proprio questo primo strato semiologico che fissa la regione significante occupata dalla letteratura. In rapporto a questo primo strato semiologico, si può dire che la letteratura è inerte; essa funziona, certo, ma questa rete nella quale funziona non le appartiene, ed essa non la domina. Bisognerebbe di conseguenza spingere questa analisi semiologica, o piuttosto svilupparla, verso un altro strato, interno all’opera; bisognerebbe cioè stabilire qual è il sistema dei segni che funziona non più in una cultura data, ma all’interno di un’oDumézil, filologo, storico delle religioni e linguista, si è occupato in termini comparatavi delle civiltà indoeuropee fin dagli anni trenta e ha avuto il grande merito di ricostruirne «la struttura sociale e religiosa […] partendo da analisi filologiche». Cfr. M. Foucault, Linguistique et sciences sociales, in «Revue tunisienne de sciences sociales», n. 19 (1969), pp. 248-255; trad. it. Linguistica e scienze sociali, in M. Foucault, Archivio Foucault 1, cit., p. 234. Mythe et épopée costituisce la sintesi dei primi trent’anni di lavoro di Dumézil. Cfr. G. Dumézil, Mythe et épopée, Gallimard, Paris 1968; trad. it. Mito e epopea, Einaudi, Torino 1982. 21


56 Michel Foucault pera. Da questo punto di vista, però, non siamo che agli inizi. Saussure ha lasciato un cero numero di quaderni nei quali ha cercato di definire esattamente l’uso della struttura dei segni fonetici o semantici nella letteratura latina (questi testi sono ora pubblicati da Starobinski nel Mercure de France22). Vi si accenna a un’analisi in cui la letteratura apparirebbe essenzialmente come una combinazione di segni verbali. C’è un certo numero di autori per i quali simili analisi sono facili, penso a Charles Péguy, a Raymond Roussel e ai Surrealisti. Ora, è proprio l’analisi dei segni verbali in quanto tali che costituirebbe un secondo strato di analisi semiologica possibile, strato che sarebbe quello non più della semiologia culturale, ma della semiologia linguistica, che definisce le scelte che possono essere fatte, le strutture alle quali tali scelte sono sottomesse, perché sono state fatte, il grado di libertà che è dato in ogni punto del sistema e che giustifica la struttura interna dell’opera. C’è probabilmente un terzo strato di segni, una terza rete di segni utilizzati dalla letteratura per darsi significato: sono i segni che Barthes chiama scrittura. Vale a dire i segni attraverso i quali l’atto di scrivere si ritualizza fuori dal dominio della comunicazione immediata. Scrivere, oggi lo sappiamo, non è semplicemente utilizzare le formule di un’epoca mischiandoci qualche formula individuale; scrivere non è mischiare una certa dose di talento, di mediocrità e di genio; scrivere implica utilizzare segni che non sono altro che segni di scrittura. Questi segni di scrittura sono forse certe parole dette nobili, ma sono soprattutto certe strutture linguistiche profonde, come in francese, per esempio, i tempi verbali. Sapete che la scrittura di Flaubert – e lo si può dire d’altronde di tutti i racconti classici francesi, da Balzac fino a Proust – consiste essenzialmente in una certa configurazione, in un certo rapporto dell’imperfetto, del passato remoto, del passato prossimo, del piuccheperfetto; costellazione che non si ritrova mai con gli stessi valori nel linguaggio realmente utilizzato da voi e da me, o nei giornali. Questa configurazione dei quattro tempi, nel racconto francese classico, è costitutiva del suo essere precisamente un racconto letterario. Infine, bisognerebbe fare posto a un quarto strato semiologico, molto più ristretto e discreto, che è lo studio dei segni che si potrebbero chiamare J. Starobinski, Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, in «Mercure de France», n. 350 (1964); trad. it. Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, Il Melangolo, Genova 1982. 22


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di implicazione o di auto-implicazione; sono i segni mediante i quali un’opera si designa all’interno di se stessa, e all’interno di se stessa si rappresenta (re-présente) con una certa forma e con un certo aspetto. Vi ho parlato poco fa del canto ottavo dell’Odissea, dove Ulisse ascolta l’aedo cantare le avventure di Ulisse. Ora, c’è qualcosa di molto caratteristico nel momento in cui Ulisse, che non è ancora riconosciuto dai Feaci, ascolta l’aedo cantare le sue avventure. Egli abbassa la testa, si vela il viso e si mette a piangere, dice il testo di Omero, in un gesto che è quello delle donne quando ricevono il cadavere del proprio sposo dopo la battaglia. Il segno dell’auto-implicazione della letteratura attraverso se stessa è qui molto significativo, è un rituale, è esattamente un rituale di lutto: l’opera non designa se stessa se non nella morte, e precisamente nella morte dell’eroe. Non c’è opera se non nella misura in cui l’eroe, che è vivente nell’opera, è tuttavia già morto in rapporto a questo racconto che si è fatto. Se si paragona questo segno di auto-implicazione al segno di autoimplicazione che c’è nell’opera di Proust, si vedono differenze veramente interessanti e caratteristiche. L’auto-implicazione di Alla ricerca del tempo perduto è data, infatti, nella forma dell’illuminazione eterna; è data bruscamente nel momento in cui, a proposito di un asciugamano damascato, o di una madeleine, o dell’irregolarità del selciato nella corte dei Guermantes, che ricorda l’irregolarità del selciato di Venezia, qualcosa come la presenza eterna, illuminata, assolutamente felice dell’opera si dà precisamente a colui che la sta scrivendo. Tra questa illuminazione eterna e il gesto di Ulisse, che si nasconde il viso e piange come una sposa che vede il cadavere del proprio marito morto in guerra, c’è una differenza assoluta; quindi, una semiologia dei segni dell’auto-implicazione delle opere in se stesse ci insegnerebbe certamente molte cose su che cos’è la letteratura. Ma un simile lavoro, in realtà, non è ancora mai stato affrontato, ed è solo un programma possibile. Se ho insistito su questi differenti strati semiologici, è perché attualmente c’è una certa confusione che regna a proposito dell’utilizzo dei metodi linguistici o semiologici rispetto alla letteratura. Oggi, infatti, un certo numero di persone utilizzano dappertutto i metodi della linguistica e trattano la letteratura come un semplice fatto di linguaggio. È vero che la letteratura è costituita dal linguaggio – come è vero, dopo tutto, che gli elementi architettonici sono fatti di pietre –, ma non bisogna trarne la conseguenza che sia possibile applicarle indifferentemente


58 Michel Foucault le strutture, i concetti e le leggi che valgono per il linguaggio in generale. Infatti, quando si applicano in modo ingenuo i metodi semiologici alla letteratura, si è vittime di una doppia confusione. Da una parte, si fa un uso ricorrente di una struttura significante particolare nel dominio dei segni in generale; si dimentica, cioè, che il linguaggio non è che un sistema di segni in un sistema molto più generale di segni, che sono i segni religiosi, sociali ed economici di cui vi parlavo poco fa. Poi, applicando in modo ingenuo le analisi linguistiche alla letteratura, si dimentica che la letteratura fa uso di strutture significanti molto particolari, molto più fini rispetto alle strutture del linguaggio. Infatti, i segni dell’auto-implicazione di cui vi parlavo poco fa non esistono se non nella letteratura, e sarebbe impossibile trovarne degli esempi nel linguaggio in generale. In altre parole, l’analisi della letteratura come significante e auto-significante non si dispiega nella sola dimensione del linguaggio, ma si immerge in un dominio di segni che non sono ancora segni verbali e, d’altra parte, si estende, si alza, si allunga verso altri segni, che sono molto più complessi dei segni verbali. Ciò che rende tale la letteratura, è il suo non essere affatto limitata all’uso di una sola superficie semantica, della sola superficie dei segni verbali. In realtà, la letteratura si sostiene su molti strati semantici: è, se volete, profondamente polisemantica, ma in un modo singolare, non come si dice di un messaggio che può avere molti significati e che è ambiguo. Che la letteratura sia polisemantica significa che, per dire una sola cosa o forse per non dire nulla – poiché nulla prova che la letteratura debba dire qualcosa –, essa è sempre obbligata a percorrere un certo numero di strati semiologici, almeno i quattro strati di cui vi ho parlato; e, in questi quattro strati, arriva a costituirsi come figura che ha la proprietà di auto-significarsi. Vale a dire che la letteratura non è altro che la riconfigurazione, sotto una forma verticale, di segni che, nella società e nella cultura, sono dati in strati separati. Quindi, la letteratura non si costituisce a partire dal silenzio, non è l’ineffabile di un silenzio. La letteratura non è l’effusione di quello che non si può dire e che non si dirà mai. Essa, in realtà, non esiste se non nella misura in cui non si è smesso di parlare, nella misura in cui non si smette di far circolare i segni. È perché ci sono attorno ad essa dei segni, è perché ça parle che qualcosa come la letteratura può parlare. Ecco, in una schematizzazione molto grossolana, verso quale direzione potrebbe svilupparsi un’analisi letteraria che sarebbe, nel senso stretto del termine, semiologica.


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Mi sembra che l’altra via di analisi, forse allo stesso tempo più e meno conosciuta, sia quella che riguarda non più le strutture significative e significanti dell’opera, ma la sua spazialità. Sapete che il linguaggio è stato a lungo considerato profondamente legato al tempo. Lo si è creduto per molte ragioni, ma essenzialmente perché il linguaggio è ciò che permette di raccontare e, allo stesso tempo, ciò che permette di fare promesse […]. Il linguaggio è essenzialmente ciò che “lega” il tempo. Inoltre, poiché è scrittura, il linguaggio depone il tempo in se stesso, e in quanto scrittura si mantiene nel tempo e mantiene ciò che dice nel tempo. La superficie coperta di segni non è, in fondo, che l’astuzia spaziale della durata. È dunque nel linguaggio che il tempo si manifesta a se stesso, ed è nel linguaggio che diviene cosciente di sé come storia. E si può anche dire che, da Herder a Heidegger, il linguaggio come logos ha sempre avuto l’alta funzione di sorvegliare il tempo, di vegliare sul tempo, di mantenersi nel tempo, e di mantenere il tempo sotto la sua veglia immobile. Credo che nessuno avesse mai pensato che il linguaggio non è implicato con il tempo, ma con lo spazio. Nessuno ci aveva pensato, tranne qualcuno che non amo molto, ma sono costretto a constatarlo: è Bergson che ha avuto l’intuizione che il linguaggio, dopo tutto, non ha una dimensione temporale, ma spaziale. C’è stato un solo problema: lui ne ha tratto una conseguenza negativa, dicendo che se il linguaggio è spazio, e non tempo, ebbene, peggio per il linguaggio. Infatti, poiché l’essenziale della filosofia, che è linguaggio, era pensare il tempo, Bergson ne ha dedotto, innanzitutto, che la filosofia doveva allontanarsi dalla riflessione sullo spazio e sul linguaggio, per poter pensare meglio il tempo; e poi, che era necessario creare un cortocircuito nel linguaggio per poter pensare ed esprimere il tempo; bisognava, cioè, sbarazzarsi di quello che poteva esserci di spaziale nel linguaggio. E per neutralizzare questi poteri, o questa natura, o questo destino spaziale del linguaggio, occorreva farlo giocare su se stesso, utilizzando, di fronte alle parole, altre parole – delle controparole. E nel ripiegamento, in questo contrasto, in questo intreccio delle parole le une sulle altre, dove la spazialità di ogni parola sarebbe stata uccisa, spenta, annientata, o in ogni caso limitata dalla spazialità delle altre, in questo gioco che è, nel senso stretto del termine, la metafora (di qui l’importanza delle metafore in Bergson), egli pensava che, grazie a tutto


60 Michel Foucault questo gioco del linguaggio contro se stesso, grazie al gioco della metafora che neutralizza la spazialità, qualcosa sarebbe nato o almeno accaduto: il fluire stesso del tempo. Di fatto, ciò che ora si sta scoprendo, attraverso mille percorsi quasi tutti empirici, è che il linguaggio è spazio. Ci si era dimenticati che il linguaggio è spazio semplicemente perché il linguaggio funziona nel tempo e per dire il tempo. Ma la funzione del linguaggio non è il suo essere, e se la sua funzione è temporale, il suo essere è spazio, perché ogni elemento del linguaggio non ha senso se non nella rete di una sincronia; perché il valore semantico di ogni parola e di ogni espressione è definito nel ritaglio di un quadro, di un paradigma; perché la successione stessa degli elementi, l’ordine delle parole, le inflessioni, gli accordi tra le differenti parole obbediscono, con più o meno libertà, alle esigenze simultanee, architettoniche e di conseguenza spaziali, della sintassi. Infine, l’essere del linguaggio è spazio perché, in senso generale, non c’è segno significante se non grazie a leggi di sostituzione e di combinazione di elementi, dunque grazie a una serie di operazioni definite su un insieme e, per ciò stesso, in uno spazio. Per molto tempo, credo, e fino ad oggi, si sono confuse le funzioni annunciatrici e riassuntive del segno, che sono funzioni temporali, con quello che gli permetteva di essere segno; e ciò che permette a un segno di essere tale non è il tempo, ma lo spazio. Per fare un esempio, la parola di Dio, che fa sì che i segni della fine del mondo siano effettivamente i segni della fine del mondo, non ha posto nel tempo: può manifestarsi nel tempo, ma è eterna, quindi è sincronica rispetto ad ognuno dei segni che significano qualcosa. Credo che l’analisi letteraria non avrà un senso proprio, se non a condizione di dimenticare tutti questi schemi temporali all’interno dei quali è stata catturata fino a quando si sono confusi il linguaggio e il tempo. Essa è stata affascinata, in particolare, dal mito della creazione. Infatti, se la critica, durante tutto questo tempo, si è data come funzione e come ruolo di restituire il momento della creazione prima, che sarebbe il momento in cui l’opera sta per nascere e fiorire, è semplicemente perché obbediva alla mitologia temporale del linguaggio. C’è sempre stata questa necessità, questa nostalgia della critica: ritrovare i cammini della creazione, ricostruire – attraverso il proprio discorso critico – il tempo della nascita e del compimento, che si pensava dovesse detenere i segreti dell’opera. Fino a quando le concezioni del linguaggio sono state legate


Linguaggio e letteratura 61

al tempo, e nella misura in cui il linguaggio è stato considerato e ricevuto come tempo, la critica è stata creazionista: ha creduto alla creazione così come credeva al silenzio. Mi sembra che questa analisi del linguaggio come spazio meriti di essere tentata. A dire il vero, viene già perseguita da un certo numero di persone, e in un certo numero di direzioni. Forse sarò ancora un po’ dogmatico nello schematizzare idee che sono solo ipotesi di lavoro, ma mi domando se non si potrebbe dire, molto grossolanamente, qualcosa del genere. Innanzitutto, è certo che vi sono valori spaziali inscritti in configurazioni culturali complesse e che spazializzano ogni linguaggio e ogni opera che appare in quella cultura. Penso, per esempio, allo spazio della sfera tra la fine del XV e l’inizio del XVII secolo. Durante tutto il periodo che copre l’ultimo scorcio del Medioevo, il Rinascimento e l’inizio dell’âge classique, la sfera, nell’iconografia o nella letteratura, non è stata semplicemente una figura privilegiata tra le altre; è stata la figura realmente spazializzante, il luogo assoluto e originario dove prendevano posto tutte le altre figure della cultura rinascimentale e della cultura barocca. La curva chiusa, il centro, la cupola, il globo che irradia, non erano semplicemente forme scelte dalla gente di quell’epoca: erano i movimenti attraverso i quali si davano silenziosamente tutti gli spazi possibili di quella cultura, e lo spazio del linguaggio. Ciò che ha empiricamente permesso di privilegiare la sfera è stata la scoperta che la terra è rotonda, l’idea che essa è l’immagine solida, oscura, ripiegata su se stessa, della sfera celeste e della sua volta; e, infine, l’idea che l’uomo non è che una piccola sfera microcosmica situata nel cosmo della terra e all’interno del macrocosmo dell’etere. Sono queste scoperte, queste idee che hanno dato alla sfera la sua importanza? Forse non ha molto senso porsi tale problema. Quel che è certo, quel che si dovrebbe poter analizzare, è che la rappresentazione, nel senso più generale, l’immagine, l’apparenza, la verità, l’analogia – dalla fine del XV sino all’inizio del XVII secolo – si sono date nello spazio fondamentale della sfera. Quel che è certo, inoltre, è che, per esempio, il cubo pittorico dell’arte del Quattrocento è stato sostituito dalla semisfera incavata, dove si sono collocati e dislocati i personaggi della pittura a partire dalla fine del XV secolo e soprattutto nel XVI secolo. Quel che è certo, infine, è che, nello stesso periodo, il linguaggio ha cominciato a curvarsi su se stesso per inventare forme circolari e ritornare al suo punto di partenza. Considerate,


62 Michel Foucault ad esempio, il fantastico viaggio di Pantagruel, che termina al punto ambiguo della partenza, dopo un lungo giro attraverso un paese delizioso che evoca l’Olimpo, la Tessaglia, l’Egitto, la Libia e, aggiunge Rabelais, l’isola Iperborea nel mare giudaico. Ma quando si è arrivati al culmine del viaggio, quando si è assolutamente perduti, ecco che si attraversa un paese curioso, dice sempre Rabelais, perché è esattamente il paese di Touraine, cioè quello stesso paese dal quale Pantagruel e i suoi compagni erano partiti. Così, non c’era bisogno che facessero tutto questo viaggio, perché in realtà non hanno mai smesso di essere nel loro paese. E se poi, nel momento in cui vogliono reimbarcarsi, sono già nel paese di Touraine, è forse per lasciarlo di nuovo, è forse perché vogliono partire per un altro viaggio. E il circolo ricomincia all’infinito23. È probabilmente questa sfera della rappresentazione rinascimentale che, dissociandosi, esplodendo o torcendosi su se stessa, ha dato origine, verso la metà del XVII secolo, alle grandi figure barocche dello specchio, del globo brillante, della sfera, della spirale, di questi grandi vestiti che si avvolgono come eliche intorno a corpi e che salgono verso l’alto. Mi sembra che, in riferimento alla spazialità delle opere in generale, si potrebbe tentare un’analisi di questo tipo; e d’altronde ne esistono degli schizzi, più che dei lineamenti, in analisi come, per esempio, quelle di Poulet24. È però probabile che questa spazialità culturale del linguaggio in generale possa, a rigore, afferrare l’opera solo dall’esterno. C’è, infatti, anche una spazialità interna all’opera stessa, che non è esattamente la sua composizione, non è quello che si chiama tradizionalmente il suo ritmo o il suo movimento. È lo spazio profondo dal quale vengono e nel quale circolano le figure dell’opera.

Il romanzo di Rabelais Gargantua e Pantagruel è composto da cinque libri, pubblicati a Parigi tra il 1532 e il 1564. Vi si narrano le vicende di Gargantua e di suo figlio Pantagruel. In questo passaggio, Foucault si riferisce in modo particolare agli ultimi due libri, dove Rabelais racconta del viaggio di Pantagruel e della sua compagnia alla ricerca dell’oracolo della diva Bottiglia Bacbuc. Cfr. F. Rabelais, Gargantua (1532-1564); trad. it. Gargantua e Pantagruele, 3 voll., BUR, Milano 2007. 24 Cfr. G. Poulet, Les métamorphoses du cercle, Plon, Paris 1961; trad. it. Le metamorfosi del cerchio, Rizzoli, Milano 1971 e L’espace proustien, Gallimard, Paris 1963; trad. it. Lo spazio proustiano, Guida, Napoli 1972. 23


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Analisi simili sono state fatte, in gran parte, da Starobinski nel suo studio su Rousseau25, e da Rousset in Forme et signification26 – e cito esplicitamente il testo per potervi rinviare ad esso. In particolare, penso alla bella analisi che Rousset ha fatto della volta e della spirale in Corneille. Egli ha mostrato come il teatro di Corneille, da La Galerie du Palais fino a Le Cid, obbedisca a una spazialità “a volta”. Infatti, prima dell’inizio della pièce, i due protagonisti sono insieme, e la pièce non comincia se non nel momento in cui i personaggi si separano per poi ricongiungersi nel mezzo del racconto; essi, però, si ricongiungono solo incrociandosi: la riconciliazione non è possibile, oppure non è perfetta. È la storia di Rodrigue e di Chimène27 che, non potendo riunirsi definitivamente a causa di ciò che è successo, si trovano di nuovo separati nel mezzo del racconto, e si riuniscono solamente alla fine della pièce. Si crea così una forma “a volta”, una forma ad otto, come il segno d’infinito, che caratterizza la spazialità delle prime opere di Corneille. Polyeucte28, invece, rappresenta l’irruzione di un movimento ascensionale. In realtà, anche in Polyeucte si ha la figura ad otto: i due protagonisti, Polyeucte e Pauline, uniti prima dell’inizio della pièce, si separano, si rincontrano, si separano di nuovo per ritrovarsi alla fine. Ma il gioco della separazione non dipende da eventi che sono sullo stesso piano dei personaggi: esso, infatti, è dato essenzialmente dal movimento ascendente provocato dalla conversione di Polyeucte. Si può dire che il fattore di separazione e di riunione è inserito in una struttura verticale che culmina in Dio: Polyeucte si separa da Pauline per raggiungere Dio, e Pauline, per raggiungere Polyeucte, lo seguirà. È il gioco di questa spirale che dà alla pièce di Polyeucte e alle opere successive di Corneille quel movimento ad elica, quella specie di drappeggio ascendente che è forse lo stesso che si ritrova nella scultura barocca dell’epoca. Starobinski ha dedicato diversi studi a Rousseau; tra questi, uno solo è stato pubblicato prima del 1964. Cfr. J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau : la transparence et l’obstacle, Plon, Paris 1957; trad. it. Jean-Jacques Rousseau: la trasparenza e l’ostacolo, Il Mulino, Bologna 1982. Nell’edizione del 1971, compaiono sette saggi su Rousseau, dei quali quattro scritti tra il 1962 e il 1964. Cfr. J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau : la transparence et l’obstacle. Suivi de sept essais sur Rousseau, Gallimard, Paris 1971. 26 Cfr. J. Rousset, Forme et signification, J. Corti, Paris 1962; trad. it. Forma e significato, Einaudi, Torino 1976, pp. 27-35. 27 P. Corneille, Le Cid (1637); trad. it. Il Cid, Garzanti, Milano 2007. 28 P. Corneille, Polyeucte (1643), Larousse, Paris 1997. 25


64 Michel Foucault Si potrebbe, infine, trovare una terza possibilità di analizzare la spazialità dell’opera, studiando non più la spazialità dell’opera in generale, ma la spazialità del linguaggio stesso nell’opera. Si potrebbe, cioè, mettere in luce uno spazio che non sarebbe quello della cultura, che non sarebbe quello dell’opera, ma quello del linguaggio posato sul foglio bianco di carta, del linguaggio che, per sua natura, costituisce e apre un certo spazio, uno spazio spesso molto complicato, che forse è stato reso percettibile dall’opera di Mallarmé: è lo spazio dell’innocenza, della verginità, del biancore, è lo spazio vitreo, quello del freddo, della neve, del gelo, dove l’uccello è trattenuto. Questo spazio – al tempo stesso teso e liscio, chiuso e ripiegato su di sé – si apre in tutta la sua lucentezza alla penetrazione assoluta dello sguardo che può percorrerlo; ma lo sguardo, in fondo, non può che scivolare su di esso. Questo spazio, aperto e al tempo stesso chiuso, questo spazio che si può percorrere, è uno spazio congelato e completamente chiuso. Questo spazio è probabilmente lo spazio delle parole di Mallarmé. Lo spazio degli oggetti mallarmeani, del lago mallarmeano, è anche lo spazio delle sue parole. Prendete, ad esempio, i significati, molto ben analizzati da Jean-Pierre Richard29, del ventaglio e dell’ala in Mallarmé. Il ventaglio e l’ala, quando sono aperti, hanno la proprietà di sottrarre alla vista: l’ala sottrae l’uccello alla vista – tanto è ampia; il ventaglio maschera il viso. Dunque, l’ala e il ventaglio sottraggono alla vista, nascondono, allontanano gli oggetti dall’attenzione e li tengono a distanza; ma non nascondono se non nella misura in cui rivelano, cioè nella misura in cui si trova dispiegata la ricchezza iridescente dell’ala o il disegno stesso del ventaglio. Al contrario, quando sono chiusi, l’ala lascia vedere l’uccello, il ventaglio lascia vedere il viso; lasciano dunque avvicinare, offrono alla presa dello sguardo o della mano ciò che nascondevano prima, quando erano aperti. Ma, nel momento stesso in cui si ripiegano, nascondono e occultano tutto quello che di sé mostravano, aprendosi. L’ala e il ventaglio costituiscono quindi il momento ambiguo della rivelazione, e tuttavia dell’enigma; il momento del velo teso su quello che c’è da vedere, così come il momento dello sfoggio assoluto. Cfr. J.-P. Richard, L’univers imaginaire de Mallarmé, Seuil, Paris 1961. Foucault recensisce e commenta il libro di Richard in un articolo apparso nel 1964. Cfr. M. Foucault, Le Mallarmé de J.-P. Richard, in «Annales. Économies, sociétés, civilisations», n. 5 (1964), pp. 996-1004; trad. it. Il Mallarmé di J.-P. Richard, in M. Foucault, Archivio Foucault 1, cit., pp. 87-97. 29


Linguaggio e letteratura 65

Questo spazio ambiguo degli oggetti mallarmeani, che svelano e nascondono al tempo stesso, è probabilmente lo spazio stesso delle parole di Mallarmé. La parola, in Mallarmé, ostenta la propria ricchezza, ripiegando, infossando sotto questo sfoggio ciò che sta dicendo. Essa è ripiegata sulla pagina bianca, in modo da nascondere quello che ha da dire, ma fa sorgere, nel movimento del ripiegamento su di sé e nella distanza, ciò che dimora irrimediabilmente assente. Ed è questo, probabilmente, il movimento di tutto il linguaggio di Mallarmé e, in ogni caso, il movimento del libro di Mallarmé; quel libro che bisogna prendere, in senso simbolico, come il luogo del linguaggio e, al tempo stesso, in un senso più preciso, come l’avventura di Mallarmé, all’interno della quale, sul finire della sua esistenza, si è letteralmente perduto. Dunque, è questo il movimento del libro che, aperto come un ventaglio, deve nascondere tutto mostrandosi, mentre, chiuso, deve lasciar vedere il vuoto che non ha smesso, nel suo linguaggio, di nominare. Per questo il libro è l’impossibilità stessa del libro: quando si svela, sigilla il suo biancore; quando si ripiega, mostra il suo biancore. Il libro di Mallarmé, nella sua ostinata impossibilità, rende quasi visibile l’invisibile spazio del linguaggio, quell’invisibile spazio del linguaggio del quale bisognerebbe fare l’analisi non solamente in Mallarmé, ma in ogni autore che si vuole studiare. Queste possibili analisi, abbozzate un po’ qui e un po’ là, mi direte che hanno l’aria di accostarsi all’opera in ordine sparso. Da una parte, c’è la decifrazione degli strati semiologici e, dall’altra, l’analisi delle forme di spazializzazione. Questi due movimenti, l’analisi degli strati semiologici e l’analisi delle forme di spazializzazione, devono rimanere paralleli o devono convergere, convergere all’infinito, dalla parte in cui l’opera è appena visibile, ma solo nella sua lontananza? Possiamo sperare, un giorno, in un linguaggio unico che faccia apparire, al tempo stesso, i nuovi significati semiologici e il luogo in cui essi si spazializzano? Non c’è assolutamente alcun dubbio: siamo ancora lontani dal poter tenere un simile discorso, e il carattere sparso delle cose che vi ho appena detto ne è la testimonianza. Tuttavia, è senz’altro questo il nostro compito. Il compito dell’analisi letteraria, oggi, il compito forse della filosofia, il compito forse di tutto il pensiero e di tutto il linguaggio, oggi, è di far emergere nel linguaggio lo spazio di ogni linguaggio, lo spazio nel quale le parole, i fonemi, i suoni, le sigle scritte possano essere, in generale, dei segni; bisognerà che appaia, un


66 Michel Foucault giorno, questa griglia che libera il senso trattenendo il linguaggio. Ma non sappiamo quale linguaggio avrà la forza o la riservatezza, quale linguaggio avrà abbastanza violenza o neutralità, per lasciare apparire e nominare lo spazio che lo costituisce come linguaggio. Sarà un linguaggio molto più concentrato del nostro, un linguaggio che non conoscerà più la separazione della letteratura, della critica, della filosofia – un linguaggio, in qualche modo, assolutamente aurorale, che ricorderà, nel senso forte della parola ricordare, quello che ha potuto essere il primo linguaggio del pensiero greco? O non si potrebbe forse pensare che, se la letteratura ha attualmente un senso e se l’analisi letteraria, nel modo in cui ve ne ho parlato, ha attualmente un senso, è perché esse presagiscono quello che sarà tale linguaggio, perché sono segni che questo linguaggio sta nascendo? Che cos’è, dopo tutto, la letteratura? Perché, come dicevamo ieri, essa è nata nel XIX secolo, legata al curioso spazio del libro? Forse la letteratura, questa invenzione recente che ha meno di due secoli, è fondamentalmente il rapporto tra linguaggio e spazio che si sta costituendo e che sta diventando oscuramente visibile, ma non ancora pensabile. Si può dire che qualcosa come la letteratura sta nascendo, nel momento in cui il linguaggio rinuncia al suo vecchio compito, a quello che era il suo compito da due millenni – raccogliere ciò che non deve essere dimenticato –, e nel momento in cui scopre di essere legato, attraverso la trasgressione e la morte, a questo frammento di spazio che è il libro, così facile da manipolare, ma così arduo da pensare. La nascita della letteratura, così intesa, è ancora molto vicina a noi, e tuttavia, dalla cavità di se stessa, pone la domanda di ciò che è. La letteratura è estremamente giovane, in un linguaggio estremamente vecchio. È apparsa in un linguaggio che, da millenni, in ogni caso dall’aurora del pensiero greco, era votato al tempo. È apparsa, dunque, in un linguaggio consacrato al tempo, come il balbettio, il primo balbettio di un linguaggio probabilmente ancora molto lontano, alla fine del quale tale linguaggio sarà votato allo spazio. Fino al XIX secolo, il libro, nella sua materialità spaziale, è stato il supporto accessorio di una parola che aveva, come preoccupazione, la memoria e il ritorno. Ed ecco che il libro è divenuto, più o meno all’epoca di Sade – ed è questa la letteratura –, il luogo essenziale del linguaggio, la sua origine sempre ripetibile, ma definitivamente senza memoria. Quanto alla critica, cosa è stata, da Sainte-Beuve fino ai tempi più recenti, se non precisamente lo sforzo disperato, lo sforzo votato al fal-


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limento, di pensare in termini di tempo, di successione, di creazione, di filiazione, di influenza, ciò che era interamente estraneo al tempo, ciò che era votato allo spazio, e cioè la letteratura? E questa analisi letteraria, alla quale molte persone oggi si dedicano, con tutti i suoi gesti minuti, pazienti, con tutte le sue accumulazioni un po’ laboriose, non è la trasformazione della critica in un metalinguaggio, non è la critica divenuta infine positiva. L’analisi letteraria, se ha un senso, non fa altro che cancellare la possibilità stessa della critica e rendere poco a poco visibile, ma ancora in una nebbia, come il linguaggio divenga sempre meno storico e successivo. Questa analisi letteraria mostra che il linguaggio è sempre più lontano da se stesso, che si allarga come una rete, che la sua dispersione non è dovuta alla successione del tempo, né alla tranquillità della sera, ma all’esplosione, allo scintillio, alla tempesta immobile del mezzogiorno. La letteratura, nel senso stretto e serio della parola che ho provato a spiegarvi, non sarebbe altra cosa che questo linguaggio illuminato, immobile e fratturato, vale a dire proprio ciò che oggi siamo chiamati a pensare. Traduzione dal francese e apparato critico di Miriam Iacomini

. Language and Literature During the 60s, Foucault doubles his archaeological research with a punctual and attentive reflection on the notions of literature, author and work. Thus, he inscribes part of his production within the discussion on the concept of criticism that took place in France at the beginning of the second half of the century. Langage et littérature finds its place precisely in this framework, since it proposes, within the archaeological horizon, alternative modalities of criticism. Indeed, during the conferences, Foucault dialogues with Bataille and Blanchot, but also with Barthes and the authors of the Nouvelle Critique. Keywords: Literature, Language, Work, Writing, Archaeology, Criticism, Author.



La distanza che ci separa dalla letteratura Jean-François Favreau

Être hors de soi, avec soi, dans un avec où se croisent les lointains1.

L’obiettivo che ci poniamo nel presente articolo, accogliendo con gioia la

traduzione e la pubblicazione di quest’appassionante “conferenza di SaintLouis”, è di capire cosa accade in questo testo, restituendolo al suo contesto, e di indicare cosa, in esso, rivela, prolunga o contraddice la traiettoria foucaultiana alle soglie dello spazio letterario. Nel corso di questa piccola investigazione nell’opera di Foucault, incontreremo un motivo che egli cita nella sua conferenza e che esemplifica bene il suo rapporto con l’attività letteraria: la figura barocca della torsade (spirale). Così, sarà possibile presentare al meglio l’esperienza di volta in volta affascinante, ambigua, contraddittoria e insoddisfacente attraverso la quale Foucault si avvicina al cuore stesso della letteratura e, al tempo stesso, la rifiuta, in una successione di momenti di fascinazione e scoraggiamento – successione che ci informa sia sulla natura di ciò che egli chiama il “letterario”, sia sulla traiettoria stessa del pensatore che procede tentoni per trovare una distanza che sia quella giusta. Per cogliere un simile movimento, occorrerà però distinguere ciò che Foucault dice da ciò che nei suoi testi agisce silenziosamente. Questo “spazio letterario” – per riprendere l’espressione di Maurice Blanchot in cui Foucault si è così ben riconosciuto – se non è forse di per sé una posta in gioco fondamentale ed esplicita del pensiero foucaultiano, è però il sito di un vero e proprio travaglio, di una difficoltà profonda cui Foucault dovette far fronte, e il punto di un impegno che non è condizionato da una strumentalizzazione, ma che assume le sembianze di scommesse, decisioni e sfide. Da questo punto di vista, Langage et littérature costituisce una via d’accesso formidabile. Rimasta a lungo una porta nascosta, disponibile solo ai ricercatori, la conferenza fa parte di quel corpus di articoli e saggi (che hanno spesso per oggetto la letteratura e le arti, e in particolare la pittura M. Foucault, Distance, aspect, origine, in «Critique», n. 198 (novembre 1963), riedito in Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, vol. I, p. 303. 1

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 69-90.


70 Jean-François Favreau di Manet) che sono stati, per Foucault, un laboratorio del pensiero e nei quali, seguendo il disegno degli oggetti che essa si dà, la plasticità del pensiero stesso è messa alla prova. Tali testi-laboratorio saranno accantonati da Foucault, che non li pubblicherà e che, a partire dagli anni settanta, si stancherà di questo terreno di riflessione, lasciando il filo che stava tessendo piuttosto sfilacciato. È interessante però notare che ci è possibile ottenere indizi espliciti che ci permettono di ricostituire la linea di percorso del pensiero foucaultiano, nonostante il silenzio che Foucault calerà su questa questione, attraverso gli interventi del filosofo all’estero, dove le poste in gioco non sono le stesse che in Francia (l’intervista Folie, littérature, société, rilasciata in Giappone nel 1970, ne è un buon esempio). “Che cos’è la letteratura?” Preambolo a una storia della letteratura Il primo fatto, che rende questo testo imprescindibile per chiunque si interessi al pensiero di Foucault sulla letteratura, è che qui appare, esplicitamente e frontalmente, per la prima e unica volta, la domanda “Che cos’è la letteratura?”. Sappiamo che, nel suo itinerario, Foucault aveva già dedicato dei corsi ad alcune questioni letterarie (in particolar modo durante il suo soggiorno in Svezia – di nuovo, quindi, in un terreno sperimentale ed extra-nazionale da cui gli era possibile avere uno sguardo dal di fuori), ma la domanda non compare mai di per sé nei Dits et écrits. Anche se un po’ clandestina, dunque, e anche se, per se stessa, resistente, la comparsa di tale questione è importante, perché accumula e dispone di fronte allo sguardo una serie di usi della parola letteratura e un movimento che le è proprio, ma anche perché Foucault qui coglie e prolunga, sotto il nome di un’esperienza comune (per vocazione extra-individuale), qualcosa che aveva già tentato di proporre in Storia della follia, legando l’opera di uno scrittore, Sade, all’esperienza collettiva della déraison moderna. In un libro recentemente pubblicato, avevamo provato a chiamare Storia della letteratura – per rispecchiare il titolo dato da Foucault alla sua Storia della follia – questo sparpagliamento privo di centro di articoli, prefazioni e segmenti che riguardano il gesto letterario. Per analogia, avevamo notato che, in tutti questi testi, Foucault descrive la letteratura attraverso quel che la circonda, per quello che non è; in essi, non si incrocia mai l’oggetto letterario in maniera frontale (pur giungendo alle stesse conclusioni; da que-


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sto punto di vista la conferenza di Bruxelles costituisce invece un oggetto a parte). In compenso, questi testi sono assillati senza tregua da citazioni e/o da effetti letterari. Per far apparire qualcosa della déraison (e avere anche uno sguardo critico sulla ragione), la Storia della follia faceva affidamento sulla storia dei discorsi tenuti sulla follia, mostrandovi, in alcune pagine a fine capitolo, dei buchi. La déraison appariva solo in due modi incompleti: o come mondo negativo, secondo una sorta di “teologia negativa”, o tramite la presenza del nome di Sade, dove si esercita come violenza non giustificata. Questo approccio appare quindi come l’unico capace di restituire, nella sua irriducibilità, qualcosa di questo fenomeno della déraison. Allo stesso modo, nella conferenza di Saint-Louis, Foucault constata che «l’essere della letteratura» sfugge sempre alla presa critica. Non può costituire un oggetto afferrabile perché è un “simulacro”, perché appare in forma di “assassinio” e di assenza, perché è “puro linguaggio” ripiegato su se stesso. Altrove, Foucault fa giocare, in molti dei suoi testi critici (Raymond Roussel, gli scritti su Brisset, Blanchot, ecc.), una serie di effetti letterari che fanno scivolare il discorso su un terreno che ormai non è più quello della critica o del commento, ma che raddoppiano, mettono in difficoltà, deviano, “finzionano”, barano con il genere dell’analisi (con colpi violenti, con una parola simulatrice o “simulante”, con l’uso drammaturgico di un montaggio di citazioni). Scavando un inverso del discorso, questi testi aprono uno spazio parallelo dove il letterario infine apparirà. Sin dalla sua apertura, questa conferenza di Saint-Louis si dà come oggetto una parola che pende verso il negativo e, sin dal titolo, si apre come uno spazio alterato. Dal momento in cui appare la domanda “Che cos’è la letteratura?”, c’è la certezza che non avremo nessuna risposta alla domanda, che non ci sarà nessun happy end metodologico: sappiamo invece che stiamo procedendo in uno spazio truccato, in una forma di analisi alterata: è in questo spazio, marcato fin da subito dalla disillusione, annunciato dalla figura della “volta”, una versione moderna della tragedia, che si apre un’avventura intellettuale di un’estrema ricchezza, che si avvicina al cuore stesso dell’attività di scrittura. Foucault fa giocare questa domanda in molti modi. Definisce opportunamente i limiti storici e culturali di quel che chiama qui “letteratura”, individuando l’emergere storico di un paradigma nuovo, che permette di distinguere questo oggetto da ciò che chiamiamo “le lettere”. Foucault definisce questo campo per esclusione, ma anche per prossimità


72 Jean-François Favreau (legando tale questione a quella di un’esperienza storica del linguaggio, alla scomparsa del riferimento a un’istanza superiore che garantiva la continuità del mondo e del verbo). Ma, in questa conferenza, il punto su cui Foucault concentra i suoi sforzi, come farà negli articoli che dedica alla letteratura (questa moltitudine di piccoli testi critici sparsi, che saranno raccolti dopo la sua morte nei Dits et écrits), è quello dell’esperienza della scrittura. Così, “Che cos’è la letteratura?” non è da leggersi come una domanda che miri a costituire un oggetto critico, ma come la via d’accesso per un’esperienza da fare e da seguire, un gesto che attiva un processo, un tentativo, per il pensiero, di entrare su questo terreno e di sposare il movimento, che è quello della scrittura stessa, di fronte a questa letteratura che le è estranea. «Questa domanda non si sovrappone alla letteratura», dice Foucault a Bruxelles: «è l’essere stesso della letteratura» (supra, p. 30). Designando così la letteratura come inumana estraneità che nessuna opera e nessun discorso è capace di guardare in faccia, Foucault la situa in un punto di fronte al quale gli scrittori e i critici, con le loro rispettive vie d’accesso, si trovano ad essere sullo stesso livello. La conferenza di Foucault si svolge in due sedute: la prima, una volta posta la domanda (e attribuitole dei limiti), sarà dedicata a prenderla in considerazione dal punto di vista della pratica degli scrittori (cioè, da un certo punto di vista, si metterà dalla parte dello scrittore); la seconda, che comincia con la domanda “Si può parlare di letteratura?”, si pone la questione pratica di un linguaggio secondo. Non è quindi tanto la letteratura in sé a costituire il centro della conferenza, quanto la pratica, o le pratiche, difficili, che essa instaura e che ripresentano, validandola (senza poter dire quale fenomeno è preesistente all’altro) la domanda “Che cos’è la letteratura?”. Foucault è chiaro: è possibile tralasciare la domanda, farne a meno e, in tal modo, lasciare che lo spazio letterario si sgonfi. Se la letteratura è una preoccupazione, è soltanto perché la modernità le dà una certa importanza, un corpo, e tratta questo “rumore” come un indice essenziale della propria verità. Ci proponiamo qui di osservare come questo ambito agisca nell’itinerario di Foucault, prima in prossimità della déraison, là dove la pratica letteraria interroga e violenta l’ambito, ad essa vicino, del discorso (nel momento della Storia della follia), per vedere, poi, come questa intuizione iniziale incontri la preoccupazione del linguaggio e della finzione di una letteratura anonima (cosa che darà luogo a Le parole e le cose), prima di ritornare sul modo in cui Foucault si interessò a Raymond Roussel (cioè alla


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parabola di un autore, soggetto letterario che non ha niente d’anonimo). Infine, ci soffermeremo sulla nube della scrittura e della critica (in particolare con Blanchot). Giungeremo allora alla nozione che costituisce l’oggetto di questo testo: la distanza che esiste nella letteratura, a partire dalla sua definizione, e quindi la distanza che è opportuno trovare vis-à-vis della letteratura. Foucault troverà la “propria” distanza dedicandosi definitivamente alla “non-letteratura”, esportandovi però clandestinamente qualcosa dell’azione corrosiva di un’esperienza radicale della scrittura. La letteratura come assenza d’opera In Storia della follia, identificata in qualche modo con il nome di Sade, la letteratura era presente per dare una voce alla déraison, il che significa che era la sola risorsa (dando il cambio, ci dice Foucault, alla pittura fiamminga) per disegnare, di fronte al discorso dell’istituzione e della psichiatria, un interlocutore capace di replicare e di resistere, in modo indefettibile, ad ogni forma di digestione. La nozione stessa di follia, formata dalle definizioni successive di coloro che avevano come scopo di combatterla come “resto” della ragione, implica che essa non possa in alcun caso diventare discorso, e che anzi si opponga alla costituzione di un discorso sistematico. Nel suo libro, Foucault tiene senza alcun dubbio un discorso, ma riuscirà a farlo solo in modo negativo e con effetti di montaggio: quando cita Sade crea delle “cavità”, dei momenti in cui l’argomentazione si ferma per lasciare spazio a un pensiero non argomentato, sottomesso agli umori: gesti di violenza o di malvagità, gusto per quei cambiamenti di registro che fanno emergere la brutalità di un argomento, partiti presi indifendibili. Egli restituisce, nel corpo del proprio libro, quel resto che la cesura voleva allo stesso tempo circoscrivere e far scomparire, e che appare proprio come un oppositore inconciliabile e che sarà per la ragione quello che il male è per la morale. La letteratura appare quindi come ausilio, dotato di parola, della follia muta. Essa compie un gesto esclusivo: fa passare nell’ordine dello scritto, ovvero nell’“archivio”, qualcosa della follia; apre cioè uno spazio là dove la cesura non ha più corso. Sade, in tal modo, è allo stesso tempo l’interlocutore della ragione ragionante (come nei pamphlet che mirano a contraddire, sul suo stesso terreno, la logica e i valori dei contemporanei che lo imprigionano), e una sorta di vandalo del pensiero, perché spinge


74 Jean-François Favreau la propria logica “troppo lontano”, fino a diventare il fermento di un disordine generalizzato. Egli si radica senza ritorno nell’indifendibile, sino a farne un paesaggio ipnotico che non ha niente da invidiare alle diavolerie rappresentate da Bosch2. Prolungando questa linea, Foucault farà della letteratura, sempre senza delimitarne i contorni, una sorta di risorsa contro la filosofia (intesa come ragione ragionante sulla ragione). Questo sarà, da Sade a Bataille passando per Nietzsche, un pensiero eccessivo, un residuo di ciò che ha avuto accesso al nome di filosofia. In due articoli importanti, uno consacrato a Pierre Klossowski e l’altro a Maurice Blanchot3, Foucault proporrà, per sostenere la propria tesi, un’analogia con le eresie: al momento della sua costituzione, la Chiesa dovette delimitare ciò che avrebbe fatto parte del suo corpus di testi, tracciando in tal modo un canone e, di conseguenza, un confine che non sarebbe stato Chiesa – senza esserle, però, totalmente estraneo –, confine che sarà tanto più pericoloso poiché le somiglia e parla la sua stessa lingua. La gnosi, così, mostrerà una coerenza non minore di quella della Chiesa, e sarà colpevole di un eccesso di ragione simile a quello che verrà rimproverato a Sade. Allo stesso modo, la letteratura è in rottura con il discorso che la circonda. Se la verità della follia non è ragionevole, non è argomentata, non è possibile averne ragione; inconciliabile (motivo per il quale le “buone intenzioni” non hanno presa su di essa), la letteratura si pone, sin dall’inizio, sotto il segno dell’inadeguatezza. La letteratura «finge di essere una serie di libri» (supra, p. 44), ma non si trova nei libri: è quello che ci dice la conferenza di Saint-Louis, dove opera, linguaggio e letteratura sono presentati come poli inconciliabili, amanti che si respingono. Per estensione, scegliendo questo oggetto, in questo periodo, Foucault pone la questione di un “fuori” (dehors) di quanto comunemente è chiamato “filosofia”, terreno di incontro dove i pensatori sono in dialogo gli uni con gli altri e in dialogo con la storia, “tavola operatoria” per e del pensiero, accessibile a tutti di diritto. In questi anni, Foucault non è propriamente ostile alla “filosofia in generale” (ammesso che questa espressione abbia un senso), ma si situa a distanza, si sforza di mantenersi e di rimanere all’esterno della filosofia, gioca su un altro terreno (mira e colpisce a partire da un altro Nota bene: “eccesso di ragione”. M. Foucault, La prose d’Actéon, in «La Nouvelle Revue Française», n. 135 (marzo 1964) e La pensée du dehors, in «Critique», n. 229 (giugno 1966). 2 3


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punto) così come, più tardi, si stancherà dell’ambito della letteratura – senza però smettere di pensare qualcosa del letterario (e con il letterario). Lo spazio del linguaggio Partendo da questo punto, negli anni successivi Foucault traccerà una linea dalla follia al linguaggio, mantenendo la letteratura allo stesso posto, ma modificando gli strumenti per valutarla. Quando parlava della follia, Foucault era sempre disturbato da una cosa: per dare alla déraison il posto che avrebbe voluto attribuirle (quello, potremmo dire, di una testimonianza sull’essere), avrebbe dovuto passare al di sopra (o aggirare) il sintomo individuale. Occorreva riuscire, sempre, a non pronunciarsi sulla questione del biografema o del sintomo, per far apparire la déraison come esperienza continua e condivisa. Interessandosi al linguaggio, in occasione di Le parole e le cose, Foucault ha una risorsa: non è più l’individuo, ma è il linguaggio stesso, in quanto esperienza comune, ad essere portatore di una potenza di opposizione alla ragione: l’ordine delle parole e delle cose non è più continuo dal momento in cui, al posto di un garante (un Dio che assicurava la continuità tra il verbo, la creazione, il Libro e il senso), la società occidentale ha incontrato un vuoto (il vuoto del desiderio insaziabile di Sade). Il linguaggio “nel proprio essere” è ciò che resiste alla presa di un discorso che crede di toccare le cose che nomina. La letteratura sarà quindi il terreno sul quale le parole vanno alla deriva in alto mare, dove la terra ferma delle cose è fuori portata. Roussel, Mallarmé, Blanchot costituiranno ancora una volta delle risorse per cogliere una possibile biforcazione che rimette in causa l’evidenza del senso. Ciò che la letteratura manifesta, secondo Le parole e le cose, è la natura del linguaggio, che è essenzialmente “parlare per non dire niente”, bavarder4 (oppure, nel punto di incontro con il potere, parlare solo per fare effetto). Dopo la figura del folle o dell’eretico, è quella del bavard e/o del sofista ad essere convocata da Foucault, raggiungendo così il momento inaugurale in cui Bisogna qui citare il testo di Louis-René Des Forêts, Le Bavard, Gallimard, Paris 1946, commentato da Blanchot, che mette in finzione questa figura di un linguaggio basato sulla morte e sulla follia, ma anche sull’effettività della retorica e della sofistica, che parlerebbe “da solo” senza scopo né fine. 4


76 Jean-François Favreau la filosofia si definisce come parola di verità contro il discorso sofista, che ha per unica base i poteri del linguaggio. Foucault legge l’avvento del platonismo come la costituzione di un terreno per il pensiero (che sarà ordinato secondo la categoria della verità), indipendente dal potere, anche se questa vittoria è frutto di un uso del discorso di potere, delle stesse parole e degli stessi artifici dei sofisti. Questo nuovo terreno della filosofia non si differenzia quindi, per natura, da quello che lo precede, e le sue fondamenta saranno altrettanto sabbiose5. Contro quel che si presenta come un discorso di verità (che, dal punto di vista del linguaggio, non è altro che un discorso di potere vittorioso che è riuscito a imporre la propria norma come condizione del discorso), Foucault fa uso di discorsi che sono apertamente di potere. Ritroviamo allora l’eco di un Nietzsche filologo (etimologicamente, “che ama il linguaggio”), che vede nella volontà di potere la base dei valori rivendicati dalla filosofia classica e che fa uso, anch’egli, di un discorso di potere per pervenire a uno stato di cose in cui questa aspirazione non sarà più necessaria. Da questo punto di vista, lo spazio letterario è il terreno (sottile come una linea, dice Foucault, ma che si estende in verticale, all’infinito6) in cui il linguaggio può dispiegarsi per se stesso, resistendo alla presa dell’opera e formando, così, una sorta di apertura colossale e paradossale. A Bruxelles, Foucault dà forma a questo spazio, disegnando un triangolo i cui vertici sono il linguaggio, l’opera e la letteratura. Questi punti sono, essi stessi, esclusi, nel senso che l’attività letteraria e critica, la permanenza nello spazio letterario, ha a che fare con l’opera, il linguaggio e la letteratura, senza mai incontrarli. Questi termini inconciliabili, opera e linguaggio, si ritroveranno in Le parole e le cose. Il linguaggio, aveva predetto Foucault, è l’oceano che minaccia l’ideologia della cultura contemporanea e le sue dighe, e la sua azione era quel che prometteva l’erosione della figura dell’Uomo. È “l’assenza d’opera” della Storia della follia a divenire consustanziale, portata dal linguaggio stesso a ricevere il compito batailliano di “confondere” (o, per restare nella metafora marina, di “erodere”) le carte. È ciò che scrive Foucault in un articolo feroce dedicato a Deleuze (« Theatrum philosophicum », in «Critique», n. 282, novembre 1970). In compenso, se Foucault rimette in causa l’incontestata vittoria del platonismo, la traiettoria di Socrate apparirà in seguito come un modello di vita filosofica, e il suo ultimo gesto, con il quale beve la cicuta, come l’indice della verità di un pensiero. 6 Cfr. M. Foucault, Le langage à l’infini, in «Tel Quel», n. 15 (autunno 1963). 5


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Il linguaggio puro è mormorio senza fine, senza opera. Resistendo alla fascinazione dell’informe puro (che lo si chiami follia o linguaggio), e resistendo al compimento di un’opera come opera, la scrittura è un’attività contenuta in questa no man’s land (l’espressione è da intendersi in senso forte, dato che questa zona è assolutamente ostile all’uomo). Già Raymond Roussel descriveva l’itinerario di un uomo alle prese con lo spazio inumano del linguaggio, intervallo o interstizio essenziale che separa la natura dei segni dalla possibilità di un’opera. Roussel, ci dice Foucault, dedicò la propria vita a tessere, tra le parole, delle favole che ricoprono le lacune della lingua, magnificando e scongiurando l’aleatorio. Egli raccolse questi gesti in un opera, per mezzo del gesto con il quale si sottraeva dal mondo della vita per inscriversi in quello della propria opera. Il progetto dell’opera di Roussel, realizzato dal libretto di istruzioni postumo che ci ha lasciato, acquisisce la sua vera dimensione con la morte programmata dell’autore, che costituisce l’ultima pietra dell’edificio. In altri termini, la vita e la produzione di Roussel sono inscritte in una parentesi, in un differire che posticipa la vittoria, l’avvenimento del linguaggio puro, ovvero la morte. È lo stesso movimento che organizza la Recherche di Proust, che – fatto eccezionale! – Foucault cita a Saint-Louis. L’opera scritta non è, propriamente, che un “fuori dell’opera”, perché l’avvenimento della possibilità di un’opera eccede i sette volumi della Recherche. Da qui appare la crescita del linguaggio in verticale, che dà come orizzonte il terzo termine al triangolo. Nel 1963, Il linguaggio all’infinito descriveva così il gesto di Shèhèrazade, che parlava per rimandare l’istante della propria morte: per poter parlare all’infinito, condizione della propria sopravvivenza, Shèhèrazade deve mettere in forma il linguaggio, fare senso o far favola a partire da esso, in modo da interessare il proprio uditorio. Ma il suo monologo prenderà la dimensione di un’opera solo una volta terminato, perché è il suo carattere incompiuto che gli assicura la possibilità di una continuazione. Foucault ritrova la milleunesima favola, nella quale Shèhèrazade racconta la propria storia come in uno specchio, moltiplicando il proprio monologo, en abyme, all’infinito. È “al limite”, in questo ultimo interstizio di fatticità, che separa dalla non-opera o dalla morte, che fa crescere in verticale una parola improduttiva, nella quale appare la promessa della letteratura e la letteratura come promessa. A Saint-Louis, Foucault dice che «non c’è l’essere della letteratura, c’è semplicemente un simulacro, un simulacro che è tutto l’essere della letteratura» (supra, p. 38).


78 Jean-François Favreau Così come il centro si nasconde nel labirinto dei racconti di Shèhèrazade, il principio dei racconti che ripiega narrato su narrato, al limite della morte, il motivo della Biblioteca appare come lo spazio extra-individuale dove si rigioca il gioco dell’opera, del linguaggio e della letteratura. Moltiplicato, come in un gioco di specchi deformanti, attraverso l’opera di Flaubert, Borges o Blanchot, questo spazio chiuso, ovattato e labirintico della biblioteca appare come la tana naturale della letteratura moderna, dove si nasconde, come il Minotauro, questo mostro smisurato e antropofago, una “quasi-presenza” senza aspetto assegnabile. Foucault partorisce allora un’ipotesi radicale: la letteratura non è altro che un rumore che manteniamo ogni volta che ne parliamo. Questa figura collettiva, con la maiuscola, prende corpo quando diventa “cosciente di se stessa”, il proprio orizzonte, e si offre come promessa e come prigione. Dall’intoppo iniziale allo spazio di Roussel La questione della letteratura, ci dice Foucault, emerge nel momento in cui questo spazio si riempie: Dante, Cervantes e Euripide, fanno “parte della nostra letteratura” (di questo spazio che pone problema oggi) e non della loro letteratura, poiché la letteratura per loro non esisteva. Inscritta in una continuità tra testo e mondo, finzione e storia, pensiero e azione, l’opera antica, medievale o classica è identificabile come letteratura solo da quando esiste tale questione. Prima, i segni che tradiscono un’autoreferenzialità della scrittura e che l’assoggettano a una vertigine, si presentano, quand’anche nella loro purezza come con Shèhèrazade, solo con l’aspetto di un “intoppo”. Si tratta della stessa questione che attraversa la pittura e che Foucault indica a proposito di Manet, che gioca esplicitamente con la trama del quadro: il pittore «s’est permis d’utiliser et de faire jouer, en quelque sorte, à l’intérieur même de ses tableaux, à l’intérieur même de ce qu’ils représentaient, les propriétés matérielles de l’espace sur lequel il peignait»7. Lo stesso per il teatro, riguardo a un fenomeno che Foucault descrive parlando de La doublure di Roussel, dove un attore particolarmente veemente apre una breccia nella rappresentazione nel momento in cui non riesce a sguainare la propria spada dal fodero: «Cette minuscule maladresse, cet 7

M. Foucault, La peinture de Manet (conferenza a Tunisi, 1971), Seuil, Paris 2004, p. 22.


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accroc dans le geste simple déchire sur toute sa longueur le tissu des choses : le spectacle aussitôt décolle de lui-même, l’attention des spectateurs est à la fois redoublée et décalée : leur regard ne se détache point du spectacle qui leur est offert, mais ils y reconnaissent cet imperceptible interstice qui le fait pur et simple spectacle…»8. La letteratura moderna, allo stesso modo, comincia quando la favola è lacerata e appare la finzione che la organizza e la sottende. La favola, dice Foucault, è “il narrato” della narrazione, ovvero un livello orizzontale della storia, ordinato dalla successione. In opposizione, chiamiamo finzione la «posture du narrateur à l’égard de ce qu’il raconte», e ancora: «…la fiction, c’est la trame des rapports établis, à travers le discours lui-même, entre celui qui parle et ce dont il parle. Fiction, “aspect” de la fable»9. Per rimanere in compagnia di Roussel, possiamo osservare un gioco e una tensione tra la pura orizzontalità (la favola apparentemente senza breccia delle Impressions d’Afrique) e la pura verticalità di Comment j’ai écrit certains des mes livres, sorta di libretto di istruzioni postumo, rilasciato a posteriori, che permette di osservare come la favola sia presente solo per ricoprire, vestire la struttura puramente verticale del “procedimento”, ovvero un gioco morfologico di permutazione che presiede all’insieme della composizione delle Impressions. Sotto a ciò che i testi di Roussel potevano avere in comune con quelli di un Jules Verne (per il quale Roussel nutriva un’ammirazione senza limiti) si rivela una macchinazione molto vicina a quelle che concepirà, qualche decennio più tardi, un movimento come quello dell’Oulipo. È chiaro che Foucault, sedotto dalla dimensione di giocatore di scacchi di Roussel (da cui, come confesserà, è attratto il suo “lato ossessivo”), dà la priorità alla verticalità finzionale, e tralascia la linea delle sue favole. Foucault si diverte allora a procedere verso un’oscillazione metaforica per cui il terreno della finzione diventa l’oggetto di una sorta di “favola critica”: là dove Shèhèrazade svela, in una delle sue storie, il suo stesso destino di narratrice schiava; là dove Jules Verne racconta il viaggio verso il centro della terra; là dove la “pre-letteratura” antica celebra i propri eroi e la loro dismisura, Foucault fa della letteratura moderna lo svelamento delle “prosperità del vizio” della parola, il racconto del viaggio nello spazio del linguaggio e il gioco tragico di quell’eroe contemporaneo che è lo scrittore. M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1992, p. 150. M. Foucault, L’arrière-fable, in «L’Arc», n. 29 (maggio 1966), riedito in Dits et écrits, cit., vol. I, p. 534. 8 9


80 Jean-François Favreau Il personaggio di Roussel riunisce, in modo privilegiato, tutte queste dimensioni, poiché si assenta dalle proprie opere a vantaggio del loro funzionamento (le vuole finalizzate al solo lavoro di una “macchinazione”, ne organizza alcune – come le Nouvelles Impressions – secondo una struttura non lineare, ma per giustapposizione, o disegna uno spazio fantastico all’interno stesso del modo di rappresentare). Foucault scriverà che Roussel aveva disposto le proprie opere come tanti strati attorno a un centro cavo, simile a quella stanza chiusa di Palermo nella quale si darà la morte. Tuttavia, ciò che rende privilegiato il caso di Roussel è che, nonostante egli realizzi questa sorta di scrittura anonima che Foucault ammira e si accolli il ruolo tragico dello scrittore, rimane pur sempre un esempio di soggetto letterario. In altre parole, Roussel è per Foucault un autore che ha un’esistenza propria, che non è solubile nella “letteratura”. Oltre che una riflessione sulla scrittura, il libro di Foucault è prima di tutto una monografia dedicata a un uomo che instaura un certo rapporto con se stesso attraverso i soli mezzi della letteratura. Roussel si dà per destino un “métier à aubes”, da intendersi sia come “macchinazione”, sia come “attività mattutina”: dà forma alla propria vita e traccia nel secolo una linea radicale, senza uscire da questa occupazione solitaria, reclusa e in apparenza inoffensiva che è la scrittura. Chiave di volta del suo progetto, la sua opera appare, contemporaneamente, nel triplo gesto della sua chiusura, del testo postumo e dell’enigma rappresentato da questa porta chiusa a chiave. Tale “métier à aubes” va preso seriamente, perché definisce la linea di separazione tra lo scrittore che si ritira sempre più lontano (e che lancia al lettore un appello a seguirlo – in un gioco del segreto e dell’indizio) e l’autore critico che ingerisce e assorbe virtualmente tutta la biblioteca e lo spazio che lo circonda. Foucault attribuisce per un certo periodo questo ruolo a Maurice Blanchot, una sorta di “Hegel della letteratura”10 che riassume nella propria grandezza tutto ciò che Foucault definisce a Saint-Louis come “letteratura”, sia come critico che come scrittore, come inventore di un linguaggio capace di dire questa esperienza e come artigiano di una immensa sintesi dell’esperienza del letterario. Da questo punto di vista, il posto di Blanchot non è dalla parte dell’alba ma, all’altra estremità dello spettro, dalla parte del crepuscolo. Blanchot appare quindi come una sorta di figura gemella e simmetrica a Cfr. M. Foucault, Folie, littérature, société, intervista con T. Shimizu e M. Watanabe, in «Bungei», n. 12 (dicembre 1970), riedito in Dits et écrits, cit., vol. I, pp. 992-993. 10


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quella di Roussel, infinitamente più informata e seria, all’altra estremità dello spazio del letterario11. Durante una parte della sua traiettoria, parte che include il momento della conferenza del 1964, Foucault pone il proprio lavoro in parentela con questa linea tracciata da Blanchot, con l’idea che questo lavoro di sintesi fosse il compito comune di un movimento nel quale c’era ancora molto da fare e di fronte al quale Foucault si sentì dapprima affascinato e poi “invitato”. È un motivo che si viene a poco a poco a trovare nella penna di Foucault tra il 1963 e il 1966, vale a dire quello della “veille commune” (che riunisce i critici e gli scrittori in una continuità senza gerarchie, dove può capitare che l’idea – generalmente assodata – di un’anteriorità della scrittura letteraria sulla critica si confonda, come nel dialogo con il gruppo Tel Quel o come in La Veille di Roger Laporte12). Nella conferenza a Saint-Louis, questa veille commune si presenta così: la letteratura è «il rapporto tra linguaggio e spazio che si sta costituendo e che sta diventando oscuramente visibile» (supra, p. 66), o l’articolazione dell’assenza e dell’immanenza della letteratura. Una letteratura della critica In questo periodo, il rapporto di Foucault con la critica è intenso e ricco. Dall’inizio degli anni sessanta si possono citare (senza esaustività): la vicinanza a Roland Barthes, i molteplici segni d’interesse reciproco con Blanchot e Pierre Klossowski, gli articoli su Jean-Pierre Richard e Marthe Robert, i gesti critici di Foucault stesso, la riflessione comune con Tel Quel (in particolare, nel 1963, al colloquio di Cerisy dal titolo Vers une littérature nouvelle ?). A partire da questi nomi, ai quali bisognerebbe aggiungere quello di Bataille (su cui Foucault scriverà dopo la sua morte, sopraggiunta nel 1963) e senza dubbio quello di Borges, troviamo testi nei quali il gesto D’altro canto, si potrebbe osservare che, nella relazione Blanchot-Foucault, Blanchot ebbe “l’ultima parola”, sotto forma di un testo che scrisse su Foucault dopo la morte di quest’ultimo – ed è interessante porsi la questione della natura di questa operazione, osservando che gli scritti di Foucault sulla letteratura non vi sono quasi mai citati, che questo periodo di disagio sulla questione letteraria non vi appare e che Blanchot integra l’eredità di Foucault con il vocabolario delle scienze sociali (in una sorta di mimetismo) che tende a cancellare tutto il resto. 12 R. Laporte, La Veille, Gallimard, Paris 1963. 11


82 Jean-François Favreau critico è penetrato dal gesto dello scrittore, o meglio una letteratura che si dà come paesaggio l’attività critica, al punto che ognuna delle due attività è divenuta porosa nei confronti dell’altra. Con questi nomi, emerge un’attività intempestiva senza eguali, in cui si tratta da un lato di prendere sul serio la letteratura (che prometteva di aprire nuovi spazi per il pensiero), mentre, da un altro lato, si considera il tessuto dei testi e degli archivi che costituiscono la nostra realtà più comune come una sorta di grande narrazione sottomessa alle regole della retorica e della finzione. Ciò nonostante, nella conferenza di Bruxelles, Foucault distingue proprio il regime della critica da quello della scrittura letteraria: la letteratura è “simulacro”, “assassinio”, “assenza” (gesto di negatività, violenza), là dove il linguaggio critico si serve dell’allusione al silenzio, al segreto, del vocabolario dell’indicibile (pensando attraverso la negatività – cioè nella cavità). Davanti a questa separazione, esposta con chiarezza, Foucault osserva il carattere incrociato di differenti imprese di scrittura (Roussel, ad esempio, riutilizza il già detto e Jean Pierre Richard raddoppia l’opera che commenta) e resta egli stesso in equilibrio sulla cresta, praticando una critica traditrice, intagliata di cambiamenti di piano improvvisi, dove fanno irruzione piccole finzioni o esercizi drammaturgici (la riscrittura di un mito – come ad esempio l’episodio di Ulisse e delle sirene nell’articolo su Blanchot; l’intrusione di un dialogo teatrale – come nell’Archeologia del sapere; gli effetti di collage dei documenti d’archivio, all’inizio di Sorvegliare e punire; ma anche Sade nella Storia della follia). In Foucault, l’esercizio critico fa spesso da soglia o da pretesto prima di lasciare che un altro modo del discorso si installi, e con esso l’azione di “simulacro”, “assassinio”, “assenza”. Si potrebbe spingere più in là la definizione di Foucault, rischiando un’affermazione di questo tipo: la differenza tra letteratura e critica, in fondo, è data dalla presenza stessa della parola “letteratura”, segno autentico che la soglia del linguaggio critico è stata varcata. L’azione (negare, raddoppiare, raccontare, travestire…) si troverà dalla parte della scrittura mattutina, là dove la neutralità della contemplazione appartiene al versante critico di questa esperienza intrecciata. Distanza e Rifiuto di Blanchot «La storicità della letteratura», afferma Foucault a Saint-Louis, «passa obbligatoriamente attraverso il rifiuto della letteratura stessa» (supra, p. 32):


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il diritto a scrivere è da subito rifiutato – ai libri che precedono, all’altro e a sé. L’entrata in letteratura fa rima con l’odio della scrittura. La letteratura deve essere violentata per essere pienamente ciò che deve essere: un’assenza, un accesso rifiutato. È “la part du feu”. Dato che la letteratura è negligente nei confronti di chi l’avvicina, l’autore dovrà essere, di rimando, negligente verso la letteratura per avvicinarla. Ritroveremo spesso questa distanza o negligenza necessaria, che potremmo chiamare anche “rifiuto”, associata al nome di Blanchot. Ci sembra che tale associazione abbia due facce: da un lato, ci dice Foucault, Blanchot ha sempre saputo fare uso del rifiuto e trovare il proprio posto in una distanza dalla letteratura, nella materia; ma questo anche perché, per trovare la propria distanza dalla cosa letteraria, Foucault stesso ha dovuto rifiutare – questa è la nostra ipotesi – qualcosa della posizione di Blanchot. Abbiamo visto che, con Roussel, il teatro è denunciato in quanto tale quando l’intoppo della rappresentazione disturba i piani della rappresentazione; o, ancora, sempre per Foucault, il Nipote di Rameau si “trova” nel momento stesso in cui si impegna nella più artificiale delle parodie. Più tardi, con Brecht, la denuncia della rappresentazione diventa sistematica, cosa che produce sulla scena effetti sia ideologici (distanza critica), sia estetici (stranezza dei personaggi), che presentano qualche somiglianza con le finzioni di Blanchot. Potremmo dire che, a modo suo, Foucault ha proceduto in questa direzione in maniera radicale, associando strettamente il linguaggio e lo spazio13 e analizzando le opere come stratificazioni di piani sovrapposti e coabitanti (rimandiamo ai testi sulle Confessioni di Rousseau, sulla Tentazione di Sant’Antonio o su Magritte, dove Foucault realizza alcune prodezze critiche distinguendo una molteplicità di piani). Ma è di un’altra faccia della distanza che vorrei parlarvi ora. Se ne troverà la metafora teatrale non più in Brecht, ma in Meyerhold, per il quale il “rifiuto” è il primo passo dell’azione, cioè il movimento nel senso contrario a quello cui si mira – è quel che ritarda o devia e che permette la drammatizzazione (così come il genere della tragedia è fondato sul gesto basilare di rifiuto, da parte degli eroi, di affrontare ciò che accade loro). L’articolo del 1966 su Blanchot (Il pensiero del fuori) sviluppa il racconto in cui Ulisse attraversa la tentazione delle sirene, legato all’albero della propria nave. Per l’eroe, si tratta di poter avere il beneficio del rifiuto (restare D’altra parte, Foucault cita brevemente il paradigma di un “teatro dello spazio” in Distance, aspect, origine”, cit. 13


84 Jean-François Favreau in vita) senza l’inconveniente di tradire il desiderio del canto delle sirene. Questo motivo ha il proprio rovescio in quello di Orfeo, che resta pietrificato per non aver potuto o voluto rifiutarsi. Come sappiamo, a quest’epoca Foucault è affascinato dalla radicalità di coloro che si sono votati alla scrittura fino alla follia (Artaud, Nietzsche…) o alla morte (Nerval, Roussel…), ed è affascinato, peraltro, dalla follia e dalla morte in se stesse (ad esse dedica i suoi primi due libri, Storia della follia e Nascita della clinica). Ne Il pensiero del fuori, che in un certo senso completa la conferenza di Bruxelles, in una forma più elaborata e scaltra, Foucault mette a fuoco questo intreccio tra critica, letteratura, déraison e morte, ciò che dopo Blanchot possiamo chiamare la “neutralizzazione”, un pensiero che funziona con la negatività, che sarà allo stesso tempo critica e letteratura, perché accoglie l’ineffabile e trasgredisce ciò che è. Il pensiero del fuori è un sospeso del pensiero che dubita di tutto, compreso se stesso, un linguaggio affascinato dal suo parente arcaico, il silenzio, o dal rumoreggiare sgorgante del fuori. Questo brusio è un’assenza di forma che, al pari della follia, rischia di assorbire colui che lo contempla «dans une confusion démesurée». Si tratta di un’attrazione pericolosa «puisqu’on est sans cesse menacé d’être absorbé par elle et compromis avec elle dans une confusion démesurée…»14. In questa alternativa tra la sorte di Ulisse e quella di Orfeo, ovvero tra le due varianti dello scacco dinanzi all’appello, si può leggere (conoscendo ora il resto dell’itinerario di Foucault) la biforcazione di fronte alla quale si trova il pensatore. Questa biforcazione è visibile già nella conferenza di Bruxelles, che si dà un oggetto irragionevole, un rumore indifendibile, un movimento impossibile che gira in tondo e che si trova davanti un finale aporetico (la prima sessione della conferenza si conclude con l’idea che il libro sia il solo soggetto che parla in letteratura, e che Sade ne sia prigioniero quanto noi; la seconda, sull’idea che la letteratura sia un linguaggio «illuminato, immobile e fratturato» che oggi siamo chiamati a pensare). Questa vocazione all’“impossibile”, o al “dispendio improduttivo” (per riprendere due termini di Bataille), che affascina Foucault, esige senza dubbio radicalità e crudeltà. Dobbiamo pensare che Foucault, che dal 1966 abbandona, in apparenza, “il partito della letteratura”, fu privo di questa forza? O possiamo invece ipotizzare che il carattere impossibile di questa esperienza sia solo uno dei suoi aspetti, la tappa di ciò che possiamo chiamare per analogia un “percorso iniziatico” (che potremmo 14

M. Foucault, La pensée du dehors, in Dits et écrits, cit., vol. I, p. 563.


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anche chiamare, con un vocabolario più foucaultiano, un “processo di soggettivazione”)? Quando parla a Bruxelles e quando scrive su Blanchot, anche se dà prova di un virtuosismo eccezionale sia sul piano della lettura sia su quello della scrittura, Foucault apparentemente non ha trovato la propria posizione, la propria “strada” (per riprendere le parole di Roussel: «vers trente ans, j’eus l’impression d’avoir trouvé ma voie…»15). Mentre Il pensiero del fuori tematizzava la giusta distanza che Blanchot intrattiene con la letteratura, nel 1966 Foucault non ha ancora trovato la propria giusta distanza e ritorna su questo tema della distanza come luogo di una soluzione all’equazione che lo impegna. Così, lo stesso anno possiamo leggere: Écrire, c’est mettre à distance et mesurer la distance. Écrire c’est nous placer dans cette distance qui nous sépare de la mort et de ce qui est mort. Ce par quoi cette mort va se déployer dans cette vérité, vérité qui nous sépare d’elle. Mort dans sa vérité de ce qui nous sépare d’elle et qui fait que je ne suis pas mort quand j’écris sur ces choses mortes16.

“Un linguaggio assolutamente mattutino” A questo punto della riflessione, dove sembrava essersi installata un’aporia, fa irruzione un altro “fuori”, in forma di molteplici capovolgimenti politici e sociali, e che ha per effetto di accelerare il processo che si era innestato. Così, quattro anni dopo Il pensiero del fuori, che suonava come programma di lavoro per un’intera generazione, in Giappone Foucault parla della letteratura al passato: Ce que Blanchot décrit, n’est-ce pas ce qu’était la littérature jusqu’à aujourd’hui ? Et la littérature ne joue-t-elle pas maintenant un rôle bien plus modeste ? Ce grand feu, qui avait consumé toutes les œuvres au moment de leur naissance n’est-il pas éteint ? La littérature et l’espace littéraire n’ont-ils pas regagné l’espace de la circulation sociale et de la consommation ? Si c’est le cas, pour brûler et consumer, pour entrer dans un espace irréductible au nôtre et R. Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, citato da Foucault in Raymond Roussel, cit., p. 94. 16 M. Foucault, Entretien avec Claude Bonnefoy, 1966. Questo testo fu oggetto di una lettura pubblica, resa accessibile da una trasmissione radiofonica di France Culture: lettura di Eric Ruft e Pierre Lemandé, su Radio France il 30 settembre e il 1° ottobre 2004, realizzazione di Guillaume Baldy, diffusione il 5 ottobre 2004. 15


86 Jean-François Favreau pour entrer en un lieu qui ne prendrait pas place au sein de notre société, faut-il faire autre chose que de la littérature17 ?

Questa preoccupazione per la distanza si materializza, quindi, attraverso un capovolgimento. In questo processo incontestabile, è difficile fare una separazione tra ciò che rivela un cambiamento di posizione da parte del pensatore e ciò che fu provocato da un cambiamento di contesto. Ad ogni modo, nel 1970 Foucault si installa radicalmente in una distanza dalla letteratura. Possiamo pensare che questo gesto non riguardi solo un ambito di riferimenti, ma che sia accompagnato anche da una presa di distanza rispetto al fascino che egli prova per la follia e per la morte, per la loro potenza dissolvente e per lo spazio del labirinto degli specchi che ne organizzava la vertigine. Ci sembra che, in tutto ciò, sia racchiuso un gesto dell’ordine della decisione. Il ruolo di Blanchot in questa operazione è ambiguo perché egli è allo stesso tempo il simbolo di tutto ciò che Foucault rifiuterà poi nella letteratura e colui che, scrive Foucault, insegna una forma di distanza. Nel voltafaccia di Foucault, il personaggio di Blanchot sarà risparmiato sino alla fine, anche quando Foucault stesso sarà spietato di fronte a una certa forma di “blanchottismo” che aveva egli stesso rappresentato. In ogni caso, con Foucault vedremo emergere e morire progressivamente un nuovo modello strategico, che non si basa più sull’opposizione frontale, ma sull’apertura di piccoli buchi (il gioco delle eterotopie che dà il cambio a una logica della trasgressione), e che valorizza il personaggio democratico dell’intellettuale – dotato dell’autorità necessaria per prendere la parola localmente su un soggetto specifico –, dando le spalle a un modello aristocratico di scrittore che guarda dall’alto la società. In questo movimento, il pantheon letterario del Foucault degli anni sessanta, quel che a Saint-Louis aveva riunito sotto il nome di “letteratura”, sarà oggetto, durante gli anni settanta, di dénégations e di slanci d’umore18, come se egli validasse retrospettivamente alcune posizioni passate nelle quali diceva che la letteratura è priva di essere e che non è altro che una forma di rumore, assenza e promessa. Foucault valida le sue formulazioni scegliendo di abbandonare questo terreno e di calare il silenzio sulla questione. M. Foucault, Folie, littérature, société, cit., p. 995. Foucault dice anche, come se non fosse scontato: «Bien sûr, ce n’est pas du tout Blanchot que j’attaque ici…». 18 Così, dopo il ’68, in reazione a una certa moda del personaggio del libertino, egli farà di Sade un «sergent du sexe, un agent comptable des culs et de leurs équivalents». 17


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Dopo un periodo in cui esclude radicalmente il riferimento al letterario (o lo squalifica), il pensatore ricomincerà poi a introdurre nei suoi testi dei nomi d’autore o delle citazioni letterarie. Iconoclasta, Foucault lo farà da un punto di vista totalmente altro, sviando il lettore: Ce qui m’a tout de suite frappé, c’est cette joie qui traversait l’écriture. Rien de cette gêne, de cette fausse honte, de cette morale basse qu’on trouve dans un grand nombre de textes contemporains, et qui se traduit par la remise en question de l’écriture par l’écriture. Si Almira fait exploser l’écriture, c’est en éclatant de rire, par l’excès du plaisir qu’il prend à écrire19.

Ciò che rimarrà davvero escluso è il termine stesso di letteratura, per come era proposto nella conferenza di Saint-Louis. Mentre alcuni autori, alcune opere e destini singolari ritornano in superficie, la preoccupazione della letteratura è depennata e diviene oggetto di una serie di dinieghi, come questo: Au fond, pour les gens de ma génération, la grande littérature, c’était la littérature américaine, c’était Faulkner. Il est vraisemblable que de n’avoir accès à la littérature contemporaine que par une littérature étrangère, à la source de laquelle on ne pouvait jamais remonter, introduit une sorte de distance par rapport à la littérature. La littérature, c’était la Grande Étrangère20.

Ora, sotto il segno del rifiuto e come succede spesso in Foucault, si nascondono sia un gioco, con il quale egli inganna il lettore attento, sia una risata che rimescola le carte. Sacrificando il tema della letteratura, Foucault recupera segretamente alcuni dei suoi motivi, reiniettando in un altro ambito i suoi pericoli, i suoi procedimenti e le sue procedure (il “simulacro”, l’“assassinio”, l’“assenza” che Foucault assegnava al gesto letterario). Nel momento in cui si separa dai segni dello scrittore, Foucault inscrive ancora più profondamente il proprio lavoro nel campo di quelli che chiamava discorsi seri, e fa di tutto per integrarvisi ed inscrivervi la propria azione, anche se questa non cambia in profondità21. M. Foucault, La fête de l’écriture, intervista con J. Almira e J. Le Marchand, in «Le Quotidien de Paris», n. 328, 25 aprile 1975. 20 Ibidem. 21 Da questo punto di vista, possiamo fare una distinzione tra i primi grandi libri di Foucault: Storia della follia faceva appello a Sade nei suoi margini (ma, una volta ritirata la prefazione, nel 1971, le tracce di una scrittura letteraria rimarranno scarne); Nascita della clinica relegava fuori di sé (nel Raymond Roussel a essa contemporaneo) la preoccupazione 19


88 Jean-François Favreau Abbandonando la parola letteratura, Foucault ritroverà con molto più acume molti motivi che le appartengono: giocherà altrove (e con una maggiore capacità di disturbo) gli scherzi ai quali si era esercitato leggendo i vari Borges, Flaubert, Klossowski, Brisset o Magritte. In tal modo, troveremo all’opera la finzione, che si tratti di cambiamenti repentini di registro che fanno vorticare il discorso, di scelleratezze di montaggio, di analisi strategiche che rimettono in gioco tutto l’arsenale dei termini e delle trappole del linguaggio dello spazio, o della maniera generale con la quale i libri di Foucault sono organizzati, del suo pensiero, dello stile del suo pensiero. Conclusione Rileggendo la conferenza belga, possiamo dire, in conclusione, che presentandosi come assenza e imminenza, la letteratura non è mai contemporanea. Questo vale anche per l’itinerario di Foucault, per il quale il discorso sulla letteratura, fino al 1966, comporta sempre il segno di una promessa, di un futuro o di un’imminenza, prima di scomparire come segno di una configurazione intellettuale appartenente al passato. Ciò che sarà forse abbandonato in questa manovra è una forma di fascino per la follia. Per il primo Foucault, un pensiero si deve sempre tenere all’altezza della follia, il vero filosofo deve accettare e portare con sé la “possibilità di essere folle”, che Descartes escludeva nelle Meditazioni. Ora, nella risposta a Derrida (1971), Foucault cambia punto di enunciazione, descrivendo l’esercizio della meditazione come una pratica vicina all’esperienza letteraria: Si un lecteur, aussi remarquablement assidu que Derrida, a manqué tant de différences littéraires, thématiques ou textuelles, c’est pour avoir méconnu celles qui en forment le principe, à savoir les “différences discursives”. […] Quant au sujet du discours, il n’est point impliqué dans la démonstration : il reste, par rapport à elle, fixe, invariant, et comme neutralisé. e il tema della letteratura. Solo Le parole e le cose ha tentato davvero di porre dei punti di ancoraggio tra il registro dello studio dell’archivio e quello di un linguaggio – o di un progetto – letterario. Tale terreno è abbandonato da Foucault, in maniera risoluta, a partire da L’archeologia del sapere. Quanto a Sorvegliare e punire, che fa un utilizzo un po’ ambiguo dei collage dei testi d’archivio, esso si inscrive nella linea che passa da Pierre Rivière, dalle memorie di Herculine Barbin o dal progetto de La vita degli uomini infami, in cui Foucault fa giocare alcuni testi storici, come prima utilizzava i racconti di Sade.


La distanza che ci separa dalla letteratura 89 Une “méditation”, au contraire produit, comme autant d’événements discursifs, des énoncés nouveaux qui emportent avec eux une série de modifications du sujet énonçant. […] Bref, la méditation implique un sujet mobile et modifiable par l’effet même des événements discursifs qui se produisent22.

Mettendo da parte tutta la polemica, con queste “differenze discorsive” di cui parla Foucault (cambiamenti di registro, di stile, di istanze enunciative – altrettante procedure retoriche, stilistiche e tattiche nelle quali, come abbiamo detto, Foucault fu maestro), è il lavoro di una certa letterarietà del linguaggio che conduce a una determinata forma di esperienza per il soggetto dell’enunciazione. Foucault vede allora nelle Meditazioni un “progetto di cambiare se stessi”, e per estensione nella déraison una prova da attraversare, alla quale deve essere possibile far fronte per cambiare. Basandosi su tale vocabolario, si può allora leggere questo episodio letterario di Foucault come una forma di meditazione, che supporta il progetto di “cambiare se stessi”. In questo processo, è evidente che il primato dello spazio sul tempo, posto dalla conferenza, subisce una rivalutazione23. Spazio e linguaggio saranno a poco a poco dissociati (e il linguaggio considerato come oggetto si farà più raro), mentre il tempo, inteso come “tempo della vita”, prenderà un posto importante, quello dell’istanza che permette di avverare un rapporto di sé con sé. Al bagliore istantaneo del lampo, modello di una verità della déraison, si sostituiranno un processo più modesto ma più sereno di maturazione e un paziente lavoro di sé. La filosofia, allora, riapparirà come risorsa, come modalità e come spazio di lavoro e, di conseguenza, la violenza che Foucault aveva dispiegato contro quella che sembrava una pigrizia o una mediocrità del pensiero, riappare come una risorsa e un interlocutore per la vita: contrariamente allo spazio letterario, della cui crudeltà e complessità si era inebriato, la filosofia, rivalutata da Foucault, si rivela un terreno di scoperta, di umiltà, di meraviglia e di indignazione. Su quest’ultimo terreno di esercizio (parola vicina a quella di esperienza, ma dalla connotazione meno spettacolare) di Foucault, chiamato M. Foucault, Mon corps, ce papier, ce feu, pubblicato come prefazione a Storia della follia, terza edizione, Gallimard, Paris 1972. Una prima versione di questo testo è stata pubblicata per la prima volta nella rivista giapponese «Padeia» nel 1971. 23 Il vocabolario dello spazio sarà sempre largamente utilizzato da Foucault dopo il 1970, ma egli lo userà soprattutto per parlare del potere, della strategia (come nel gioco del Go, dove si tratta di circondare il nemico). 22


90 Jean-François Favreau “cura di sé” e che ha fatto ricorso alla scrittura come luogo di meditazione, ritroveremo finalmente l’eco della riflessione sul soggetto letterario, questa nozione latina di fari, radice comune della favola (fabula) e della fatalità (fatum, “ciò che è stato detto”) e, con essa, l’idea già citata per cui «la fiction, c’est la trame des rapports établis, à travers le discours lui-même, entre celui qui parle et ce dont il parle»24. Sotto questo segno, si ritrova il sigillo di una traiettoria, di un lavoro permanente di Foucault che sarà stato quello di cambiare sempre postura, per trovare la relazione adeguata al proprio discorso, e la singolarità assoluta della sua traiettoria – traccia e destino, soggetto ed opera – per la quale un soggetto scrivente è legato a ciò che dice. O ancora, come scriveva Foucault di Roussel: «son œuvre, c’est finalement lui-même écrivant ses livres». Traduzione dal francese di Ilaria Fornacciari

Jean-François Favreau favreau.jf@gmail.com

. The Distance that Separates Us from Literature According to Foucault, literary experience (word that we have to take seriously) is at the same time that of a deep intimacy and that of a not-meeting, with the literary activity itself. Through this defeat, Foucault’s journey shows us some aspects of modern literature, to which he gives very peculiar place. In order to speak of this distance that separates Foucault and literature (and of this distance that is literature), Langage et littérature offers a favored source: in taking as its object, directly, this question of modern literature, in treating the fable and the ineffable, these conferences articulate – under the mark of distance – the literary demand and the fatal destiny of he who is confronted to it. Moreover, it is possible to read in this insistence Foucault’s necessity to keep himself at distance from this carnivorous figure. Keywords: Literature, Distance, Madness, Space, Dehors, Language, Destiny.

24

M. Foucault, L’arrière fable, cit.


Un mormorio infinito…

Ontologia della letteratura e archeologia del sapere Miguel Morey

Il me semble que la littérature actuelle fait partie de la même pensée non dialectique qui caractérise la philosophie. Je crois que la manière d’utiliser le langage dans une culture donnée et à un moment donné se trouve intimement liée à toutes les autres formes de pensée. La littérature est l’endroit où l’homme disparaît au profit du langage. Là où apparaît le mot, l’homme cesse d’exister1.

I.

Come si sa, in Linguaggio e letteratura sono raccolte due conferenze pro-

nunciate presso l’università di Saint-Luis a Bruxelles nel 1964. Ciò colloca il testo nel cuore di quel periodo durante il quale l’attenzione di Foucault verso la letteratura è una costante. Convenzionalmente questo periodo è compreso tra il 1961 e il 1966 anche se, potendo avere a disposizione i testi di tutte le conferenze che il filosofo dedicò al tema2, la data di inizio dovrebbe retrocedere e arrivare per lo meno all’autunno del 1955, quando Foucault diventa lettore all’università di Uppsala. A partire da lì, potremmo poi prolungare il periodo oltre il 1966, e si potrebbe perfino dire che Foucault si occupa della questione fino alla fine della sua vita. Per molto tempo, questo aspetto del lavoro foucaultiano è stato definito di “critica letteraria”, e gli è stato concesso solo un luogo secondario nell’insieme della sua opera – quasi fosse un mero esercizio stilistico –, o è «Foucault, o filósofo, está falando. Pense». Cfr. M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, 4 voll. (da qui in avanti DE, seguito dal numero del volume e della pagina), II, p. 425. 2 Rispettando la volontà di Foucault, che non voleva si pubblicassero postumi i suoi scritti inediti, non tutte le conferenze furono raccolte in DE. È anche il caso del testo del quale ci occupiamo, di cui esisteva finora solo una edizione spagnola. Si veda a tal riguardo “Je crois au temps…” Daniel Defert légataire des manuscrits de Michel Foucault, intervista di Guillaume Bellon a Daniel Defert, in «Recto/Verso», n. 1 (2007), disponibile all’indirizzo: <http://www.revuerectoverso.com>. Per l’edizione spagnola, cfr. M. Foucault, De lenguaje y literatura, a cura di Á. Gabilondo, Ediciones Paidós, Barcelona 1996. 1

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 91-104.


92 Miguel Morey stato addirittura banalizzato poiché inteso come una forma di emulazione del lavoro critico che sulla letteratura stava portando avanti Maurice Blanchot. Invece, è certo che l’interesse foucaultiano per la letteratura all’interno del lavoro di questa epoca, che viene chiamata comunemente “archeologica”, non è affatto aneddotico, ma costitutivo. Infatti, corrisponde all’intento di costituire una “ontologia della letteratura”, necessariamente frammentaria e portata avanti in modo incerto, però non per questo meno urgente. Per stabilire la radicale importanza di tale intento, basterebbe ricordare che nel prologo originale di Histoire de la folie (1961), il primo testo archeologico che è anche la sua tesi di dottorato, (dato importante da sottolineare in questo caso), quando deve spiegare la metodologia della sua ricerca, Foucault afferma: «De règle et de méthode, je n’en ai donc retenu qu’une, celle qui est contenue dans un texte de Char, où peut se lire aussi la définition de la vérité la plus pressante et la plus retenue : “Je retirai aux choses l’illusion qu’elles produisent pour se préserver de nous et leur laissai la part qu’elles nous concèdent”»3. Inoltre, ciò che permette a Foucault nelle ultime indagini archeologiche, vale a dire ne Les mots et les choses (1966), di affermare la possibilità della “morte dell’uomo”, è precisamente l’emergere dell’essere del linguaggio così come si manifesta in modo eminente nella letteratura contemporanea: «Que la littérature de nos jours soit fascinée par l’être du langage, ce n’est là ni le signe d’une fin ni la preuve d’une radicalisation : c’est un phénomène qui enracine sa nécessité dans une très vaste configuration où se dessine toute la nervure de notre pensée et de notre savoir. Mais si la question des langages formels fait valoir la possibilité ou l’impossibilité de structurer les contenus positifs, une littérature vouée au langage fait valoir, en leur vivacité empirique, les formes fondamentales de la finitude. De l’intérieur du langage éprouvé et parcouru comme langage, dans le jeu de ses possibilités tendues à leur point extrême, ce qui s’annonce, c’est que l’homme est “fini”, et qu’en parvenant au sommet de toute parole possible, ce n’est pas au cœur de lui-même qu’il arrive, mais au bord de ce qui le limite : dans cette région où rôde la mort, où la pensée s’éteint, où la promesse de l’origine indéfiniment recule»4. Stando così le cose, non sarebbe azzardato supporre che il progetto di una archeologia del sapere e quello di una ontologia della letteratura costituiscano due aspetti intrecciati della stessa deriva riflessiva. Il sospetto che questo progetto accompagni e sostenga in un modo discreto, però determinate, M. Foucault, Préface, in DE, I, pp. 166-167. La citazione di René Char rinvia a R. Char, Suzerain, in Le poème pulvérisé, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1983, p. 260. 4 M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, pp. 394-395. 3


Un mormorio infinito… Ontologia della letteratura e archeologia del sapere 93

il lavoro archeologico di Foucault, costituisce un indizio sufficiente per prestargli un’attenzione scrupolosa5. II. Cos’è la letteratura? – questa è la domanda ricorrente nelle prime pagine del testo di Foucault, domanda celebre nel contesto parigino, che ha avuto il suo punto di partenza in Jean-Paul Sartre ed echi che arrivano in modo evidente a Blanchot6. Ciononostante, rispondendo a questo inAnche se presente in modo latente in tutti gli scritti letterari dell’epoca, Foucault si riferisce esplicitamente ad una possibile ontologia della letteratura solo un paio di volte e in un unico testo – non in Linguaggio e letteratura (da qui in avanti LL, seguito dal numero di pagina della traduzione italiana pubblicata su questa stessa rivista), dove parlerà della possibilità di una ontologia del linguaggio (cfr. LL, p. 50). Questi i termini in cui ne parla: «Je me demande si on ne pourrait pas faire, ou du moins esquisser à distance, une ontologie de la littérature à partir de ces phénomènes d’autoreprésentation du langage ; de telles figures, qui sont en apparence de l’ordre de la ruse ou de l’amusement, cachent, c’est-à-dire trahissent, le rapport que le langage entretient avec la mort -avec cette limite à laquelle il s’adresse et contre laquelle il est dressé. Il faudrait commencer par une analytique générale de toutes les formes de réduplication du langage dont on peut trouver des exemples dans la littérature occidentale. Ces formes à n’en pas douter sont en nombre fini, et on doit pouvoir en dresser le tableau universel. Leur extrême discrétion souvent, le fait qu’elles sont parfois cachées et jetées là comme par hasard ou inadvertance ne doivent pas faire illusion : ou plutôt il faut reconnaître en elles le pouvoir même de l’illusion, la possibilité pour le langage (chaîne monocorde) de se tenir debout comme une œuvre. La réduplication du langage, même si elle est secrète, est constitutive de son être en tant qu’œuvre, et les signes qui peuvent en apparaître, il faut les lire comme des indications ontologiques»; M. Foucault, Le langage à l’infini (1963), in DE, I, p. 253. La stretta parentela tra i due progetti è percepibile anche nel modo condizionale condiviso dalle due enunciazioni. Si ricordi, per esempio, la valutazione che fa Foucault del percorso portato avanti ne L’archéologie du savoir: «Plutôt que de fonder en droit une théorie – et avant de pouvoir éventuellement le faire (je ne nie pas que je regrette de n’y être pas encore parvenu) – il s’agit pour l’instant d’établir une possibilité»; M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, p. 150. 6 «Ammettiamo che la letteratura inizi nel momento in cui diviene domanda. Una domanda che non si confonde con i dubbi o gli scrupoli dello scrittore. Sorge in lui, se egli giunge ad interrogarsi, mentre scrive. Che sia preso da ciò che scrive ed indifferente alla possibilità di scrivere, che addirittura no pensi a nulla, è suo diritto ed è la sua felicità. Ma rimane ciò: una volta che la pagina è scritta, è presente, in questa pagina, la domanda che, a sua insaputa forse, non ha smesso di interrogare lo scrittore mentre scriveva; ed ora, nel cuore dell’opera, in attesa di un incontro con un lettore e no importa quale, se profondo o superficiale è silenziosamente riposta la stessa domanda, rivolta al linguaggio alle spalle di chi scrive e legge attraverso qual linguaggio che è divenuto letteratura»; M. Blanchot, La Littérature et le droit à la mort, in «Critique», n. 20 (1948), pp. 30-47, ora in 5


94 Miguel Morey terrogativo Foucault segue altri percorsi, determinati innanzitutto dall’orizzonte filosofico che permea l’intero testo. Si potrebbe schizzare questo orizzonte rapidamente, in poche righe. In primo luogo, bisognerebbe ricordare che la formazione universitaria di Foucault è fortemente segnata dalla tradizione della filosofia trascendentale, da Kant alla fenomenologia. E ciò impone, in modo quasi automatico, una torsione trascendentale all’apparente essenzialismo della domanda, trasformandola da “che è…?” a “come è possibile…?”. Inoltre, è ben nota anche l’importanza che nella formazione foucaultiana ha avuto Nietzsche, per il quale la questione non era tanto dirimere le caratteristiche della soggettività trascendentale che sente i limiti di tutta l’esperienza possibile, quanto riflettere sul tipo di soggettività che soggiace a una determinata esperienza del reale. Per cui la domanda “come è possibile…?” si trasforma in “chi può, da dove, e perché affermare che…?”. Modificata in questo modo, la questione del “si può” non si riferisce solo alla mera possibilità logica e discorsiva, ma anche e prima di tutto al potere. Infine, bisogna aggiungere a quanto già detto che, per lo meno dal 1958, anno in cui Claude Lévi-Strauss pubblica su «Anthropologie structurale», la domanda sul soggetto trascendentale viene progressivamente sostituita da quella che si interroga sul campo trascendentale (le famose “strutture”) che soggiace a tutta l’esperienza, a partire proprio dal linguaggio – senza la cui capacità strutturante nulla di quello che propriamente può essere chiamato esperienza sarebbe possibile. Queste tre linee interpretative, qui solo accennate, ci mostrano uno sfondo sul quale è possibile dare spessore ad alcune delle principali scelte del percorso foucaultiano, che si manifestano in modo evidente nel testo di cui ci occupiamo e che, a loro volta, rinviano strettamente all’insieme delle decisioni che orientano lo sviluppo generale del suo lavoro. Proprio per questo è importante sottolineare l’elemento dinamico che muove il pensiero foucaultiano nel suo insieme, e questo altro non è se non la sua volontà di fuga, tanto dalla formazione ricevuta, quanto dal consenso delle idee dominanti, ovvero dalla filosofia trascendentale e dallo strutturalismo M. Blanchot, La Part du feu, Gallimard, Paris 1949, pp. 312-331 e anche in M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Gallimard, Paris 1981, pp. 35-61. In riferimento a Sartre, cfr. J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la littérature ?, in «Les Temps Modernes» (1947) e raccolto in Situations II, Gallimard, Paris 1948.


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– una volontà di fuga che trova in Nietzsche un impulso imprescindibile7. Inoltre, per sottolineare la profonda prossimità fra il lavoro che consociamo come archeologia del sapere e il progetto di una ontologia della letteratura, va anche ricordato che Foucault arriva a Nietzsche tramite una via d’accesso “letteraria”, e cioè attraverso Bataille, Blanchot, Klossowski. Infine, è anche probabile che l’emancipazione dall’antico prestigio concesso al soggetto trascendentale abbia avuto molto a che vedere con la “de-soggettivazione” ereditata dal pensiero nietzschiano, che Foucault interpreta ponendo la sua attenzione sulle “pratiche” (discorsive o no, tanto dell’ordine del dicibile quanto di quello del visibile) invece di agganciare la questione ai tipi (la psicologia nietzschiana). Le operazioni effettuate per raggiungere questo obiettivo sono sorprendenti, però la mediazione di autori come Bataille e altri, che non avevano interpretato in modo accademico l’opera di Nietzsche ma che tentavano di mettere alla prova il suo pensiero, è stata sicuramente fondamentale – soprattutto perché gli hanno insegnato a confrontarsi faccia a faccia con il pensiero nietzschiano, a guadagnare e a perdere in questo gioco e, soprattutto, a scappare sempre da qualsiasi forma di metalinguaggio8. III. Il tempo specifico di una conferenza non è uguale a quello che troviamo nello spazio del libro: si tratta, infatti, di un tempo inadempiente, durante il quale si evidenzia inevitabilmente l’articolazione dubbiosa della riflessione. È per questo che lo spostamento dalla domanda “chi è…?” a “come è possibile…?” non solo arriva dopo qualche pagina, nonostante tale interrogativo sia effettivamente presente fin dalle prime righe dell’opera, ma quando compare arriva di sguincio (perché e quando l’opera diventa «Les auteurs les plus importants qui m’ont, je ne dirais pas formé, mais permis de me décaler par rapport à ma formation universitaire, ont été des gens comme Bataille, Nietzsche, Blanchot, Klossowski, qui n’étaient pas des philosophes au sens institutionnel du terme, et un certain nombre d’expériences personnelles, bien sûr. Ce qui m’a le plus frappé et fasciné chez eux, et qui leur a donné cette importance capitale pour moi, c’est que leur problème n’était pas celui de la construction d’un système, mais d’une expérience personnelle. À l’université, en revanche, j’avais été entraîné, formé, poussé à l’apprentissage de ces grandes machineries philosophiques qui s’appelaient hégélianisme, phénoménologie…»; M. Foucault, Conversazione con Michel Foucault, in DE, IV, pp. 41 ss. 8 Per una critica alla nozione di metalinguaggio, cfr. LL, pp. 47-48 ss. 7


96 Miguel Morey letteratura?). In modo analogo, anche se il primo abbozzo di quella che sarà l’ipotesi principale sostenuta nel testo già appaia nel terzo paragrafo («…non sono affatto sicuro che la letteratura sia così antica come si ha l’abitudine di sostenere»; LL, p. 28), essa raggiunge la sua piena formulazione solo alla fine della seconda sessione («…la letteratura, questa invenzione recente che ha meno di due secoli…»; LL, p. 66)9, cioè al termine del percorso argomentativo. Però, grazie all’argomentazione sulla quale si sostiene, questa prima apparizione servirà per stabilire una distinzione d’importanza cruciale per lo sviluppo della riflessione. Scrive infatti Foucault: «…se il rapporto tra l’opera di Euripide e il nostro linguaggio è letterario, il rapporto tra questa stessa opera e il linguaggio greco non è certamente tale» (LL, p. 28). Si stabilisce così come punto di partenza un nesso fra tre termini: il linguaggio, l’opera e la letteratura, che, nelle loro diverse combinazioni, costituirà il filo conduttore che guida lo sviluppo della domanda sull’essere della letteratura. Il linguaggio rimane definito secondo la regola del momento: è, da un lato, il sistema della lingua, il codice, limite e condizione di possibilità del dicibile e, dall’altro, è il discorso, il mormorio interminabile, formato dall’insieme storico di tutto quello che effettivamente si è detto. L’opera, invece, si caratterizza come una configurazione del linguaggio («un certo volume opaco e probabilmente enigmatico»; LL, p. 28) nel quale il mormorio è compreso e contenuto in uno spazio che è quello proprio del libro. Si deve segnalare la vicinanza di questa affermazione con uno dei procedimenti generali più importanti ai quali Foucault ricorre per suffragare le sue indagini archeologiche, la cui formulazione più conosciuta si trova in conclusione di Les mots et les choses («L’homme est une invention dont l’archéologie de notre pensée montre aisément la date récente. Et peut-être la fin prochaine», p. 398), ma che è ugualmente presente in tutte le sue opere archeologiche e non solo. Si veda per esempio La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, p. 208: «Peut-être un jour s’étonnera-t-on. On comprendra mal qu’une civilisation si vouée par ailleurs à développer d’immenses appareils de production et de destruction ait trouvé le temps et l’infinie patience de s’interroger avec autant d’anxiété sur ce qu’il en est du sexe ; on sourira peut-être en se rappelant que ces hommes que nous avons été croyaient qu’il y a de ce côté-là une vérité au moins aussi précieuse que celle qu’ils avaient déjà demandée à la terre, aux étoiles et aux formes pures de leur pensée». Qui è ancora più evidente l’effetto intempestivo (basti solo notare l’uso magistrale dei tempi verbali) di matrice nietzschiana che è sempre implicito nella denuncia del carattere di invenzione recente delle nostre presunte certezze di verità eterne. Inoltre, già dalle prime righe de La folie, l’absence d’œuvre, che può essere intesa come una coda alla conclusione della Histoire de la folie, incontriamo lo stesso gesto: «Peut-être, un jour, on ne saura plus bien ce qu’a pu être la folie…»; M. Foucault, La folie, l’absence d’œuvre, in DE, I, p. 412. 9


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E, finalmente, della letteratura si può dire che è irriducibile agli altri due termini e che forma il vertice di un triangolo attraverso il quale passa tutta la relazione dell’opera con il linguaggio e del linguaggio con l’opera. Detto nei termini de L’archéologie du savoir, la letteratura ci metterebbe di fronte alla possibilità di un dominio discorsivo le cui funzioni enunciative hanno come correlato oggetti autoreferenziali (non solo parole, ma neanche cose) e le cui modalità enunciative (autore, libro, opera…) si situano tra il soggetto trascendentale e la soggettività psicologica, ma che non sono né l’una né l’altra, poiché sono “fra”. E se a questo aggiungiamo la questione del perché la possibilità di un siffatto dominio discorsivo sia diventata tanto necessaria, si può giustificare pienamente l’interesse del Foucault “archeologo” per la letteratura andando ben oltre il mero interesse verso i possibili punti ciechi presenti nel sistema. È anche vero, però, che questa posizione è reversibile e, quindi, bisognerebbe chiedersi in che misura siano stati questi punti ciechi ad aprire il rapporto tra la letteratura, il linguaggio e l’opera e a costruire il (progetto di) sistema che conosciamo come L’archéologie du savoir. IV. Il carattere di invenzione recente assegnato alla letteratura (o, se si preferisce, il fatto di considerala come effetto di una mutazione che determina una soglia irreversibile con l’epoca anteriore), permetterà a Foucault di segnare, passo passo, una lista di caratteri confrontabili attraverso la quale si può stabilire la differenza radicale che separa la forma classica della letteratura da quella moderna. Si potrebbe cercare di dar ordine ai tratti più rilevanti in un quadro (e ricordarsi che per Foucault un quadro è sempre una “serie di serie”) come il seguente: Concezione classica Relazione puramente passiva di sapere e di memoria, problema della ricezione.

Concezione moderna Relazione, caratterizzata dalla domanda critica (che cos’è la letteratura?) sulla relazione della letteratura con se stessa.


98 Miguel Morey Linguaggio che si dispiega su un supporto retorico: la letteratura narra la sua favola, sulla quale si collocano, in un secondo tempo, le figure che la costituiscono come letteratura.

Linguaggio che si dispiega su una foglio bianco: la letteratura deve narrare la sua favola e mostrare i segni che permettono di riconoscerla come letteratura. Il volume del libro sostituisce lo spazio della retorica.

L’opera esiste in funzione di un certo linguaggio che dovrebbe essere restituito: la parola di Dio.

Morte di Dio: il libro ha solo il mormorio infinito della biblioteca.

L’opera come rappresentazione.

L’opera come simulacro.

La sua funzione è raccogliere quello che non si deve dimenticare.

Si scopre legata, mediante la trasgressione e la morte, allo spazio del libro.

La soglia che separa le due concezioni si situa tra la fine del XVIII e i primi del XIX secolo e, volendola indicare in termini epici, ha il punto di rottura nella rivoluzione francese, ovvero nel momento della messa in scena della Morte di Dio nella ghigliottina e della conseguente nascita dell’Acefalo. Non c’è un’altra soglia così ben definita da Foucault nei suoi lavori archeologici, ed essa, d’altronde, è anche presente nei testi del suo percorso genealogico, come in Surveiller et punir (1975). Ora, per definire tale soglia, Foucault in qualche caso partirà da molto lontano (dal Medioevo in Histoire de la folie, dal Rinascimento in Les mots et les choses), in altri prolungherà l’analisi fino al nostro presente (come in Les mots et les choses, testo per il quale Foucault ha considerato il sottotitolo Une archeologie du structuralisme); infine, altre opere si legano strettamente al periodo che segna la soglia in questione (è il caso di Naissance de la clinique e di Surveiller et punir). In ogni caso, come succede nel testo di cui ci occupiamo, lo zenit di quel cambiamento di cui noi siamo eredi si colloca nel medesimo punto, e con esso troviamo sempre l’avvertenza secondo la quale, se siamo capaci di percepire questa mutazione, è perché abbiamo stabilito con essa una distanza che può essere indicativa del fatto che la nostra esperienza (della pazzia, della malattia clinica, dell’uno dell’umanesimo o delle scienze umane, e anche della letteratura) è alla vigilia di una nuova mutazione. Peut-être, un jour…


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V. Per cominciare a pensare questa mutazione che fa apparire la letteratura nel senso moderno del termine, sarà necessario liberarsi preventivamente da due pregiudizi, due inerzie, due idee preconcette. In primo luogo, l’idea che la domanda critica è qualcosa di esteriore, una sorta di linguaggio secondo sovrapposto alla letteratura. La seconda è l’idea che la letteratura «è un linguaggio, un testo fatto di parole – di parole come le altre –, che sono però talmente studiate e cesellate che, attraverso di esse, passa qualcosa di ineffabile» (LL, p. 30)10. Rispondendo alla prima questione, Foucault ribadisce che la domanda critica è interna alla letteratura: essa, quindi, «non si sovrappone alla letteratura, non si aggiunge alla letteratura attraverso una coscienza critica supplementare: è l’essere stesso della letteratura, originariamente lacerato e fratturato» (LL, p. 30): essa è un vuoto, una cavità che la letteratura non smette di scavare nel linguaggio11. Rispetto al secondo pregiudizio, invece, Foucault afferma che la letteratura è innanzitutto favola, però una favola che «è detta in un linguaggio assente, omicida e doppio, che è simulacro, e grazie al quale mi sembra sia possibile un discorso sulla letteratura. Un discorso che è altra cosa rispetto alle allusioni di cui si sente parlare da centinaia di anni a proposito del silenzio, del segreto, dell’indicibile, delle modulazioni del cuore e di tutte queste suggestioni dell’individualità sulle quali la critica, fino ad ora, ha costruito la propria inconsistenza»12 (LL, p. 30). Vediamo in opera la stessa posizione, questa volta dal punto di vista dell’autore, che Foucault assume in riferimento al procedimento di Roussel, che «consiste justement à purifier le discours de tous ces faux hasards de “l’inspiration”, de la fantaisie, de la plume qui court, pour le placer devant l’évidence insupportable que le langage nous arrive du fond d’une nuit parfaitement claire et impossible à maîtriser»; M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1963, p. 55. 11 La questione della critica occuperà praticamente tutta la seconda sessione, così come indica in modo chiaro la domanda con la quale si apre: “È così evidente che si può parlare di letteratura?” Questa domanda conferma il disinteresse della critica al momento psicologico della creazione e lo spostamento d’attenzione verso la stessa scrittura, e, di conseguenza, la conversione della critica in un atto di scrittura. La prossimità di questa problematica con il lavoro archeologico è qui molto netta. A tal proposito, cfr. M. Foucault, Les mots et les choses, cit., pp. 58-59. 12 A tal proposito, si può ricordare quanto affermato all’inizio di L’Arrière-fable: «En toute œuvre qui a forme de récit, il faut distinguer fable et fiction. Fable, ce qui est raconté (épisodes, personnages, fonctions qu’ils exercent dans le récit, événements). Fiction, le régime du récit ou plutôt les divers 10


100 Miguel Morey Vediamo qui in opera quel processo di negazione di tutto l’universo antropologico che caratterizza anche il lavoro archeologico. Foucault, infatti, procede da un lato alla negazione dell’idea che un determinato “ambito storico” sia spiegabile facendo ricorso alla figura di un soggetto fondatore – in questo caso l’autore o il critico – e, dall’altro, alla negazione dell’idea che tale “ambito” sia ordinabile secondo una storia lineare e continua – in questo caso l’affermazione di una mutazione irrevocabile che separa la letteratura moderna da quella classica. Ed è chiaro che, a cominciare da qui, bisognerebbe poter disegnare il campo trascendentale dal quale dipendono le scelte che si effettuano nei diversi “ambiti”, operazione possibile solo a condizione di assumere che gli a-priori che articolano questo campo siano anche e sempre di carattere storico – ed è proprio in questo punto che l’archeologia, ricorrendo alla nozione di enunciato e di discorso, marca la sua maggiore divergenza, la sua distanza specifica rispetto al canone strutturalista. Ciononostante, come se si trattasse di un effetto collaterale, questo spostamento non può realizzarsi senza portare in qualche modo alla dissoluzione della nozione stessa di “campo trascendentale” e alla sua sostituzione con nozioni quali “positività” o “esteriorità”, nozioni a partire dalle quali si abilita lo spazio idoneo per una genealogia del potere. VI. La letteratura moderna, ci viene detto, comincia di fronte al foglio bianco. Quindi, nessuna figura retorica si arroga preventivamente il diritto di disegnare parole letterarie sopra il foglio. Inoltre, né il codice della lingua, né gli usi della parola quotidiana garantiscono alle parole che si stanno disegnando sopra un foglio di poter essere classificate come “letterarie”. Il foglio bianco, perciò, apre un vuoto nell’essere stesso del linguaggio: la questione della sua semplice possibilità, che non è se non un abisso affarégimes selon lesquels il est “récité” : posture du narrateur à l’égard de ce qu’il raconte (selon qu’il fait partie de l’aventure, ou qu’il la contemple comme un spectateur légèrement en retrait, ou qu’il en est exclu et qu’il la surprend de l’extérieur), présence ou absence d’un regard neutre qui parcourt les choses et les gens, en assurant une description objective ; engagement de tout le récit dans la perspective d’un personnage ou de plusieurs successivement ou d’aucun en particulier ; discours répétant les événements après coup ou les doublant à mesure qu’ils se déroulent, etc. La fable est faite d’éléments placés dans un certain ordre. La fiction, c’est la trame des rapports établis, à travers le discours lui-même, entre celui qui parle et ce dont il parle. Fiction, “aspect” de la fable»; M. Foucault, L’Arrière-fable, in DE, I, p. 506.


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scinante davanti al mistero della sua origine. Un’origine che, ricondotta alla sua positività più elementare, rinvia all’istante in cui si compie una semplice evidenza: al momento di parlare, «les mots sont déjà là, mais qu’avant de parler, il n’y a rien»13. Potrebbe essere questa la prima lezione che il foglio bianco impone a questo essere che si cerca e che vuole chiamarsi letteratura, la prima lezione che la letteratura ci regala. Sappiamo che la coscienza moderna del linguaggio interrompe, mediante il ricorso alla nozione di segno, l’innocente comprensione classica del linguaggio inteso come rappresentazione. Con la modernità, infatti, i segni, nominando qualcosa, ne nominano l’assenza. Essi dicono qualcosa che non è lì, che è assente, poiché è sostituito da segni arbitrari che si sostengono sopra un sistema di possibili combinazioni e permutazioni tra particelle elementari che mancano di significato, poiché sono proprio tali combinazioni a costituirsi come condizione di possibilità del senso del segno. Si potrebbe dire che la letteratura moderna duplica, dall’altro estremo, questo paradosso costitutivo del linguaggio. Infatti, il paradosso costitutivo della letteratura è che, non sostenendosi se non sopra il foglio bianco, non può cominciare che profanando questo spazio che la sostiene attraverso una trasgressione, e quindi correndo il rischio di auto-riconoscersi (auto-implicarsi) come letteratura – arrivando anche a costituirsi come trasgressione di tutta la letteratura anteriore, con il tentativo di eliminarla per ritornare alla pagina in bianco. Ed è esattamente questo il ruolo e l’importanza che ha Sade nella nascita della letteratura moderna. Ora, al lato opposto di questo gesto ne incontriamo un altro (di nuovo un paradosso) che gli è complementare e che ha in Chateaubriand una figura emblematica. Tale gesto consiste nel fatto che questa parola che cerca di cancellare tutta la letteratura anteriore, non smette di “farle cenno”, non smette, cioè, di volersi inserire nel cuore di questo mormorio, ma con la coscienza di essere una parola postuma che apre una soglia decisiva in questo mormorio interminabile che è quello della biblioteca14. Cfr. M. Foucault, Raymond Roussel, cit., p. 54. Così, si può dire che, per Chateaubriand, era evidente «che la parola che scriveva aveva senso nella misura in cui era in qualche modo già morto, cioè nella misura in cui la parola fluttuava al di là della sua vita e della sua esistenza. Mi sembra che la trasgressione e il passaggio oltre la morte rappresentino le due grandi categorie della letteratura contemporanea. Se volete, si potrebbe dire che, nella letteratura, in questa forma di linguaggio che esiste dal XIX secolo, non ci sono che due soggetti reali, due soggetti che parlano – Edipo per la trasgressione e Orfeo per la morte. E, allo stesso tempo, non ci sono che 13 14


102 Miguel Morey Basterebbe, a volte, ricordare il ruolo attribuito a Sade in Histoire de la folie o ne Les mots et les choses per sottolineare l’importanza della nozione di trasgressione, tanto per l’ontologia della letteratura quanto per l’archeologia del sapere. Sarebbe però senza dubbio più preciso ed efficace fare un passo ulteriore, meno evidente, ma più determinante nello sviluppo del lavoro archeologico e ricordare, in primo luogo, il carattere trasgressivo attribuito alla follia, con tutto quello che esso implica. Sarebbe poi importante sottolineare il legame tra la nozione di trasgressione e quella di limite e di partage, nozioni dominanti nelle analisi archeologiche di Foucault, fin dalle prime righe di Histoire de la folie15. E infine, si potrebbe cominciare ad interrogare la rilevanza archeologica delle nozioni di morte e di biblioteca, facendo riferimento, nel primo caso, alle pagine finali di Naissance de la clinique16 e, nel secondo, monitorandone la presenza continua in Les mots et les choses, soprattutto confrontandola con la nozione di archivio così come è tematizzata in L’archéologie du savoir17, testo che probabilmente segna il due figure di cui si parla e verso le quali, a voce bassa e indirettamente, ci si indirizza – la figura di Giocasta profanata, la figura di Euridice perduta e ritrovata» (LL, p. 36). Il ruolo che viene attribuito a Chateaubriand appare solo in questo testo (Foucault, infatti, non si riferirà mai più a lui nei propri scritti). Si può perciò presupporre che il suo compito finisca per essere sostituito in modo più efficiente dalla figura di Flaubert (si veda al riguardo, per esempio, M. Foucault, Postface à Flaubert, in DE, I, p. 293 ss., specialmente p. 299). 15 «Il y a certainement dans chaque culture une série cohérente de gestes de partage, dont la prohibition de l’inceste, la délimitation de la folie et peut-être certaines exclusions religieuses ne sont que des cas particuliers. La fonction de ces gestes est, au sens strict du terme, ambiguë : au moment où ils marquent la limite, ils ouvrent l’espace d’une transgression toujours possible». Si veda M. Foucault, Les déviations religieuses et le savoir médical, in DE, I, p. 624. 16 «Cette expérience médicale est par là même apparentée à une expérience lyrique qui a cherché son langage de Hölderlin à Rilke. Cette expérience qu’inaugure le XVIIIe siècle et à laquelle nous n’avons pas encore échappé, est liée à une mise au jour des formes de la finitude, dont la mort est sans doute la plus menaçante, mais aussi la plus pleine. […] D’une manière qui peut paraître étrange au premier regard, le mouvement qui soutient le lyrisme au XIXe siècle ne fait qu’un avec celui par lequel l’homme a pris une connaissance positive de lui-même ; mais faut-il s’étonner que les figures du savoir et celles du langage obéissent à la même loi profonde, et que l’irruption de la finitude surplombe, de la même façon, ce rapport de l’homme à la mort qui, ici, autorise un discours scientifique sous une forme rationnelle, et là ouvre la source d’un langage qui se déploie indéfiniment dans le vide laissé par l’absence des dieux ?»; M. Foucault, Naissance de la clinique, Gallimard, Paris 1963, p. 202. 17 «Entre la langue qui définit le système de construction des phrases possibles, et le corpus qui recueille passivement les paroles prononcées, l’archive définit un niveau particulier : celui d’une pratique qui fait surgir une multiplicité d’énoncés comme autant d’événements réguliers, comme autant de choses offertes au traitement et à la manipulation. Elle n’a pas la lourdeur de la tradition ; et elle ne constitue pas la bibliothèque sans temps ni lieu de toutes les bibliothèques ; mais elle n’est pas non plus l’oubli


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punto a partire dal quale si diluisce tanto il lavoro archeologico, quanto il progetto di una ontologia della letteratura, per cedere il passo ad un altro momento del pensiero, chiamato genealogia18. VII. Se potessimo fermarci su ognuna delle nozioni che gradualmente si mettono in gioco in tutto lo sviluppo della conferenza, sicuramente avremmo sempre maggiori indizi di quello cui alludevamo all’inizio, segnali chiari del profondo legame tra il progetto di una ontologia della letteratura e la parte dell’opera foucaultiana che viene definita archeologia – indizi ai quali a volte bisognerebbe prestare la dovuta attenzione, se si vuole intendere un po’ meglio il pensiero di Foucault. Se non altro perché uno dei fili rossi più affascinanti che ricorre nella sua opera è il modo in cui si articolano discorsivamente esperienze cognitive di origine non discorsiva. Forse dobbiamo cercare lì le ragioni tanto della sua attenzione ai movimenti paradossali del discorso, quanto della sua ostilità di fronte all’imposizione della regola dialettica come modello del pensiero. Traduzione dallo spagnolo di Miriam Iacomini

Miguel Morey Universidad de Barcelona morey@ub.edu accueillant qui ouvre à toute parole nouvelle le champ d’exercice de sa liberté ; entre la tradition et l’oubli, elle fait apparaître les règles d’une pratique qui permet aux énoncés à la fois de subsister et de se modifier régulièrement. C’est le système général de la formation et de la transformation des énoncés»; M. Foucault, L’archéologie du savoir, cit., p. 171. 18 Anche se rimane sempre il carattere esemplare della letteratura nella sua riflessione. Basterà ricordare che alla citazione di René Char viene consegnato il finale di Histoire de la sexualité: «L’histoire des hommes n’est qu’une longue succession de synonymes d’un même vocable. Y contredire est un devoir»; R. Char, L’Âge cassant, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1995, p. 766. Rispetto poi alla presunta “sostituzione” del metodo archeologico con quello genealogico, è utile ricordare che Foucault nel corso di una conversazione con Dreyfus e Rabinow, il 26 aprile del 1983, afferma: «Archeologia: metodo per una genealogia storica, che assume come campo di analisi i discorsi; i discorsi considerati come eventi; legati da regole di pratiche discorsive»; Nota manoscritta conservata all’IMEC, Fonds Michel Foucault, documento D-250/942.1988. Una parte di questa conversazione si trova in H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault : un parcours philosophique, Gallimard, Paris 1984.


104 Miguel Morey

. An Endless Murmur… Ontology of Literature and Archaeology of Knowledge The aim of this article is to stand out the importance of literary critic topic in Michel Foucault’s work. In this sense, the two lectures titled Langage et littérature are an outstanding example. Far to be a secondary or a minor aspect of his work, the project to build up the ontology of literature is the other side of Foucault’s research known as archaeology of knowledge (1961-1969): this project begins and finishes at the same dates, conducting this research as a necessary testing ground particularly productive. Keywords: Ontology of literature, Archaeology of knowledge, Language, Work, Critical question, Blank paper, Library.


La letteratura e il diritto alla follia.

Blanchot, Foucault e la questione della letteratura Bruno Moroncini

Per la generazione cui appartengo, se non per tutti, tuttavia per molti, una delle situazioni privilegiate d’accesso, per dirla come Heidegger, alla filosofia, è stata la letteratura. E non nel senso istituzionale e canonico che il termine letteratura acquista inevitabilmente per colui che l’appartenenza di classe unita alla provenienza familiare destina in Italia agli studi classici, bensì in quello per cui la letteratura si trasforma in lituraterre, in cui una lettera (Letter) diviene carta straccia (Litter), scarto, spazzatura (Ordure), forse resto anale1. La mia prima incursione nel campo della teoria letteraria, dovuta all’amicizia di Giuseppe Zuccarino, da tempo uno dei critici e teorici della letteratura italiani più importanti, è stata non a caso un saggio che provava a ricostruire i rapporti complessi e dissonanti fra Jacques Lacan e Jacques Derrida, usando come cartina di tornasole il loro conflitto interpretativo rispetto a un testo letterario come il racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata2. Non riprenderò qui l’intera analisi che allora – oggi molto meno – privilegiava Derrida; mi interessa riprendere alcuni punti generali sui quali convengo ancora oggi. A partire da quello che mi sembrava un travisamento del dispositivo della decostruzione ridotta alla tesi soprattutto nordamericana (penso in particolare a Richard Rorty) secondo la quale la filosofia non era altro che un genere letterario, provavo ad argomentare che proprio l’incontro sconvolgente fra discorsi e pratiche così diversi e conflittuali quali la letteratura, la filosofia e la psicoanalisi, esemplato sulla lettura da parte di Il riferimento è al neologismo lacaniano Lituraterre che fa da titolo a un intervento pubblicato nel 1971 sulla rivista «Littérature» n. 3 (1971) dedicato al tema “letteratura e psicoanalisi” e leggibile oggi in J. Lacan, Autres écrits, Seuil, Paris 2001, pp. 11-20. 2 Cfr. B. Moroncini, La lettera disseminata e l’invenzione della verità. Poe, Lacan, Derrida, in G. Zuccarino, Palinsesto. I modi del discorso letterario e filosofico, Marietti, Genova 1990, pp. 117-146. Di Giuseppe Zuccarino su Foucault si veda L’ambivalenza della critica e il paradosso del commento in Foucault, in Id., Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, Graphos, Genova 2000, pp. 50-83. 1

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 105-125.


106 Bruno Moroncini Lacan della Lettera rubata di Poe e sulla contro-interpretazione di Derrida, apriva la strada non solo ad una messa in discussione del genere di discorso filosofico sottratto in tal modo al primato dell’apodissi, ma anche a quello letterario liberato da quello dei valori umanistici. Ricordavo che l’enunciato di Derrida non era che la filosofia fosse un genere letterario, bensì un genere di scrittura, e che il concetto di scrittura, perlomeno da Mallarmé in poi, aveva scavato un vuoto all’interno dell’istituzione letteraria, modificandone profondamente lo statuto e le procedure. Senza contare poi il fatto che, agli occhi di Derrida, anche la psicoanalisi freudiana – da qui forse l’insofferenza nei confronti di Lacan – andasse rubricata sotto l’etichetta della scrittura. L’accento posto sulla scrittura svolge allora, rispetto alla letteratura, una duplice funzione: la riconduce alla sua radice e allo stesso tempo la disloca, la fa deragliare dalla direzione da cui sembrava non doversi allontanare mai. La letteratura come istituzione consolidata, sicura dei suoi confini e dei suoi mezzi di trasmissione, scrivevo, «è il lascito scritto (grammata), un certo invio, destinazione, spedizione di tale lascito ed insieme il progetto consapevole di ripresa, conservazione, salvezza e trasmissione di ciò che come grammata iscrive e fa permanere i valori dell’Humanitas. Letteratura, dunque, come scrittura e lettera, iscrizione e spedizione; e insieme come rivelazione del passato e annuncio avvenire della verità dell’Humanitas»3. Un insieme di valori, norme, saperi, comportamenti e ideali di vita, formatisi in un determinato momento storico e denominato a partire dalla sua prima ripresa “umanesimo” si affida, per trasmettersi e durare nel tempo, come sempre accade alla scrittura, al gramma; ma, come si sa, da Platone in poi il gramma, la lettera scritta, si espone, una volta che il suo autore sia scomparso o non sia in condizione di assistere quella che crede essere una sua creatura, a un uso potenzialmente sregolato, a ogni genere di misinterpretazione, ad ogni contaminazione e violazione possibili. Per scongiurare tale esito, d’altronde inevitabile, o almeno per ridurne al minimo l’impatto, non c’è che un modo: rendere istituzionali i criteri dell’interpretazione della lettera, anticiparli e imporli in modo da evitare quanto più è possibile le contaminazioni e le degenerazioni. La letteratura ha il compito di proteggere la lettera, anche con la violenza se fosse necessario, dall’intrusione dell’interprete tendenzioso, dagli sconfinamenti dei discorsi scandalosi e dalle incursioni delle pratiche perverse. 3

B. Moroncini, La lettera disseminata e l’invenzione della verità, cit., p. 118.


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Ma la lettera per sua natura devia (l’inglese purloined vale più deviata che rubata), scarta, e ciò facendo diventa scarto, carta straccia, rifiuto: l’Humanitas finisce in spazzatura. Vista oggi la disputa fra Lacan e Derrida sul fatto se la lettera giunga sempre alla sua destinazione o se invece possa sempre non giungere a destinazione, se cioè essa, per quante deviazioni prenda, finisca ogni volta per sottomettersi alla legge che ne regola i percorsi o se, al contrario, si partisca e si dissemini in modo incontrollabile, sembra meno rilevante di quanto apparisse allora4: anche per Lacan si presenta un caso in cui la lettera viene appallottolata e buttata via, uscendo definitivamente di scena, ossia sottraendosi una volta per tutte alla possibilità di essere ricevuta dal destinatario. È ciò che accade in quella che Lacan definisce la prima scena del racconto di Poe: un astuto Ministro si accorge che una lettera giacente su di un tavolo mette manifestamente in imbarazzo la Regina, preoccupata che il Re possa chiedere di leggerla. Approfittando della situazione, sostituisce rapidamente la lettera incriminata con un fac-simile innocuo, senza che la Regina possa far niente per opporsi al suo maneggio: pensa così facendo di acquisire un potere sulla Regina, minacciandola di consegnare la lettera al Re. Usciti di scena il Re e il Ministro, alla Regina non resta che appallottolare quella copia della lettera lasciata dal Ministro che non serve a niente ed è pura carta straccia. Nel seminario quasi coevo al Seminario sulla Lettera rubata dedicato alla relazione d’oggetto, all’interno di un’analisi del caso clinico freudiano sulla fobia in un bambino di cinque anni, il cosiddetto “piccolo Hans”, Lacan lega la lettera appallottolata all’immagine della giraffa sgualcita: nella proliferante produzione “letteraria” del piccolo Hans, che tanta ammirazione suscita nei lettori di Freud, imbambolati dalle meraviglie dell’infanzia, spicca a un certo punto il racconto di un sogno in cui, nella camera dove Hans dorme, compaiono di notte due giraffe, una grande e grossa e l’altra piccola e sgualcita. Hans non solo strappa la piccola giraffa a quella grande provocando l’ira di quest’ultima, ma le si siede sopra stroppicciandola ancora di più. Una volta esauritosi il rituale interpretativo che tenta di assegnare ad ogni costo un significato determinato alle due giraffe – indifferentemente padre e madre, padre e bambino, madre e bambino – Lacan può far Ho ricostruito questo scontro teorico e in parte anche personale fra Lacan e Derrida in Come in uno specchio: Lacan & Derrida, in «Il Pensiero», vol. 47 (2008), n. 1, pp. 67-90. 4


108 Bruno Moroncini vedere che la prestazione del sogno (cioè del suo racconto) è in realtà una sola: mostrare come da una catena di segni possa emergere il significante. Ricordiamo che, mentre un segno è ciò che rappresenta un significato per un soggetto, un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante e che il soggetto in questione è quello barrato della pulsione; di conseguenza, il significante del soggetto non ha significato, scarta dall’ordine della significazione5. Non c’è altro modo per dirlo: dal punto di vista della significazione, cioè del rapporto biunivoco fra segno e significato, il significante non serve a nulla, non significa nulla se non la deriva pulsionale, il carattere perversopolimorfo della sessualità umana, che si trasforma in desiderio non quando incontra la batteria dei significati ben ordinati e pronti all’uso come in un vocabolario, bensì il significante dell’Altro, il significante attraverso il quale si significa il desiderio dell’Altro, il suo capriccio e il suo arbitrio. Ciò che caratterizza il significante è appunto il fatto che se ne possa fare tutto quello che si vuole, tutto quello che viene dettato dalla pulsione e dal desiderio: attraverso le immagini dello sgualcito e dell’appallottolato, ciò che si afferma è il carattere – ci si scusi il bisticcio di parole – insignificante del significante, la sua inutilità che lo rende affine a uno scarto. Da ciò si evince il rapporto stabilito da Lacan fra la lettera e il significante: ferma restando la supremazia di quest’ultimo in quanto articolazione sonora, vocalizzazione, per cui la prestazione fondamentale della lettera scritta è sempre e solo quella di indicare la pronuncia del vocabolo in questione, è altresì vero che solo la lettera, intesa come luogo materiale del significante, permette a quest’ultimo di condurre a rappresentazione il discorso dell’inconscio e il suo soggetto. Con la sua combinatoria completamente sganciata dall’ordine dei significati, la lettera fa da causa materiale della proliferazione significante, del discorso effettivo del soggetto. Ciò è ampiamente dimostrato dall’opera e dall’autore che, a partire dagli anni settanta, divengono per Lacan canonici ed esemplari: il Finnegan’s Wake di James Joyce. Come attestano le registrazioni in cui Joyce legge brani interi del suo testo, il gioco della lettera ottenuto con il rifiuto della punteggiatura, con lo sfruttamento sistematico della polisemia intrinseca alle lingue e con tutti i trucchi sofistici da sempre rifiutati con orrore dall’istituzione Su questo punto rinvio al mio Lacan, il mito, la logica, ovvero quanta intelligenza si nasconde sotto le “sciocchezze” del piccolo Hans, in R. Armellino e M. Parisi, Fobia e perversione nell’insegnamento di Jacques Lacan, Cronopio, Napoli 2012, pp. 181-210. 5


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letteraria, mira in ultima istanza alla dizione, all’effetto sonoro dell’impasto di parole, al carattere glossolalico del linguaggio infantile e perciò fonte, come nei bambini, di piacere, se non di godimento. Da questo punto di vista ha ragione Gabriele Frasca quando contrappone l’istituzione letteraria quale si consolida nell’Ottocento, in quanto apparato culturale coadiuvante il dominio della borghesia e che si fonda sul primato del testo tipografico, sul dominio dello sguardo panoramico e sulla lettura a labbra serrate, all’arte del discorso che privilegia la comunicazione orale, una cinestesia allargata e una comunità di lettori popolari e quasi analfabeti, una comunità di lettori in carne ed ossa anche quando fosse mediata come nel caso di Joyce da un dispositivo tecnico: quando contrappone, insomma, una lettera morta o che muore a una parola viva6. Resta sempre vero, tuttavia, che senza il lavoro della lettera, cioè della scrittura, la stessa arte del discorso non sarebbe possibile: la rottura dello spazio tipografico e l’abbandono del primato alfabetico presuppongono la sottrazione della lettera all’ordine del senso. La messa alla prova della potenza combinatorio-copulatoria della lettera si fa comunque sulla pagina bianca, scrivendo; si può trasformare il testo tipografico in un geroglifico, disporre le lettere sulla pagina ignorando le prescrizioni dell’arte tipografica che vogliono il testo giustificato su entrambi i margini e che la lettura proceda da sinistra a destra, si può infrangere la regola che impone l’uniformità del carattere, si può fare insomma quello che fa Mallarmé quando scrive Un colpo di dadi non abolirà mai il caso, tutto questo è ancora esercizio di scrittura, pratica della lettera. Senza escludere, d’altronde, che durante questa operazione lo scrittore non provi a sonorizzare, vocalizzare, quanto (si) sta iscrivendo sulla carta (o sullo schermo del computer: la cosa non cambia) per vedere (sentire) l’effetto che fa. Se, per un verso, la letteratura come istituzione poggia il suo potere sulla lettera morta, per un altro la letteratura come pratica della scrittura rivendica un diritto alla morte. È Blanchot, uno degli autori di riferimento di Foucault, a tematizzare, nell’ormai lontano 1949, la coappartenenza del linguaggio e della morte: citando l’hegeliana filosofia dello spirito del 1803-1804, Blanchot ricorda che l’atto della nominazione che decide Cfr. G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Meltemi, Roma 2005. Un esempio forte di questo discorso è il teatro di Carmelo Bene che proprio perché è fondato sull’esclusivo primato della voce non disdegna, anzi promuove ed esalta, l’uso dei dispositivi tecnici più avanzati di riproduzione e amplificazione sonori. 6


110 Bruno Moroncini della supremazia di Adamo su tutti gli altri animali comporta in primo luogo la negazione di questi ultimi come esseri indipendenti e la loro trasformazione in entità ideali7. Per Blanchot, di conseguenza, «il senso della parola esige, come prefazione alla parola, un’immensa ecatombe, un diluvio preventivo che immerge in un vasto mare ogni creazione. Dio aveva creato gli esseri, ma l’uomo ha dovuto annientarli. È allora che essi acquistarono senso per lui ed egli li creò a sua volta, a partire da quella morte in cui erano scomparsi; soltanto che, al posto degli esseri, come si dice, viventi, vi fu solo l’essere e l’uomo fu condannato a non potersi accostare a nulla e a non vivere nulla se non per il senso che gli occorreva far nascere»8. Va da sé che il linguaggio non uccide nessuno; e tuttavia, appena nomino un essere, sia esso un gatto o una donna, la morte incomincia ad abitarlo: si stacca da sé, è sottratto all’esistenza e alla presenza, precipitato in un niente (néant) d’esistenza. Proprio come accade con il significante, di questo gatto e di questa donna posso fare quel che voglio, stropicciarlo e appallottolarlo, buttarlo via o nasconderlo credendo che mi sarà utile. A ben guardare, questo strano potere di dare la morte non riguarda solo le cose e gli esseri che mi trovo a nominare; nominando le cose nomino anche me stesso e, di conseguenza, mi lascio morire anch’io. Più esattamente si deve dire: quando parlo, «è la morte che parla in me»9. Parlare è il segnale che la morte, da quel preciso momento, circola nel mondo e lo rende possibile. Il potere di parlare si lega alla mia assenza d’essere: «Mi chiamo ed è come se pronunciassi il mio canto funebre, mi separassi da me stesso, non sono più la mia presenza né la mia realtà, ma sono una presenza oggettiva, impersonale, quella del mio nome che mi supera e la cui immobilità di sasso ha esattamente per me la funzione di una pietra tombale sospesa nel vuoto»10. Il linguaggio comincia con il vuoto: ciò che è pieno non parla. Lacan lo ripeterà così: al reale non manca nulla, è un tutto pieno, pieno anche dei suoi vuoti. Se non patisse del significante, se non venisse scaCfr. M. Blanchot, La letteratura e il diritto alla morte, trad. it. di G. Patrizi e G. Urso in Id., La follia del giorno, Elitropia, Reggio Emilia 1982, p. 93. Per il rimando a Hegel, cfr. Filosofia dello spirito jenese, trad. it. di G. Cantillo, Laterza, Roma–Bari 1984, p. 25. 8 M. Blanchot, La letteratura e il diritto alla morte, cit., p. 93. 9 Ivi, p. 94. 10 Ibidem. 7


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vato dalla mancanza a essere che il significante porta con sé, resterebbe silenzioso per l’eternità, non si rivelerebbe a nessuno. Per divenire parlante però deve essere annientato, se non realmente, almeno idealmente, virtualmente annientato. Non è ciò che è che si trasforma in parola, bensì ciò che non è, la non esistenza: affinché nasca il vero linguaggio, scrive Blanchot, è necessario «che la vita che questo linguaggio porterà abbia fatto l’esperienza del suo nulla, che abbia “tremato” nel profondo e che tutto ciò che in essa era fisso e stabile, abbia vacillato»11. Con buona pace di Bauman e di tutti i suoi pedissequi ripetitori, il linguaggio liquefa e liquida la pesantezza del mondo, abolisce il dominio di ciò che è, annuncia la rivoluzione. Non solo la letteratura si contempla nella rivoluzione, ma essa è il Terrore realizzato, vale a dire la morte all’opera, la morte nel suo aspetto più freddo, più piatto e più anonimo, una morte che, a differenza del negativo di cui parla Hegel, è inoperosa, inutile. Per Blanchot, come per Foucault e per tutta la generazione di pensatori e letterati della prima metà del Novecento, lo scrittore per eccellenza è Sade: una negazione incessante e un’opera destinata a durare nel tempo più delle Piramidi. In Sade si concentra tutta l’inutile grandezza della letteratura: un’esperienza unica e singolare, totalmente privata, ai limiti della follia e della crudeltà, sprezzante dei valori e della morale comune che si trasforma in una «parola pubblica che, consegnata alla storia, diviene spiegazione legittima dell’intera condizione umana»12. L’opera di Sade è «la negazione in sé: la sua opera non è che il lavoro della negazione, la sua esperienza, il processo della negazione accanita, all’ultimo sangue, che nega gli altri, nega Dio, nega la natura, gioisce di sé come dominio assoluto, in un circolo percorso incessantemente»13. D’altronde, se Sade è irricevibile dall’istituzione letteraria e dalla morale comune, non si può dire però che venga meno ai doveri imposti dalla letteratura: nessuno stile oscuro, nessun orpello inutile. Chi scrive più chiaro di Sade? Chi è più comunicativo, chi meno ermetico? E tuttavia, «in quale opera si ascolta un rumore così impersonale, così inumano»14, un tale “mormorio gigantesco e ossessionante” (Jean Paulhan)? Ogni opera ha insieme «la chiarezza del bel linguaggio che si parla» e «il senso opaco Ivi, p. 95. Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ivi, p. 111. 11 12


112 Bruno Moroncini di una cosa che mangia se stessa e che mangia, che divora, che s’inghiotte e si ricostituisce nello sforzo vano di tramutarsi in nulla»15. Giacché infine a impedire che l’esigenza e la tentazione del Terrore che animano la letteratura, quel desiderio negatore di tutto, quella morte furiosamente distruttrice, decadano in un’effettualità storico-politica da cui non potrebbero che essere traditi (il Terrore come dispositivo politico della Repubblica rivoluzionaria), sta il fatto che tutto può morire, tranne la morte. Se la possibilità della letteratura riposa sul suo diritto alla morte, quest’ultima va salvaguardata, va in altre parole sottratta alla morte. Non c’è seconda morte, non c’è e non ci può essere la morte della morte. È vero che quando moriamo abbandoniamo il mondo, ma con il mondo abbandoniamo anche la morte che dava vita al mondo. Morendo cessiamo di morire e, cessando di morire, cessa anche quell’opera della negazione che noi stessi siamo e attraverso la quale si costruisce un mondo. Come fare a non morire, a non morire almeno di una morte definitiva ed assoluta che, cancellando se stessa, cancellerebbe insieme tutto ciò che essa rende possibile? Come si fa, non a diventare immortali, che è impossibile, ma a continuare a morire senza morire? Blanchot ha definito questa condizione sopravvivenza, intendendo con essa non l’offerta ai viventi umani del dono di un di più di vita, bensì di quello di un di più di morte, di una morte in eccesso. Se, come Lazzaro, i morti possono risorgere, essi risuscitano, non come degli immortali, ma come dei morenti. Lo spazio di una tale morte che non muore continuando a morire è lo spazio della letteratura. Se una volta si sarebbe potuto sostenere con una certa sicurezza che al diritto alla morte come principio fondante della letteratura Foucault non avesse concesso la stessa centralità attribuitagli da Blanchot – e ciò nonostante l’importanza dell’opera di quest’ultimo nel suo pensiero – oggi una tale affermazione andrebbe almeno rivista e addolcita: solo da poco si dispone, infatti, di una conversazione di Foucault con Claude Bonnefoy risalente al 1968, il cui argomento è il rapporto del filosofo francese con la pratica della scrittura. Sollecitato dall’interlocutore a chiarire le ragioni che lo hanno spinto – e tuttora lo spingono – a scrivere, a un certo punto Foucault si abbandona a questa strana confessione: se giunto sulla soglia dei trent’anni ha incominciato a provare il piacere di scrivere, dice, lo ha dovuto al fatto che «questo piacere ha sempre comunicato un po’ con 15

Ibidem.


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la morte degli altri, con la morte in generale»; ma su questo, aggiunge immediatamente, «Blanchot ha detto a questo proposito cose molto più essenziali, generali, profonde, decisive di quanto possa dire io adesso»16. La scrittura si lega per Foucault alla morte, più propriamente alla morte degli altri. Ma non nel senso che la scrittura equivarrebbe a un assassinio attraverso il quale liberarsi degli altri, del loro peso, in modo da procurarsi uno spazio libero e sovrano. Gli altri in questione, per Foucault, non sono dei vivi da far morire attraverso la scrittura, ma dei già morti la cui condizione cadaverica rende possibile l’atto dello scrivere. Più che a un assassino, Foucault si paragona all’anatomista impegnato in un’autopsia: «con la mia scrittura, dice, percorro i corpi degli altri, li incido, sollevo i tegumenti e la pelle, tento di scoprire gli organi, e scoprendoli, fare apparire infine il centro della lesione, quel qualcosa che ha caratterizzato la loro vita, il loro pensiero, e che, nella sua negatività, ha organizzato tutto ciò che sono stati»17. Se Foucault insegue scrivendo il «cuore velenoso delle cose e degli altri», ciò spiega forse perché la sua scrittura venga generalmente avvertita come una aggressione, dal momento che in essa è come se venisse eseguita una condanna a morte. Alle volte è come se coloro la cui morte, vera o presunta, permette a Foucault l’atto di scrittura si ribellassero, gridando di non essere morti; e Foucault se ne sorprende quasi quanto il medico che sentisse risvegliarsi, sotto il suo bisturi, l’uomo il cui cadavere sta utilizzando per una lezione d’anatomia. La verità è un’altra: se egli deve darli per morti è perché fin quando erano vivi, sorridenti e parlanti, gli rendevano la scrittura impossibile. Se la vita risulta alla fine d’ostacolo alla scrittura, il solo omaggio che può rendere a quelli che è costretta a considerare morti consiste nello scoprire «la verità della loro vita e della loro morte, il morboso segreto che spiega il passaggio della loro vita alla loro morte»18. In tal modo, ciò che rende possibile la scrittura non è tanto il fatto che siano già morti, quanto il punto di vista degli altri in cui «la loro vita ha oscillato (basculé) nella morte»19, il punto, si potrebbe dire, in cui vita e morte s’indeterminano. M. Foucault, Le beau danger. Entretien avec Claude Bonnefoy, Éditions de l’EHESS, Paris 2011, p. 36; trad. it. di A. Moscati, Il bel rischio, Cronopio, Napoli 2013, p. 25. 17 Ivi, p. 37. 18 Ivi, p. 38. 19 Ivi, p. 39. 16


114 Bruno Moroncini La conferma di una simile tesi si troverebbe nell’affermazione immediatamente successiva di Foucault secondo la quale, se la scrittura presuppone la morte degli altri, ciò non avviene in vista di una riviviscenza: non si scrive per ritrovare il segreto della vita, «per attualizzare questa parola vivente che è insieme quella degli uomini e – probabilmente – quella di Dio». La scrittura è per Foucault «la deriva del dopo-morte, non il cammino verso l’origine della vita». Nessuna teleologia di resurrezione, semmai la costatazione che il passato è morto. Da qui anche nessun desiderio di «ritrovare nel passato il segreto dell’origine»20: l’alternativa alla morte non consiste, infatti, nel ritorno della vita, ma nel passaggio alla verità. Nonostante questa esplicita affermazione di un diritto alla morte, sembra tuttavia che la cifra del rapporto di Foucault con la letteratura sia da cercarsi piuttosto in un diritto alla follia. E ciò fin dall’inizio del suo percorso di pensiero e di scrittura, fin da quella prima prefazione alla Storia della follia la cui stravagante vicissitudine editoriale fa da cartina di tornasole del valore posizionale che la pratica della letteratura ha avuto nella produzione di Foucault. Il destino di questa “prima prefazione” ha del paradossale: apparsa nell’edizione del 1961, viene poi cassata a partire dal 1971 da tutte le edizioni successive per delle ragioni che Foucault chiarirà nell’Archeologia del sapere (1969)21, ricomparsa solo nel 1994 nel primo Questa e le precedenti ibidem. Un riferimento a Blanchot e alla morte, benché non nei termini così espliciti della conversazione con Bonnefoy si trova nel saggio Il linguaggio all’infinito pubblicato su «Tel Quel» nel 1963, la cui traduzione italiana a cura di Cesare Milanese si trova in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 73-85. 21 Nell’introduzione Foucault, infatti, critica il suo libro precedente per aver dato «un peso troppo considerevole, e d’altra parte molto enigmatico, a ciò che vi veniva designato come “esperienza”, mostrando in tal modo quanto vicini si fosse ad ammettere un soggetto anonimo e generale della storia» (M. Foucault, Archeologia del sapere, trad. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1971, pp. 23-24). Per dirla con Deleuze «la critica che Foucault muoverà alla Storia della follia consisterà nel fatto che essa si richiamava ancora a un’esperienza selvaggia, alla maniera dei fenomenologi, o ai valori eterni dell’immaginario, alla maniera di Bachelard» (G. Deleuze, Foucault, trad. it. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Cronopio, Napoli 2002, p. 73). Considerazioni analoghe anche in Blanchot che in Michel Foucault come io l’immagino (trad. it. di V. Conti, Costa & Nolan, Genova 1988) ricorda come almeno in due occasioni Foucault si fosse rimproverato «di essersi lasciato sedurre dall’idea che vi sia una profondità della follia, che questa costituisca un’esperienza fondamentale che si colloca fuori della storia e di cui i poeti (gli artisti) sono stati e possono ancora essere i testimoni, le vittime e gli eroi» (p. 10). 20


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volume di Dits et écrits tende oggi a imporsi come un testo decisivo per la comprensione della posizione del filosofo francese22. È tempo ormai, rischiando, anche se si vuole, di mettere Foucault contro Foucault, di prendere sul serio quello che nella prefazione è presentato come l’obiettivo esplicito del libro, vale a dire riuscire a far parlare/ parlare la/della follia, raggiungendo «nella storia questo grado zero della storia della follia, quando è ancora esperienza indifferenziata, esperienza, non ancora scissa, della scissura stessa», quando cioè la partizione fra ragione e follia – una partizione che, non lo si dimentichi, è opera della ragione stessa – non si è ancora instaurata o è al massimo nella sua fase aurorale. Tale scopo, anche se rischia di immaginare una follia selvaggia, del tutto fuori del linguaggio e della storia, resta tuttavia valido nonostante i limiti della sua formulazione: sarà solo costretto a inabissarsi come un fiume carsico in attesa di poter ricomparire in superficie non appena sarà stata risolta la difficoltà che lo rende attualmente insostenibile. In che consiste questa difficoltà ancora irrisolta all’altezza della prefazione? Se noi parliamo della follia solo a partire dalla sua partizione moderna (l’età classica nella periodizzazione di Foucault) rispetto alla ragione, se il linguaggio in cui e con cui si dice la follia è quello della ragione o quello medico-psichiatrico cui la ragione delega il compito di dire la follia e se l’uomo della follia dal suo canto «non comunica con l’altro (quello della ragione) se non attraverso l’intermediario di una ragione altrettanto astratta, che è ordine, costrizione fisica e morale, pressione anonima del gruppo, esigenza di conformità», come sarà possibile allora «far apparire il territorio in cui l’uomo della follia e l’uomo di ragione, separandosi, non sono ancora separati, ed esprimendosi in un linguaggio molto primitivo, molto grezzo, ben più aurorale di quello della scienza, intavolano il dialogo della rottura, che testimonia in modo fuggitivo che essi si parlano ancora»23? Che cos’è, in altri termini, questo linguaggio “molto primitivo” e “molto grezzo” in cui si testimonierebbe di un momento in bilico fra un tempo in cui la ragione e la follia ancora comunicavano e si scambiavano vicendevolmente i ruoli e un altro in cui, al contrario, fra di essi si sarebbe interposta una separazione radicale? È ancora un linguaggio o da quando Valgano per tutti le osservazioni di Mario Galzigna nell’introduzione a M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, ed. it. a cura di M. Galzigna, BUR, Milano 2011, in particolare pp. 19-27. 23 Ivi, p. 42. 22


116 Bruno Moroncini impera la ragione è stato ridotto al silenzio? E se l’intento della Storia della follia non è mai stato quello di fare la storia del linguaggio della ragione ma, al contrario, «l’archeologia di questo silenzio»24, in quale linguaggio sarà detto questo silenzio senza che lo si tradisca? Se Foucault può domandarsi che cosa sia «questa connessione al di sotto del linguaggio della ragione»25, cioè la connessione Ragione-Sragione, non ci si può non chiedere anche se essa sia ancora un linguaggio, se sia un altro linguaggio o sfugga infine al linguaggio in generale. Detto in altri termini ancora: se il linguaggio si realizza nell’opera e se la follia è l’assenza d’opera, come si può pensare un linguaggio della follia? È del tutto chiaro che se a queste domande non si trova una risposta, il progetto stesso di uno studio come quello condotto in Storia della follia non può che tradursi in un fallimento. Dal momento che non si vuole fare una storia della psichiatria ma «della follia stessa, nella sua vivacità, prima di ogni cattura da parte del sapere» e che l’oggetto di questo studio è formato «dalla struttura dell’esperienza della follia» intesa nel suo carattere duplice e contraddittorio di qualcosa che appartiene «interamente alla storia» e allo stesso tempo sosta sui «suoi confini e dove essa si decide»26, se non si trova il linguaggio capace di dare voce a questa esperienza sarà gioco forza rinunciare all’impresa. Per Foucault la risposta esiste ed è la letteratura, quella declinazione della letteratura come pratica della scrittura che abbiamo provato a delineare attraverso Blanchot. Non si dice nulla di nuovo se si nota come, durante gli anni sessanta, l’interesse di Foucault nei confronti della letteratura sia altissimo e gli interventi da parte sua su autori e temi letterari si moltiplichino incessantemente. Dal libro su Raymond Roussel, che risale al 1963, ai saggi su Sade e su Bataille, a quelli su Blanchot, su Klossovski e su Flaubert, fino alla conversazione con Claude Bonnefoy e alle conferenze su Linguaggio e letteratura del 1964, la ricerca letteraria di Foucault scorre parallela alle sue indagini archeologiche, finendo per condizionarle a un punto tale da acquistare il potere di produrre un cambio di episteme27. Come è dimostrato da un passo delle Parole e le cose in cui i nomi di Sade, Ivi, p. 43. Ibidem. 26 Ivi, p. 47. 27 Su questo punto si vedano le considerazioni di Miriam Iacomini nel suo Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2008, soprattutto pp. 223 ss. 24 25


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di Artaud e di Bataille sono mescolati, non solo con quelli di Nietzsche e di Freud, ma addirittura con quelli di Hegel e Marx, la letteratura moderna si fa parte integrante di un processo che non solo dissolve la rappresentazione classica, ma conduce alla fine anche il modello dell’uomo inteso come il soggetto-oggetto delle scienze umane. Il pensiero moderno, etichetta sotto la quale convivono senza soluzione di continuità filosofi e scrittori, in cui cioè è pratica scriptoria anche l’esercizio razionale, «non è più teoria», ma non appena pensa esso «ferisce o riconcilia, avvicina o allontana, rompe, dissocia, allaccia o riallaccia; non può fare a meno di liberare e di asservire»28. Questo carattere del pensiero moderno che distrugge le pretese normalizzanti e ordinatrici della rappresentazione classica e delle scienze umane anticipando quasi le più tarde tesi sulla cura e il governo di sé, su un’idea del pensiero come messa alla prova, esperimento, riforma esistenziale, convive nelle Parole e le cose con la definitiva messa a fuoco della finitudine dell’uomo, la cui cifra più propria è ancora una volta la follia. Cui conducono due pratiche discorsive come l’etnologia e la psicoanalisi che, pur essendosi formate nell’alveo delle scienze umane, tendono per la spinta problematizzante del campo d’esperienza cui si applicano a oltrepassarne i limiti, andando intenzionalmente verso lo spazio in cui la nozione stessa del soggetto razionale e scientifico scompare. A differenza delle altre scienze umane – biologia, linguistica ed economia – che «avanzano verso l’inconscio solo volgendo a questo le spalle, attendendo che esso si sveli a mano a mano che, come a ritroso, si produce l’analisi della coscienza, la psicoanalisi invece punta verso l’inconscio direttamente e deliberatamente». E non vi punta come a qualcosa che debba essere esplicitato a poco a poco, rischiarandolo e sottoponendolo a un ordine di senso, ma come a ciò il cui carattere di testo «chiuso in sé medesimo», «di saldezza muta di una cosa», di ciò che «è là e sfugge», deve essere rispettato in ogni caso. La tesi di Foucault tende a precisarsi: andando verso l’inconscio, la psicoanalisi non si limita a scavalcare la rappresentazione, a superarla dal lato della finitudine, sorpassando in tal modo il territorio delle «funzioni portatrici delle loro norme, (de)i conflitti pieni di regole, e (de)i significati costituenti un sistema» per attingere invece al «fatto puro e semplice che 28

p. 353.

M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di E. Pamaitescu, Rizzoli, Milano 1967,


118 Bruno Moroncini possa esservi sistema (e quindi significato), regola (e quindi opposizione), norma (e quindi funzione)», ma incontra le tre figure «attraverso cui la vita, con le sue funzioni e le sue norme, viene a fondarsi nella ripetizione muta della Morte, i conflitti e le regole nell’apertura denudata del Desiderio, i significati e i sistemi in un linguaggio che è a un tempo Legge». In altri termini, attraverso l’intreccio fra la pulsione di morte e la ripetizione, il desiderio e, tanto per chiamarlo col suo nome, l’ordine del significante, la psicoanalisi offre le coordinate in cui si iscrive l’esperienza della follia, in cui la follia si dice, riuscendo a scartare, anche se di poco, dal linguaggio della ragione. Su questo punto Foucault è chiarissimo: la finitudine su cui la psicoanalisi si affaccia non è una follia qualunque, è quella follia per eccellenza, chiamata dagli psichiatri schizofrenia, che, se costituisce per la psicoanalisi il «proprio tormento intimo più invincibile»29, è perché in essa si manifestano e si nascondono allo stesso tempo proprio le forme della finitudine, ossia Morte, Desiderio e Linguaggio30. Esiste dunque un linguaggio della follia, è quello che fa tutt’uno con la Morte e il Desiderio, è quel linguaggio dell’inconscio scoperto dalla psicoanalisi e messo in opera – nonostante o a causa della sua inoperosità – dalla letteratura. È quel linguaggio che, se fa legge, la fa solo perché è dettato dalla Morte e dal Desiderio. Non è quindi il linguaggio della ragione che è sempre sottoposto a regole e a norme, a procedure di esclusione, a partizioni fra quel che si può dire e ciò di cui si deve tacere, bensì un linguaggio che assomiglia a un mormorio indistinto, a una proliferazione senza regole che non siano quelle della ripetizione, della morte e del desiderio. Un linguaggio che dice tutto senza gerarchie e senza sottostare all’obbligo del senso. L’analisi che Foucault conduce dei romanzi di Blanchot è del tutto conforme al modello dell’inconscio e del suo linguaggio-Legge tematizzato nelle Parole e le cose. Non si ripercorrerà qui tutto il percorso attraverso il quale si snoda la lettura di Blanchot da parte di Foucault se non per ribadire un carattere del linguaggio che acquisterà sempre più rilievo: il suo scorrere continuo31. A differenza del discorso che si fonda sempre su delle Per questa e le precedenti ivi, pp. 400-402. Su questo punto rinvio al mio Schizofrenia e paranoia: due paradigmi per le scienze umane, in F. Lolli, Follia, psicosi e delirio, et/al edizioni, Milano 2011, pp. 83-115. 31 M. Foucault, Il pensiero del di fuori, trad. it. di C. Milanese in Id., Scritti letterari, cit., p. 131. Sul saggio di Foucault dedicato a Blanchot rinvio al mio Foucault e il pensiero del fuori, 29 30


La letteratura e il diritto alla follia 119

regole di esclusione quali l’interdetto, il partage, la volontà di verità, e su dei dispositivi di controllo come il commento e l’autore, il linguaggio non solo non «è parlato da nessuno», ma soprattutto «non si risolve in alcun silenzio», dal momento che «ogni interruzione forma soltanto una macchia bianca su questo drappo senza cuciture»32. Ad apertura dell’Ordine del discorso, la lezione inaugurale che segna l’inizio dell’insegnamento al Collège de France, Foucault esprime il desiderio di non dover incominciare, visto che incominciare un discorso significa operare una partizione e assumersi la responsabilità degli effetti che ne deriveranno. Gli sarebbe piaciuto accorgersi, al contrario, che al momento di parlare una voce senza nome lo avesse preceduto da tempo: gli sarebbe bastato allora «concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo, sospesa»33. E che cosa ripeteva questa voce, quale era la sua legge? «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole sinché ce ne sono, bisogna dirle sinché mi trovino, sinché mi dicano»34. Questa voce immemoriale e senza origine, non parla, è parlata dalle parole che la trovano e la dicono, attraversata e fessurata dall’altro, dal fuori del linguaggio (dal linguaggio-fuori). Essa è obbligata a parlare – è il lato della legge – ma lo fa ogni volta con più fatica e con più stanchezza: vorrebbe dire l’ultima parola, mettere la parola fine all’incessante proliferazione di parole, ma è costretta a continuare. Anche per dire l’ultima parola è necessaria una parola, nessuna parola può essere veramente l’ultima. Nelle conferenze di Saint-Louis, il linguaggio è «al tempo stesso il mormorio di tutto quello che è pronunciato, e il sistema trasparente grazie al quale, quando parliamo, siamo compresi. In breve, il linguaggio è contemporaneamente tutto l’insieme delle parole accumulate nella storia e il sistema stesso della lingua»35. A lato del linguaggio c’è, per Foucault, l’opera, che è come un ispessimento della «trasparenza dei segni e delle parole», un blocco dello «scorrimento del mormorio»36, la sua immobilizzazione. in E. de Conciliis, Foucault dopo Foucault. Genealogie del postmoderno, Mimesis, Milano 2007, pp. 245-262. 32 M. Foucault, Il pensiero del di fuori, cit., p. 131. 33 M. Foucault, L’ordine del discorso, trad. it. di A. Fontana in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2002, p. 11. 34 Ibidem. 35 M. Foucault, Linguaggio e letteratura, supra, p. 28. 36 Ibidem.


120 Bruno Moroncini Ciò che pone in rapporto il linguaggio e l’opera è la letteratura. A questo punto però si ha uno iato, la letteratura si divide in un prima e in un poi temporali: fino al XVII secolo, la letteratura indicava il fatto che fra l’uso del linguaggio quotidiano e le opere c’era continuità e familiarità. Che solo qualcuno, più dotato di memoria, di gusto e di sapere, fosse consapevole di una tale continuità non toglieva che il linguaggio ordinario, il mormorio, e l’opera facessero parte dello stesso universo discorsivo, quello della rappresentazione. Fra il XVIII e il XIX secolo, invece, la letteratura ha cambiato statuto: a partire da questo momento, databile con i nomi di Chateaubriand e di Madame de Staël, la letteratura cessa di rappresentare il semplice trasformarsi del linguaggio in opera e diviene un «terzo punto differente dal linguaggio e dall’opera, esteriore alla loro corrispondenza, che disegna uno spazio vuoto, un biancore essenziale dove nasce la questione “Che cos’è la letteratura?”, un biancore essenziale che, in verità, è questa stessa domanda»37. È come se la letteratura, interrogandosi su se stessa, dividendosi da sé attraverso la riflessione su se stessa, acquistasse un’autonomia rispetto sia al linguaggio che all’opera che prima si limitava a far comunicare. La letteratura moderna continua a sottostare alla legge del linguaggio, continua a parlare il/essere parlata dal mormorio incessante, e in questo senso non cede in alcun modo alla seduzione dell’ineffabile, ma lo fa lasciando emergere il lato oscuro del linguaggio, il lato selvaggio, quello per cui esso è «assente» e «omicida», è «sdoppiamento» e «simulacro», menzogna, per usare il lessico di Giorgio Manganelli. La letteratura, precisa Foucault, «è una distanza scavata all’interno del linguaggio»38. Cambia in tal modo anche lo statuto dell’opera, che non è più l’immobilizzazione del mormorio linguistico, ma parte integrante di quest’ultimo: «l’opera, scrive Foucault, come irruzione sparisce e si dissolve nel mormorio che è il recupero della letteratura»39. L’opera ormai non è più che un frammento di letteratura, non esiste se non perché esiste la letteratura, non esiste se non a partire dalla letteratura. Per Chateaubriand come per Sade, per Baudelaire come per Proust, l’opera non viene più prodotta per condurre l’uso del linguaggio ordinario alla perfezione della retorica ribadendo in tal modo la continuità fra l’uno e l’altra e la coincidenza del linguaggio con il sistema della lingua, ma si fa in vista della letteratura, cioè Ivi, p. 30. Ivi, p. 31. 39 Ivi, p. 33. 37 38


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in vista di ciò che mostra l’appartenenza del linguaggio alla dimensione del simulacro e della menzogna, che ne fa vedere l’oscillazione continua fra la trasgressione e il divieto, la ripetizione e la cancellazione, che denuncia in ogni parola nuova il ritorno fantasmatico del già detto. Non si potrebbe sostenere, a questo punto, che il desiderio di Foucault – un desiderio, d’altronde, ben presente al soggetto che ne rappresentava l’istanza nel discorso, cioè a Foucault stesso – fosse quello di fare delle sue ricerche storico-archeologiche, così come delle sue incursioni nel campo della produzione artistica, fosse fatta di parole o di immagini, delle opere letterarie nel senso indicato prima? Forse dovremmo imparare a leggere la Storia della follia, la Nascita della clinica, le Parole e le cose, Sorvegliare e punire, i tre volumi della Storia della sessualità, i saggi cosiddetti letterari, il libro su Manet, come delle stazioni di un unico esercizio della letteratura, il cui scopo era stato dettato dalla prima prefazione alla Storia della follia nel punto in cui le si assegnava il compito di far «riapparire la decisione folgorante, eterogenea al tempo della storia ma inafferrabile al di fuori di esso, che separa dal linguaggio della ragione e dalle promesse del tempo questo mormorio di insetti oscuri»40. Non è dello stesso mormorio che si tratta, ora e adesso, che cosa distingue il mormorio dei folli dal mormorio del linguaggio, se non il fatto che ora entrambi hanno trovato il loro spazio, ossia lo spazio della letteratura? Allo stesso modo non sarà questo linguaggio fuori – fuori del discorso che semmai avvolge e borda – l’unico capace di restituire alla parola quei gesti oscuri di cui di nuovo parla la prefazione alla Storia della follia, quei gesti «necessariamente dimenticati non appena compiuti con i quali una cultura respinge qualcosa che sarà per lei l’Esteriore»41? Ancora nel 1977, in quella che sarebbe dovuta essere la prefazione all’antologia degli archivi di internamento dell’Höpital Géneral e della Bastiglia, La vita degli uomini infami, questo desiderio è chiaramente affermato: «questo non è un libro di storia», esordisce lapidariamente Foucault, ma «un’antologia di esistenze», di vite fatte «di qualche riga o di qualche pagina, di innumerevoli avventure e sventure, riunite in un pugno di parole»42. Vite iscritte che Foucault avrebbe volentieri denominato “novelle” per il doppio rinvio insito nel termine (nouvelle) «alla rapidità del racconto e alla realtà degli M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., p. 48. Ivi, p. 43. 42 M. Foucault, La vita degli uomini infami, trad. it. di A. Petrillo in Id., Archivio Foucault 2. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, p. 245. 40 41


122 Bruno Moroncini avvenimenti riferiti». Vite singolari, trasformate, per non si sa quale caso, in «strani poemi». Vite letterarie, coniate sul modello, anche se declinato in senso opposto, delle vite degli uomini illustri. Eppure un tipo di “novelle” che ha scosso in Foucault più fibre «di quanto non possa quella che normalmente si chiama letteratura», senza poter dire d’altronde che cosa lo avesse commosso di più, se «la bellezza di questo stile classico, drappeggiato in poche frasi attorno a personaggi senza dubbio miserabili, o invece gli eccessi, la mescolanza di oscura ostinazione e di scelleratezza di queste vite di cui si percepisce, sotto le parole lisce come pietra, la sconfitta e l’accanimento»43. Foucault vorrebbe restituire l’intensità di queste vite raccontate, la vibrazione che ancora prova quando s’imbatte in queste vite infime «divenute cenere nelle poche frasi che le hanno stroncate»44, vorrebbe che questa intensità e questa vibrazione fossero presenti e avvertibili nell’analisi storico-archeologica cui intende sottoporle, ma sa che per questo compito è privo di talento; si limiterà allora alla sola analisi, indicando la loro ragion d’essere e cercando soprattutto di comprendere perché fosse stato così importante, in una società come la nostra, soffocare «(come si soffoca un grido, un fuoco, o un’animale) un monaco scandaloso o un usuraio lunatico e sconclusionato», perché si fosse voluto impedire «con tanto zelo ai poveri spiriti di andarsene a spasso per strade sconosciute»45. Ma le emozioni che aveva provato alla prima lettura di queste vite restavano fuori; e dal momento che non sarebbe riuscito a farle passare nell’ordine delle ragioni per l’incapacità di restituirle come sarebbe stato necessario, tanto valeva lasciare i testi nella loro forma originaria: ecco il perché della scelta per l’antologia. Comunque è uno scacco. Ed è impressionante accorgersi che la stessa domanda che ossessionava la prefazione della Storia della follia ritorni identica sedici anni dopo: se queste vite sono state strappate alla notte in cui avrebbero potuto e forse dovuto rimanere solo per l’incontro, per l’urto con il potere, se cioè ne abbiamo avuto notizia solo perché il linguaggio del potere e della ragione le ha prese in carico per cui è ormai impossibile poterle cogliere in se stesse «come poterono essere “allo stato libero”» e le si può trovare solo in quanto «prese nelle declamazioni, nelle parzialità tattiche, nelle menzogne imperative che presuppongono i giochi del poteQuesta e le precedenti, ivi, p. 246. Ibidem. 45 Ivi, p. 247. 43 44


La letteratura e il diritto alla follia 123

re e i rapporti con esso», allora sarà gioco forza riconoscere che abbiamo a che fare sempre con la «stessa incapacità di oltrepassare la linea, di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso»46, da fuori. Fa parte dei tratti fondamentali della nostra società che «il destino vi assuma la forma del rapporto con il potere, della lotta con o contro il potere» per cui «il punto più intenso delle vite, quello in cui si concentra la loro energia (sia) proprio là dove si scontrano con il potere, si dibattono con esso, tentano di utilizzare le sue forze o di sfuggire alle sue trappole»47. E sarebbe ancora niente, sarebbe una situazione in parte già nota e ampiamente controllabile se non fosse per il fatto che il potere in questione ha cambiato statuto, non è più quello classico che è il «potere di far morire o di lasciar vivere», ma è stato sostituito dalla sua forma moderna che consiste nel «far vivere o respingere nella morte»48. Il potere moderno, cioè, non nega e non vieta, bensì afferma e impone: è coattivo anche quando incoraggia l’esercizio della libertà, anche quando spinge all’incremento della vita, anche quando dichiara inorridito di non voler ricorrere alla pena di morte mentre lascia che innumerevoli vite infami muoiano ogni giorno in ogni punto del pianeta. È potere perché per raggiungere il suo scopo – l’affermazione della vita – costringe, non con la violenza fisica, ma con l’esortazione e il convincimento, i soggetti a preoccuparsi di se stessi, sorvegliandosi incessantemente, a diventare consapevoli, mettendole in discorso e affidandole alla parola, di ogni alterazione del funzionamento della loro macchina corporea e di ogni sfumatura del loro vissuto soggettivo, compresi i gusti e le preferenze sessuali, in modo da anticipare qualunque affezione che possa mettere la vita a repentaglio, o a un’affermazione di sé dimezzata e scadente. È potere perché costringe a confessare, anche se questa invenzione dell’occidente cristiano cambia a sua volta al cambiare del potere: se in origine la costrizione a confessare pur imponendo a chiunque di «dire tutto», di formulare «in un mormorio (ancora il mormorio!) ininterrotto, accanito, esaustivo, cui nulla doveva sfuggire» anche la più piccola mancanza, aveva tuttavia lo scopo di «cancellare tutto»49, di fare che del Ivi, p. 249. Ivi, p. 250. 48 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978, p. 122. 49 M. Foucault, La vita degli uomini infami, cit., p. 254. 46 47


124 Bruno Moroncini male confessato non sopravvivesse nulla, ora invece tutto quello che si è ottenuto attraverso la confessione, ma anche la denuncia, la querela, l’inchiesta, il rapporto, lo spionaggio e l’interrogatorio, viene accumulato, registrato per iscritto, ordinato in dossier e debitamente archiviato. Tutta questa massa documentaria dei mali del mondo, tutte queste tracce scritte della miseria e dell’infamia, andranno a formare gli archivi su cui saranno edificati i saperi medico-psichiatrici e quelli giuridico-criminali su cui poggerà d’ora in poi il potere moderno. Quest’ultimo insomma non proibisce e non punisce; e anche quando sembra che sorvegli, spii e sorprenda, lo fa sempre con un intento affermativo: incita, suscita e produce, non è semplicemente «occhio e orecchio, ma fa agire e parlare»50. Da qui il paradosso più inquietante: fra le trappole che il potere moderno dissemina per catturare le vite, una delle più efficaci è proprio la letteratura. Si potrebbe sostenere addirittura che le lettres de cachet siano all’origine della letteratura moderna; nel passato era il favoloso, cioè lo straordinario, l’incredibile o l’impossibile stesso a costituire l’oggetto dei racconti: la vita di tutti di giorni non poteva accedere al discorso se non in quanto toccata dall’ala del favoloso e del meraviglioso. Dopo il XVII secolo l’occidente ha visto nascere invece «tutta una “favola” della vita oscura» da cui proprio l’elemento favoloso veniva escluso e reso inessenziale. Alla letteratura viene affidato il compito di «far apparire quel che non appare – che non può o non deve apparire: dire i gradi ultimi e più tenui del reale». Si modifica l’imperativo etico cui la letteratura è chiamata a sottostare: non più fungere da cerimoniale in cui manifestare in maniera sensibile «lo splendore troppo visibile della forza della grazia, dell’eroismo e della potenza», non condurre cioè ciò che già appartiene al percepibile alla glorificazione estrema che solo la bellezza può produrre, ma «andare a cercare quel che è più difficile a scorgersi, il più nascosto, il più disagevole a dirsi e a mostrarsi, infine il più proibito e scandaloso»51. Paradossalmente, questo nuovo imperativo etico cambia il rapporto della letteratura con la verità e con il potere: mentre il favoloso si colloca nell’indecisione tra il vero e il falso, la letteratura moderna «s’installa in una decisione di non verità»52, le sue cifre, come già si è detto, sono il simulacro e la menzogna. La letteratura è l’artificio con cui il potere moderno costrinIvi, p. 259. Ivi, p. 260. 52 Ivi, p. 261. 50 51


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ge la vita infame a entrare nel discorso in modo tale che, con la scusa di conoscerla, sia molto più facile tenerla sotto controllo e normalizzarla. Ma essa è simulacro e non verità anche in un altro senso: nella misura in cui la vita infame è il prodotto di una partizione discorsiva che separa la verità dalla finzione e la ragione dalla follia, che relega cioè nel campo della non ragione e del non vero una parte della vita, il fatto che la letteratura se ne faccia carico anche se con l’intenzione di sottoporla al controllo dei saperi comporta inevitabilmente una contaminazione, un’alleanza sotterranea con la parte avversa, un’intelligenza col nemico, uno scivolamento verso la vita infame. Il carattere menzognero della letteratura diviene anche la forma d’espressione delle vite non vere, delle vite selvagge. Come il potere è per Foucault un rapporto fra le forze e oscilla inevitabilmente fra dominio e resistenza, imposizione e insurrezione, così la letteratura è allo stesso tempo un discorso sull’infamia e un discorso dell’infamia: accanendosi a cercare «il quotidiano al di sotto di se stesso, a superare i limiti, a svelare brutalmente o insidiosamente i segreti, a spiazzare regole e codici, a far dire l’inconfessabile, essa tenderà quindi a mettersi fuori legge o almeno a farsi carico dello scandalo, della trasgressione e della rivolta»53. Costringendo il mormorio alla parola, la letteratura gli riconosce allo stesso tempo il suo diritto. Bruno Moroncini Università degli Studi di Salerno brunomoroncini@alice.it

. Literature and the Right to Madness. Blanchot, Foucault and the Question of Literature According to Foucault, his literary writings are as important as his archeological researches on the history of madness, on the birth of clinic and of prison, and as his researches on the theoretical background of human sciences. In fact, literature has a leading part in Foucault’s work, and the literary field is marked by a very particular use of language. Literature is near to desires and to the infringement of orders, and voices all that is emarginated or excluded. Keywords: Literature, Death, Madness, Language, Power, Writing, Desire. 53

Ibidem.


Saggi


Medicalizzazione e potere in Naissance de la clinique Gianluca Vagnarelli

Nel corso del Novecento si è assistito ad un vero e proprio proliferare

di teorie sulla medicalizzazione, che hanno contribuito alla definizione di un carattere dinamico e polivalente di tale nozione, fonte, talvolta, di una certa ambiguità concettuale1. All’interno di quella che è stata definita la prima generazione delle teorie sulla medicalizzazione, si possono distinguere concettualmente tre diversi significati assunti da questo termine: medicalizzazione come origine del modello medico, come imperialismo medico e, infine, come iatrogenesi – significati corrispondenti fondamentalmente alle teorie di Eliot Freidson2, Peter Conrad3 e Ivan Illich4. A questa prima fase della Cfr. W. Christiaens ed E. van Teijlingen, Quattro significati della medicalizzazione: il caso del parto, in «Salute e società», n. 2 (2009), pp. 133-152. 2 In questo significato, la medicalizzazione coincide con la professionalizzazione della salute e lo sviluppo del sapere medico che danno origine al modello di cura medico. Cfr. E. Freidson, Profession of Medicine. A Study of the Sociology of Applied Knowledge, Dodd, Mead & Co., New York 1970. 3 Talcott Parsons è stato probabilmente il primo autore a concepire la medicina come un’istituzione di controllo sociale; sulla sua scia, altri autori si sono indirizzati verso un significato della medicalizzazione come “imperialismo medico”, a sottolineare il crescente controllo esercitato dalla medicina su numerosi aspetti della vita quotidiana. Descrivendo questo secondo significato della medicalizzazione, Conrad l’ha definita come «un processo per mezzo del quale problemi non medici vengono definiti e trattati come problemi medici, spesso in termini di malattia o disturbo». Cfr. T. Parsons, The Social System, Free Press, Glencoe 1950; W. Christiaens ed E. van Teijlingen, Quattro significati della medicalizzazione, cit., p. 139; P. Conrad, Medicalization and Social Control, in «Annual Review of Sociology», vol. 18 (1992), pp. 209-232. 4 Illich ricomprende gli effetti perversi della medicina nella nozione di “iatrogenesi”, che distingue in clinica, sociale e culturale. Con iatrogenesi clinica si fa riferimento al carattere direttamente patogeno dell’attività medica (errori involontari compiuti dai medici, complicazioni subìte dai pazienti a seguito di trattamenti ricevuti). Con iatrogenesi sociale si rimanda invece al processo di professionalizzazione della salute che fa della cura un prodotto standardizzato. Con iatrogenesi culturale, infine, si richiama il venir meno della capacità dell’individuo di far fronte, in modo autonomo, alla propria vulnerabilità, alla propria condizione di malato. Cfr. I. Illich, Limits of Medicine. Medical Nemesis: The Expropriation of Health, Marion Boyars, London 1976. 1

materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 127-147.


128 Gianluca Vagnarelli riflessione sulla medicalizzazione ne è seguita, più di recente, una seconda, che ha messo in evidenza l’importanza di una serie di cambiamenti quali la rivoluzione tecnologica, la commercializzazione del sistema sanitario, l’avvento del managed care e la de-professionalizzazione della salute5. Simili mutamenti hanno portato taluni, proprio per sottolineare il carattere complesso e multidirezionale assunto dai nuovi processi, a parlare di biomedicalizzazione6, nozione che indicherebbe pratiche sempre più pervasive della biomedicina tecno-scientifica, capaci di una manipolazione creativa ed individualizzata del corpo umano. Alla biomedicalizzazione si accompagnerebbe inoltre una crescente enfasi posta sul rinvigorimento della condizione umana, tanto da far ipotizzare l’affermarsi di un nuovo modello di medicina: quella del miglioramento/potenziamento umano (human enhancement). In particolare, le azioni di miglioramento si distinguerebbero in due tipi: l’attività di assistenza sanitaria e sociale (health care) e l’attività di promozione della salute (health promotion), nella quale sarebbero comprese l’educazione sanitaria, le misure legislative a tutela della salute e le azioni a difesa dell’ambiente7. La medicina del miglioramento umano continuerebbe ad essere letta attraverso il frame della medicalizzazione, ma questa assumerebbe un respiro più ampio rispetto al passato8. Pierre Aïach, infine, allargando ancora di più il campo semantico della nozione di medicalizzazione, ha individuato un ulteriore livello del concetCfr. W. Christiaens ed E. van Teijlingen, Quattro significati della medicalizzazione, cit., p. 143. 6 «Clarke et al. tratteggiano un quadro molto ampio e propongono un concetto che tenta di essere globale e inclusivo – incorporando così la quasi totalità della biotecnologia: informatica medica e tecnologie dell’informazione, cambiamenti nei servizi sanitari, produzione di identità tecno scientifiche, solo per citarne alcune»; P. Conrad, Le mutevoli spinte della medicalizzazione, in «Salute e società», n. 2 (2009), pp. 36-55, p. 39. Cfr. anche A.E. Clarke, J.K. Shim, L. Mamo, J.R. Fosket e J.R. Fishman, Biomedicalization. Technoscientific Transformations of Health, Illness, and U.S. Biomedicine, in «American Sociological Review», n. 68 (2003), pp. 161-194 e W. Christiaens ed E. van Teijlingen, Quattro significati della medicalizzazione, cit., p. 145. 7 Cfr. L. Nordenfelt, On Medicine and health enhancement. Towards a conceptual framework, in «Medicine, Health Care and Philosophy», n. 1 (1998), pp. 5-12, p. 8. 8 «Sostengo che la medicalizzazione, nel proporre la cura, patologizza la normalità mentre le azioni migliorative si innestano sulla normalità per ottimizzarla. Concludo, tuttavia, che è probabile che le condizioni normali di oggi possano diventare delle condizioni patologiche domani e, quindi, che le pratiche migliorative di oggi saranno domani viste come cure […]»; A. Maturo, I mutevoli confini della medicalizzazione: prospettive e dilemmi del miglioramento umano, in «Salute e società», n. 2 (2009), pp. 17-35, p. 18. 5


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to che ha definito della “medicalizzazione della vita”9. Questa, a differenza delle teorie sulla medicalizzazione della prima generazione, non sarebbe correlata in maniera diretta alla scienza medica, ma sarebbe il prodotto dell’estensione della nozione di salute a qualunque ambito della vita: l’alimentazione, il tempo libero, le vacanze, il lavoro, l’habitat e, più in generale, le relazioni con gli altri e il modo di vivere. La peculiarità di questo ulteriore significato consiste nel fatto che non chiamerebbe direttamente in causa la medicina – per quanto essa potrebbe intervenire in un secondo momento –, ma porrebbe l’enfasi sulla prevenzione dei fattori di rischio delle malattie. Questa “ideologia della prevenzione” si fonderebbe sull’assunto che sia possibile evitare l’insorgere di malattie gravi e, contemporaneamente, mantenere per lungo tempo una buona forma fisica, a condizione di rispettare i precetti del vangelo igienista. La causa dell’insorgere delle malattie investirebbe in tal modo lo style of life dell’individuo, che verrebbe additato come responsabile del proprio cattivo stato di salute per non aver assolto in maniera adeguata i doveri dettatigli dagli imperativi della healthiness. In tal modo, all’occultamento dei fattori sociali generatori di patologie si aggiungerebbe ciò che William Ryan ha definito il victim blaming, la stigmatizzazione della vittima10. Dal canto suo, Patrice Pinell ha richiamato invece l’influenza sociale avuta dall’estensione della medicina, evidenziandone il contributo alla democratizzazione del saper vivere, e cioè alla generalizzazione di comportamenti civili. In particolare, Pinell ha sottolineato come, nel periodo compreso tra le due guerre, la messa in campo di politiche pubbliche contro la lotta alle malattie-flagello abbia rappresentato un esempio di pedagogizzazione della salute, facendo degli individui agenti attivi e partecipi all’organizzazione del lavoro medico. Ma sarebbe errato ridurre la medicalizzazione a un processo sociale eterodiretto dal potere. Essa può infatti anche essere l’esito di una richiesta, di una domanda esplicita di riconoscimento o di misconoscimento della condizione patologica, com’è avvenuto, ad esempio, nel caso della creazione della Ligue franco-anglo-américaine contre le cancer, che è stata l’esito finale di un movimento di lotta portato avanti dagli stessi pazienti11. Cfr. P. Aïach, Les voies de la médicalisation, in P. Aïach e D. Delanoë (a cura di), L’ère de la médicalisation. Ecce homo sanitas, Anthropos, Paris 1998, p. 12. 10 Cfr. W. Ryan, Blaming the Victim, Vintage Books, New York 1976. 11 Cfr. P. Pinell, Naissance d’un fléau. Histoire de la lutte contre le cancer en France, 18901940, Métailié, Paris 1992. 9


130 Gianluca Vagnarelli Oltre a questi studi di provenienza prevalentemente sociologica, vi sono altri angoli visuali dai quali il concetto di medicalizzazione merita di essere osservato. In tale direzione, l’opera di Jules Romains Knock ou Le Triomphe de la médecine12 è interessante per comprendere i meccanismi psicologici che favoriscono la medicalizzazione, e cioè quelli che si mettono in moto di fronte alla malattia come anticipazione e annuncio della morte. Knock non fa che risvegliare dal torpore una comunità assopita nella quiete e nella convinzione di godere un ottimo stato di salute, instillando la paura della malattia e la conseguente necessità della cura. Knock organizza la sottomissione di una collettività intorno ad un’impostura, ma a questo assoggettamento contribuiscono gli stessi asserviti con la loro volontà di proteggere la vita e la profonda angoscia del male. È questo timore – più che la necessità di garantirsi un ottimo stato di salute – che sembra spingerli tra le braccia della medicina13. Romains vuole dunque suggerirci come all’origine della domanda della salute si nasconda la paura della morte che, per quanto rimossa, continua a suscitare immensa inquietudine. Una visione che sembra trovare conforto nell’analisi di quegli storici che, a più riprese, hanno sottolineato come la società industriale abbia messo in crisi la familiarità con la morte tipica delle epoche passate: alla rassegnazione al comune destino della specie, è subentrato un vero e proprio interdetto intorno alla morte. L’obbligo sociale di essere felici, e di non turbare la presunta tranquillità collettiva con motivi di tristezza, ha fatto della morte e delle manifestazioni ad essa legate un tabù14. Alla morte come spettacolo pubblico, talvolta accompagnata da scene di disperazione dei malati e dei loro congiunti, succede un acceptable style of dying quale suo Cfr. J. Romains, Knock ou Le Triomphe de la médecine, Gallimard, Paris 1962. Cfr. P. Aïach, Les voies de la médicalisation, cit., pp. 18-19. 14 Per Alain Brossat, nel corso della seconda metà del Novecento si è assistito a una vera e propria irruzione ed espansione del paradigma del diritto alla vita sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, nel senso che esso è andato progressivamente inglobando l’intera dimensione del vivente (umano o animale, individuale o collettivo). Questo imperativo di difesa della vita organica, lungi dall’essere l’esito di un confronto portato avanti nello spazio pubblico, si è imposto a colpi di verità incontestabili basate su assunti di carattere medico-scientifico. Ma la messa in opera di questa macchina del faire vivre, di questo meccanismo multipolare di inquadramento e incitazione della vita, si è accompagnata alla moltiplicazione di zone d’ombra, di “spazi altri” nei quali non è il diritto alla vita a regolare le condotte e informare le sensibilità, ma una pulsione orientata verso la morte, palesando in tal modo la dualità e l’irrazionalità costitutiva del contemporaneo governo del vivente. Cfr. A. Brossat, Droit à la vie ?, Seuil, Paris 2010. 12 13


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addomesticamento e silenziamento15. Ai riti tradizionali dell’addio ai vivi, del carattere pubblico dell’agonia e del lutto, sono subentrati la sconvenienza del trapasso e del dolore. Ma la morte, per quanto disconosciuta, resta l’irriducibile16. In conclusione, l’accento posto sul lifestyle come prevenzione ed allontanamento del rischio della malattia, tradirebbe una condizione psicologica di paura che si cercherebbe di quietare attraverso l’auto-sorveglianza medica come garanzia dell’immunità della vita. In questo contesto, la peculiarità della riflessione foucaultiana sulla medicalizzazione è data dal fatto che questa categoria non si ridurrebbe semplicemente alla progressiva estensione del numero e delle competenze della medicina, ma agirebbe a livello delle norme che influenzano la vita delle classi sociali e ne strutturano il comportamento quotidiano. Con la sua opera, Foucault ha in effetti contribuito alla nascita di quel filone di studi teso a sottolineare il carattere normativo e poliziesco della medicina, secondo il quale essa non si limiterebbe ad esercitare una pratica diagnostico-terapeutica, ma ne produrrebbe anche una della sorveglianza17. In particolare, la medicalizzazione testimonierebbe non solo la centralità assunta, da un certo momento in avanti, dal corpo e dalla vita nelle dinamiche del potere, ma renderebbe evidente il superamento del paradigma giuridicodiscorsivo centrato sulla legge, a favore dell’affermazione di una società della norma. È per queste ragioni che l’approfondimento della nozione di medicalizzazione – operato a partire da Naissance de la clinique – assume un’importanza centrale, sia perché essa costituisce la premessa necessaria per la comprensione dell’evoluzione che tale categoria subirà negli scritti successivi, sia, più in generale, perché in essa sono già posti i temi cardine di quel rapporto tra medicalizzazione e normalizzazione del vivente che attraverseranno l’intera riflessione di Foucault sul potere. Prima però Cfr. Ph. Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident. Du Moyen Âge à nos jours, Seuil, Paris 1975. 16 Cfr. V. Jankélévitch, La Mort, Flammarion, Paris 1966. 17 Si pensi, a questo riguardo, alla messa in relazione di sguardo medico e sorveglianza, o al rapporto tra ospedalizzazione e disciplinamento. «Au fond, pour Foucault, la médecine est intéressante non pour elle-même, ce qui serait le point de vue d’un historien, mais pour ce qu’elle donne à voir au regard de l’ensemble des autres types discursifs, pour ce qu’elle permet de construire. Son intérêt repose sur la possibilité qu’elle offre à Foucault de penser à partir d’elle. Elle n’est ni illustration, ni exemple, elle porte en elle une variété de possibilités à partir desquelles le philosophe peut bâtir son échafaudage»; Ph. Artières ed E. da Silva, Introduction, in Ph. Artières ed E. da Silva (a cura di), Michel Foucault et la médecine. Lectures et usages, Kimé, Paris 2001, p. 13. 15


132 Gianluca Vagnarelli di procedere all’analisi di questo scritto, giova soffermarsi brevemente sull’importanza che la medicina ha avuto nell’opera foucaultiana. Foucault e la medicina Come lo stesso Foucault ebbe più volte a sottolineare, alla maturazione del suo interesse per la medicina contribuirono in maniera decisiva le esperienze che egli svolse come giovane psicologo in alcuni ospedali psichiatrici18. Ciò nonostante, per quanto l’intera opera foucaultiana risenta di una relazione molto stretta tra idee e vita, sarebbe errato ridurla a una semplice trasposizione del vissuto, a una mera sovrapposizione del biografico al pensiero19. Gli elementi che caratterizzano il legame che l’analisi foucaultiana ha imbastito con la medicina sono infatti molteplici. Secondo alcuni, per Foucault la medicina non si ridurrebbe ad essere un semplice oggetto di studio ma, comme souci de la vie concrète de l’individu, avrebbe generato un vero e proprio stile filosofico fondato sulla diagnosi della realtà. Attraverso l’individuazione dei sintomi e la loro analisi, Foucault avrebbe dato vita a una sorta di “chirurgia dei concetti”, che molto dovrebbe al lavoro clinico20. Il discorso foucaultiano sulla medicina avrebbe inoltre un valore paradigmatico come luogo nel quale la ragione e la normalità si confrontano con il differente dato dalla follia e dalla patologia. In tal modo, i meccanismi che producono la trasformazione della patologia in anormalità diverrebbero un archetipo per comprendere la riduzione della differenza in alterità21. Ma il processo attraverso il quale la ragione medica tenta di ricondurre a sé ciò che le sfugge non è lineare, e l’interesse di Foucault sta appunto nel tentare di comprendere come si articoli il nesso tra identità e differenza. Cfr. M. Foucault, Conversation sans complexes avec le philosophe qui analyse les « structures du pouvoir », in M. Foucault, Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 669-678, p. 671. 19 Cfr. B. Vandewalle, Michel Foucault. Savoir et pouvoir de la médecine, L’Harmattan, Paris 2006, p. 7. 20 «Peut-être, je trace sur la blancheur du papier ces mêmes signes agressifs que mon père traçait jadis sur le corps des autres lorsqu’il opérait. J’ai transformé le bistouri en porte-plume»; dattiloscritto depositato all’IMEC, citato e commentato da Philippe Artières, Dire l’actualité. Le travail de diagnostic chez Michel Foucault, in F. Gros (a cura di), Foucault. Le courage de la vérité, PUF, Paris 2002, p. 24. 21 Cfr. B. Vandewalle, Michel Foucault. Savoir et pouvoir de la médecine, cit., pp. 12-13. 18


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È anzitutto a questo obiettivo che sarebbe rivolto il suo sguardo, insieme archeologico ed epistemologico, sulla medicina. La molteplicità di livelli che caratterizza la riflessione foucaultiana sulla medicina – che prende in considerazione le istituzioni mediche e le loro pratiche, il sapere medico e il suo discorso – assume dunque importanza per l’occasione che rappresenta di imbastire altre trame discorsive. Da questo punto di vista, Foucault deve molto all’opera di Canguilhem. La riflessione foucaultiana sembra infatti condividere, con quella di Canguilhem, non solo un approccio di carattere epistemologico teso ad individuare quelli che Foucault definisce i cheminements ordonnés latents sottostanti ai sistemi di sapere22, ma anche un modo di intendere la filosofia come critica della critica, come atto riflessivo che mette in discussione le stesse modalità attraverso le quali si articola l’esercizio del pensiero23. In questo senso, la medicina, come matière étrangère, consente Ne La vie : l’expérience et la science, Foucault sottolinea l’importanza decisiva dell’opera di Georges Canguilhem, senza la quale, scrive, non sarebbe stato possibile comprendere le discussioni che hanno segnato il campo politico e scientifico francese degli anni sessanta. In particolare, per Foucault, il lavoro storico e filosofico condotto da Canguilhem ha avuto il merito di definire chiaramente una linea di divisione che ha trasversalmente attraversato le opposizioni tra marxisti e non marxisti, freudiani e non freudiani, universitari e non. In tal modo, il suo lavoro ha contribuito a definire due campi distinti: quello di una filosofia dell’esperienza, del senso e del soggetto, e quello di una filosofia del sapere, della razionalità e del concetto. Se il primo ambito è figlio di Sartre e Merleau-Ponty, il secondo lo è di Cavaillès, Bachelard, Koyré e, appunto, Canguilhem. Ma il merito maggiore degli studi sulla storia della biologia e della medicina condotti da Canguilhem risiede, per Foucault, nella rilevanza dell’approccio epistemologico alla storia delle scienze: «L’histoire des sciences ne peut se constituer dans ce qu’elle a de spécifique qu’en prenant en compte, entre le pur historien et le savant lui-même, le point de vue de l’épistémologue. Ce point de vue, c’est celui qui fait apparaître à travers les divers épisodes d’un savoir scientifiques “un cheminement ordonné latent”»; M. Foucault, La vie : l’expérience et la science, in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 1582-1595, p. 1590. 23 Pierre Macherey ha ben descritto il carattere riflessivo, normativo e aperto della concezione filosofica di Canguilhem. La filosofia è, per Canguilhem, «“un examen, au point de vue normatif, de disciplines quelconques”. Ici, tous les mots comptent. D’abord, la philosophie est un “examen” : son rôle est avant tout réflexif, critique ; et de ce point de vue, on peut dire que l’épanorthose, bien plus qu’un mode d’expression occasionnel, constitue son mode d’être fondamental : elle consiste en ce retour sur soi permanent de la pensée qui ne se contente d’aucun de ses acquis, ce qui est la condition pour que l’élan auquel elle correspond soit authentiquement créatif. D’autre part, l’examen dont la philosophie assume la charge s’effectue “au point de vue normatif ”, c’est-à-dire qu’il ne se contente pas de recenser et d’avérer des faits tels qu’ils sont donnés, mais il confronte ces faits à des valeurs au nom desquelles il les juge, en décidant, ou non, de leur acceptabilité, qui fait problème, ce 22


134 Gianluca Vagnarelli alla filosofia di avventurarsi su un terreno che non le è proprio, facendola uscire dai tradizionali confini nei quali sembra costituirsi in Castalia, in chiusa provincia del sapere24. L’analisi critica, per i due pensatori, va infatti intesa come fuoriuscita dalla gastricità, come problematizzazione della realtà a partire da ciò che è estraneo alla filosofia. È, difatti, proprio questo trarre nutrimento da ciò che le è più distante che consente alla riflessione filosofica un rapporto non mediato con la soggettività in carne ed ossa. La medicina, in conclusione, assume il valore di una tecnica e di un’arte che permette – tanto a Canguilhem quanto a Foucault – la messa in relazione del pensiero con i problemi umani nella loro più viva concretezza25. Infatti, com’è stato osservato, Le normal et le pathologique di Canguilhem e Naissance de la clinique di Foucault sono opere che possono essere lette sans quoi il n’y aurait pas lieu de les examiner. Enfin, cet examen au point de vue normatif concerne, non un domaine d’objectivité étroitement délimité sur lequel la philosophie exercerait un droit de regard exclusif, mais des “disciplines quelconques”. C’est ce thème qui sera repris par Canguilhem dans le passage si souvent commenté de l’Introduction de l’Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique, la thèse de médecine de 1943, où il est question des “matières étrangères” dont la philosophie est fondée à se préoccuper : si la philosophie applique son examen critique à des “disciplines quelconques” qui sont pour elle des “matières étrangères”, c’est parce que, pour exploiter la capacité de jugement dont elle a la responsabilité, elle doit en tout premier lieu abjurer la prétention de disposer en propre d’une matière ou d’un domaine dont elle détiendrait les clés et sur lequel elle exercerait sa juridiction»; P. Macherey, Canguilhem et la philosophie, exposé présenté le 15 juin 2012 au colloque «Un entre-deux-guerres philosophique : la formation de Georges Canguilhem» (Université Paris VIII), <http://philolarge.hypotheses.org/1275>. 24 Castalia è l’immaginaria regione nella quale è ambientato il romanzo di Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro. Foucault richiama questo scritto di Hesse per sollevare alcuni interrogativi legati al senso dell’attività intellettuale. «[Question] Vous vous considérez comme un philosophe ? Tout à l’heure, vous vous êtes éloigné du mot “penseur”. [MF] Non. Je ne dirais pas “savant”, parce que “savant” a un sens très précis. Un homme de savoir, un homme qui manipule des savoirs, qui en fait apparaître, qui en disqualifie d’autres, qui se meut dans cette espèce de jeu, de jeu du savoir. Vous savez, vous êtes plus jeune que moi, vous n’avez peut être pas été comme je l’ai été dans mon adolescence impressionné par un livre qui était Le Jeu de perles de verre, qui est tout de même la grande épopée ou la grande mythologie de l’intellectuel du XXe siècle. On met dans le jeu un problème : savoir sur quoi on l’articule et si effectivement le jeu, purement ludique, auquel finalement on est voué, peut tout de même communiquer avec un certain nombre de processus extérieurs au jeu, processus sérieux, processus historiques. Voilà mon inquiétude, et voilà le plaisir»; M. Foucault, Radioscopie de Michel Foucault (entretien avec J. Chancel), in M. Foucault, Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 1651-1670, p. 1657. 25 Cfr. G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, PUF, Paris 1966, p. 7.


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in parallelo26. In esse, la riflessione consacrata al tema delle norme, pur in presenza di talune differenze, si accompagna a una critica radicale della pretesa oggettivante del positivismo biologico. Ne Le normal et le pathologique, Canguilhem oppone alla biologia positivista di Claude Bernard, che intende studiare la vita in laboratorio, la realtà effettiva del vivente quale soggetto di un’esperienza. In questa prospettiva, il vivente è anzitutto l’individuo colto nella sua singolarità esistenziale rivelatagli dal vissuto cosciente della malattia. La messa in valore di tale esperienza conduce in una direzione opposta all’oggettivismo proprio della biologia positivista27: «Il nous semble que la physiologie a mieux à faire que de chercher à définir objectivement le normal, c’est de reconnaître l’originale normativité de la vie»28. Le norme non sono dati oggettivi che possono essere direttamente e semplicemente osservati, i fenomeni cui esse danno luogo non sono dunque quelli statici di una normalità, bensì quelli dinamici di una normatività. In tal modo, Canguilhem rovescia la prospettiva tradizionale del rapporto tra norme e vita, poiché non è la vita ad essere sottomessa a norme che agiscono su di essa dall’esterno, ma sono le norme ad essere prodotte dal movimento stesso della vita: è l’essenziale normatività del vivente ad essere al centro dello studio di Canguilhem29. In Foucault, la critica della pretesa oggettivante del positivismo biologico non avviene, come in Canguilhem, a partire dall’esperienza concreta del vivente, attraverso un approccio alle norme colte nel momento stesso A questa lettura in parallelo si è dedicato Pierre Macherey. Anche la storia editoriale dei due saggi ne evidenzia i punti di contatto. Nel 1943, Canguilhem pubblica la sua tesi di medicina dal titolo Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique, nel 1963 – vent’anni dopo – fa pubblicare nella collana “Galien” che dirige per le Presses Universitaires de France, consacrata alla storia e alla filosofia della biologia e della medicina, l’opera di Foucault Naissance de la clinique. Nello stesso anno, Canguilhem tiene alla Sorbona un corso dedicato alle norme e prepara, in contemporanea, una nuova edizione del suo saggio che verrà pubblicata nel 1966 con l’aggiunta delle Nouvelles réflexions concernant le normal et le pathologique. Cfr. P. Macherey, De Canguilhem à Foucault. La forces des normes, La Fabrique, Paris 2009, p. 99. 27 Cfr. ivi, pp. 98-101. 28 G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, cit., p. 116. 29 «[I]l y a une essentielle normativité du vivant, créateur de normes qui sont l’expression de sa constitutive polarité. Ces normes rendent compte du fait que le vivant n’est pas réductible à une donnée matérielle mais qu’il est un possible, au sens d’une puissance, c’est-à-dire une réalité qui se donne d’emblée comme inachevée parce qu’elle est confrontée par intermittence aux risques de la maladie, et à celui de la mort en permanence»; P. Macherey, De Canguilhem à Foucault, cit., p. 102. 26


136 Gianluca Vagnarelli in cui sono generate dalla dinamica della normatività, ma da una prospettiva storica situata nel pieno sviluppo di un processo sociale e politico. Egli procede attraverso una archeologia delle norme mediche le quali, più che essere valutate dal punto di vista del malato, lo sono da quello del medico e delle istituzioni mediche. Il vivente, in Foucault, cessa di essere ciò che era stato per Canguilhem, e cioè il soggetto produttore delle norme, per divenirne il punto di applicazione30. In questo senso, il discorso foucaultiano sulla normalità, oltre ad essere un modello epistemologico regolante le conoscenze, è soprattutto un modello politico di regolazione dei comportamenti. La stessa nozione foucaultiana di expérience dà conto non dell’esperienza del vivente, ma di un’esperienza storica, anonima e collettiva, che diviene esperienza de vivant invece che du vivant31. Tuttavia – ed è l’aspetto che intendiamo qui sottolineare – la riflessione sul normale e sul patologico costituisce il nucleo intorno al quale si articola l’analitica foucaultiana e la sua ipotesi di emersione di un nuovo tipo di potere. Come noto, il discorso foucaultiano sul potere mira anzitutto ad emanciparlo da ogni subordinazione funzionale alla quale vorrebbero ridurlo il liberalismo e il marxismo32. Il potere ha, per Foucault, la medesima estensione del corpo sociale, è intrinseco a una molteplicità di relazioni e non obbedisce alla forma unica del divieto e della punizione. Pertanto, esso non deve essere pensato secondo la forma binaria dominanti/dominati, ma come una produzione multiforme di rapporti extralegali, di procedure disperse, eteromorfe e locali, il cui «La médecine ne doit plus seulement être le corpus des techniques de la guérison et du savoir qu’elles requièrent ; elle enveloppera aussi une connaissance de l’homme en santé, c’est à dire à la fois une expérience de l’homme non malade et une définition de l’homme modèle. Dans la gestion de l’existence humaine, elle prend une posture normative, qui ne l’autorise pas simplement à distribuer des conseils de vie sage, mais la fonde à régenter les rapport physiques et moraux de l’individu et de la société où il vit»; M. Foucault, Naissance de la clinique, PUF, Paris 2009, p. 35. 31 Cfr. P. Macherey, De Canguilhem à Foucault, cit., pp. 102-104. 32 «Il me semble qu’il y a un certain point commune entre le marxisme et le libéralisme, c’est-a-dire un certain “économisme” dans la théorie du pouvoir. Pour la conception juridique et libérale du pouvoir politique, le pouvoir est considéré comme un droit dont on serait possesseur comme d’un bien. Dans la théorie marxiste il y a une fonctionnalité économique du pouvoir, le pouvoir comme défenseur des rapports économiques de la société. […] Dans mes recherches je pose des questions : le pouvoir est-il toujours dans une position seconde par rapport à l’économie ? […] Même si les rapports de pouvoir sont profondément intriqués dans et avec les relations économiques, l’indissociabilité de l’économie et du politique ne serait pas de l’ordre de la subordination fonctionnelle»; M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France (1975-1976), Seuil/Gallimard, Paris 1997, pp. 14-15. 30


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incrocio può produrre fatti generali di dominio che possono organizzarsi secondo strategie globali più o meno coerenti e unitarie33. L’analisi di Foucault spodesta dunque il re dalla sua posizione centrale, per sostituirlo con i soggetti in relazione tra loro; il suo intento è quello di rendere la complessità e molteplicità delle relazioni di potere, che non vanno pensate come se fossero al servizio di un interesse economico assunto come originario. La lotta di classe può dunque non essere la ratio, la garanzia d’intelligibilità di certe strategie di potere34. Non vi sono infine, per Foucault, relazioni di potere senza resistenza. Una resistenza che non è quella codificata e regolata del diritto e della sovranità, ma che fa riferimento a quell’insieme di lotte, di tattiche mobili e multiple che sono tutte interne ai rapporti di potere e che queste dinamiche contribuiscono continuamente a ridefinire35. È dunque questo campo del potere, costituito da un insieme di lotte disseminate, di resistenze locali eterogenee ed imprevedibili, più che il fatto massimo del dominio, a dover essere compreso. Non si tratta di intendere il potere come un nucleo centrale dal quale si irradiano decisioni, ma di analizzarlo nelle sue pratiche reali ed effettive, e in stretta relazione con il sapere36. Il tema generale dell’analitica foucaultiana, più che la genesi della sovranità, sarà così quello delle relazioni di potere che investono i corpi singolari e collettivi. In particolare, saranno la disciplina e la biopolitica a rappresentare le tecnologie in grado di concretare la presa del potere sulla vita, sia al livello dell’uomo-corpo, sia a quello dell’uomospecie. Attraverso il disciplinamento delle condotte e la regolazione dei processi vitali, esse consentiranno un controllo, allo stesso tempo individualizzante e massificante, sulla vita. In quest’ottica, il XVIII secolo rappresenterà uno snodo di fondo dell’analisi foucaultiana, nel quale si assisterà a un processo di progressiva conquista di nuovi spazi operato dalla medicina, che consentirà alla scienza medica di uscire dal suo tradizionale perimetro per collocarsi al centro della scena pubblica. Questo processo di occupazione, cui Foucault darà il nome di medicalizzazione, permetterà alla medicina il salto dal singolare al collettivo, dal livello della 33

p. 425.

M. Foucault, Pouvoirs et stratégies, in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 418-428,

Cfr. ibidem. Cfr. M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 254. 36 Cfr. ivi, pp. 14-27. 34 35


138 Gianluca Vagnarelli clinica a quello della santé publique, facendola divenire elemento centrale del nuovo governo dei viventi37. È dunque da tale prospettiva che intendiamo affrontare la riflessione sulla medicalizzazione che Foucault sviluppa a partire da Naissance de la clinique, non solo come occasione per ricostruire la genesi di questa categoria, ma anche come opportunità per la messa in evidenza della molteplicità delle trame che questo tema intrattiene con l’economia complessiva dell’analitica foucaultiana del potere. Naissance de la clinique La ricostruzione foucaultiana della nascita della clinica prende avvio da una riflessione epistemologica che ha quali punti di riferimento lo sguardo e lo spazio. Sono infatti le modificazioni semantiche e la rilocalizzazione del visibile e dell’invisibile ad annunciare la riarticolazione del discorso medico che avverrà alla fine del XVIII secolo. È in questo periodo che la clinica subirà un processo di profonda ristrutturazione che le consentirà di andare oltre il suo tradizionale ruolo di accumulatrice seriale di casi clinici, per divenire parte essenziale de l’expérience médicale38. Vedremo più avanti le profonde implicazioni politiche di questo cambiamento. Ciò che ci interessa porre in rilievo ora è, come detto, che questo mutamento è segnalato da una diversa qualità dello sguardo e da una nuova modalità di rapportarsi allo spazio39. Lo sguardo assume una forza maggiore rispetto al passato, è legittimato da una istituzione, è uno sguardo che non si esaurisce nella sistemazione del percepito all’interno di tableaux nosologici, ma diviene sguardo calcolatore in grado di cogliere la devianza40. I cambiamenti più significativi riguarderanno però il rapporto tra l’indagine visiva del soggetto inquirente e la localizzazio«Par pensée médicale, j’entends une façon de percevoir les choses qui s’organise autour de la norme, c’est-à-dire qui essaie de partager ce qui est normal de ce qui est anormal, qui n’est pas tout à fait justement le licite et l’illicite ; la pensée juridique distingue le licite et l’illicite, la pensée médicale distingue le normal et l’anormal ; elle se donne, elle cherche aussi à se donner des moyens de correction qui ne sont pas exactement des moyens de punition, mais des moyens de transformation de l’individu, toute une technologie du comportement de l’être humain qui est liée à cela…»; M. Foucault, Le pouvoir, une bête magnifique, in Dits et écrits II, cit., pp. 368-382, p. 374. 38 Cfr. M. Foucault, Naissance de la clinique, cit., p. 62. 39 Cfr. ivi, pp. vii-x. 40 Cfr. ivi, pp. 88-89. 37


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ne della malattia. Foucault li descriverà tramite il richiamo alla categoria di “spazializzazione” che, distinta in diversi livelli di significato, gli consentirà di narrare i modi di affermazione della medicina nello spazio pubblico41. Vale la pena, dunque, approfondire le tappe di tale ragionamento. Il primo livello della spazializzazione descritto da Foucault si richiama alla medicina classificatrice che domina la Nosologie di Sauvage e la Nosographie philosophique di Pinel. Sulla loro scia, la definizione di un’essenza della malattia è funzionale alla collocazione nell’ambito di tableaux medici nei quali la vicinanza è definita per analogia di formes patologiche42. In questo contesto, lo sguardo medico è privo di ogni autonomia, essendo strettamente sottomesso alla precisa conoscenza del rigido ordine dettato dalla nosologia. Ma esso, tutto teso a spazializzare la classe, il genere e la specie della malattia nell’ambito delle griglie nosologiche, finisce per occultare la soggettività del paziente e il suo corpo43. A questo primo grado di incasellamento ne segue un secondo, che chiamerà più direttamente in causa il ruolo del medico, il quale dovrà andare oltre la mera localizzazione dell’essenza patologica per collocarla nel corpo del paziente. È ciò che Foucault definisce spatialisation secondaire du pathologique, processo nel quale, attraverso lo sguardo medico che opera come una sorta di lente di ingrandimento, si metterà in comunicazione il corpo essenziale della malattia con quello reale del malato44. Il processo della spazializzazione secondaria consente quindi allo sguardo medico di risolvere il problema di come un’entità morbosa possa “presentificarsi” in una massa di corpi indifferenziati. Ma nell’economia dell’analisi foucaultiana è il terzo livello della spazializzazione ad assumere la maggiore importanza. Esso consiste in quell’insieme di azioni attraverso le quali, in una data società, la malattia è accerchiata, isolata, confinata in spazi chiusi e medicalmente investita45. Attraverso queste pratiche, un gruppo umano protegge se stesso reagendo alla paura della morte e delle malattie, erigendo argini, praticando esclusioni, stabilendo forme di assistenza, neutralizzando e respingendo il contagio46. Cfr. ivi, pp. x-xv. Cfr. ivi, pp. 2-5. 43 Cfr. ivi, p. 7. 44 Cfr. ivi, pp. 8-12. 45 Cfr. ivi, pp. 8-14. 46 Cfr. ivi, p. 15. 41 42


140 Gianluca Vagnarelli La differenza sostanziale rispetto ai due primi livelli, nei quali la malattia resta chiusa nel rapporto tra griglie nosologiche e localizzazione prodotta dallo sguardo medico, è che nella spazializzazione terziaria si affaccia il tema dello spazio sociale della medicina. La collocazione della patologia non avverrà più sul tableau medico o sul corpo del paziente, ma all’interno del tessuto urbano nel quale si determineranno le nuove regioni dell’inclusione e dell’esclusione, i nuovi confini del normale e del patologico. Il terzo livello della spazializzazione medica segna dunque, per Foucault, lo sconfinamento della medicina oltre i perimetri delle griglie nosologiche ove, tradizionalmente, era stata contenuta. Il richiamo alla riflessione foucaultiana sui tre diversi livelli della spazializzazione – in particolare l’ultimo dei tre – è necessario in questo contesto perché sottende il conflitto, più fondamentale, tra una médecine des espèces, come medicina estranea allo spazio sociale, e una médicine agissante, annunciando l’affermazione di quest’ultima. Mentre la prima postula una medicina del non intervento, nella quale l’esito finale della vita o della morte è rimesso al corso naturale delle cose, senza che interventi esterni possano alterare il decorso della malattia che si svolge all’interno del nucleo familiare, nella médecine agissante l’assistenza del malato non può prescindere dalla mediazione dello Stato come controllore generale di un processo che è destinato ad investire l’intero spazio sociale47. Ad una spazializzazione libera della malattia, che non doveva in alcun modo soggiacere alle costrizioni dell’architettura ospedaliera, si sostituisce una vigilanza generalizzata del patologico che sarà messa in campo dallo Stato. Ciò perché lo stato di salute della nazione diviene, da un certo momento in poi, politicamente rilevante per il potere e, di conseguenza, la medicina assume il carattere di tâche nationale. Foucault inizia dunque a tracciare i primi caratteri di quell’incontro tra la tecnologia medica e le esigenze dell’ideologia politica che verranno poi approfonditi nei suoi studi della metà degli anni settanta48. Cfr. ivi, p. 37. Cfr. M. Foucault, Les grandes fonctions de la médecine dans notre société, in M. Foucault, Dits et écrits I, cit., pp. 1248-1250; M. Foucault, La politique de la santé au XVIIIe siècle, in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 13-27; M. Foucault, Crise de la médecine ou crise de l’antimédecine ?, in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 40-58; M. Foucault, La naissance de la médecine sociale, in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 207-228; M. Foucault, L’incorporation de l’hôpital dans la technologie moderne, in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 508-521. 47 48


Medicalizzazione e potere in Naissance de la clinique 141

Una prima risposta a questa nuova esigenza del controllo politico della salute della nazione sarà data dalla diffusione capillare dei medici in tutto il territorio nazionale. Gli anni che precedono e seguono la Rivoluzione francese, scrive Foucault, sono infatti caratterizzati dall’insorgere di due opposti miti: quello di una professione medica nazionalizzata e organizzata sulla falsa riga del clero – con la differenza che essa si fa carico della cura dei corpi e non di quella delle anime –, e il mito di una scomparsa della malattia nell’ambito di una società ricondotta alla sua santé originale49. Les deux rêves sont isomorphes – l’un racontant d’une façon positive la médicalisation rigoureuse, militante et dogmatique de la société, par une conversion quasi religieuse, et l’implantation d’un clergé de la thérapeutique ; l’autre racontant cette même médicalisation, mais sur un mode triomphant et négatif, c’est-à-dire la volatilisation de la maladie dans un milieu corrigé, organisé et sans cesse surveillé, où finalement la médicine disparaîtrait elle-même avec son objet et sa raison d’être50.

Il significato assunto da ciò che Foucault definisce médicalisation è dunque duplice. In una prima accezione, essa rimanda a un processo di strutturazione e legittimazione della medicina che vede il costituirsi di un clergé de la thérapeutique diffuso su tutto il territorio della nazione e al quale occorrerà garantire una piena legittimazione scientifica. In questa direzione, i nascenti ospedali troveranno una loro ragion d’essere nella formazione della futura classe medica. La stessa riorganizzazione dei corsi universitari di medicina, avviata subito dopo la Rivoluzione, risponderà all’esigenza di restringere l’esercizio della professione medica, assicurandole maggiore prestigio rispetto al passato51. Nel significato negativo, la medicalizzazione acquista invece il senso di una diluizione della medicina e della malattia in un solvente in grado di produrre un milieu corrigé, organizzato e perennemente sorvegliato. La medicalizzazione non è dunque un fenomeno politicamente neutro. Dietro il mito della sparizione totale della malattia e la ricostituzione di una presunta purezza originaria, la medicina si fa strumento di addomesticamento di massa, funzionale al silenziamento dei troubles e delle passioni sociali52. Cfr. M. Foucault, Naissance de la clinique, cit., pp. 31-32. Ibidem. 51 Cfr. ivi, p. 45. 52 Cfr. ivi, p. 32. 49 50


142 Gianluca Vagnarelli Questi due processi, aggiunge Foucault, devono essere intesi come isomorfi, perché si compenetrano vicendevolmente. La medicalizzazione militante e dogmatica che investe l’intero spazio della società si svolge in parallelo a un processo di sparizione dei tradizionali confini della medicina, in forza del quale è l’intero campo sociale ad essere invaso dalla scienza medica. La volatilizzazione della malattia e della medicina non significano, dunque, il loro venir meno: in luogo di essere confinate in uno spazio circoscritto, esse verranno sussunte in un milieu organizzato e perennemente sorvegliato, che si approprierà dell’attitudine medica alla correzione del patologico per esercitarla, questa volta, sull’intera comunità. Il rilievo politico che Foucault attribuisce a questi cambiamenti rimanda alla nascita della medicina come mezzo di normazione del vivente. Infatti, a partire dal XIX secolo, la medicina non fonderà più il proprio sapere solo sulle tecniche di guarigione del corpo malato, ma diverrà scienza dei corpi sani e dell’uomo modello. Essa si farà prescrizione delle corrette modalità di rapporto fisico-morali degli individui, e la sua attenzione si orienterà verso la definizione di ciò che potrà considerarsi normale piuttosto che sano53. Sta in questo passaggio l’essenza della riflessione foucaultiana sulla clinica. Quest’ultima, da luogo di accumulazione seriale del sapere medico tramite l’osservazione, diviene teatro nosologico all’interno del quale a prevalere è la funzione assertiva su quella rivelativa della malattia. Verrà meno lo sguardo, con il suo potere di analisi e di sintesi, e si affermerà un sapere discorsivo che giunge dall’esterno54. La malattia, da essenza nosologica estranea al soggetto e in grado di aggredirne la vita, diverrà vie pathologique. Se, dunque, i fenomeni patologici dovranno essere valutati in stretta relazione alla vita, sarà questa a divenire oggetto del controllo e dell’intervento della medicina. La medicalizzazione, abbattendo le barriere che confinavano lo spazio medico in un luogo circoscritto, ha consentito alla medicina di invadere il campo della vita, trasformando la malattia da essenza nosologica in disordine, in devianza. La vita prenderà in definitiva il posto che la natura aveva nella nosologia, divenendo il fondo dal quale la malattia potrà trarre alimento per la categorizzazione dei suoi disordini55. Cfr. ivi, p. 35. Cfr. ivi, p. 60. 55 Cfr. ivi, p. 156-157. 53 54


Medicalizzazione e potere in Naissance de la clinique 143

La medicalizzazione negli scritti successivi a Naissance de la clinique A partire dagli scritti dei primi anni settanta dedicati allo studio della follia, Foucault tornerà più volte sul tema della medicalizzazione e, in una certa continuità con il carattere polisemico di questa nozione, ne evocherà significati diversi. Lo studio della follia è, per Foucault, l’approfondimento del negativo presente nella società, di ciò che, in Occidente, è stato rigettato ed escluso nei sistemi di pensiero56. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, la condizione dei folli muta, ma tra le orde di coloro che fuoriescono dagli istituti di cura essi non compaiono perché, inabili al lavoro, vi vengono trattenuti come affetti da disturbi caratteriali o psicologici. È questa identificazione del folle al malato mentale, prodottasi a partire dalla fine del XVIII secolo e dettata da ragioni squisitamente economiche e sociali, ad essere definita, da Foucault, “medicalizzazione”57. Nel corso al Collège de France dedicato al pouvoir psychiatrique, il tema della medicalizzazione della follia è ripreso e messo in relazione con la trasformazione degli spazi ospedalieri in luoghi di trattamento terapeutico. Il carattere disciplinare e, al tempo stesso, medico di questi luoghi, consente di prolungarne l’effetto coercitivo sin dentro il corpo del malato. Lo status scientifico del sapere medico permette in tal modo un’intensificazione della disciplina manicomiale, operando come una sorta di supplemento di potere58. Nei significati sin qui richiamati, Foucault evoca dunque la medicalizzazione sia nei termini di una patologizzazione della follia, sia in quelli di un’estensione dell’influenza medica su luoghi disciplinari, con l’obiettivo di garantire una più penetrante presa sui corpi; ma negli anni successivi a questi scritti egli andrà oltre tali accezioni. In La politique de la santé au XVIIIe siècle, la medicalizzazione della famiglia è presentata come uno dei caratteri della noso-politique59. Con quest’ultima espressione si fa riferimento all’emergere, in una molteplicità di punti del corpo sociale, della salute e della malattia come problemi che richiedono una presa in carico di ordine collettivo. Più che richiamare un interCfr. M. Foucault, La folie et la société, in Dits et écrits I, cit., pp. 996-1003. Cfr. ibidem. 58 Cfr. M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France (1973-1974), Seuil/Gallimard, Paris 2003, p. 167. 59 Cfr. M. Foucault, La politique de la santé au XVIIIe siècle, cit., p. 18. 56 57


144 Gianluca Vagnarelli vento verticale dello Stato in materia di medicina, la noso-politique rimanda al sorgere di una molteplicità di istanze che si orientano verso l’obiettivo generale della salute e rispetto alle quali lo Stato può giocare ruoli diversi60. Questa accezione della medicalizzazione incrocia il problema della popolazione e del suo sviluppo: in particolare, è la famiglia a dover garantire le condizioni fisiche ed economiche funzionali alla sopravvivenza dell’infanzia. Da questo momento, scrive Foucault, la famiglia non sarà più soltanto una rete di relazioni inscritta in un sistema di parentela, in un meccanismo di trasmissione di beni, ma diviene un milieu fisico denso, permanente e continuo, che mantiene e favorisce il corpo del bambino. «Il ne s’agit plus seulement de produire un nombre optimal d’enfants, mais de gérer convenablement cet âge de la vie»61. Alla famiglia, definita come agente medicalizzato e medicalizzante, spetterà così il duplice compito di produrre discendenza e garantire le migliori condizioni possibili affinché i nascituri possano raggiungere, in piena salute, l’età adulta62. La medicalizzazione, quindi, è per Foucault un fenomeno che non solo investe i luoghi deputati alla reclusione della follia, ma che invade le stesse relazioni familiari, in particolare quelle tra genitori e figli. Se la medicalizzazione dell’infanzia aveva quale originario obiettivo quello di diminuire la mortalità infantile, la sua successiva evoluzione ha portato a psicologizzare e psichiatrizzare l’attitudine dei genitori nei confronti dei figli. L’esito finale di questa progressiva colonizzazione degli spazi sociali e familiari operata dalla medicina si ha con la médicalisation indéfinie che si compie nel XX secolo. Secondo Foucault, la médicalisation indéfinie si caratterizza per un intervento della medicina di carattere autoritario, non richiesto né sollecitato (e di cui le politiche sistematiche e obbligatorie di screening costituiscono un esempio), in ambiti sempre più vasti dell’esistenza individuale e collettiva: la depurazione delle acque, le condizioni di vita, il regime urbano e la stessa salute divengono oggetto di intervento medico, tanto da non avere più «Il ne s’agit plus là du soutien à une frange particulièrement fragile – troublée et perturbatrice – de la population, mais de la manière dont on peut élever le niveau de santé du corps social dans son ensemble. […] Le support de cette transformation ? On peut dire en gros qu’il s’agit de la préservation de l’entretien et de la conservation de la “force de travail”. Mais sans doute le problème est-il plus large ; il concerne vraisiblement les effets économico-politiques de l’accumulation des hommes»; ivi, pp. 16 e 18. 61 Ivi, p. 19 (tondo mio). 62 Ibidem. 60


Medicalizzazione e potere in Naissance de la clinique 145

ambiti che siano loro esterni63. «Dans la situation actuelle, ce qui est diabolique, c’est que, lorsque nous voulons avoir recours à un domaine que l’on croit extérieur à la médecine, nous nous apercevons qu’il a été médicalisé»64. Da qui si comprende la ragione della diffidenza foucaultiana rispetto a Illich e alla sua idea di opporre, alla medicina terapeutica, un’arte de-medicalizzata della salute fondata su particolari ritmi di vita, norme di alimentazione, igiene, condizioni di lavoro, abitazione, ecc. La preponderanza assegnata al patologico è divenuta, al contrario, una forma generale di regolazione della società dalla quale non si può in alcun modo fuggire: Si le juristes des XVIIe et XVIIIe siècles inventèrent un système social qui devait être dirigé par un système de lois codifiées, on peut affirmer que les médecins du XXe siècles sont en train d’inventer une société de la norme et non de la loi. Ce qui régit la société, ce ne sont pas les codes, mais la distinction permanente entre le normal et l’anormal, l’entreprise perpétuelle de restituer le système de normalité65.

L’approdo alla teoria della médicalisation indéfinie, quale intervento di carattere autoritario della medicina in ambiti sconfinati dell’esistenza individuale e collettiva, segnala il passaggio a una società della norma, implicando un sistema di sorveglianza e controllo il cui cardine sarà la classificazione permanente degli individui, la loro gerarchizzazione e qualificazione che, assumendo la forma di una mise en diagnostic delle esistenze, non potrà che avere nella medicina la sua scienza per eccellenza66. La riflessione sulla medicalizzazione, che ha inizio a partire dalle pagine di Naissance de la clinique e trova il suo culmine negli scritti della metà degli anni settanta, testimonia dunque del progressivo prevalere – nell’indagine foucaultiana – del tema del potere e dello stretto rapporto che esso ha intrattenuto con la medicina. In questo contesto, la medicina è divenuta, per Foucault, se non un’arte di governare, certamente un modo di osservare, Cfr. M. Foucault, Crise de la médecine ou crise de l’antimédecine ?, cit., p. 52. Ivi, p. 51. 65 Ivi, p. 50. 66 «Avec la médicalisation, la normalisation, vous arrivez à obtenir une sorte de hiérarchie d’individus capables ou moins capables, celui qui obéit à une certaine norme, celui qui dévie, celui qu’on peut corriger, celui qu’on ne peut pas corriger, celui qu’on peut corriger avec tel moyen, celui pour lequel il faut employer d’autres moyens. C’est tout cela, cette espèce de prise de considération des individus en fonction de leur normalité qui est, je crois, l’un des grands instruments de pouvoir dans la société contemporaine»; M. Foucault, Le pouvoir, une bête magnifique, cit., pp. 374-375. 63 64


146 Gianluca Vagnarelli correggere e migliorare il corpo sociale, ed è proprio in ragione di questa funzione – più che per il suo ruolo terapeutico – che essa ha assunto una posizione politicamente privilegiata a partire dal XVIII secolo67. Posizione che le è derivata dalla produzione di un discorso di verità suggellato dalla scienza. La diffusione della medicina nei più diversi ambiti sociali, e il fatto che divenga una funzione generale della società, è resa possibile proprio dalla sua sacralizzazione scientifica68. In sostanza, quella che Foucault definisce la società della normalizzazione – al centro della quale si colloca il potere medico – testimonia di un potere che, andando ben al di là del ristretto campo giuridico e legale dello Stato, opera come produttore di verità legittimate dalla scienza, consentendo una presa efficace sui corpi69. La biopolitica indica appunto una tecnologia rivolta non al controllo, ma alla gestione calcolatrice dei processi vitali delle popolazioni. Il corpo diviene una realtà biopolitica e la medicina rappresenta una strategia biopolitica70. Se il territorio è l’elemento cardine della sovranità giuridica, Foucault, richiamandosi a La Perrière, definisce il governo come una maniera di disporre le cose per indirizzarle non verso il bene comune, ma verso un fine conveniente71. Il XVIII secolo segna, in questo senso, il passaggio da un’arte di governo a una scienza politica, «d’un régime dominé par les structures de souveraineté à un régime dominé par les techniques du gouvernement»72. Tecniche che non renderanno più la natura oppositiva rispetto al potere, ma consentiranno a quest’ultimo di agire al suo interno, funzionalizzando la vita ai suoi imperativi73. Come ha osservato Roberto Esposito, con la modernità ciò che si afferma, in buona sostanza, è la centralità della dimensione comunitaria, pubblica, comune, della conservatio vitae74. In conclusione, l’indagine che Foucault sviluppa sul tema della medicalizzazione a partire da Naissance de la clinique assume il valore di un’analisi dei cambiamenti di fondo nelle disposizioni del sapere, i quali testimoniaCfr. M. Foucault, La politique de la santé au XVIIIe siècle, cit., pp. 22-23. Cfr. M. Foucault, L’extension sociale de la norme (entretien avec P. Werner), in M. Foucault, Dits et écrits II, cit., pp. 74-79, p. 76. 69 Cfr. M. Foucault, Le pouvoir, une bête magnifique, cit., pp. 378-379. 70 Cfr. M. Foucault, La naissance de la médecine sociale, cit., p. 210. 71 Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France (1977-1978), Seuil/Gallimard, Paris 2003, p. 102. 72 Cfr. ivi, p. 109. 73 Cfr. ivi, p. 77. 74 Cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. xiii. 67 68


Medicalizzazione e potere in Naissance de la clinique 147

no della profonda connotazione filosofica assunta dalla scienza medica nella cultura europea della fine del XIX secolo. Com’è stato sottolineato, l’analisi foucaultiana non è tanto un’analisi materialista, quanto politica, nel senso che mira a politicizzare, a sottomettere a una messa in questione pubblica, un certo numero di pratiche che, in ragione di una loro fondazione scientifica, pretendono di sottrarsi ad ogni problematizzazione di questo tipo75. Al centro di tale processo vi è lo svelamento del carattere normativo della medicina, il nuovo senso attribuito alla malattia che investirà, come detto, direttamente la vita. Questo ruolo normativo segnerà uno scarto rispetto alla precedente missione della scienza medica, che non sarà più confinata nel rapporto con l’oggetto patologico, ma si estenderà sino alla disciplinarizzazione e all’amministrazione del vivente. Gianluca Vagnarelli Università degli Studi di Macerata lucavagnarelli@libero.it

. Medicalization and Power in The Birth of the Clinic The proliferation, in the nineteenth century, of theories concerning medicalization, contributed to the definition of the dynamic and polyvalent character of this notion, which is sometimes the source of a certain conceptual ambiguity. The Foucaultian reflection on medicalization, starting from Naissance de la clinique, shows not only the centrality of body and life within the dynamics of power, but also the overcoming of the juridical-discursive paradigm centered on law, towards the affirmation of a society of norm. Thus, the medical science will not be confined only to its exclusive relation with the pathological object, but will extend its influence up to the disciplinarization and the administration of the living. Keywords: Biopolitics, Canguilhem, Medicine, Medicalization, Norms, Noso-politique, Power.

75

Cfr. S. Legrand, Les normes chez Foucault, PUF, Paris 2007, p. 7.


Forum:

Foucault, migrazioni e confini


Nota introduttiva

Migrazioni e confini sono poste in gioco politiche, ancor prima e oltre

che oggetti di ricerca o di analisi critica. E oggi diventa sempre più importante investigare le profonde trasformazioni che, nel corso del XX secolo e di questi ultimi decenni, hanno attraversato sia i campi conflittuali in cui le migrazioni si situano, sia le funzioni e le “forme” dei confini, che si sono riarticolati, moltiplicati e frammentati. Si tratta di interrogazioni indispensabili per comprendere le mutazioni più ampie prodotte dai fenomeni della globalizzazione del mercato del lavoro e della mobilità transnazionale. Migrazioni e confini, dunque, come amplificatori e lenti di meccanismi di assoggettamento, campi di lotta e processi di soggettivazione all’opera ben al di là e al di qua delle linee di confine e delle singole esperienze di migrazione. Migrazioni e confini costituiscono inoltre importanti nodi concettuali e tematici sui quali si stanno focalizzando molti degli studi foucaultiani più recenti, che, usando la cassetta degli attrezzi di Foucault e il suo appoccio critico-genealogico, cercano di “denaturalizzare” il nesso migrazioni-governo, alla base delle attuali produzioni di sapere e di politiche sulle migrazioni. In effetti, un approccio foucaultiano al cosiddetto “regime delle migrazioni” mira a mettere in discussione precisamente l’idea che le migrazioni siano un fenomeno da governare, spostando invece l’attenzione sulle forme di soggettività e sulle pratiche di movimento che il governo delle migrazioni si trova a filtrare, imbrigliare o selezionare, così come sui processi di soggettivazione prodotti dalla partizione in differenti categorie e gradi di mobilità autorizzata e di mobilità “illegale”. Un tale sguardo sulle pratiche di migrazione, come tutti e tre i protagonisti di questo forum sottolineano, consente di non partire dalle politiche di controllo e dal funzionamento, o dall’esistenza, dei confini, e suggerisce invece di assumere le migrazioni come punto di partenza e angolo analitico attraverso il quale investigare la governamentalità come strugglefield, vale a dire come campo di lotte: i confini e le politiche migratorie, in quest’ottica, non sono che l’effetto e la risposta alla turbolenza e ai sommovimenti prodotti dalle pratiche di migrazione. Pertanto, questa prospettiva ci conduce a ripensare il significato stesso di “resistenza” olmateriali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 149-151.


150 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli tre la dimensione reattiva: la teoria dell’“autonomia delle migrazioni”1 e il concetto di “strategie di esistenza”2, solo per citare due importanti contributi dal panorama italiano, ridefiniscono la sua accezione, ampliandone lo spettro al di là di un’opposizione frontale ai meccanismi di potere. Da qui, l’idea che sta alla base di questo primo forum su “Foucault, migrazioni e confini”: la nozione di governamentalità, indubbiamente il concetto foucaultiano più usato nel dibattito accademico sulle migrazioni, deve essere mobilitata non per rafforzare la narrazione sul funzionamento “orizzontale” del regime delle migrazioni – fondato sulla coesistenza di attori transnazionali e nazionali, governamentali e non –, ma al contrario per fare emergere quest’ultimo come una serie di meccanismi di cattura e selezione delle pratiche di movimento, e come l’esito contestato e temporaneo di vari siti conflittuali. Ponendosi all’interno di una prospettiva di “storia del presente”, uno sguardo foucaultiano mira non solo a rintracciare le condizioni storicopolitiche di emergenza di determinate tecnologie di potere e regimi di verità che sottendono il moltiplicarsi di status giuridici e categorie economiche di “migranti”, ma anche a destabilizzare, a livello di politica del sapere, la loro solidità politico-epistemologica. Gli strumenti foucaultiani sono messi al lavoro nel campo delle migrazioni e dei confini anche dal di fuori degli studi foucaultiani stessi: la produttività dei confini, che Foucault sottolinea in Sicurezza, territorio, popolazione, e l’analitica del potere foucaultiana, che pone al centro le resistenze come elemento costituente delle relazioni di potere, rappresentano oggi due aspetti che, anche nei Critical Migration Studies, giocano un ruolo importante. In particolare, lo spostamento di Foucualt rispetto a un’analisi del potere centrata sulla sovranità o sulle istanze istituzionali consente di dislocare la riflessione critica sulle migrazioni dal paradigma dell’eccezione e dell’esclusione, che per lungo tempo ha caratterizzato gli studi sui luoghi di confinamento e sulle migrazioni. La produttività che, per Foucault, caratterizza le relazioni di potere, ha facilitato una lettura alternativa delle politiche di controllo, mettendo in luce come queste ultime non mirino (soltanto) a bloccare la mobilità irregolare, ma a dettare i tempi, le condizioni e gli spazi alle differenti pratiche di migrazione. La stessa “illegalità” S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Verona 2001. 2 F. Sossi, Migrare. Spazi di confinamento e strategie di esistenza, Il Saggiatore, Milano 2007. 1


Nota introduttiva 151

di determinate forme di migrazione viene letta, da una prospettiva foucaultiana, come parte di un produttivo meccanismo di “illegalizzazione” che il governo delle migrazioni mette in atto, ridefinendo in continuazione le partizioni tra mobilità autorizzata e non. Un governo in movimento. Così si potrebbe sintetizzare la prospettiva di “storia del presente” relativa alle migrazioni: la stabilità epistemologica e politica del regime delle migrazioni appare, in ottica foucaultiana, estremamente fragile di fronte alle “crisi” dei meccanismi che ripartiscono le pratiche di mobilità come migrazioni di varia natura, e di fronte alla necessità delle istanze nazionali e transnazionali di rincorrere, ricodificare e governare le “turbolenze” e i “disordini” generati dalle migrazioni. Chi deve essere governato in quanto migrante, chi viene “migrantizzato” e come la categoria stessa di “migrante” debba essere scomposta, moltiplicata nell’eterogeneità di condizioni economiche, esistenziali e giuridiche cui effettivamente corrisponde l’essere definito migrante: le analisi foucaultiane sui soggetti “ai margini” del potere ci permettono precisamente di articolare questi interrogativi tra di loro, guardando ai “migranti” non come agli “altri” della cittadinanza, ma come a soggettività in migrazione, nelle quali si disarticolano e ricompongono meccanismi biopolitici e di partage che coinvolgono anche i “soggetti cittadini”. L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli

. Foucault, Migrations and Borders With this forum we start a debate concerning the way in which the work of Michel Foucault and some of his analytical categories – like governmentality – are used in the critical studies on migrations and borders. Nicholas De Genova, Brett Neilson and William Walters, among the most relevant scholars in the field, reflect on how Foucaultian analyses have opened new modes, sites and patterns of research on migrations. They also dwell upon the limits and the critical issues related to the use of Foucault’s toolbox. Keywords: Migrations, Borders, Governmentality, Migrant struggles, Subjectivation, Postcolonial spaces, Regimes of truth.



Foucault, migrazioni e confini Risposte di Nicholas De Genova

mf: Michel Foucault non ha mai affrontato il tema delle migrazioni, eccetto in un paio di passaggi, e, come William Walters ha indicato nel suo saggio Foucault and Frontiers. Notes on the Birth of the Humanitarian Border, non si è soffermato sulla funzione dei confini come principali tecnologie politiche della governamentalità contemporanea. Infatti, in Sicurezza, territorio, popolazione le sue analisi sulla circolazione delle merci e delle persone come cardine dell’economia moderna finiscono in secondo piano, nella misura in cui il focus si sposta nettamente sulla produzione e il governo del territorio nazionale. Ciò nonostante, anziché investigare se Foucault abbia affrontato o meno questi temi, oggi possiamo forse mettere al lavoro alcuni degli strumenti concettuali che fanno parte della sua griglia analitica e, in modo più generale, del suo approccio genealogico, per cogliere le poste in gioco politiche del governo della mobilità e della narrazione mainstream sulle migrazioni. Pensa che, a questo proposito, la griglia foucaultiana della governamentalità possa essere utile, più di altri strumenti foucaultiani, o invece rileva che lo spostamento e il focus eclusivo sulla questione del governo possano essere problematici? In effetti, bisogna tenere in considerazione che, se da un lato molti studi critici sulle migrazioni fanno uso delle analisi foucaultiane della governamentalità, mettendo in luce la molteplicità degli attori e dei poteri in gioco all’interno del regime delle migrazioni, dall’altro questo ha finito in parte per corroborare l’idea che i movimenti delle persone debbano essere governati, privando in qualche modo le analisi di Foucault di quella portata critica che invece le caratterizza. N. De Genova: Con una celebre battuta, Foucault afferma che, per lui, Marx non esiste: Intendo questa specie di entità che abbiamo costruito intorno a un nome proprio, e che si riferisce ora a un certo individuo, ora alla totalità di quel che ha scritto, ora a un immenso processo storico che deriva da lui. […] Far funzionare materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 153-177.


154 Nicholas De Genova Marx come un “autore”, localizzabile in una miniera discorsiva unica e suscettibile di essere analizzata in termini di originalità o di coerenza interna, è sempre possibile. Dopo tutto, naturalmente, abbiamo il diritto di “accademizzare” Marx. Ma questo significherebbe ignorare la rottura che ha prodotto1.

Esattamente nello stesso senso, per me, Foucault non esiste. Foucault osserva che, se avesse scoperto i filosofi della Scuola di Francoforte da giovane, sarebbe stato «così affascinato da loro che non [avrebbe] fatto altro che commentarli»2. Un pericolo analogo esiste per coloro che, intrappolati in una sorta di esaltazione per Foucault, barattano la creatività intellettuale per una vita di esegesi, riverenza e ortodossia, e così facendo violano lo spirito critico di Foucault stesso, fraintendendo il tipo di rottura che ha introdotto. L’originalità e la grande importanza del saggio di William Walters su Foucault and Frontiers risiedono precisamente nella sua candida insoddisfazione rispetto a una diffusa insufficienza riscontrabile nella maggior parte della letteratura foucaultiana: la riluttanza a discutere dei limiti del pensiero di Foucault3 e la reale inadeguatezza del vocabolario foucaultiano del potere per mappare le recenti riconfigurazioni o le formazioni emergenti del potere, in particolare per quel che riguarda i confini e i regimi di governo della mobilità migratoria4. Walters sottolinea così, giustamente, la cura empatica che Foucault mette nel forgiare strumenti analitici e metodologici che altri potranno utilizzare pragmaticamente e tatticamente – come vere e proprie armi – nel modo che desiderano5. A questo proposito, non c’è nulla di intrinsecamente critico o a-critico nell’applicazione di qualsivoglia specifico concetto foucaultiano, come quello di “governamentalità”. È unicamente questione di come si usa il concetto. L’affermazione che la mobilità umana o, nello specifico, la mobilità dei migranti, sia un oggetto da governare può essere, infatti, un’affermazione molto radicale – precisamente nella misura in cui è funzionale M. Foucault, Questions à Michel Foucault sur la géographie, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 38-39. 2 M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, in Dits et écrits II, cit., p. 893. 3 W. Walters, Foucault and Frontiers. Notes on the Birth of the Humanitarian Border, in U. Bröckling, S. Krasmann e Th. Lemke (a cura di), Governmentality. Current Issues and Future Challenges, Routledge, New York 2011, p. 143. 4 Ivi, p. 139. 5 Ivi, p. 142. Cfr. M. Foucault, Prisons et asiles dans le mécanisme du pouvoir, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 1391. 1


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a problematizzare il governo e ciò che Foucault chiama raison d’État. Una simile radicalità si discerne chiaramente nelle importanti osservazioni conclusive dell’ultima lezione di Sicurezza, territorio, popolazione, dove Foucault parla di «controcondotte, che assumeranno come principio l’affermazione secondo cui verrà il momento in cui […] la governamentalità indefinita dello Stato sarà arrestata e bloccata, […] in cui la società civile sarà riuscita a liberarsi dalle costrizioni e dalle tutele dello Stato». Questa «escatologia rivoluzionaria», continua Foucault, implica rivendicazioni il cui senso è che i bisogni fondamentali della popolazione devono sostituire e sovvertire le «regole dell’obbedienza», e prendere quindi la forma di un «diritto assoluto alla rivolta, alla sedizione, […] alla rivoluzione stessa». Qui Foucault è molto chiaro nel precisare che non c’è alcuna sorta di “diritto” in termini giuridici, ma che tale “diritto” si realizza solo attraverso il suo esercizio, come una pratica di libertà: «rompendo tutti i legami di obbedienza», la popolazione «avrà effettivamente il diritto […] di rompere tutti i legami di obbedienza che ha potuto avere con lo Stato». Difatti, la popolazione, fino ad allora governata, potrà dire: «è la mia legge, […] è la legge della mia stessa natura di popolazione, è la legge dei miei bisogni fondamentali che deve sostituirsi» alla legge, alle regole e alla razionalità dello Stato, nonché alla presunta verità che esso possiede a proposito della popolazione6. Così, la controcondotta dei governati postula infine «l’idea di una società che sarebbe trasparente a se stessa e che deterrebbe la propria verità» e, di conseguenza, afferma che «la verità della società, la verità dello Stato, la ragion di Stato non è più detenuta dallo Stato»7. Credo che, prendendo spunto da queste osservazioni, sia possibile teorizzare in modo molto produttivo la mobilità migratoria “irregolare” o “illegale”. Vuoi come “una” popolazione, o come numerose popolazioni distinte, o come una parte “della” popolazione, i migranti trascurano, e a volte sovvertono attivamente, le «regole dell’obbedienza» delle quali parla Foucault, e lo fanno dando priorità ai propri bisogni e necessità fondamentali. Il che non significa, ovviamente, proporre una visione romantica dei migranti come presunti soggetti rivoluzionari, ma discernere nelle loro pratiche e nelle loro lotte un esempio di quella che i situazionisti contemM. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil/ Gallimard, Paris 2004, pp. 363-364; trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 259-260. 7 Ivi, pp. 364-365; trad. it. cit., pp. 260-261 (traduzione modificata). 6


156 Nicholas De Genova poranei di Foucault (Debord, Vaneigem) chiamavano “la rivoluzione della vita quotidiana”. In effetti, quando Foucault parla di «una crisi del governo», si riferisce esplicitamente a «forme di resistenza, talvolta di rivolta nei confronti di questioni che riguardano […] il quotidiano»8. E forse Foucault ha in mente la stessa cosa quando, citando Victor Hugo, definisce il crimine come «un colpo di Stato che viene dal basso»9. Bisogna tuttavia notare che, nelle pagine sopra citate di Sicurezza, territorio, popolazione, il linguaggio di Foucault presenta un’ambiguità piuttosto scomoda. Egli traspone la “popolazione” nella “nazione”, e usa “società (civile)”, “popolazione” e “nazione” in maniera più o meno intercambiabile. C’è quindi un forte residuo di nazionalismo metodologico, qui, proprio quando potremmo cercare di riutilizzare in modo fruttuoso per i Border Studies la concettualizzazione foucaultiana dell’inseparabilità tra la «storia della ratio di governo» e la «storia delle controcondotte che le si sono opposte»10. Accanto alla famosa «governamentalizzazione dello Stato»11, quindi, dovremmo esaminare anche le specificità storiche della nazionalizzazione della popolazione – una questione che non può essere affrontata adeguatamente senza considerare la sua correlativa, ovvero come lo Stato stesso abbia potuto nazionalizzarsi in modo tanto pervasivo12. Hannah Arendt fa riferimento a questo processo, in maniera forse ingannevole, parlando della «conquista dello Stato da parte della nazione»13. Tuttavia, nel suo discorso, il nazionalismo diviene «il prezioso cemento che lega insieme uno Stato centralizzato e una società atomizzata»: esso dà fondamento a una connessione vitale tra gli individui e lo Stato, che ormai si considera l’incarnazione della volontà della nazione14. Siamo qui di fronte, mi pare, a un’importante anticipazione di alcune delle intuizioni fondamentali di Foucault sui due grandi nuclei tecnologici, strettamente interrelati, «intorM. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 913. M. Foucault, À propos de la prison d’Attica, in Dits et écrits I, cit., p. 1404. 10 M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 365; trad. it. cit., p. 261. 11 Ivi, p. 112; trad. it. cit., p. 89. 12 É. Balibar, The Nation Form. History and Ideology, in É. Balibar e I. Wallerstein, Race, Nation, Class. Ambiguous Identities, Verso, New York 1991, pp. 90-92. Cfr. però M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/ Gallimard, Paris 1997, pp. 198-203; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 191-195. 13 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951), Harcourt, New York 1968, p. 230. 14 Ivi, p. 231. 8

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no a cui si sono trasformati i procedimenti politici dell’Occidente»: da un lato, la questione della popolazione come bersaglio della governamentalità (bio-politica) e, dall’altro, «la scoperta dell’individuo e la scoperta del corpo addestrabile» da parte della disciplina (anatomo-politica)15. Per come la vedo io, Foucault postula che queste due configurazioni di potere analiticamente distinte si siano costituite, da un punto di vista storico, sempre e inestricabilmente in correlazione l’una con l’altra. Foucault parla di queste «tecniche di individualizzazione e […] procedure totalizzanti» all’interno dello Stato moderno come di «una combinazione complessa», mai vista prima nella storia umana16. Ho quindi diverse riserve sull’idea che la griglia della governamentalità meriti di essere considerata “più utile” di altri strumenti analitici che potremmo prendere a prestito da Foucault – o, almeno, non in un senso esclusivo – perché non credo che la governamentalità sia sufficiente, per esempio, senza la disciplina, specialmente nel contesto dei regimi di confine (border regimes), così bizzarramente individualizzanti e disciplinari nei loro effetti17. A mia conoscenza, Foucault non formula mai la questione del “potere pastorale” dello Stato moderno, che investe simultaneamente individui e popolazioni, nei termini dell’ascesa storica del nazionalismo. In modo significativo, egli individua nell’idea di nazione un principio distruttivo che sovverte l’organizzazione statale del discorso storico18, così che «non si tratta più dello Stato che parla di se stesso», ma della nazione «come oggetto del proprio racconto storico». A tal proposito, Foucault rileva anche la discrepanza esistente tra un discorso che circoscrive la nazione all’interno delle frontiere dello Stato, e un altro nel quale la nazione «non è circoscritta all’interno delle frontiere» ma, al contrario, le oltrepassa e può perfino spostarsi «da una frontiera all’altra»19. Non ricordo però alcuna discussioM. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1012; trad. it. di S. Loriga, Le maglie del potere, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 164. 16 M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1048. 17 N. De Genova, Migrant “Illegality” and Deportability in Everyday Life, in «Annual Review of Anthropology», vol. 31 (2002), pp. 419-447 e The Deportation Regime. Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement, in N. De Genova e N. Peutz (a cura di), The Deportation Regime. Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement, Duke University Press, Durham (NC) 2010, pp. 33-65. 18 M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., pp. 125-127, 194-204; trad. it. cit., pp. 124-126, 187-197. 19 Ivi, pp. 125-126; trad. it. cit., pp. 124-125. 15


158 Nicholas De Genova ne sistematica che connetta queste intuizioni alle questioni della popolazione, predominanti nelle analisi foucaultiane della governamentalità. Di conseguenza, per adattare le analisi di Foucault sulla governamentalità alla questione degli spazi e dei confini dello Stato-nazione, occorre interrogare e correggere l’intrinseca indeterminatezza analitica del concetto di popolazione, la cui ambiguità può rivelarsi piuttosto produttiva, ma anche scivolare verso un nazionalismo metodologico decisamente a-critico. A tal proposito, ritengo che sarebbe molto produttivo svolgere in maniera più accurata un’indagine su come leggere Foucault in conversazione con un altro dei suoi contemporanei, Henri Lefebvre, che nel suo pionieristico The Production of Space scrive: «Ogni nuova forma di Stato […] introduce […] la propria particolare classificazione amministrativa dei discorsi sullo spazio […] e sulle persone nello spazio»20. mf: In un celebre passaggio di Nascita della biopolitica, Foucault descrive il migrante come capitale umano. Oggi, una tale lettura è certamente valida nella misura in cui prendiamo in esame le cosiddette “high skilled migrations”. A un esame più attento, vediamo che agenzie come l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Iom) mirano a produrre e presentare anche i “low skilled migrants” come soggetti responsabili il cui capitale sociale ed economico deve essere incanalato e rafforzato. Tuttavia, assumere questo discorso significa in fondo legittimare e rafforzare la “fantasia governamentale” delle politiche migratorie: infatti, una discrepanza piuttosto rilevante è sempre in gioco tra, da un lato, il regime discorsivo del governo delle migrazioni e la materialità delle misure amministrative atte a bloccare o filtrare le migrazioni “irregolari” e, dall’altro, le pratiche dei migranti stessi, che costantemente eccedono gli spazi e il vocabolario della governamentalità. Inoltre, il punto cruciale è rendere visibili gli effetti ampiamente differenti cui il presente governo della mobilità umana dà luogo, ovvero le differenti soggettività prodotte. Emerge così che il modello del capitale umano non può essere mobilitato per analizzare e designare le eterogenee “condizioni migranti”. Dopo tutto, come affermano Sandro Mezzadra e Brett Neilson nel loro recente libro, Border as Method, or the Multiplication of Labor, il governo della mobilità funziona attraverso processi di inclusione differenziale. H. Lefebvre, The Production of Space (1974), Blackwell Publishing, Cambridge (MA) 1991, p. 281. 20


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N. De Genova: La questione del “capitale umano” va trattata con cautela. La critica che Foucault muove alla teoria neoliberale del “capitale umano” si concentra sul modo in cui i lavoratori dipendenti sono riconfigurati come «imprenditori autonomi interamente responsabili delle proprie decisioni di investimento […], come imprenditori di se stessi»21. Tuttavia, qui, è molto facile fraintendere Foucault, perché il suo discorso critico risulta pericolosamente simile al discorso neoliberale dominante che è ormai diventato egemone. Quando Foucault afferma che «il lavoro comporta un capitale», che «il lavoratore è una macchina», oppure – cosa particolarmente interessante per noi – che «il migrante è un investitore»22, occorre sempre tenere a mente che, così facendo, egli implementa retoricamente la prospettiva neoliberale che, d’altro canto, vuole criticare. Foucault stesso lo rende esplicito nella lezione seguente (21 marzo 1979), parlando del crimine e del ruolo della legge come di un meccanismo che connette la pratica penale con il «problema dell’economia»: «Ecco, in ogni caso, come vedrei le cose se cercassi di pormi nella prospettiva di ciò che i neoliberali potrebbero dire di questa evoluzione»23. Come potete vedere, questo spostamento del punto di vista è, in fondo, dello stesso tipo di quello operato a proposito del capitale umano e del lavoro. […] Si assume il soggetto solo in quanto homo œconomicus […]. Tutto ciò mostra semplicemente [che il comportamento economico] è la griglia d’intelligibilità […]. Il che significa anche che l’individuo potrà essere sottoposto alla governamentalità […] solo e unicamente nella misura in cui egli è un homo œconomicus. […] Ma ciò non vuole affatto dire che ogni individuo, ogni soggetto, sia un uomo economico24.

Al contrario, Foucault sta esaminando «un tentativo di decifrare in termini economici dei comportamenti sociali tradizionalmente non economici» che implica, «nei confronti della governamentalità effettivamente Th. Lemke, “The Birth of Biopolitics”. Michel Foucault’s Lecture at the Collège de France on Neo-Liberal Governmentality, in «Economy and Society», vol. 30 (2001), n. 2, p. 199. Cfr. la lezione di Foucault al Collège de France del 14 marzo 1979, in M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil/Gallimard, Paris 2004, pp. 221-239; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 176-193. 22 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 230, 236; trad. it. cit., pp. 185, 191 (traduzione modificata). 23 Ivi, p. 255; trad. it. cit., pp. 204-205 (corsivo mio). 24 Ivi, pp. 257-258; trad. it. cit., pp. 206-207 (traduzione modificata). 21


160 Nicholas De Genova esercitata, una critica che […] [è] una critica mercantile» – il «cinismo di una critica mercantile contrapposta all’azione della potenza pubblica» – e «che potremmo chiamare un “positivismo economico”»25. Altrove, in una digressione, Foucault paragona questa prospettiva neoliberale alla «fantascienza», che è nonostante tutto «una problematica che oggi sta diventando attuale»26. In breve, a mio avviso, Foucault non descrive il migrante come un “capitale umano”. Dal punto di vista del capitale, come Marx ha dimostrato molto tempo fa, ogni tipo di lavoro è un capitale (e non solo il lavoro altamente qualificato o professionale). In effetti, Foucault ritiene che la teoria neoliberale del “capitale umano”, alla quale si interessa così tanto, sia stata postulata al fine di correggere l’astrazione del lavoro ascrivibile a un limite della teoria economica classica, che ha lasciato al proprio interno una «lacuna, [un] vuoto» in cui si è riversata «tutta una filosofia, tutta un’antropologia, tutta una politica di cui Marx è appunto il rappresentante»27. La prospettiva neoliberale che Foucault analizza nei dettagli, tuttavia, rappresenta precisamente un simile punto di vista (capitalista), e impone alla figura del lavoro una griglia di intelligibilità strettamente economica. Mi pare che Foucault sia interessato a comprendere come questa griglia neoliberale possa investire i soggetti, e in che modo essa includa il lavoro nell’analisi economica non come un oggetto, ma come «un soggetto economico attivo»28. Di certo, una delle poste in gioco fondamentali dei regimi contemporanei di governo delle migrazioni consiste nel responsabilizzare i migranti in quanto individui (e ciò vale anche per quei migranti il cui movimento è “illegalizzato”), oltre che nel convogliare e gestire le più vaste configurazioni della mobilità delle popolazioni. È qui possibile riconoscere tale processo precisamente come un processo di «inclusione differenziale»29, per usare l’espressione di Mezzadra e Neilson, oppure di «inclusione attraIvi, p. 252; trad. it. cit., p. 201. Ivi, p. 233; trad. it. cit., p. 188. 27 Ivi, pp. 227-228; trad. it. cit., p. 182. 28 Ivi, p. 229; trad. it. cit., p. 184. 29 S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, in «European Institute for Progressive Cultural Policies», 2008, <http://eipcp.net/transversal/0608/ mezzadraneilson/en> (consultato il 14-05-2013) e Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham (NC) 2013. 25 26


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verso l’illegalizzazione»30 o «l’esclusione»31, come l’ho chiamato, riferendomi più specificamente all’“illegalità” dei migranti. Questi concetti dirigono la nostra attenzione proprio verso l’incorporazione del lavoro, che è al centro degli interessi di Foucault nel corso del suo esame del discorso neoliberale sul “capitale umano”. Ma ci sbaglieremmo di grosso se confondessimo questa griglia di intelligibilità strettamente economicistica con l’analisi critica che di essa fornisce Foucault. Infine, il problema per i Border Studies di una sorta di razionalizzazione e legittimazione del “delirio” o dell’incoerenza dei diversi schemi per la gestione e il governo delle migrazioni sfocia spesso in analisi strutturate in termini di governamentalità. Una tale unilateralità ignora la cruciale implicazione di una delle intuizioni foucaultiane più importanti a proposito del “governo”, il cui scopo è di utilizzare tattiche, e perfino «le leggi come tattiche», per «fare in modo che […] questo o quel fine possa essere realizzato». Il governo è dunque orientato a «una pluralità di fini specifici» piuttosto che a un qualsivoglia «bene comune»32. L’enfasi che Foucault pone sulle tattiche è funzionale, a mio avviso, a rimandarci proprio alle “controcondotte”, alle resistenze, all’opposizione – e, più precisamente, a ciò che Foucault, seguendo Marx, riconosce essere una pluralità di poteri distinti e localizzati, poteri che sono essenzialmente produttivi33. Nel contesto dei Border Studies, questa qualità tattica del governo ci obbliga quindi a dar conto della soggettività e dell’autonomia delle migrazioni. In effetti, ciò che Foucault ha trovato così interessante nella trattazione neoliberale del “capitale umano”, in particolare a proposito del migrante, è che tali questioni, più vaste, della soggettività e dell’autonomia coinvolgono anche gli individui come soggetti autonomi: «la mobilità di una popolazione e la capacità che essa ha di fare scelte di mobilità» permettono di reintrodurre i fenomeni migratori nell’analisi economica, «non come puri e semplici N. De Genova, Migrant “Illegality” and Deportability in Everyday Life, cit. N. De Genova, Inclusion through Exclusion. Explosion or Implosion?, in «Amsterdam Law Forum», vol. 1 (2008), n. 1, <http://www.amsterdamlawforum.org/> (consultato il 14-05-2013); The Deportation Regime, cit.; Migration and Race in Europe. The Trans-Atlantic Metastases of a Post-Colonial Cancer, in «European Journal of Social Theory», vol. 13 (2010), n. 3, pp. 405-419; Spectacles of Migrant “Illegality”. The Scene of Exclusion, the Obscene of Inclusion, in «Ethnic and Racial Studies», vol. 36 (2013), n. 7, <http://dx.doi.org/10.1080 /01419870.2013.783710> (consultato il 29-05-2013). 32 M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 102; trad. it. cit., p. 80. 33 M. Foucault, Les mailles du pouvoir, cit., pp. 1005-1006; trad. it. cit., pp. 158-159. 30 31


162 Nicholas De Genova effetti di meccanismi economici che sovrastano gli individui e che, in un certo senso, li legano a un’immensa macchina di cui non sono padroni», ma come «comportamenti»34. Di conseguenza, la nuova figura (neoliberale) dell’homo œconomicus è significativa, per Foucault, innanzitutto perché opera come una griglia di intelligibilità che fornisce «la superficie di contatto tra l’individuo e il potere che si esercita su di lui […] il principio di regolazione del potere sull’individuo […] l’interfaccia tra il governo e l’individuo»35. mf: Le analisi di Foucault sulle resistenze costituiscono di gran lunga l’elemento della sua scatola degli attrezzi più utile per gli studi critici sulle migrazioni. Tali analisi consentono infatti di considerare le pratiche di migazione non come mere risposte a determinanti economiche, ma piuttosto come movimenti che sommuovono e interrompono l’“ordine della mobilità”. Come è noto, secondo Foucault non possono esservi relazioni di potere senza resistenze, e queste ultime non sono semplicemente una reazione o una sottrazione rispetto all’esercizio del potere, dal momento che la tecnologia governamentale si trova a dover costantemente riorganizzare la propria strategia di fronte a pratiche, movimenti e corpi: anziché supporre che vi siano, da un lato, le resistenze e, dall’altro, il potere, dovremmo situare le relazioni di potere all’interno delle lotte e vedere il potere come nient’altro che un’istantanea di lotte molteplici e di continue trasformazioni. Inoltre, una prospettiva foucaultiana sulle migrazioni ci permette di spostare l’attenzione dalle rivendicazioni di diritti alla matierialità delle lotte dei migranti e a linguaggi che molto spesso non possono indirizzarsi alla sfera della legge, né essere situati all’interno della cornice della cittadinanza. Tuttavia, al tempo stesso, non bisogna sovrastimare l’autonomia di queste pratiche, né trascurare la violenza delle tecniche di confinamento e l’estrema difficoltà, per i migranti, di negoziare spazi di manovra e agire quelle che Federica Sossi ha definito “strategie di esistenza”. In che modo le lotte dei migranti possono interferire, interagire e comporsi con con altre lotte sociali senza perdere la propria specificità? Non dovremmo forse evitare di ricodificarle attraverso il linguaggio politico tradizionale, al fine di non indebolire la loro forza di perturbazione? Ciò che vorremmo provare a suggerire è che (alcune) pratiche e lotte dei M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 236-237; trad. it. cit., p. 191 (corsivo mio). 35 Ivi, p. 258; trad. it. cit., p. 207. 34


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migranti hanno la peculiarità di indirizzarsi a questioni molto specifiche e, al tempo stesso, mettono radicalmente in discussione il paradigma governamentale in quanto tale. Ovvero, partendo da rivendicazioni e strategie ben determinate, esse destabilizzano i meccanismi di partizione e di creazione di “profili di mobilità”. N. De Genova: «È indispensabile localizzare i problemi», spiega Foucault, «per ragioni teoriche e politiche. Ma ciò non significa che tali problemi non siano problemi generali. […] È sicuramente vero che pongo i problemi in termini locali, ma credo che questo consenta di far apparire problemi che sono almeno tanto generali quanto quelli che abbiamo statutariamente l’abitudine di considerare come tali»36. Riferendosi alle proprie esperienze di attivismo, inoltre, Foucault traduce questo protocollo intellettuale o metodologico in un protocollo ugualmente valido per l’impegno pratico. Egli afferma di aver cercato di agire contro la «discorsività incoercibile che era propria della vita delle università» (in particolare nel periodo successivo agli eventi del Maggio 1968 in Francia), ponendo «i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data»37. Incastonati in queste riflessioni di Foucault a proposito della sua stessa pratica intellettuale e politica, vi sono suggerimenti che ci possono aiutare a discernere l’utilità del suo approccio per articolare le lotte dei migranti ad altre lotte sociali, senza trascurare la loro specificità. Ho sostenuto altrove che il potenziale radicale o la forza distruttiva di alcune lotte dei migranti derivino precisamente dalle loro affermazioni di incorreggibilità, nonché dal rifiuto di codificare se stessi attraverso le convenzioni del linguaggio politico dello Stato – in particolare, dei discorsi dei “diritti” e della “cittadinanza”38. In effetti, migrazioni e confini sono aree di indagine che, lungi dall’essere semplicemente preoccupazioni marginali, mi sembrano decisive per elaborare un’incisiva indagine critica di argomenti come la formazione dello Stato, la sovranità, la cittadinanza, il nazionalismo, il razzismo, ecc. Inoltre, gli obiettivi specifici delle diverse M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., pp. 903-904. Ivi, p. 899. 38 N. De Genova, Conflicts of Mobility and the Mobility of Conflict. Rightlessness, Presence, Subjectivity, Freedom, in «Subjectivity», vol. 29 (2009), pp. 445-466; The Deportation Regime, cit.; The Queer Politics of Migration. Reflections on “Illegality” and Incorrigibility, in «Studies in Social Justice», vol. 4 (2010), n. 2, pp. 101-126. 36 37


164 Nicholas De Genova lotte dei migranti contestano il paradigma più vasto di un governo della mobilità umana in generale, perfino su scala transnazionale, ma posseggono ramificazioni ancora più ampie – giacché, in ultima istanza, pongono il problema globale della relazione tra la specie umana e lo spazio del nostro pianeta39. mf: Molti studi sulle migrazioni, e in particolare sui rifugiati, si riferiscono al paradigma del campo per come è analizzato e descritto da Giorgio Agamben, sottolineando la centralità del potere di sovranità nel governo delle migrazioni. Le analisi di Agamben, negli ultimi quindici anni, sono state anche utilizzate da molti attivisti per denunciare l’esistenza e il funzionamento dei centri di detenzione. Un approccio foucaultiano comporta, a nostro avviso, uno sguardo per certi aspetti differente, che non si focalizzi esclusivamente sulle istituzioni o sulle istanze decisionali, e che non consideri i migranti come soggetti ridotti a nuda vita. Tuttavia, i Governmentality Studies tendono a dare particolare attenzione agli attori non statali, offuscando in un certo senso il ruolo ancora rilevante degli Stati nel governo delle frontiere, e anche nel mettere in scena ciò che Nicholas De Genova definisce “lo spettacolo del confine”. In che misura, nel suo lavoro, questi due aspetti – sovranità e governamentalità – vengono articolati? E, per quanto riguarda l’attivismo nell’ambito delle migrazioni, ritiene che oggi uno sguardo foucaltiano possa suggerire o fornire “strumenti” di azione appropriati? N. De Genova: Per cominciare, è importante riconoscere che l’analisi di Agamben è in effetti di tipo foucaultiano. Come naturalmente sapete, tutto il pensiero di Agamben si fonda su alcune intuizioni chiave di Foucault a proposito della biopolitica. Contrapporli in modo così rigido e stridente mi pare dunque frutto di una specie di settarismo accademico, che ricorda un po’ ciò che Foucault descrive amaramente come «la polverizzazione del marxismo in piccoli corpi di dottrina che lanciavano anatemi l’uno contro l’altro»40. Il che non significa, beninteso, voler ignorare o banalizzare le differenze e le discrepanze significative che esistono tra di loro. N. De Genova, Bare Life, Labor-Power, Mobility, and Global Space. Toward a Marxian Anthropology?, in «CR: The New Centennial Review», vol. 12 (2012), n. 3. 40 M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 900. 39


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Uno dei contributi più importanti del lavoro di Agamben consiste nell’aver recuperato il senso critico della duratura rilevanza della sovranità, e nell’invitare così i foucaultiani più ortodossi ad affrontare precisamente uno degli aspetti più scomodi dell’opera di Foucault – la diffusa relegazione delle considerazioni sul potere sovrano a un’epoca pre-moderna, o ancora il riconoscimento di una riconfigurazione moderna, democratizzata (post-monarchica) della sovranità41, che rimane però «assolutamente incompatibile»42 e «sempre più in conflitto» con «le normalizzazioni disciplinari»43. A sua discolpa, è bene precisare che Foucault ha sempre sostenuto che, mentre si lotta contro il potere disciplinare, non bisogna cercare rifugio nel «famoso diritto formale, detto borghese, e che è in realtà il diritto della sovranità»; in effetti, egli parla provocatoriamente della ricerca di «un potere non disciplinare»44. Ciò nonostante, nella maggior parte dei lavori di Foucault, il potere sovrano tende ad essere associato ai residui arcaici, o perfino atavici, di un potere pre-moderno, la cui persistenza storica è funzionale soltanto a dissimulare un nuovo tipo di potere: le «tecniche di dominazione [implicate] nella disciplina»45. Per essere corretti, Foucault considera sovranità e disciplina come «due parti assolutamente costitutive dei meccanismi generali di potere nella nostra società»46, ma la forza polemica di quasi tutte le sue analisi tende a indirizzare l’indagine critica lontano dalla sovranità; uno dei meriti del lavoro di Agamben è dunque quello di forzarci a considerare in modo nuovo la rilevanza del potere sovrano nelle sue forme spiccatamente moderne, forme che egli, giustamente o meno, mette sempre in relazione con le principali intuizioni foucaultiane concernenti il bio-potere. In effetti, nel mio lavoro, ho cercato di prendere in considerazione simili tensioni tra le analisi di Foucault e quelle di Agamben, leggendo Agamben attraverso Marx e contro Foucault47. In questo contesto, tuttavia, preferirei leggere Foucault insieme a Marx. Come Foucault stesso dichiara, «è impossibile, attualmente, fare storia senza utilizzare una serie M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 33; trad. it. cit., p. 39. Ivi, p. 32; trad. it. cit., p. 38. 43 Ivi, p. 35; trad. it. cit., p. 41 (traduzione modificata). 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 33; trad. it. cit., p. 39. 46 Ivi, p. 35; trad. it. cit., p. 41. 47 N. De Genova, The Deportation Regime, cit. e Bare Life, Labor-Power, Mobility, and Global Space, cit. 41 42


166 Nicholas De Genova di concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx, e senza collocarsi all’interno di un orizzonte che è stato descritto e definito da Marx»48. Ho già ricordato in una risposta precedente che, nella conferenza di Bahia, Foucault, in modo davvero significativo, esplicita la propria intenzione di «provare a vedere come sia possibile delineare una storia dei poteri in Occidente» attraverso una “rivisitazione” dell’analisi condotta da Marx nel Capitale (Foucault parla del secondo libro, ma credo pensi in realtà al primo)49. Foucault attribuisce inoltre a Marx il merito di aver elaborato «gli elementi fondamentali per un’analisi» interessata non più alla «rappresentazione» del potere, ma al «funzionamento reale del potere», al «potere nei suoi meccanismi positivi»50. Ora, leggendo Foucault con Marx e contro Agamben, potremmo dire che quest’ultimo tende ad appiattire o a marginalizzare proprio quell’eterogeneità e pluralità di poteri localizzati, ognuno con la propria specificità storica e geografica, che Foucault suggerisce siano state colte per la prima volta da Marx. Tuttavia, in difesa di Agamben, occorre ricordare che nelle sue opere si può trovare precisamente ciò che Foucault ammirava tanto nel lavoro di pensatori come Nietzsche, Bataille e Blanchot: il tentativo, cioè, «di pervenire a un certo punto della vita che sia il più vicino possibile all’invivibile», che raggiunga «il massimo di intensità e, allo stesso tempo, di impossibilità», strappando «il soggetto a lui stesso, [in modo tale che] non sia più lui stesso o che sia portato al suo annientamento o alla sua dissoluzione»51. È questa la vera fonte della radicalità foucaultiana e, a mio avviso, è a questo livello che andrebbe collocato l’interesse del concetto agambeniano di “nuda vita”. Riprendendo le osservazioni di Foucault a proposito dei propri libri, «noiosi o eruditi che siano», potremmo dire che anche la formulazione agambeniana del problema della nuda vita e del potere sovrano ci “strappa” da noi stessi e ci impedisce di continuare ad essere ciò che eravamo prima52. La condizione stessa della nuda vita è infatti, secondo Agamben, una condizione alla quale virtualmente tutta l’esistenza umana è stata ormai ridotta53. Inoltre, a proposito di questo impulso di “deM. Foucault, Entretien sur la prison : le livre et sa méthode, in Dits et écrits I, cit., p. 1621. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, cit., p. 1008; trad. it. cit., p. 161. 50 Ivi, p. 1005; trad. it. cit., p. 158. 51 M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 862. 52 Ibidem. 53 G. Agamben, Means without End. Notes on Politics (1996), University of Minnesota Press, Minneapolis 2000, p. 5. 48 49


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soggettivazione”, Agamben mette anche in discussione «ogni tentativo di fondare le comunità politiche su qualcosa come un’“appartenenza”, che si tratti di identità popolare, nazionale, religiosa o altro»54. Queste tesi chiave di Agamben dovrebbero essere sufficienti per mostrare che, in effetti, interpretare la sua concezione di nuda vita semplicemente come una figura di esclusione in extremis è un banale fraintendimento del suo lavoro – un approccio fuorviante che è stato erroneamente applicato in molti studi sulle migrazioni, sul rafforzamento dei confini e sulla detenzione dei migranti. Al contrario, mi pare sia utile interpretare la nozione di nuda vita alla luce dei concetti marxiani di forza lavoro55 e di Gattungswesen56. Potremo così cogliere una certa affinità, operante a livelli diversi dell’analisi, tra la formulazione agambeniana del concetto di nuda vita e la descrizione foucaultiana della disciplina precisamente come «un meccanismo di potere che permette di estrarre dai corpi tempo e lavoro»57, e che implica dunque un’«anatomo-politica del corpo umano» che «è stat[a] centrat[a] sul corpo in quanto macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini, l’estorsione delle sue forze […]»58. Si osserva però una certa tendenza, negli approcci governamentali al problema dei confini e delle migrazioni, a trascurare la duratura e prolungata rilevanza degli Stati “nazionali” e, di conseguenza, il loro esercizio di un potere sovrano, nel quale occorre includere, beninteso, le caratteristiche “agambeniane” della decisione sovrana a proposito dello stato di eccezione e del paradigma del campo. Si tratta di crude realtà che un approccio foucaultiano ai confini e alle migrazioni tende a ignorare, rischiando così di relegare se stesso all’irrilevanza politica e a una pedante ricercatezza teorica, o ancora all’oscurantismo. Come ho suggerito all’inizio, quindi, sarebbe bene cominciare a riconsiderare le intuizioni di Agamben come intuizioni foucaultiane e, anziché implementare una dicotomia falsa, o comunque esagerata, tra le due prospettive, cominciare invece a elaborare una loro sintesi costruttiva. G. Agamben, Homo Sacer. Sovereign Power and Bare Life (1995), Stanford University Press, Stanford (CA) 1998, p. 181. 55 N. De Genova, The Deportation Regime, cit. 56 N. De Genova, Bare Life, Labor-Power, Mobility, and Global Space, cit. 57 M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 32; trad. it. cit., p. 38. 58 M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, p. 183; trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1978, p. 123. 54


168 Nicholas De Genova Infine, una piccola precisazione: la mia formulazione dello “spettacolo del confine” (border spectacle)59 – secondo la quale la peculiare performatività teatrale del controllo dei confini e dell’applicazione delle leggi sull’immigrazione fornisce perennemente una scena feticizzata di “esclusione”, che non cessa di mascherare (ma anche di rivelare selettivamente) ciò che chiamo l’“osceno” dell’inclusione dei migranti come forza lavoro (subordinata, illegalizzata), e che contemporaneamente reifica in modo sistematico l’“illegalità” del migrante come un problema di trasgressione dei confini, dissimulando così la produzione legale dell’“illegalità” del migrante – deriva soprattutto da una rilettura del concetto di “società dello spettacolo” di Guy Debord60, e non dalla discussione dello «splendore dei supplizi» condotta da Foucault in Sorvegliare e punire61. Eppure, è innegabile che l’analisi foucaultiana degli illegalismi e della delinquenza62 abbia fornito alle mie riflessioni sull’“illegalità” del migrante una cornice concettuale spesso implicita, e credo che proprio la dimensione disciplinare del controllo dei confini e delle leggi sull’immigrazione, innanzitutto rispetto alla forza lavoro dei migranti, costituisca uno dei contributi foucaultiani potenzialmente più importanti al fine di problematizzare l’enfasi eccessiva sui confini rigidamente interpretati come il luogo di atti sovrani di decisione e di eccezione. A questo proposito, William Walters sottolinea giustamente come, al cuore di Sorvegliare e punire, vi sia una corposa indagine delle «pratiche di partizione, segmentazione, divisione, chiusura; pratiche che puntelleranno l’organizzazione e il controllo di un numero sempre maggiore di aspetti della vita delle popolazioni, dal diciannovesimo secolo in poi» – e dunque una teorizzazione notevolmente originale di «ciò che potremmo chiamare la microfisica del bordering»63. N. De Genova, Migrant “Illegality” and Deportability in Everyday Life, cit.; Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chicago, Duke University Press, Durham (NC) 2005, pp. 242-249; Border, Scene and Obscene, in Th. Wilson e H. Donnan (a cura di), A Companion to Border Studies, Wiley-Blackwell, Oxford (UK)–Malden (MA) 2012, pp. 492-504; Spectacles of Migrant “Illegality”, cit. 60 N. De Genova, Alien Powers. Deportable Labour and the Spectacle of Security, in V. Squire (a cura di), The Contested Politics of Mobility. Borderzones and Irregularity, Routledge, London–New York 2011, pp. 91-115; Border, Scene and Obscene, cit.; Spectacles of Migrant “Illegality”, cit. 61 M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, pp. 41-83; trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, pp. 35-75. 62 Ivi, pp. 299-342; trad. it. cit., pp. 282-323. 63 W. Walters, Foucault and Frontiers, cit., p. 158. 59


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mf: La questione dei regimi di verità è particolarmente rilevante per Foucault. E la sua genealogia del soggetto moderno mette in luce le differenti funzioni che la verità ha storicamente ricoperto nella produzione del soggetto. Ad esempio, per quanto riguarda la modernità, Foucault sostiene che al soggetto venga richiesto di dire la verità su di sé. Da un focus sulle migrazioni attraverso uno sguardo postcoloniale emerge che differenti regimi di verità coesistono anche all’interno di un certo spazio, e che non è lo stesso meccanismo di “terapie di verità” ad essere in gioco nel caso dei cittadini e dei migranti illegali. Ad esempio, gli effetti di individualizzazione prodotti dal regime di verità di cui parla Foucault non sembrano funzionare allo stesso modo nel contesto del governo delle migrazioni: al contrario, nessuna verità è richiesta ai migranti “fasulli” (“bogus” migrants), e la loro soggettività e biografia sono infine dipanate. Così, tenendo conto della coesistenza di differenti regimi di verità nel nostro presente, crede che anche le resistenze a uno specifico regime di verità possano venire dal “di fuori”, ovvero da soggetti che non sono governati attraverso lo stesso regime di verità? N. De Genova: Non sono sicuro di aver colto appieno il senso della domanda, né sono convinto che sia utile immaginare la condizione postcoloniale come una condizione che implica una coesistenza di “regimi di verità” eterogenei e, dunque, incompatibili o non sovrapponibili. Il concetto foucaultiano di “regime di verità” sta qui a indicare un surrogato o un eufemismo più sofisticato (o, almeno, più elegante) del concetto di “cultura”? Se è così, allora credo sia questo un modo sbagliato di pensare al post-colonialismo. Infatti, non possiamo concepire adeguatamente il postcoloniale senza aver prima misurato la sostanziale gravità e l’impatto del coloniale, che si è sempre configurato come un regime di interrelazioni profondamente coerenti e di inattese interconnessioni – relazioni e interconnessioni senza dubbio estremamente ingiuste, gerarchiche, sfruttatrici, che hanno sostenuto e rinforzato differenze e distinzioni, che le hanno invero manipolate e pervertite, trasformandole in mostruosità esagerate –, ma un regime che, ciò nonostante, le includeva e le incorporava in una forma sistematica di relazionalità. Questo è quanto abbiamo ereditato dall’ordine socio-politico globale del colonialismo europeo ed euro-americano e dalla supremazia dei bianchi: un mondo di differenze e un’economia di


170 Nicholas De Genova distinzioni razzializzate che tuttavia rimane pur sempre un mondo64. Di conseguenza, il mio timore è che cadere nella trappola di pensare al postcolonialismo in termini di incommensurabilità culturale, pluralismo identitario, ecc., possa riattivare alcuni dei luoghi comuni ideologici più familiari del nostro mondo postcoloniale. Questo è esattamente ciò che implica un “regime” di verità, per come io lo concepisco – ovvero come un tipo di economia dei significati, così come di tecniche e procedure, associato a una prova di “verità” e operante nell’ambito di una serie di strategie, tattiche e relazioni di forza dispiegate al fine di governare le domande e regolare le affermazioni suscettibili di essere considerate come “verità”, così che il “sapere” risulta sempre costituito tramite gli effetti di potere che circolano all’interno di un simile regime65. Ma anche se tutto ciò implica necessariamente l’organizzazione e la classificazione di un vasto insieme di differenze e specificità, si può comunque parlare di un “regime” – o di un’“economia” – solo nella misura in cui tale pluralità ed eterogeneità siano incluse in una singolarità più ampia. L’altro aspetto equivoco della domanda risiede nella trasposizione di una simile questione della differenza nella distinzione giuridica e socio-politica tra cittadino e migrante “illegale”. Anche in questo caso, infatti, stiamo parlando, a proposito di ogni Stato-nazione, di una singola economia legale nella quale le ingiuste ineguaglianze di cittadinanza producono proprio tali distinzioni e disgiunzioni all’interno di un sistema più ampio – un regime di verità singolare che include sia il regime di “legalità”, sia quello di “illegalità”, estendendosi dalla cittadinanza a tutte le possibili categorie di migranti. I migranti, “legali” e “illegali”, sono governati precisamente attraverso lo stesso regime che conferisce alla cittadinanza la sua qualità socio-politica sostanziale e significante66. La verità dell’uno e quella dell’altro sono quindi costituite insieme e si rinforzano mutualmente. Postulare il tipo di discontinuità che mi sembra possibile rilevare nella domanda vorrebbe dire feticizzare nuovamente le apparenze di superficie poiché, come ho scritto, «l’“illegalità” […] da un punto di vista teorico e pratico, è una N. De Genova, Migration and Race in Europe, cit. Cfr. per esempio M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, in Dits et écrits II, cit., pp. 143-144. 66 Cfr. per esempio N. De Genova, The Production of Culprits. From Deportability to Detainability in the Aftermath of “Homeland Security”, in «Citizenship Studies», vol. 11 (2007), n. 5, pp. 421-448; Conflicts of Mobility and the Mobility of Conflict, cit.; The Deportation Regime, cit. 64 65


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relazione sociale fondamentalmente inseparabile dalla cittadinanza»67. Un regime di verità può essere significante, per il cittadino, solo nella misura in cui includa anche il – o meglio, sia fondato sul – non-cittadino. Lo stesso vale per l’identità “nazionale” e per lo “straniero”, per il “nativo” e per il “forestiero”, e così via. Davvero non viene prodotta alcuna verità a proposito del richiedente asilo presumibilmente “fasullo” o del migrante “illegale”? Al contrario, mi pare che le verità prodotte a proposito dei migranti “illegali” o “irregolari” si collochino al centro delle più ampie procedure che sostengono il regime generale di cittadinanza e i suoi confini. Dato che il migrante è interpellabile al contempo da parte di numerosi poteri localizzati, egli è continuamente soggetto a (e assoggettato da) una molteplicità di modalità e tecnologie finalizzate alla deduzione, all’estrazione e alla produzione di uno spettro differenziato di “verità” biografiche o soggettive. In questo senso, sì, ci sono numerosi regimi di verità che operano sui migranti di tutte le categorie, regimi che corrispondono alla pluralità di poteri localizzati che intrappolano e irretiscono i migranti (non da ultimo, il loro stesso potere produttivo e la loro stessa capacità creativa come forza lavoro68). Eppure, in questo senso assolutamente cruciale, le resistenze dei migranti non giungono mai dal “di fuori”, ma sono sempre immanenti a tali relazioni di potere postcoloniali, razzializzate, transnazionali e cross-border. mf: L’ultimo Foucault, sia nelle interviste, sia nei corsi al Collège de France, focalizza la nostra attenzione sulle tecnologie del sé e sulla questione della soggettivazione, questione che, oggi, è sempre più al centro di molte analisi relative ai movimenti politici e alle nuove forme di lotta. Per quanto riguarda le strategie di resistenza, questo approccio solleva varie questioni problematiche. Prima tra tutte, i migranti ricorrono a strategie di desoggettivazione, rifiuti o fughe, al fine di aggirare o di allentare la presa del potere, visto che il regime di (in)visibilità nel quale si trovano a lottare rende difficile mettere in atto pratiche di lotta che durino nel tempo. Tuttavia, in un’ottica foucaultiana, si può affermare che anche pratiche di resistenza come rifuti e fughe comportino processi di soggettivazione, ovvero trasformazioni. A suo parere, quali sono i punti di forza e i limiti di un’analisi N. De Genova, Migrant “Illegality” and Deportability in Everyday Life, cit., p. 422. Cfr. anche N. De Genova, The Deportation Regime, cit. 68 Cfr. N. De Genova, The Deportation Regime, cit. 67


172 Nicholas De Genova centrata sulle pratiche di soggettivazione dei migranti? E un accento troppo marcato sull’autonomia delle pratiche di migrazione rischia di corroborare l’immagine del migrante come nuovo soggetto rivoluzionario? N. De Genova: Questa domanda mi pare semplicemente una riformulazione della precedente. In effetti, il migrante “irregolare”, “illegale”, “clandestino”, apparentemente escluso, non è mai davvero “al di fuori” di alcunché. E ogni aspetto della supposta “invisibilità” del migrante – sia essa imposta dal regime migratorio o adottata strategicamente nel tentativo del migrante di sfuggire alla presa del potere – è sempre in realtà una sorta di segreto pubblico, un nascondiglio alla luce del sole69. Di conseguenza, possiamo concepire questo fenomeno solo come un processo di soggettivazione eterogeneo che scandisce tutte le drammatiche asperità e tutte le semplici banalità della vita quotidiana del migrante. Basti considerare le strade tortuose e complesse che i migranti senza documenti devono percorrere per entrare in possesso di una varietà di documentazioni localizzate e particolari, al fine di rendere più agevole la loro situazione di “illegalità”, acquisendo non solo diversi requisiti informali della cittadinanza, ma anche, talvolta, alcuni dei suoi requisiti formali, e mitigando il loro status “illegale” come una sorta di disabilità o un «handicap all’interno di un periodo di prova della cittadinanza»70. È qui molto utile fare riferimento alla perspicace discussione di Susan Coutin sull’“illegalità”, presentata nei termini di un abitare complesso ed eterogeneo degli «spazi di nonesistenza» giuridica e, allo stesso tempo, delle pratiche vissute che costituiscono la presenza fisica e la sostanziale esistenza sociale dei migranti71. Così, da un lato, lo spazio sociale di “illegalità” si configura come una cancellazione dell’individualità giuridica – uno spazio di invisibilità forzata, di esclusione, di assoggettamento e di repressione che «si materializza intorno [ai migranti senza documenti] ovunque si rechino»72, nella forma di effetti reali che vanno dalla fame alla disoccupazione (o, più tipicamente, dallo sfruttamento all’iperimpiego), dalla violenza alla morte. Dall’altro N. De Genova, Border, Scene and Obscene, cit. e Spectacles of Migrant “Illegality”, cit. S. Chauvin e B. Garcés-Mascareñas, Beyond Informal Citizenship. Exploring the New Moral Economy of Migrant Illegality, in «International Political Sociology», vol. 6 (2012), n. 3. 71 S.B. Coutin, Legalizing Moves. Salvadoran Immigrants’ Struggle for U.S. Residency, University of Michigan Press, Ann Arbor (MI) 2000, pp. 27-47. 72 Ivi, p. 30. 69

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lato, però, i migranti ricoprono una posizione sociale perfettamente reale e più o meno radicata, e sono inclusi in diverse relazioni sociali – è ciò che chiamo l’“osceno” dell’inclusione, che fa sempre da contraltare alla scena spettacolare dell’esclusione73. I migranti rappresentano una soggettività radicale, oppositiva, perfino rivoluzionaria (il lavoro contro il capitale e lo Stato), oppure una delle istanze principali della flessibilità e della malleabilità del “capitale umano” neoliberale (il lavoro per il capitale)? Entrambe le possibilità sono plausibili e, per di più, entrambe potrebbero essere vere, anche simultaneamente74. Questa dicotomia deriva da una maniera semplicistica di porre problemi puramente astratti e teorici in termini binari. Come Foucault stesso ha costantemente sostenuto, tuttavia, il compito dell’analisi sociale e politica richiede di essere formulato in modo preciso, specifico e fondato75. «Non credo che l’intellettuale, partendo soltanto dalle proprie ricerche bibliografiche, accademiche ed erudite, possa porre le vere questioni concernenti la società nella quale vive», precisa Foucault. «Al contrario, una delle prime forme di collaborazione con i non-intellettuali consiste precisamente nell’ascoltare i loro problemi, e nel lavorare insieme a loro per formularli: cosa dicono i folli? com’è la vita in un ospedale psichiatrico?»76. In effetti, cosa dicono i migranti? Quali sono le circostanze e le situazioni concrete con le quali si trovano a combattere ogni giorno? La formulazione teorica dei problemi deve qui discendere da un coinvolgimento materiale e pratico nell’etnografia e nella storia delle lotte dei migranti. mf: Il governo delle migrazioni si fonda su una knowledge-based governance, in cui la produzione di categorie giuridiche e la relativa partizione delle pratiche di migrazione in differenti profili di mobilità – come quella tra i richiedenti asilo e i migranti economici – giocano un ruolo altamente normativo. In tale contesto, la questione se e come utilizzare il linguaggio esistente per descrivere le migrazioni e le loro categorie epistemologiche diventa chiaramente fondamentale. A differenza di Deleuze, in Foucault la posta in gioco non si risolve nell’inventare nuovi concetti, dal momento N. De Genova, Border, Scene and Obscene, cit. e Spectacles of Migrant “Illegality”, cit. N. De Genova, Conflicts of Mobility and the Mobility of Conflict, cit. e The Queer Politics of Migration, cit. 75 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., pp. 154-158. 76 M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 903. 73 74


174 Nicholas De Genova che ogni nozione è inserita in una rete di concetti più ampia, o meglio in un regime di veridizione. Lei pensa che uno sguardo critico sulla governamentalità dovrebbe cercare di produrre una contro-narrazione, o che occorra invece forzare e lavorare strategicamente “dentro e contro” queste partizioni normative? N. De Genova: Come ho suggerito nella risposta precedente, sono piuttosto sensibile alla pratica foucaultiana di elaborare strategicamente, dedurre e ricavare i termini della mia critica dal regime esistente di partizioni normative e di categorie epistemologiche. È per questo che ho insistito sull’importanza epistemologica, teorica, etica e politica di una de-naturalizzazione e de-feticizzazione dei discorsi e delle terminologie egemoniche a proposito di “immigrazione” e di “illegalità” del migrante, indagando le specificità storiche della loro produzione e le forme della loro inclusione nelle lotte in corso77. Analogamente, mi sono interessato alle modalità secondo cui le lotte stesse dei migranti intervengono nel regime discorsivo dominante e giocano un ruolo attivo e capitale sia nella riattivazione dei discorsi egemonici, sia nella riformulazione dei termini e delle condizioni della lotta politica78. mf: Anche se Foucault non ha mai affrontato (o lo ha fatto solo di sfuggita) la questione degli spazi coloniali, la sua insistenza sulla pluralità di storie e spazi, e la sua critica a un modello storico teleologico, ci forniscono una lente analitica per intraprendere una storia del nostro presente capace di dare conto dell’eterogeneità e della dimensione differenziale dello spazio europeo postcoloniale. Al tempo stesso, le analisi di Foucault sul razzismo pongono la questione della razza in termini di tecnologia politica. A suo avviso, l’approccio di Foucault allo spazio, articolato con le sue riflessioni sulla razza e sul razzismo, costituisce una griglia utile per ripensare le relazioni tra governo delle migrazioni e processi di razzializzazione in Europa, decostruendo lo stesso spazio europeo come il “silenzioso referente di ogni storia”? N. De Genova, Migrant “Illegality” and Deportability in Everyday Life, cit. e Working the Boundaries, cit. 78 N. De Genova, Conflicts of Mobility and the Mobility of Conflict, cit. e The Queer Politics of Migration, cit. 77


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N. De Genova: Adottando l’ipotesi di un capovolgimento della famosa massima di Clausewitz, Foucault richiama la nostra attenzione sul paradosso per cui, «quand’anche si scrivesse la storia della pace e delle sue istituzioni, non si scriverebbe mai nient’altro che la storia della guerra»79. La politica del razzismo postcoloniale – e, beninteso, la sua istituzionalizzazione come organizzatore della “pace” – è certamente comprensibile nei termini di una continuazione della guerra coloniale. Sotto questa luce, le riflessioni foucaultiane presenti in “Bisogna difendere la società” a proposito dei temi storici dell’“invasione” e della “conquista”, e quindi della “guerra delle razze”, acquisiscono una rilevanza maggiore. Il limite del discorso di Foucault, tuttavia, consiste in una riduzione della problematizzazione critica della tesi della “dualità nazionale”, sostenuta dalle narrazioni storiche aristocratiche, alla presunta scala della “nazione” – esattamente la scala in cui tale narrazione è capovolta dagli storici borghesi e, dunque, la scala in cui il discorso storico è ricomposto negli anni della Rivoluzione Francese e in quelli successivi80. Per esaminare il razzismo postcoloniale in modo adeguato, siamo tuttavia chiamati a prendere in considerazione una dualità differente – una dualità globale, quella tra il colonizzatore e il colonizzato – postulata su una scala spaziale che è transnazionale e sopranazionale, e che rende impossibile sostenere la presuntuosa idea del carattere nazionale, monolitico e unitario, dell’Europa, così come l’analoga illusione di un’“Europa” singolare e integrale. Riflettendo sul rovesciamento borghese del discorso storico, che diviene una narrazione del «compimento totalizzatore»81 della nazione culminante nella sua realizzazione attraverso l’universalità dello Stato82, Foucault conclude la lezione del 10 marzo 1976 con alcuni suggerimenti provocatori su come, dall’inizio del diciannovesimo secolo, «la storia e la filosofia arriveranno a porre la stessa comune domanda»; e così, «la dialettica è nata»83. Foucault sta qui chiaramente pensando a Hegel, ma sembra condividere la familiare miopia sul fondamento costitutivo del colonialismo che Susan Buck-Morss espone nel suo avvincente Hegel, Haiti, and Universal History84: nemmeno M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 16; trad. it. cit., p. 23. Ivi, pp. 193-203; trad. it. cit., pp. 186-195. 81 Ivi, p. 204; trad. it. cit., p. 197 (traduzione modificata). 82 Ivi, p. 211; trad. it. cit., p. 204. 83 Ivi, p. 212; trad. it. cit., p. 205. 84 S. Buck-Morss, Hegel, Haiti, and Universal History, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh (PA) 2009. 79 80


176 Nicholas De Genova lui si distacca dalla scala “nazionale” (e autoreferenziale) di questo discorso nazionalistico, quando l’universalità è stata postulata filosoficamente in termini di storia globale. Certo, Foucault riconosce che «il razzismo si è sviluppato in primo luogo con la colonizzazione» o, più precisamente, «con il genocidio colonizzatore», e collega quest’ultimo a una forma biopolitica di guerra che mira a «distruggere non semplicemente l’avversario politico, ma la razza avversa», in quanto «pericolo biologico» virtuale85. Foucault può così audacemente affermare che, «a partire dal momento in cui lo Stato funziona sulla base del bio-potere, la funzione omicida dello Stato stesso non può essere assicurata che dal razzismo»86, e dunque che «il razzismo si è inserito come meccanismo fondamentale del potere, esattamente così come viene esercitato negli Stati moderni»87. In questo contesto, Foucault ha in mente quello che considera «un razzismo della guerra che risult[a] del tutto nuovo», un razzismo che assicura «la funzione della morte nell’economia del bio-potere» e che, da tale punto di vista, «è legato […] alla tecnica del potere», al «funzionamento di uno Stato che è obbligato a servirsi della razza, dell’eliminazione delle razze e della purificazione della razza, per esercitare il suo potere sovrano»88. Com’era prevedibile, il nazismo – e «il nazismo soltanto» – ne costituisce per Foucault l’esempio «parossistico»89. Si tratta certamente di una lettura interessante e convincente della storia e dell’efficacia del razzismo, eppure essa è unilaterale, poiché limita la sua portata alla spiegazione degli impulsi genocidiari e degli esercizi di sterminio. Anzi, tale lettura trascura in modo piuttosto evidente la produttività del potere razzista. Come ho già suggerito, il governo delle migrazioni è inseparabile dalla massimizzazione disciplinare delle potenzialità e delle capacità dei migranti come forza lavoro. Di conseguenza, le sue dimensioni specificamente razziste devono essere teorizzate non soltanto alla luce delle inclinazioni “sovrane” dei regimi di confine (border regimes) a perpetrare una guerra di bassa intensità e a «“lasciar” morire»90, ma anche alla luce delle specifiche modalità attraverso le quali i migranti vengono M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 229; trad. it. cit., p. 222. Ivi, p. 228; trad. it. cit., p. 221. 87 Ivi, p. 227; trad. it. cit., p. 220. 88 Ivi, p. 230; trad. it. cit., p. 223. 89 Ivi, p. 232; trad. it. cit., p. 225 (traduzione modificata). 90 Ivi, p. 214; trad. it. cit., p. 207. 85 86


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assoggettati alle durezze dell’uno o dell’altro regime di confine e di immigrazione al fine di catturare, coltivare e intensificare la loro forza vitale (e la loro forza lavoro)91. Il razzismo è una caratteristica indispensabile del più vasto processo di inclusione rappresentato dalla subordinazione lavorativa, così com’essa era analogamente inseparabile dai precedenti residui di schiavitù. Ho già suggerito che occorre essere cauti e, quando si pensa al postcoloniale, guardarsi dai pericoli derivanti da un uso inappropriato della nozione di una pluralità di storie e spazi. Qui, il fatto storico e la metafora della guerra dovrebbero servire a ribadire una simile riserva. In effetti, cosa realizzano la guerra e la conquista se non la creazione di uno spazio e di una storia, quando in precedenza ve ne erano due? Una prospettiva postcoloniale costituisce precisamente il tipo di quadro analitico che ci invita a smantellare l’incontestata e naturalizzata unità e integrità dello spazio europeo in quanto ermeticamente singolare e autonomo: nel momento in cui innumerevoli migrazioni attraversano questo spazio europeo, a cosa assistiamo se non al ritorno della storia globale (coloniale) dell’Europa92? Traduzione dall’inglese di Daniele Lorenzini

Nicholas De Genova King’s College London n.degenova@gmail.com

N. De Genova, The Deportation Regime, cit. e Bare Life, Labor-Power, Mobility, and Global Space, cit. 92 N. De Genova, Migration and Race in Europe, cit. 91



Foucault, migrazioni e confini Risposte di Brett Neilson

mf: Michel Foucault non ha mai affrontato il tema delle migrazioni, eccetto in un paio di passaggi, e, come William Walters ha indicato nel suo saggio Foucault and Frontiers. Notes on the Birth of the Humanitarian Border, non si è soffermato sulla funzione dei confini come principali tecnologie politiche della governamentalità contemporanea. Infatti, in Sicurezza, territorio, popolazione le sue analisi sulla circolazione delle merci e delle persone come cardine dell’economia moderna finiscono in secondo piano, nella misura in cui il focus si sposta nettamente sulla produzione e il governo del territorio nazionale. Ciò nonostante, anziché investigare se Foucault abbia affrontato o meno questi temi, oggi possiamo forse mettere al lavoro alcuni degli strumenti concettuali che fanno parte della sua griglia analitica e, in modo più generale, del suo approccio genealogico, per cogliere le poste in gioco politiche del governo della mobilità e della narrazione mainstream sulle migrazioni. Pensa che, a questo proposito, la griglia foucaultiana della governamentalità possa essere utile, più di altri strumenti foucaultiani, o invece rileva che lo spostamento e il focus eclusivo sulla questione del governo possano essere problematici? In effetti, bisogna tenere in considerazione che, se da un lato molti studi critici sulle migrazioni fanno uso delle analisi foucaultiane della governamentalità, mettendo in luce la molteplicità degli attori e dei poteri in gioco all’interno del regime delle migrazioni, dall’altro questo ha finito in parte per corroborare l’idea che i movimenti delle persone debbano essere governati, privando in qualche modo le analisi di Foucault di quella portata critica che invece le caratterizza. B. Neilson: Credo che, nell’ambito dell’analisi delle migrazioni contemporanee, la questione del governo sia al tempo stesso utile e problematica. Utile, perché c’è in effetti un dispositivo di attori e poteri coinvolti nel governo delle migrazioni e un suo studio è fondamentale per l’analisi delle pressioni e delle condotte che si esercitano sui movimenti migratori. Problematica, perché il governo delle migrazioni può diventare una sorta materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 179-200.


180 Brett Neilson di imperativo categorico, indipendentemente dalle motivazioni politiche, economiche e morali che vi sono connesse, che siano esse legali, umanitarie, opportunistiche o populiste. Nessuno strumento concettuale è privo di pericoli e di usi erronei. Al tempo stesso, la “griglia della governamentalità” foucaultiana è stata ormai imposta a una tale quantità di situazioni diverse e soggetta a tante torsioni pratiche e concettuali così diverse tra loro, che ormai è difficile farle coesistere. Dobbiamo innanzitutto distinguere i termini di “governo”, “governance” e “governamentalità” che, nonostante siano spesso usati in modo intercambiabile, possono avere implicazioni concettuali e politiche piuttosto diverse. Dobbiamo poi soprattutto analizzare i diversi approcci, se non le vere e proprie scuole, che si sono coagulati intorno ai testi di Foucault sulla governamentalità: da The Powers of Freedom di Rose, passando per la teoria dell’actor-network, l’antropologia dell’apparato, fino alle inflessioni teologiche di Agamben e alle critiche della governance globale di Hardt e Negri1. Queste diverse appropriazioni del concetto di Foucault vanno in direzioni politiche differenti e non sono sempre riconciliabili. C’è una sorta di battaglia in corso per l’eredità di Foucault e il concetto di governamentalità è uno dei campi principali in cui essa si svolge. Lavorando nel bel mezzo di questa mischia, è chiaro che non c’è una governamentalità “pura” e che è quindi controproducente tentare di ricondurre sempre la discussione, in modo esegetico, ai testi originali di Foucault, come se la consonanza con i testi foucaultiani potesse attestare la veridicità del proprio approccio. Non si tratta di produrre un San Foucault (per richiamare il titolo dell’“agiografia gay” di Halperin del 19972). Per essere politicamente utile, un concetto deve rimanere vivo, aperto a torsioni, suscettibile di contestazioni. Dovrebbe anche essere chiaro che la governamentalità non esiste nel vuoto. Il potere governamentale opera insieme ad altre forme di potere, Cfr. N. Rose, Powers of Freedom. Reframing Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1999; A. Barry, Political Machines. Governing a Technological Society, The Athelone Press, London 2001; P. Rabinow, Anthropos Today. Reflections on Modern Equipment, Princeton University Press, Princeton 2003; G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009 (trad. The Kingdom and the Glory. For a Theological Genealogy of Economy and Government, a cura di L. Chiesa, Stanford University Press, Stanford 2011); M. Hardt e A. Negri, Commonwealth, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2009. 2 D. Halperin, Saint Foucault. Towards a Gay Hagiography, Oxford University Press, Oxford 1997. 1


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quali la sovranità, il potere disciplinare, quello pastorale e così via. Tentare di ricondurre tutte le espressioni o le relazioni di potere alla “griglia della governamentalità”, come se le altre forme di potere fossero state sostituite o si fossero estinte, è pericoloso, in particolare se lo si fa a proposito dell’analisi delle migrazioni contemporanee. La tendenza a privilegiare un’analisi del potere governamentale a discapito delle altre forme di potere è evidente nei discorsi del migration mangement. Prevalente tra le organizzazioni intergovernamentali come l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e tra i vari esperti ed accademici che fanno ricerca per queste organizzazioni, questo approccio riconosce il carattere transnazionale delle società contemporanee e vede le migrazioni come una parte normale delle questioni mondiali. Tenta inoltre di sviluppare e aumentare il sapere e le pratiche delle politiche che pretendono di ottimizzare i movimenti migratori in una cornice di umanitarismo, cooperazione intergovernamentale, sviluppo economico, sicurezza, regolazione del mercato del lavoro e costruzione di capacità. La retorica del migration mangement si basa molto sui discorsi della governance globale che mettono in luce i molteplici attori e poteri coinvolti nella regolazione dei movimenti della popolazione globale, inclusi quelli che fanno parte del sistema statale, ma non solo. Essa immagina un regime emergente di controllo delle migrazioni che operi facilmente e agevoli il libero movimento dei suoi soggetti. I critici che si sono serviti della “griglia foucaultiana della governamentalità” per l’analisi delle pratiche e dei discorsi del migration management hanno proceduto a smantellare queste fantasie3. Hanno mostrato come il migration management implichi una razionalità politica che lo lega a complessi di sapere e di potere più generali, in un quadro neoliberale. Hanno anche mostrato la controcondotta dei soggetti migranti e sottolineato il modo in cui i poteri violenti e coercitivi che si esercitano sui movimenti migratori spezzano il sogno di un migration management liberale. Dipende quindi dal modo in cui il concetto di governamentalità è applicato ed a cosa è associato. Di certo, un’analisi in termini di governamentalità costituisce un passo in avanti per lo sviluppo di una “postura critica” nei confronti del regime contemporaneo delle migrazioni. Direi quindi che è centrale, ora, per lo sviluppo di questa postura. Ma il punto è Si veda, ad esempio, M. Geiger e A. Pécoud (a cura di), The Politics of International Migration Management, Palgrave Macmillan, Houndmills 2010. 3


182 Brett Neilson capire se questa necessità sia anche un’insufficienza. Se è vero che il concetto di governamentalità chiarisce l’operare dei sistemi migratori, è anche vero che le lotte intorno alle migrazioni e ai confini evidenziano elementi che possono facilmente essere oscurati dalle discussioni sulla governance e la governamentalità. Per questo un’analisi delle migrazioni tramite la “griglia della governamentalità” deve essere integrata con un’analisi del modo d’azione delle altre forme di potere: del potere sovrano, ad esempio, e di come si è modificato nelle condizioni globali contemporanee. Il potere governamentale non può funzionare in pratica senza le operazioni parallele di altri tipi di potere (anche se spesso in conflitto e in contraddizione con esso). Da questo punto di vista è possibile, se non necessario, parlare di assemblaggi di potere. Seguire ed analizzare l’evoluzione di questi assemblaggi richiede qualcosa di simile alla prospettiva genealogica foucaultiana che avete citato, anche se meno radicata nella storia dell’Europa moderna e più adattata ai rapidi mutamenti dell’attuale era globale. Richiede, ad esempio, un’attenzione alle circostanze in cui le pratiche di governance e di governamentalità non riescono a riprodurre la cornice delle loro operazioni: ad esempio, quando non riescono a funzionare tramite appelli all’umanitarismo. Questo significa che, per studiare le migrazioni e fare politica, è molto importante saper individuare i limiti di un’analisi governamentale. Per fare un esempio: la fantasia della migrazione “just-in-time” e “to-the-point” produce effettivamente una governamentalizzazione dei confini che può essere analizzata seguendo i modi in cui la razionalità economica neoliberale dà forma al proprio operato. Ma questa è solo una fantasia, anche se produce effetti molto reali. Per colmare il gap tra fantasia e realtà, che significa anche creare le condizioni in cui la fantasia può riprodursi, è necessaria una diversa forma di potere, che entra spesso in scena in forma di militarizzazione dei confini. Le numerose morti che continuano ad avvenire lungo i confini del mondo testimoniano del ruolo di tale potere. mf: In un celebre passaggio di Nascita della biopolitica, Foucault descrive il migrante come capitale umano. Oggi, una tale lettura è certamente valida nella misura in cui prendiamo in esame le cosiddette “high skilled migrations”. A un esame più attento, vediamo che agenzie come l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Iom) mirano a produrre e presentare anche i “low skilled migrants” come soggetti responsabili il cui capitale sociale ed economico deve essere incanalato e rafforzato. Tuttavia, assumere questo


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discorso significa in fondo legittimare e rafforzare la “fantasia governamentale” delle politiche migratorie: infatti, una discrepanza piuttosto rilevante è sempre in gioco tra, da un lato, il regime discorsivo del governo delle migrazioni e la materialità delle misure amministrative atte a bloccare o filtrare le migrazioni “irregolari” e, dall’altro, le pratiche dei migranti stessi, che costantemente eccedono gli spazi e il vocabolario della governamentalità. Inoltre, il punto cruciale è rendere visibili gli effetti ampiamente differenti cui il presente governo della mobilità umana dà luogo, ovvero le differenti soggettività prodotte. Emerge così che il modello del capitale umano non può essere mobilitato per analizzare e designare le eterogenee “condizioni migranti”. Dopo tutto, come affermano Sandro Mezzadra e Brett Neilson nel loro recente libro, Border as Method, or the Multiplication of Labor, il governo della mobilità funziona attraverso processi di inclusione differenziale. B. Neilson: Ho sempre pensato che l’espressione “capitale umano” debba suscitare indignazione. C’è qualcosa di fondamentalmente inaccettabile in questo concetto, non perché la capitalizzazione dell’umano offende un persistente umanesimo, ma perché l’aggettivo “umano” tende a spostare ed indebolire il concetto di “capitale” che, va ricordato, nella formulazione di Marx descrive una relazione sociale. Non credo che mantenere viva la rabbia nei confronti di questo concetto oscuri o devii da un’analisi politica lucida. Troppo spesso gli intellettuali critici credono di dover metter da parte la loro rabbia in nome del rigore o dell’erudizione. Credo invece che un’analisi efficace debba partire da un’emozione iniziale, spesso piuttosto istintiva, che la provochi. Non sono mai per dire alle persone di calmarsi, per studiare lucidamente la situazione. È vero che il famoso passaggio de La nascita della biopolitica che avete citato descrive il lavoratore come una macchina di abilità e il migrante come un investitore. Credo che Foucault usi queste definizioni più per fare una sorta di parodia del lessico neoliberale e delle tecniche governamentali, che per avallarlo. Sono termini che Foucault tenta di cogliere criticamente dall’interno. Anche Gary Becker, padre del concetto di “capitale umano”, ha riconosciuto recentemente come Foucault “non fosse allievo di Gary Becker”4. G. Becker, F. Ewald e B. Harcourt, Becker on Ewald on Foucault on Becker. American Neoliberalism and Michel Foucault’s 1979 Birth of Biopolitics Lectures, Chicago Institute for Law and Economics Working Paper, n. 614, 2012, The Law School, University of Chicago. 4


184 Brett Neilson Rispetto alla vostra domanda, è vero che c’è una tendenza crescente ad estendere un approccio governamentale alle migrazioni come modo di gestire la circolazione del “capitale umano”, anche oltre la continuità delle competenze. Penso tuttavia che sia giusto ricordare che ci sono altri imperativi governamentali che si applicano al progetto delle politiche e dei programmi migratori, come ad esempio quelli che fanno riferimento a ragioni umanitarie e che meritano anch’essi di essere citati e criticati, anche se la crisi dell’accoglienza che si è aperta dal tempo della fuga dal Vietnam negli anni settanta ha reso la figura del “migrante economico” sempre meno distinguibile dal “rifugiato” o dal “richiedente asilo”. Nei miei lavori sulle migrazioni sono sempre stato attento ad usare la parola “migrante” e non i termini creati dagli Stati e dagli organismi governamentali internazionali, come “migrante economico”, “rifugiato” o “richiedente asilo”. Tuttavia, qualche volta è necessario usare queste espressioni, dato che migranti di diversi tipi si trovano inseriti in queste categorie in modi che condizionano il loro accesso alla mobilità ed al mercato del lavoro. Non apprezzo molto quei testi teorici che annunciano la propria politica mettendo i termini tra virgolette. Ma in casi come questi credo a volte che le virgolette siano giustificate (infatti mi sono appena sentito in dovere di usarle). Nel caso di designazioni come quelle di migranti qualificati e non qualificati, i miei sentimenti sono simili. Si tratta di categorizzazioni che possono significare cose molto diverse in contesti diversi. Non è affatto semplice distinguere tra migranti altamente qualificati e poco qualificati, soprattutto perché la questione di cosa debba essere valutato come competenza è qualcosa su cui premono sia i migranti, sia gli “intermediari” e sia i regolatori all’interno dei sistemi governativi di inclusione differenziale come i sistemi a punti. Non è nemmeno corretto ipotizzare che solo i migranti poco qualificati muoiano in mare. Moltissimi individui altamente qualificati rischiano in punti di passaggio pericolosi. Quindi, più che affermare che il modello del capitale umano non possa essere applicato a tutti i tipi di migrazione, direi che abbiamo bisogno di un’analisi attenta ai capricci della competenza e ai modi in cui i processi di inclusione differenziale spostano e alterano l’investimento della competenza nelle popolazioni. In molti casi, la migrazione implica un processo di perdita di competenze (deskilling) dovuto al mancato riconoscimento delle qualifiche in giurisdizioni diverse da quelle in cui queste sono state acquisite. Così,


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tecnologie governamentali come quelle della Skilled Occupations List australiana, possono far scivolare rapidamente capacità riconosciute come competenze nel regno della non competenza. Il 1° luglio 2012, ad esempio, mestieri come quelli di chimico, audiologo, muratore e piastrellista sono stati cancellati da questa lista e sostituiti con quelli di manager della produzione (minatore), metallurgico, optometrista e realizzatore di network e sistemi informatici. Chiaramente, un migrante qualificato come chimico possiede un capitale umano nel senso comune del termine. Ma in questo sistema, in cui le modifiche vengono fatte sulla base di analisi statistiche dei bisogni del mercato del lavoro, il competente può divenire privo di competenze nel giro di una notte. C’è qualcosa di diverso, o di più, del capitale umano in gioco in questi schemi di inclusione differenziale. Le osservazioni critiche di Foucault sul capitale umano possono in parte tracciare la via da seguire, ma non possono descrivere pienamente o spiegare l’attuale filtraggio e la violenta interruzione delle vite migranti. Inoltre, la libertà di partire o di restare non può essere facilmente messa in relazione con il capitale umano. Prendiamo un altro esempio dall’Australia che, nell’ultimo anno, ha introdotto svariate modificazioni nelle sue politiche migratorie, tra cui il progetto di escludere l’intero territorio dalla zona di migrazione, estendendo la logica delle esclusioni della “Pacific Solution” del 2001 a tutto il paese. L’introduzione dei cosiddetti “Entreprise Migration Agreements” del Maggio 2012 ha comportato un accordo tra governo e imprese private per velocizzare le autorizzazioni a migranti che lavorassero temporaneamente a progetti in settori come quello minerario o della macellazione. Alla fine del periodo autorizzato, il migrante che provasse a rimanere in Australia diventerebbe un soggetto deportabile. Questo genere di schema rappresenta l’avanguardia di tecnologie di inclusione differenziale: la decisione sull’immigrazione è esternalizzata dallo Stato alle imprese economiche, le domande sono esaminate secondo presunte necessità economiche e non in ordine di arrivo (eludendo tutti i tentativi avvertiti di rispettare le regole) e la distinzione tra il migrante che decide liberamente di partire e quello che ne è costretto si fa poco chiara. Di nuovo, il concetto di capitale umano non può spiegare completamente questi schemi governamentali. È vero che queste tecnologie producono soggettività multiple, ma è anche vero che queste tecnologie possono, in diversi momenti, investire gli stessi corpi.


186 Brett Neilson mf: Le analisi di Foucault sulle resistenze costituiscono di gran lunga l’elemento della sua scatola degli attrezzi più utile per gli studi critici sulle migrazioni. Tali analisi consentono infatti di considerare le pratiche di migazione non come mere risposte a determinanti economiche, ma piuttosto come movimenti che sommuovono e interrompono l’“ordine della mobilità”. Come è noto, secondo Foucault non possono esservi relazioni di potere senza resistenze, e queste ultime non sono semplicemente una reazione o una sottrazione rispetto all’esercizio del potere, dal momento che la tecnologia governamentale si trova a dover costantemente riorganizzare la propria strategia di fronte a pratiche, movimenti e corpi: anziché supporre che vi siano, da un lato, le resistenze e, dall’altro, il potere, dovremmo situare le relazioni di potere all’interno delle lotte e vedere il potere come nient’altro che un’istantanea di lotte molteplici e di continue trasformazioni. Inoltre, una prospettiva foucaultiana sulle migrazioni ci permette di spostare l’attenzione dalle rivendicazioni di diritti alla matierialità delle lotte dei migranti e a linguaggi che molto spesso non possono indirizzarsi alla sfera della legge, né essere situati all’interno della cornice della cittadinanza. Tuttavia, al tempo stesso, non bisogna sovrastimare l’autonomia di queste pratiche, né trascurare la violenza delle tecniche di confinamento e l’estrema difficoltà, per i migranti, di negoziare spazi di manovra e agire quelle che Federica Sossi ha definito “strategie di esistenza”. In che modo le lotte dei migranti possono interferire, interagire e comporsi con con altre lotte sociali senza perdere la propria specificità? Non dovremmo forse evitare di ricodificarle attraverso il linguaggio politico tradizionale, al fine di non indebolire la loro forza di perturbazione? Ciò che vorremmo provare a suggerire è che (alcune) pratiche e lotte dei migranti hanno la peculiarità di indirizzarsi a questioni molto specifiche e, al tempo stesso, mettono radicalmente in discussione il paradigma governamentale in quanto tale. Ovvero, partendo da rivendicazioni e strategie ben determinate, esse destabilizzano i meccanismi di partizione e di creazione di “profili di mobilità”. B. Neilson: “La resistenza è primaria”, è lo slogan deleuziano derivato dalle discussioni di Foucault sul potere e sulla resistenza5. Potremmo dire che la tesi dell’autonomia delle migrazioni fa eco a questa affermazione, per cui le lotte migratorie e sui confini possono essere intese come lotte sociali 5

G. Deleuze, Foucault, trad. a cura di S. Hand, The Athelone Press, London 1988.


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che eccedono la richiesta di diritti e di cittadinanza e forzano la migration governance ad innovarsi. Non credo che questa tesi, almeno nelle elaborazioni dei pensatori che l’hanno sviluppata per primi, sovrastimi l’autonomia dei movimenti migratori, sottostimi la violenza delle tecniche di bordering, o non consideri la specificità delle lotte di confine. Le teorie che conosco, e che provengono dal Frassanito Network, erano piuttosto attente a sottolineare l’ambivalenza delle pratiche soggettive dei migranti, il ruolo delle migrazioni nella storia e nel presente del capitalismo e la specificità dell’ambito di lotte delineate dai movimenti migranti. Erano anche attente al linguaggio e allo stile delle specifiche lotte dei migranti, senza provare a imitarli o a far dire loro altro, per elidere le differenze tra il lavoro critico intellettuale sulle migrazioni e i discorsi e le pratiche dei migranti stessi (anche se questi, ovviamente, in certi casi si possono intersecare). Le successive elaborazioni dell’approccio dell’autonomia potrebbero aver prodotto le generalizzazioni cui fate cenno ma, per quanto mi riguarda, queste non fanno parte delle tesi iniziali e più potenti di questo approccio. Tuttavia, credo che l’approccio dell’autonomia delle migrazioni porti i segni del tempo e dello spazio, come deve accadere per tutte le teorizzazioni politiche efficaci. Spostando l’attenzione dalle forme di esclusione e di dominio gestite dallo Stato e dalla legge agli obiettivi soggettivi delle migrazioni, i progenitori di questo approccio avevano provato a prendere in conto una serie specifica di circostanze che stavano emergendo nel regime europeo delle migrazioni, nei primi anni di questo secolo. Era una situazione in cui nuove tecnologie governamentali di controllo delle migrazioni stavano emergendo a livello europeo, mentre numerose nuove lotte si stavano aprendo sullo stesso terreno. Nel frattempo, in molti Stati europei, le forze politiche populiste a livello nazionale avevano assunto l’immigrazione come questione capace di indurre l’elettorato della classe operaia a sostenere tematiche conservatrici, nazionaliste e spesso anti-europeiste. In queste circostanze, sottolineare gli aspetti soggettivi dell’immigrazione costituiva una strategia per contrastare la retorica dominante della sinistra che identificava i migranti come vittime, e per riportare i temi e le pratiche associati all’immigrazione e all’attivismo verso una più generale lotta anticapitalista. Le cose oggi sono diverse in Europa: è il debito, più delle migrazioni, ad offrire una leva politica. Tuttavia, è importante mantenere il senso della specificità delle migrazioni e delle lotte di confine, che proseguono senza tregua in Europa e non solo.


188 Brett Neilson Rispetto alla vostra domanda sulla speranza di immunizzare le lotte dei migranti dal “linguaggio politico tradizionale“, credo che molto dipenda dal contesto politico. Non è un segreto che queste lotte siano spesso articolate nel linguaggio dei diritti e della cittadinanza. Da un punto di vista politico e pragmatico, a volte è necessario rispettarle. In generale, sono stato molto critico verso i tentativi di ricodificare le lotte dei migranti in termini di richiesta di diritti, ma ho anche visto amici con competenze legali agire nel contesto dei tribunali e ottenere differenze materiali importanti per la vita dei migranti. Operare attraverso le istituzioni legali per le questioni dei migranti tende ad essere sempre un’arma a doppio taglio. I migranti e i loro difensori possono produrre delle aperture. Ma anche gli Stati e le agenzie governative che tentano di restringere la mobilità dei migranti e il loro welfare portano all’estremo il limite tra il legale e l’illegale. È il caso, in particolare, della legge umanitaria internazionale che, come nota Weizman6, non è “tanto un sistema legale basato su un codice, quanto un corpus legale basato sul precedente”. L’idea che i diritti forniscano uno sbocco neutrale alle politiche migratorie o uno strumento privilegiato per l’attivismo è evidentemente inesatta. La situazione è complessa anche a proposito dell’analisi delle migrazioni e della questione della cittadinanza, dato che questo è un concetto che è stato applicato secondo diverse modalità nei discorsi critici recenti. Il tentativo dei citizenship studies di separare il concetto di cittadinanza da una questione formale di status o di diritti e di teorizzarlo in termini di pratiche, performance o atti è stato importante per le numerose tesi critiche che hanno ipotizzato che i non cittadini non siano sempre al di fuori del raggio d’azione delle istituzioni e delle esperienze associate alla cittadinanza. Questo ha permesso di guardare alla cittadinanza come a una categoria della soggettività politica e come a un campo di lotte. Mi sembra però che la categoria di cittadinanza resti impensabile senza le tecnologie di bordering e che il tentativo di staccare le pratiche di cittadinanza dallo status di cittadinanza abbia portato a un’elaborazione piuttosto fluttuante di questo concetto politico. Da una parte, questo rischia di svuotare il concetto del suo bagaglio storico e di oscurare il modo in cui la relazione tra diritti di E. Weizman, The Least of All Possible Evils. Humanitarian Violence from Arendt to Gaza, Verso, London 2012. 6


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cittadinanza e accesso al mercato del lavoro sia stata rimodellata nel capitalismo globale. Dall’altra parte, può condurre ad una situazione in cui il migrante diviene pubblicamente visibile – nel senso liberal-democratico di esser degno di analisi o di attenzione – solo quando lotta. Per questi motivi, credo che il linguaggio della cittadinanza possa attenuare la forza politica dirompente delle lotte dei migranti. Ma credo anche che, nel lavoro critico sulle migrazioni, sia difficile disfarsi della categoria di cittadinanza. Forse occorre iniziare a pensare la cittadinanza oltre il campo saturo dei citizenship studies. Le lotte di confine sono un buon punto di partenza. mf: Molti studi sulle migrazioni, e in particolare sui rifugiati, si riferiscono al paradigma del campo per come è analizzato e descritto da Giorgio Agamben, sottolineando la centralità del potere di sovranità nel governo delle migrazioni. Le analisi di Agamben, negli ultimi quindici anni, sono state anche utilizzate da molti attivisti per denunciare l’esistenza e il funzionamento dei centri di detenzione. Un approccio foucaultiano comporta, a nostro avviso, uno sguardo per certi aspetti differente, che non si focalizzi esclusivamente sulle istituzioni o sulle istanze decisionali, e che non consideri i migranti come soggetti ridotti a nuda vita. Tuttavia, i Governmentality Studies tendono a dare particolare attenzione agli attori non statali, offuscando in un certo senso il ruolo ancora rilevante degli Stati nel governo delle frontiere, e anche nel mettere in scena ciò che Nicholas De Genova definisce “lo spettacolo del confine”. In che misura, nel suo lavoro, questi due aspetti – sovranità e governamentalità – vengono articolati? E, per quanto riguarda l’attivismo nell’ambito delle migrazioni, ritiene che oggi uno sguardo foucaltiano possa suggerire o fornire “strumenti” di azione appropriati? B. Neilson: Il lavoro di Agamben è presente nei miei studi sulle migrazioni e su altre questioni. In particolare, credo che il lavoro di Agamben sull’eccezione sovrana sia stato utile nell’atmosfera del post 11 settembre, nei paesi anglofoni, dove la retorica della guerra al terrorismo è stata trasposta con successo dalle forze politiche neoconservatrici nei discorsi contro l’immigrazione. In Australia, la coincidenza tra gli attacchi dell’11 settembre e l’incidente di Tampa dell’agosto 2001 (quando le forze speciali attaccarono un


190 Brett Neilson cargo commerciale norvegese che aveva soccorso migranti provenienti dall’Afganistan) ha offerto uno stimolo inesorabile per sostenere la sovranità e l’eccezione. Questo era il momento giusto per Agamben, momento che però è ormai passato. In quel periodo criticavo la tendenza di Agamben ad elidere la questione dell’economia e quella del lavoro dalla sua ricerca7, che invece mi sembrava essenziale per un’analisi critica delle migrazioni che fosse capace di mettere in relazione i cambiamenti politici dell’esternalizzazione (in questo caso la prima installazione della Pacific Solution) e la militarizzazione dei confini con l’evoluzione globale del capitalismo. È la stessa critica che ho mosso al tentativo recente di Agamben di ripensare l’economia e la governance in termini teologici8. In queste critiche, il mio obiettivo non era quello di riscoprire un Foucault “depurato” da Agamben. Ero molto più attento alle questioni politiche del presente. Agamben offre una lettura particolare di Foucault, che ha dei momenti di creatività e di ambivalenza. Il suo tentativo di sottrarre la lettura dei testi di Foucault sulla governamentalità e sulla biopolitica ad una prospettiva liberale in cui la sovranità tende a venir meno (posizione che è invece dominante nei governamentality studies anglo-foucaultiani) è importante. Tuttavia, vorrei proporre una prospettiva diversa sulla relazione tra sovranità e governamentalità rispetto a quella sviluppata da Agamben nei suoi lavori recenti, come Il regno e la gloria9. Nei miei lavori con Sandro Mezzadra sulle politiche e sulle lotte dei confini, ho provato a sviluppare il concetto di “sovereign machine of governmentality”10. Per noi, la questione centrale non è solo l’idea che il potere governamentale continui a lavorare congiuntamente al potere sovrano, ma anche l’ipotesi che il potere governamentale stia acquisendo caratteristiche di sovranità. Da un punto di vista foucaultiano, potrebbe sembrare paradossale, dato che Foucault11 pone la sovranità come il “vecchio principio” contro B. Neilson, Potenza Nuda? Sovereignty, Biopolitics, Capitalism, in «Contretemps», n. 5 (2004), pp. 63-78. 8 B. Neilson, Politics without Action, Economy without Labor, in «Theory & Event», vol. 13 (2010), n. 1. 9 G. Agamben, Il regno e la gloria, cit. 10 S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham 2013. 11 M. Foucault, Society Must be Defended. Lectures at the Collège de France, 1975-1976, trad. a cura di D. Macey, Picador, New York 2003. 7


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cui forme più recenti di potere sono emerse. Ma è proprio questo il punto. La descrizione foucaultiana delle trasformazioni storiche della sovranità si arresta a Rousseau e alla Rivoluzione francese. Da allora, la sovranità rimane essenzialmente la stessa, incorporata nell’operare dello Stato costituzionale moderno. Alcuni pensatori, tra cui Hardt e Negri12 e Sassen13, hanno analizzato a fondo il modo in cui la sovranità si è modificata con l’evoluzione delle formazioni trasnazionali e denazionalizzate di economia, politica e potere. Esaminare queste trasformazioni non significa solo mettere in questione la concezione della sovranità centrata sullo Stato presente sia le nelle tesi eccezionaliste che in quelle normative, ma anche vedere in che modo le teorie della governance e della governamentalità non siano state capaci di comprendere pienamente le mutazioni della sovranità. Questi cambiamenti sono particolarmente evocativi per quanto riguarda la questione del bordering. La teoria di Balibar per cui il confine “non è più al confine” è divenuta una verità della teoria politica contemporanea. Viviamo in un periodo in cui il confine attraversa spazi politici che avevamo fino ad ora considerato uniti ed omogenei. La relazione della sovranità con il territorio e la giurisdizione è sotto pressione ed anche la relazione della sovranità con la governamentalità sta cambiando. Che il potere sovrano nel contesto del migration management fornisca un supplemento necessario al governo di soggetti liberi e alla “condotta della condotta”, è già evidente nelle morti tragiche che accadono ogni giorno lungo le frontiere del mondo. Ma la questione è più complessa. È proprio l’esistenza di processi di migration management o di governance a dipendere, in certe condizioni, da una cornice che trascende le modalità delle loro operazioni. Per dare un nome a questa cornice, Mezzadra ed io sosteniamo che il concetto di sovranità, una volta rimosso il velo mistico che lo circonda, possa avere ancora una certa importanza. C’è una certa necessità di tracciare gli effetti dispersi del potere sovrano, in particolare quando le pratiche di governo e di governamentalità non riescono a riprodurre la cornice delle loro operazioni (quando, ad esempio, non possono dar luogo alle loro operazioni tramite appelli all’umanitario). Anche i controlli della moM. Hardt e A. Negri, Empire, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2000. S. Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton 2006. 12

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192 Brett Neilson bilità che vengono applicati alle frontiere delle zone economiche speciali, come quelle dell’India e della Cina, devono essere visti in quest’ottica. Qui, gli sforzi del liberismo incontrano gli effetti di quel che Aihwa Ong chiama “sovranità graduata”14. mf: La questione dei regimi di verità è particolarmente rilevante per Foucault. E la sua genealogia del soggetto moderno mette in luce le differenti funzioni che la verità ha storicamente ricoperto nella produzione del soggetto. Ad esempio, per quanto riguarda la modernità, Foucault sostiene che al soggetto venga richiesto di dire la verità su di sé. Da un focus sulle migrazioni attraverso uno sguardo postcoloniale emerge che differenti regimi di verità coesistono anche all’interno di un certo spazio, e che non è lo stesso meccanismo di “terapie di verità” ad essere in gioco nel caso dei cittadini e dei migranti illegali. Ad esempio, gli effetti di individualizzazione prodotti dal regime di verità di cui parla Foucault non sembrano funzionare allo stesso modo nel contesto del governo delle migrazioni: al contrario, nessuna verità è richiesta ai migranti “fasulli” (“bogus” migrants), e la loro soggettività e biografia sono infine dipanate. Così, tenendo conto della coesistenza di differenti regimi di verità nel nostro presente, crede che anche le resistenze a uno specifico regime di verità possano venire dal “di fuori”, ovvero da soggetti che non sono governati attraverso lo stesso regime di verità? B. Neilson: Tra le teorie foucaultiane, quelle sui regimi di verità non sono quelle che più mi hanno colpito nel suo lavoro. Devo forse rileggere L’archeologia del sapere15 o Truth and Power16 che mi avevano molto impressionato quando li lessi, svariati anni fa. Sono forse anche io colpevole di aver preso in considerazione, negli ultimi cinque anni, quasi solo la pubblicazione dei suoi ultimi corsi. Detto questo, non sono sicuro che quel che voi descrivete come uno “sguardo postcoloniale” sulle migrazioni sia necessariamente centrato su regimi molteplici di verità. A. Ong, Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, Duke University Press, Durham 2006. 15 M. Foucault, The Archaeology of Knowledge, trad. a cura di S. Smith, Pantheon, New York 1972. 16 M. Foucault, Truth and Power, in Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Writings, a cura di C. Gordon, Pantheon Books, New York 1980, pp. 107-133. 14


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Quel che mi sembra importante, a proposito della nozione di regime di verità, è che questa crea alcuni modi di sapere e di agire nel mondo. Non è solo una questione di prospettiva, di contesto o di cultura. Non è nemmeno uno di quei generi di relativismo che marciano dietro a Nietzsche e al suo esercito di metafore. Provincializing Europe17 di Dipesh Chakrabarty ha mostrato in modo efficace come una prospettiva postcoloniale sulla differenza storica sia compatibile con il regime di verità incorporato nelle tendenze universalizzanti di un concetto come quello di capitale. Mi sembra un modo più produttivo di prendere in considerazione la questione che ponete. Il regime di verità che divide i soggetti in migranti “legali” e “illegali” non è solo una prospettiva tra altre, ma è un dispositivo potente di veridizione e di sapere che sta anche alla base del concetto universalizzante di cittadinanza. Narrazioni, valori ed epistemologie differenti sono costretti nei confini di questo regime di verità. La questione che ponete riguarda gli effetti soggettivanti e individualizzanti di questo scontro. Devo ammettere di non aver ben capito cosa intendete per “bogus migrant”. So che questo termine è usato quando le domande di asilo vengono rifiutate perché vi sono presenti informazioni false, ad esempio sulla sessualità o sul fatto di aver verosimilmente subito delle persecuzioni nel paese di origine, informazioni fornite quindi per ottimizzare le possibilità di ottenere asilo. Questo però non mi sembra parte di un diverso regime di verità rispetto a quello del dispositivo che separa i migranti “legali” da quelli “illegali”. Mi sembra che giochi invece esattamente in questo regime di verità. Forse fate riferimento agli aspetti soggettivi di questi “svelamenti di biografie”, che sono secondo voi distanti dall’individualizzazione. Avrei bisogno di più informazioni su quel che descrivete come il “fuori” di una “terapia di verità” che chiede al soggetto moderno di essere veritiero con se stesso. Ma in questo caso la fabbricazione di una falsità conveniente mi sembra più una questione di strategia che di individualizzazione. mf: L’ultimo Foucault, sia nelle interviste, sia nei corsi al Collège de France, focalizza la nostra attenzione sulle tecnologie del sé e sulla questione della soggettivazione, questione che, oggi, è sempre più al centro di molte analisi relative ai movimenti politici e alle nuove forme di lotta. Per quanto riguarda le strategie di resistenza, questo approccio solleva varie questioni D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000. 17


194 Brett Neilson problematiche. Prima tra tutte, i migranti ricorrono a strategie di desoggettivazione, rifiuti o fughe, al fine di aggirare o di allentare la presa del potere, visto che il regime di (in)visibilità nel quale si trovano a lottare rende difficile mettere in atto pratiche di lotta che durino nel tempo. Tuttavia, in un’ottica foucaultiana, si può affermare che anche pratiche di resistenza come rifuti e fughe comportino processi di soggettivazione, ovvero trasformazioni. A suo parere, quali sono i punti di forza e i limiti di un’analisi centrata sulle pratiche di soggettivazione dei migranti? E un accento troppo marcato sull’autonomia delle pratiche di migrazione rischia di corroborare l’immagine del migrante come nuovo soggetto rivoluzionario? B. Neilson: Non sono sicuro che le strategie di rifiuto e di sottrazione che associate alla resistenza dei migranti “clandestini” possano essere facilmente descritte come strategie di desoggettivazione. Preferisco forse l’altro approccio da voi descritto, per cui queste pratiche implicano soggettivazione. C’è una differenza tra strategie di fuga, scomparsa, cambio di identità, distruzione o falsificazione dei documenti, etc. e la desoggettivazione, che a mio parere determina una perdita dell’io o del sé. A mio parere, queste strategie implicano precise scelte soggettive, anche se sono talvolta, come dite, dettate dalla “presa” del potere. Inoltre, non sono sempre misure temporanee, dato che in molti casi i loro effetti possono durare per anni, se non per tutta la vita. Detto questo, non credo che il processo di soggettivazione sia tra quelli la cui efficacia o le cui conseguenze vadano valutate sulla base della loro durata. Capisco bene che le questioni della flessibilità o della visibilità cui voi fate riferimento siano, in alcuni casi, importanti. Ma non sono a mio agio con una politica migratoria che consideri la visibilità nella sfera pubblica come una condizione sine qua non. Mi sembra che nell’esperienza del migrante clandestino ci sia sempre una tensione tra visibilità e invisibilità e che a volte l’una non escluda l’altra. Si può essere visibili per alcune agenzie governative ed invisibili per altre, legali per alcuni aspetti ed illegali per altri. Questa dinamica è essenziale per le operazioni dell’inclusione differenziale che, occorre ricordare, può avere alcuni effetti di esclusione che sono particolarmente visibili nel caso del migrante clandestino. Mi sembra quindi importante non associare unilateralmente la resistenza dei migranti con la fuga ed il rifiuto, pur riconoscendo che queste sono forme importanti di resistenza. L’attenzione


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per l’aspetto soggettivo delle lotte migranti richiede un approccio analitico ed empirico che sia aperto a queste tensioni e ambivalenze. L’accusa per cui l’accento sulla soggettività migrante equivalga alla ricerca romantica di un nuovo soggetto rivoluzionario mi sembra essere quasi sempre un modo per troncare la discussione. È possibile mantenere un investimento teorico verso la questione della soggettività politica senza spingere i migranti, individualmente o collettivamente, in specifiche posizioni soggettive. Mi sembra quindi importante analizzare in che modo specifiche pratiche e comportamenti migranti si svolgano dentro e fuori diverse posizioni soggettive e categorie della soggettività politica, che siano quelle di cittadinanza, popolo, partigiano o moltitudine. Questo è ciò che richiede l’attenzione alla produzione di soggettività. Nel caso degli studi critici sulle migrazioni, tutto questo dovrebbe essere compatibile con una sensibilità etnografica alle condizioni di vita e alle aspirazioni di particolari migranti. Nell’accusa di romanticizzare c’è qualcosa di più di un’insistenza sul dettaglio etnografico. Questa accusa è spesso associata anche a una posizione teorica che tenta di separare il politico dalla soggettività. In alcune versioni della network theory o della assemblage theory c’è una tale paura di cadere nelle relazioni soggetto-oggetto kantiane che si rinuncia alla categoria di soggettività e la si sostituisce con quella di agente o di attore. Considerare le articolate operazioni migratorie contemporanee e le lotte di confine senza rinunciare all’attenzione alla soggettività mi sembra una sfida teorica importante. Va da sé che questo richiede una certa attenzione ai modi in cui gli aspetti soggettivi della forza lavoro, della personalità legale e della cittadinanza siano sempre più disarticolati nel capitalismo globale. mf: Il governo delle migrazioni si fonda su una knowledge-based governance, in cui la produzione di categorie giuridiche e la relativa partizione delle pratiche di migrazione in differenti profili di mobilità – come quella tra i richiedenti asilo e i migranti economici – giocano un ruolo altamente normativo. In tale contesto, la questione se e come utilizzare il linguaggio esistente per descrivere le migrazioni e le loro categorie epistemologiche diventa chiaramente fondamentale. A differenza di Deleuze, in Foucault la posta in gioco non si risolve nell’inventare nuovi concetti, dal momento che ogni nozione è inserita in una rete di concetti più ampia, o meglio in un regime di veridizione. Lei pensa che uno sguardo critico sulla gover-


196 Brett Neilson namentalità dovrebbe cercare di produrre una contro-narrazione, o che occorra invece forzare e lavorare strategicamente “dentro e contro” queste partizioni normative? B. Neilson: Ho già trattato alcuni aspetti della questione nella mia risposta alla seconda domanda. Per precisare quanto già detto, posso aggiungere che, a mio parere, è necessario evitare le categorizzazioni dominanti della soggettività migrante e, al tempo stesso, di abitarle e disfarle dall’interno. Non possiamo ignorare i potenti effetti soggettivanti di queste categorie e dei regimi ad esse connessi. Quando, nei testi politici, si evita volutamente di far uso di questi termini, immaginando così di fare un passo avanti per farli scomparire dal mondo dei controlli di confine e della migration governance internazionale, c’è in gioco qualcosa di più di un problema di vocabolario. Ma allo stesso tempo, anche la soluzione di mettere questi termini tra virgolette è semplicistica (cosa che peraltro io stesso faccio). Forse dovremmo fare pressione su queste virgolette e chiederci quale tipo di confine stabiliscano, che tipo di pratiche di citazione mettano in atto, che tipo di perpetuazione permettano. Chiunque creda di poter far parte della discussione critica sulle migrazioni evitando questi dilemmi e rischi si prende in giro da solo. Sono un po’ perplesso per il modo in cui descrivete come un aut-aut il contrastare un regime discorsivo normativo e l’unire discorso critico e pratica politica efficace. Sicuramente il lavoro di disfare i concetti dominanti dall’interno e il lavoro di produrre nuovi concetti può e deve essere compatibile, anche se troviamo una distribuzione ineguale di questi compiti nei lavori di Foucault e in quelli di Deleuze e Guattari. Dobbiamo affermare chiaramente che la politica non è solo una proposizione teorica o concettuale. Credo che alcune versioni contemporanee della teoria politica rischino di cadere in una sorta di imperativo narcisistico di produzione e disseminazione di concetti – x usa il mio concetto di y, e così via. A mio parere, i concetti più forti e più utili politicamente tendono ad avere genealogie multiple. Così, quando un’amica come Rada Iveković fa notare a me e Sandro Mezzadra che il concetto di inclusione differenziale che abbiamo provato a sviluppare ha una storia lunga e implicita nel pensiero femminista, lo vedo come un segno positivo e un indizio del fatto che il concetto potrebbe avere applicazioni politiche effettive.


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Allo stesso modo, tuttavia, dobbiamo essere capaci di diffondere i concetti o di vederli in un’ottica storica. Penso, ad esempio, che sia il caso del concetto di “lavoro immateriale” che ha provocato una serie di importanti dibattiti politici nei primi anni novanta e che sembra ora aver perso la propria utilità politica. Il concetto che inventiamo oggi potrebbe essere quello che proviamo a disfare o che dobbiamo disfare domani. È importante ricordarlo per evitare di mantenere una divisone troppo marcata tra questi due compiti. mf: Anche se Foucault non ha mai affrontato (o lo ha fatto solo di sfuggita) la questione degli spazi coloniali, la sua insistenza sulla pluralità di storie e spazi, e la sua critica a un modello storico teleologico, ci forniscono una lente analitica per intraprendere una storia del nostro presente capace di dare conto dell’eterogeneità e della dimensione differenziale dello spazio europeo postcoloniale. Al tempo stesso, le analisi di Foucault sul razzismo pongono la questione della razza in termini di tecnologia politica. A suo avviso, l’approccio di Foucault allo spazio, articolato con le sue riflessioni sulla razza e sul razzismo, costituisce una griglia utile per ripensare le relazioni tra governo delle migrazioni e processi di razzializzazione in Europa, decostruendo lo stesso spazio europeo come il “silenzioso referente di ogni storia”? B. Neilson: Mi sembra che la vostra domanda sia applicabile alla produzione di spazio globale in un senso molto più ampio rispetto allo spazio europeo. Come pensatore che ha operato per vari anni sia all’interno che all’esterno dello spazio europeo, sia in termini di residenza che in termini di cittadinanza formale, ho forse una prospettiva diversa su questa questione, rispetto a coloro per i quali risiedere in Europa è un fatto scontato. Sono stato molto colpito da come, in alcuni paesi dell’Europa occidentale, il razzismo possa essere pubblicamente espresso, rispetto alle usanze discorsive dei paesi anglofoni, per cui questo tipo di espressione è repressa e controllata, almeno al livello rappresentativo. In queste circostanze, faccio ricorso a Bisogna difendere la società e alla tesi del razzismo di Stato. Ricordo almeno due casi recenti. Il primo si è verificato nel 2009, quando sono stato coinvolto in alcune battaglie di studenti stranieri. Nella sfera pubblica, la spiegazione principale per l’esplosione del malcontento degli studenti stranieri era che alcuni di questi


198 Brett Neilson studenti avevano subito violenze nelle strade, nei trasporti pubblici, etc. Ci fu una vera e propria protesta pubblica contro la violenza razzista, incitata dai media indiani (molti degli studenti in protesta venivano dal Punjab) e minimizzata ad ogni costo dai media e dal governo australiano. La discussione venne monopolizzata dalla questione del razzismo, a discapito, a mio parere, delle questioni del lavoro, del regime dei visti, della commercializzazione della formazione universitaria e delle connessioni tra questa e le politiche migratorie e le possibilità di residenza permanente. Venni intervistato da alcuni giornalisti stranieri, tra cui anche uno de Le Monde, che volevano farmi affermare che l’Australia era un paese razzista e non erano affatto interessati ai problemi di immigrazione, controllo dei confini, trasformazione dell’università e lavoro precario che volevo sollevare io. L’altro caso si è verificato in Italia, nel 2011, dopo il brutale assassinio di due senegalesi a Firenze. Il giorno dopo il tragico evento, un amico aveva scritto un articolo che iniziava con la frase: “L’Italia è un paese razzista”. Sia su mailing list che di persona, abbiamo discusso i pro e i contro politici di questa affermazione. La tesi foucaultiana sul razzismo di Stato mi è tornata in mente in entrambe le occasioni, perché mi forniva strumenti per pensare la relazione tra la forma politica dello Stato e il razzismo. Per me quindi la questione non era di sapere se l’Australia e l’Italia fossero paesi razzisti, ma se la forma politica dello Stato moderno faciliti la razzializzazione e la violenza razzista. Chiedersi se l’Italia o l’Australia sono paesi razzisti significa chiedersi se lo sono anche l’India o il Senegal. Ricordo che gli amici si erano domandati se avrebbe potuto essere politicamente utile identificare gradi diversi di razzismo nei vari paesi. Credo che questo sarebbe possibile con un’attenzione rigorosa alle circostanze storiche, ma non mi sembra politicamente utile. Foucault descrive la relazione tra lo Stato e il razzismo nel quadro di una genealogia del biopotere e considera paradigmatico il caso del razzismo nazista. Senza entrare nel merito della sua attenzione alla Germania e delle conseguenze che questa ha rispetto alle molteplici forme di razzismo coloniale, credo sia necessario tenere presente un altro problema: la trasformazione dello Stato nel capitalismo contemporaneo. Da questo punto di vista, bisogna prendere in considerazione le forme più recenti di razzismo che Balibar18 ha descritto come “razzismo senza razza”. É. Balibar, Is There a Neo-Racism?, in É. Balibar e I. Wallerstein, Race, Nation, Class. Ambiguous Identities, Verso, New York 1991, pp. 17-28. 18


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Un’insistenza sulla pluralità delle storie e degli spazi, come voi dite, aiuta ad aprire una prospettiva che può afferrare analiticamente l’emergenza di un tale razzismo nell’eterogeneità dello spazio globale (senza dimenticare il ruolo specifico che gli spazi statali continuano a svolgere). Per me, questo problema si estende oltre quel che chiamate lo spazio europeo post-coloniale. Nel contesto del Tranist Labour Project (http://tranistlabour.asia), che ho condotto con molti altri ricercatori critici, ci siamo trovati a doverci confrontare con questa problematica quando abbiamo studiato le zone economiche speciali di Cina e India. Questi spazi sono calamite per specifiche forme di migrazione interna, sia qualificata che non, ed anche per gli investimenti del capitale globale e per nuove forme di esperimenti infrastrutturali globali. Sono anche spesso luoghi di espropriazione contadine, il che significa che l’analisi delle più recenti forme tecnologiche di capitalismo cognitivo o comunicativo deve essere accompagnata da un’attenzione crescente alle operazioni dell’accumulazione primitiva e alle migrazioni forzate di cui esse hanno bisogno. Non sorprende che anche le dinamiche razziali siano spesso in gioco, ma in questi casi la presenza dello Stato nelle macchinazioni biopolitiche più importanti è indiretta o mediata dai tentativi governamentali di rovesciare gli effetti dell’accumulazione primitiva (proprio perché questa possa continuare). Credo che un’analisi di questo genere sia necessaria anche per lo spazio europeo. Non vedo come tale analisi possa essere condotta senza una comprensione della produzione differenziale o eterogenea di spazio. Questo non significa difendere una comprensione del post-colonialismo come mera proliferazione di pluralità, ma significa fare attenzione alle interazioni di capitale, spazio e lavoro nella continentalizzazione del potere e dell’identità. Una descrizione che resti chiusa nella logica dello Stato è inadeguata, e non solo perché l’Europa è un continente familiare con forme di governance a molteplici livelli, che esistono sia al di sopra che al di sotto dello Stato nazionale. Il livello europeo di governance introdotto con l’Unione europea e con l’emergenza dei policy approches come l’open method of coordination non implica necessariamente il superamento della forma politica dello Stato, ma richiede di lavorare in parallelo con esso. Rispetto alle migrazioni e al controllo dei confini, l’esistenza di un’organizzazione come Frontex fornisce le prove di una tale coordinazione.


200 Brett Neilson Indipendentemente dal modo in cui l’approccio spaziale di Foucault abbia articolato la sua prospettiva sul razzismo, credo che questo approccio (che è stato ora elaborato da molti altri studiosi) fornisca effettivamente una griglia utile per interpretare la relazione tra la migration governance europea e i processi di razzializzazione. Tuttavia, è sempre più necessario tener conto della crisi del Progetto europeo, che è stata annunciata in modi diversi da studiosi come Balibar, Beck e Habermas19. Ci sono quindi motivi sia teorici che di pratica politica per non considerare lo spazio europeo come un “postulato indiscusso”. I modi in cui la crisi globale del capitalismo sta condizionando la disposizione spaziale dell’Europa da una parte, (come ad esempio l’estensione delle sue frontiere esterne e la sua compenetrazione con altri spazi continentali su scala globale) e i modi in cui sta trasformando i modelli migratori dall’altra, mi sembrano questioni che richiedono un’analisi urgente. Le innovazioni teoriche di Foucault forniscono indicazioni importanti, ma in questo caso, come in altri, non sono sufficienti se sono tenute isolate in un universo analitico chiuso. Occorre quindi continuare ad elaborare le idee e i concetti introdotti da Foucault, tenendo presenti i limiti e le circostanze storiche in cui sono stati elaborati e mettendoli alla prova di un’analisi del presente globale. Traduzione dall’inglese di Laura Cremonesi

Brett Neilson University of Western Sydney b.neilson@uws.edu.au

É. Balibar, Europe is a Dead Political Project, in «The Guardian», 25 May 2010; U. Beck, Europe’s Crisis in an Opportunity for Democracy, in «The Guardian», 28 November 2011; J. Habermas, The Crisis of the European Union. A Response, trad. a cura di C. Cronin, Polity Press, Cambridge 2010. 19


Foucault, migrazioni e confini Risposte di William Walters

mf: Michel Foucault non ha mai affrontato il tema delle migrazioni, eccetto in un paio di passaggi, e, come William Walters ha indicato nel suo saggio Foucault and Frontiers. Notes on the Birth of the Humanitarian Border, non si è soffermato sulla funzione dei confini come principali tecnologie politiche della governamentalità contemporanea. Infatti, in Sicurezza, territorio, popolazione le sue analisi sulla circolazione delle merci e delle persone come cardine dell’economia moderna finiscono in secondo piano, nella misura in cui il focus si sposta nettamente sulla produzione e il governo del territorio nazionale. Ciò nonostante, anziché investigare se Foucault abbia affrontato o meno questi temi, oggi possiamo forse mettere al lavoro alcuni degli strumenti concettuali che fanno parte della sua griglia analitica e, in modo più generale, del suo approccio genealogico, per cogliere le poste in gioco politiche del governo della mobilità e della narrazione mainstream sulle migrazioni. Pensa che, a questo proposito, la griglia foucaultiana della governamentalità possa essere utile, più di altri strumenti foucaultiani, o invece rileva che lo spostamento e il focus eclusivo sulla questione del governo possano essere problematici? In effetti, bisogna tenere in considerazione che, se da un lato molti studi critici sulle migrazioni fanno uso delle analisi foucaultiane della governamentalità, mettendo in luce la molteplicità degli attori e dei poteri in gioco all’interno del regime delle migrazioni, dall’altro questo ha finito in parte per corroborare l’idea che i movimenti delle persone debbano essere governati, privando in qualche modo le analisi di Foucault di quella portata critica che invece le caratterizza. W. Walters: Di fatto mi ponete due questioni. Una è: la griglia foucaultiana della governamentalità è più utile di altri strumenti foucaultiani per comprendere ciò che è stato definito il “regime delle migrazioni”? La seconda è: se usiamo questa griglia, corriamo il rischio di consolidare e rafforzare l’idea che i movimenti delle persone debbano essere governati? In questo modo, perdiamo consapevolezza della forza genealogica e critica – e qui materiali foucaultiani, a. II, n. 3, gennaio-giugno 2013, pp. 201-213.


202 William Walters presuppongo che intendiate anche il denaturalizzare e il problematizzare – propria del pensiero di Foucault? Prima di tutto, se studiamo le migrazioni, i confini, la povertà o i movimenti di resistenza, sono sempre più convinto che non dobbiamo tracciare necessariamente rigide distinzioni tra il cosiddetto “governmentality approach” e altri temi, concetti o tendenze che si possono riscontrare nella varia e vasta produzione di Foucault. In effetti, confesso di ravvisare una certa ambivalenza nell’idea che, nel lavoro accademico, si debba pensare in termini di “approccio foucaultiano” a qualunque cosa. Questa affermazione potrebbe suonare inconsistente e perfino ipocrita da parte mia, dato che ho appena pubblicato un libro intitolato Governmentality1. Ciò che intendo è questo: non penso sia particolarmente utile o produttivo trasformare specifici pensatori in pacchetti auto-sufficienti, entrando in contatto con loro come se possedessero tutti gli strumenti, le idee e i metodi necessari per la tua ricerca o la tua politica. Procederei piuttosto secondo l’immagine dei pensatori come nodi, come punti di concentrazione e di assemblaggio, nei molteplici sensi in cui questo si può intendere. Non raccomanderei dunque un “governmentality approach”, se con questo intendiamo generalizzare o universalizzare i temi che Foucault ha abbozzato nelle sue lezioni. Ad esempio, quando Foucault afferma che vi è un “triangolo” che ha sovranità, disciplina e governo come propri vertici, penso che la sua osservazione debba essere contestualizzata. Foucault sembra offrircela come una sorta di correttivo di fronte alla possibile lettura che ci propone di una serie di fasi attraverso le quali passa la storia dello Stato. Invece che sulle fasi, noi dovremmo sintonizzarci sulla compresenza – ciò che Mitchell Dean ha chiamato la «qualità indistinta ed eterogenea del governare»2. Ma alcuni studiosi si approcciano al mondo come se qualsiasi fenomeno o situazione potesse essere risolto in queste tre componenti. Così una lente foucaultiana diventa quasi un filtro: invece di aumentare la percettibilità del mondo, semplicemente ne filtra la complessità e i colori. Ovvero, fornisce una visione monocromatica del potere e delle relazioni di potere. Funziona per analisi ripetitive e prevedibili. Quindi, per tornare alla vostra domanda: concordo con quegli autori che suggeriscono che ad essere il più valido di tutti è l’ethos critico e speW. Walters, Governmentality. Critical Encounters, Routledge, Abingdon 2012. M. Dean, Governing Societies. Political Perspectives on Domestic and International Rule, Open University Press, Maidenhead, p. 91. 1 2


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rimentale di Foucault, così come ogni altro concetto particolare che ci ha trasmesso3. Che cos’è l’ethos critico? Ebbene, secondo me è la pratica di un certo stile di pensiero, è un tipo di analisi dinamica, che si costruisce con una certa cautela, una certa precauzione di fronte alla possibilità della propria sclerosi. Una precauzione basata sulla consapevolezza che il pensiero, come l’acqua, necessita di scanalature se deve effettivamente scorrere. Ma le scanalature possono facilmente trasformasi in grondaie. Non lasciare che le tue scanalature diventino grondaie! Conosciamo tutti quei musicisti che diventano parodie di se stessi, esibendosi sempre nelle stesse canzoni, molto amate ma ormai logore, per un pubblico leale e riconoscente. Se ho scelto il sottotitolo Critical Encounters per il mio libro recente (mentre l’editore ha più o meno determinato il titolo principale basato sulla sua collana) è stato perché ho voluto indicare una forma mobile di approccio al concetto di governamentalità. Ciò comporta riconoscere che un pensiero critico si trova sempre nella condizione di recuperare e rimettersi al passo, sempre in una situazione in cui deve inventare nuovi concetti e riorientare i vecchi. Mi piace l’enfasi che la vostra rivista pone sugli strumenti, così come l’atteggiamento che Paul Rabinow esprime, facendo ricorso alla tradizione del pragmatismo di Dewey e di altri, quando immagina il pensiero critico in termini di attrezzatura4. La mia idea è che ci troviamo in una situazione nella quale dobbiamo acquisire l’attrezzatura appropriata per procedere. La governamentalità è uno strumento determinante per analizzare i regimi delle migrazioni? Sì, certamente, ma forse non da sola. Tutti lo sanno, ma vale la pena ribadirlo. Come molti commentatori hanno notato, si può rintracciare uno spostamento nel lavoro di Foucault da Bisogna difendere la società a Sicurezza, territorio, popolazione. Il primo corso è animato dai temi del conflitto; non proprio temi, ma categorie analitiche, come ad esempio la guerra delle razze. Per varie ragioni, l’intero framework e il tono stesso delle analisi cambiano nel corso successivo. Le riflessioni sulle guerre, sulle lotte sociali, sulla vendetta e sul genocidio lasciano spazio al linguaggio della condotta e ai temi dell’amministrazione, presenti ad esempio nella discussione di Foucault sulla ragione di Stato e anche altrove, ma Cfr. per esempio A. Neal, Rethinking Foucault in International Relations. Promiscuity and Unfaithfulness, in «Global Society», vol. 23 (2009), n. 4, pp. 539-543. 4 P. Rabinow, Anthropos Today. Reflections on Modern Equipment, Princeton University Press, Princeton 2003. 3


204 William Walters visti dall’angolo delle contro-condotte. Vi è certamente uno spostamento significativo. Foucault ha senza dubbio le sue ragioni e le sue motivazioni per effettuare questo spostamento. Non è stato casuale. Tornando sul mio punto relativo ai pericoli che corriamo adottando le armi e i bagagli della governamentalità: significa che dovremmo essere soddisfatti degli aspetti più tecnici e meno cruenti dell’esercizio del potere che la governamentalità inaugura e mette in primo piano? Certo, in molti casi è fondamentale analizzare tutte queste sottili manifestazioni e manovre tecnologiche del potere. Ma tornando al regime delle migrazioni, se guardiamo allo stato delle cose, nel quale certe “zone confine” e borderlands – per prendere solo uno degli aspetti più prominenti del regime delle migrazioni – sono diventate campi dannati di sofferenza e morte, allora la risposta deve essere un deciso no. Tematizzare soltanto l’aspetto tecnico del governo, tematizzare la condotta della condotta, significherebbe obliterare tutti i processi, gli atti, le emozioni, le speranze e le paure che sono in gioco. A questo proposito, una governamentalità ristretta per leggere il regime delle migrazioni correrebbe il rischio che voi menzionate, ovvero di smussare ed annacquare la postura critica. Quindi, per riassumere, governamentalità e regime delle migrazioni: sì. Ma c’è molto in Bisogna difendere la società, così come in altri autori e frameworks, cui oggi dobbiamo attingere. Alcuni ricercatori già lo sanno, e articolano la governamentalità con Agamben e i campi (non sempre felicemente o in maniera soddisfacente, va detto), con Marx e le lotte di classe, e così via. Bene, voglio soltanto presentare le poste in gioco e i temi un po’ più chiaramente. E predicare contro la sistematizzazione di qualcosa chiamato “governamentalità”. mf: Le analisi di Foucault sulle resistenze costituiscono di gran lunga l’elemento della sua scatola degli attrezzi più utile per gli studi critici sulle migrazioni. Tali analisi consentono infatti di considerare le pratiche di migazione non come mere risposte a determinanti economiche, ma piuttosto come movimenti che sommuovono e interrompono l’“ordine della mobilità”. Come è noto, secondo Foucault non possono esservi relazioni di potere senza resistenze, e queste ultime non sono semplicemente una reazione o una sottrazione rispetto all’esercizio del potere, dal momento che la tecnologia governamentale si trova a dover costantemente riorganizzare la propria strategia di fronte a pratiche, movimenti e corpi: anziché supporre che vi siano, da un lato, le resistenze e, dall’altro, il potere,


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dovremmo situare le relazioni di potere all’interno delle lotte e vedere il potere come nient’altro che un’istantanea di lotte molteplici e di continue trasformazioni. Inoltre, una prospettiva foucaultiana sulle migrazioni ci permette di spostare l’attenzione dalle rivendicazioni di diritti alla matierialità delle lotte dei migranti e a linguaggi che molto spesso non possono indirizzarsi alla sfera della legge, né essere situati all’interno della cornice della cittadinanza. Tuttavia, al tempo stesso, non bisogna sovrastimare l’autonomia di queste pratiche, né trascurare la violenza delle tecniche di confinamento e l’estrema difficoltà, per i migranti, di negoziare spazi di manovra e agire quelle che Federica Sossi ha definito “strategie di esistenza”. In che modo le lotte dei migranti possono interferire, interagire e comporsi con con altre lotte sociali senza perdere la propria specificità? Non dovremmo forse evitare di ricodificarle attraverso il linguaggio politico tradizionale, al fine di non indebolire la loro forza di perturbazione? Ciò che vorremmo provare a suggerire è che (alcune) pratiche e lotte dei migranti hanno la peculiarità di indirizzarsi a questioni molto specifiche e, al tempo stesso, mettono radicalmente in discussione il paradigma governamentale in quanto tale. Ovvero, partendo da rivendicazioni e strategie ben determinate, esse destabilizzano i meccanismi di partizione e di creazione di “profili di mobilità”. W. Walters: Focalizzerò la mia risposta su una parte della vostra domanda, parafrasandola solo leggermente. Voi domandate se non dovremmo stare attenti a ricodificare le lotte dei migranti nel linguaggio politico tradizionale, perché rischieremmo di perdere di vista la loro forza di disturbo e di interruzione. Penso che sia assolutamente essenziale, quando agiamo come ricercatori, attenersi il più possibile al linguaggio, al gergo, ma anche allo spirito delle lotte specifiche. Il che non è per niente facile. C’è un’arte del vedere, dello scrivere e dell’ascoltare; e come tutte le arti, anche questa richiede pratica. Può sembrare un po’ paternalistico, e anche profittatore, registrare le lotte dei migranti – o di qualunque altro gruppo di persone – solo al fine di includerle in un framework di rappresentazioni interamente costruito da noi; un framework del tutto estraneo alle loro passioni, alle loro espressioni e al loro ethos. Ciò significa forse che, in quanto intellettuali e ricercatori, non dovremmo offrire interpretazioni delle lotte che differiscano, eccedano o si muovano obliquamente rispetto al linguaggio e alle interpretazioni offerte


206 William Walters dagli stessi soggetti che lottano? Significa forse suggerire che dovrebbe esserci un perfetto allineamento, e che se, ad esempio, i migranti non descrivono se stessi come impegnati in una lotta per la cittadinanza di qualche tipo, o una lotta di qualsiasi tipo, allora nemmeno noi dovremmo? Non sto suggerendo questo. Ma penso che dovremmo procedere molto cautamente. Rispetto al tema della cittadinanza, Barry Hindess ha sostenuto, a mio avviso in maniera molto convincente, che sia necessario assumere una prospettiva “circostanziale”5. Generalmente, possiamo assumere una visione positiva della cittadinanza perché la associamo, tra le altre cose, allo status che permette di godere di certi diritti e privilegi. Al tempo stesso, dovremmo riconoscere che, nella storia, ci sono state circostanze nelle quali le persone hanno preferito un modo di vita che non fosse centrato su questo status, su questa istituzione. Hindess offre esempi tratti dall’Antichità, ma anche certi casi in cui, oggi, le popolazioni locali degli Stati occidentali preferiscono il proprio modo di vita a quello codificato dalla cittadinanza. Hindess ci offre ciò che definirei una visione disincantata della cittadinanza, che implica di non condannarla né sostenerla in maniera incondizionata, e certamente di non adorarla. Il punto generale più importante, qui, è la necessità di prestare attenzione alla logica, alle strategie e alle specificità delle lotte. Ovviamente, dobbiamo portare i nostri strumenti teorici con noi per cimentarci nell’analisi di queste lotte. Ma portare i nostri strumenti sulla scena delle lotte dovrebbe essere fatto in modo riflessivo e aperto a una costante auto-verifica. Sono il primo a trovare attraente la nozione di “incontro”. Ma per me il termine “incontro” implica un certo tipo di incontro, forse un incontro inatteso nel quale vi sia possibilità, per entrambe le parti, di essere alterate come conseguenza dell’incontro stesso. Forse tutto questo è solo senso comune nella ricerca politica, e tuttavia penso valga la pena insistervi. mf: Molti studi sulle migrazioni, e in particolare sui rifugiati, si riferiscono al paradigma del campo per come è analizzato e descritto da Giorgio Agamben, sottolineando la centralità del potere di sovranità nel governo delle migrazioni. Le analisi di Agamben, negli ultimi quindici anni, sono state anche utilizzate da molti attivisti per denunciare l’esistenza e il funzionamento dei centri di detenzione. Un approccio foucaultiano B. Hindess, Citizenship for All, in «Citizenship Studies», vol. 8 (2004), n. 3, pp. 305-315. 5


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comporta, a nostro avviso, uno sguardo per certi aspetti differente, che non si focalizzi esclusivamente sulle istituzioni o sulle istanze decisionali, e che non consideri i migranti come soggetti ridotti a nuda vita. Tuttavia, i Governmentality Studies tendono a dare particolare attenzione agli attori non statali, offuscando in un certo senso il ruolo ancora rilevante degli Stati nel governo delle frontiere, e anche nel mettere in scena ciò che Nicholas De Genova definisce “lo spettacolo del confine”. In che misura, nel suo lavoro, questi due aspetti – sovranità e governamentalità – vengono articolati? E, per quanto riguarda l’attivismo nell’ambito delle migrazioni, ritiene che oggi uno sguardo foucaltiano possa suggerire o fornire “strumenti” di azione appropriati? W. Walters: Voi suggerite che analizzare le politiche migratorie in termini di governamentalità ha finito per enfatizzare la dimensione transnazionale nella comprensione dell’esercizio del potere, mascherando al contempo la funzione ancora rilevante degli Stati nel governo dei confini e tralasciando ciò che De Genova chiama lo “spettacolo del confine”. Concordo nella misura in cui ritengo che il ruolo dello Stato non sia stato adeguatamente esplorato in questi studi. Certamente la ricerca si è rivelata efficace nello spiegare il governo delle frontiere e le migrazioni più in generale, mettendo in campo non solo le tecniche e i giochi che possiamo associare al liberalismo, ma anche le forme di potere disciplinare e sovrano. Il potere sovrano, in particolare, è stato messo in luce nelle ricerche che considerano gli aspetti decisionisti, il potere delle eccezioni (e qui, come potete notare, il tema agambeniano del campo è centrale), o il modo in cui lo spazio della frontiera è diventato sempre più una zona in cui la politica è completamente imbrigliata con le questioni della vita e della morte. Ma interessarsi al potere sovrano non è lo stesso che fare i conti con lo Stato. Le due cose sono collegate, ma analiticamente distinguibili. Direi che vi sono almeno due modi in cui, con lo spostamento verso la governamentalità, lo Stato è venuto meno negli studi sulle migrazioni. Prima di tutto, non vi è ancora una considerazione adeguata del fatto che le politiche migratorie non sono semplicemente un insieme di strumenti esercitati dagli Stati, ma possono invece essere comprese anche come un campo di programmi, progetti e tecnologie, nel quale certi effetti di Stato vengono prodotti su base continua. Gli Stati non stanno semplicemente dietro le politiche e i programmi, maneggiandoli come un direttore d’or-


208 William Walters chestra maneggia la propria bacchetta. Maneggiare la bacchetta trasforma colui che la agita in un direttore d’orchestra. Certo, egli ha bisogno di un’orchestra e di un pubblico. Ma questo è il punto: considerare le condizioni in cui “lo Stato” in quanto tale viene prodotto attraverso pratiche iterative. Si pensi, ad esempio, al mondo associato al termine piuttosto benigno di “migration management”. Non si tratta soltanto di esperti internazionali che viaggiano nei cosiddetti “Stati di transito” e “Stati di origine”, allo scopo di allenare le guardie dei confini di quegli Stati, incoraggiando i loro ministri ad adottare strumenti biometrici e database dell’ultima generazione, oppure organizzando attività di collegamento e di gemellaggio in modo che la polizia locale e gli ufficiali di dogana trascorrano un po’ di tempo in Europa, in Canada e altrove, imparando dai professionisti. È certo tutto questo, ma anche di più. È di più perché rappresenta un regime in cui è in gioco la formazione dello Stato. Siamo abituati all’idea che i cosiddetti sforzi di “ricostruzione” – che hanno come obiettivo la polizia, il sistema di giustizia, il venerato terreno della società civile o l’agenzia delle entrate dei cosiddetti “Stati falliti” – costituiscano un esercizio di statebuilding, poiché, naturalmente, sono etichettati in questo modo. Ma lo stesso vale anche per il regime delle migrazioni e i suoi programmi affini. Tutti questi programmi hanno l’effetto di rifare – o, più accuratamente, di provare a rifare, in quanto raramente raggiungono ciò che vorrebbero ottenere – che cosa è uno Stato, che cosa ci si attende che faccia, e cosa non dovrebbe fare nei confronti della propria popolazione e delle popolazioni degli altri Stati. Richiamando ciò che ho detto a proposito della natura circostanziale della cittadinanza, che cosa è uno Stato e come dovrebbe agire possono anche essere visti in maniera circostanziale. Ci potrebbero essere buone ragioni che spiegano perché alcuni governi, in Africa, non sono stati particolarmente interessati a governare le proprie frontiere o a raccogliere i dati e le identità dei propri cittadini in grandi database. Ma poi arriva l’Unione europea, e arrivano i nuovi missionari di Icao, Oim e Frontex, che non solo predicano il vangelo della riforma con un certo zelo, ma mobilitano anche tutto un set di “bastoni e carote” nella speranza che i loro fedeli si convertano e diventino Stati secondo il modello che oggi abbiamo di cosa è uno Stato. (Forse qualcuno dovrebbe scrivere la teologia politica del migration management!) Il secondo modo in cui lo Stato viene meno nei Governmentality Studies delle politiche migratorie è in quanto asse di comparazione. È una carat-


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teristica specifica di questo tipo di lavori l’operare quasi sempre attraverso singoli casi o riferendosi all’esperienza. È molto raro che i ricercatori esplorino le differenze tra Stati, città e altri ordinamenti politici. Perché questo oblio della dimensione comparativa? Dopo tutto, se l’obiettivo è denaturalizzare, la comparazione può essere uno strumento metodologico molto efficace. Chiunque viaggi un po’ lo sa. Il modo in cui si beve il caffè in Nord America – in enormi tazze isolate, mentre le persone camminano o viaggiano, sempre in movimento – è molto diverso dal modo in cui si beve in Italia o in Francia. L’articolazione differenziale delle pratiche culturali è rivelata attraverso la comparazione: fanno le cose diversamente laggiù! Quindi, penso che un approccio più comparativo alla governamentalità delle migrazioni – e anche alla governamentalità di molte altre esperienze – sia molto importante. Ciò non significa che dovremmo diventare come quei comparatisti molto positivisti che popolano le riviste di scienze politiche, rivendicando la comparazione come il manto del metodo scientifico duro. Tuttavia, lo studio comparativo delle migrazioni e della cittadinanza da parte degli scienziati e dei sociologi della politica è una fonte preziosa, e vi è molto da apprendere da esso, a prescindere dalle nostre convinzioni teoriche. mf: Il governo delle migrazioni si fonda su una knowledge-based governance, in cui la produzione di categorie giuridiche e la relativa partizione delle pratiche di migrazione in differenti profili di mobilità – come quella tra i richiedenti asilo e i migranti economici – giocano un ruolo altamente normativo. In tale contesto, la questione se e come utilizzare il linguaggio esistente per descrivere le migrazioni e le loro categorie epistemologiche diventa chiaramente fondamentale. A differenza di Deleuze, in Foucault la posta in gioco non si risolve nell’inventare nuovi concetti, dal momento che ogni nozione è inserita in una rete di concetti più ampia, o meglio in un regime di veridizione. Lei pensa che uno sguardo critico sulla governamentalità dovrebbe cercare di produrre una contro-narrazione, o che occorra invece forzare e lavorare strategicamente “dentro e contro” queste partizioni normative? W. Walters: Voi suggerite che nel lavoro di Foucault l’intervento di nuovi concetti non abbia la stessa importanza che in Deleuze. Sono d’accordo che, in Foucault, non si fa esperienza di quella vertiginosa moltiplicazione


210 William Walters di concetti e di quella stratificazione di piani di analisi che si incontrano invece in un libro come Mille piani. Detto questo, penso che la produzione di nuovi concetti occupi un posto strategico e vitale nel lavoro di Foucault. Sembra infatti che molti dei suoi progetti importanti raggiungano la propria forza critica con la creazione di neologismi, che non rimpiazzano i termini esistenti, ma li decentrano, permettendoci di cogliere dall’esterno i regimi di sapere/potere. Così, Foucault non ci fornisce un’altra storia, e certamente non una teoria dello Stato, ma una storia della governamentalità; non semplicemente uno studio delle politiche della salute, dell’igiene e della riproduzione, ma l’identificazione di un intero mondo di biopolitica. Oppure, quando non crea mondi interamente nuovi, Foucault prende concetti arcaici, da tempo dimenticati, e li fa rivivere, distendendoli e riorientandoli – come fa, in contesti tra loro differenti, con la polizei delle città e delle regioni della prima modernità, con la lunga storia del potere pastorale (che è stata invece dimenticata dai teorici dello Stato moderno), e con l’esplorazione della parrhesia come modo di dire il vero nelle società antiche. In che modo queste osservazioni sul lavoro di concettualizzazione di Foucault sono rilevanti quando passiamo all’analisi delle migrazioni contemporanee? Come voi giustamente notate, la politica e il governo delle migrazioni sono oggi intensivamente ordinati da tutti i tipi di categorie giuridiche e di distinzioni normative – migranti qualificati e non qualificati, rifugiati “bona fide” e “finti” richiedenti asilo, migranti legali e illegali. Un impegno critico rispetto a questo campo dovrebbe forse aggirare attentamente questi concetti? Rischiamo forse di concedere ulteriore durevolezza ai mondi che espressioni come “immigrazione illegale” evocano, perfino quando assumiamo un approccio critico nei loro confronti? E se tutto questo è vero, la sfida principale non sarebbe allora quella di produrre concetti e perfino interi linguaggi che ci permettano di condurre un’analisi secondo un nuovo registro – sia esso in termini di moltitudine, di migrazioni autonome, di cittadinanze insorgenti e agite e così via? La vera sfida non consiste forse nell’introdurre nuove parole nel mondo, anche se corriamo il rischio che un pubblico più ampio possa confondersi o perfino rifiutarle a causa della loro stranezza? O non vi è altra scelta se non lavorare attraverso questi concetti ufficiali e queste nozioni quotidiane, denaturalizzando la loro ovvietà, perturbando la loro oggettività, le loro nette distinzioni e i loro confini ordinati? È precisamente la genealogia di quello che ci è dato, la genealogia del migrante illegale, che dobbiamo scrivere?


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In realtà, ho creato qui una falsa scelta, funzionale – spero – a chiarire alcune questioni. Non si tratta di opporre la denaturalizzazione delle categorie dominanti all’invenzione di nuove griglie analitiche. Si tratta piuttosto di fare entrambe le cose, simultaneamente. Dobbiamo farlo. Dobbiamo far fronte ai concetti che ordinano il mondo, anche soltanto per rifiutarli esplicitamente, così come dobbiamo creare nuovi termini per soggetti, pratiche ed esperienze che esistono in maniera palpabile, ma sono sprovvisti di un nome proprio o di un punto di contatto. E penso che l’equilibrio esatto sia sempre una questione di prove ed errori, e che molto dipenda dal contesto. Vorrei aggiungere a questa osservazione – e qui sto parlando in quanto accademico, e non come attivista politico – che chi tra noi è interessato a stabilire connessioni tra le migrazioni e i progetti critici, spesso identificati come Governmentality studies o “studi foucaultiani”, non dovrebbe impegnarsi in un’operazione di applicazione, ma in una di incontro. L’interazione dovrebbe avere luogo in base alla consapevolezza che la parte della “teoria” non gode del lusso di possedere in anticipo tutti gli strumenti dei quali ha bisogno. Al contrario, la scatola degli attrezzi della teoria è spesso messa all’opera in luoghi e contesti in cui scopriamo che alcuni degli strumenti di cui abbiamo bisogno sono usurati, o di misura sbagliata, o semplicemente mancanti. Sto qui reiterando un punto che ho introdotto nella mia prima risposta, e un tema sviluppato nel mio recente libro: non diversamente dalla biotecnologia, le migrazioni oggi sono una questione di worldmaking – di produzione del mondo –, prendendo in prestito un termine importante di Nelson Goodman6. A differenza della biotecnologia, le migrazioni non possono essere un campo nel quale in gioco vi siano nuove forme di vita biologica. Ma nuove forme di vita culturale, politica e sociale, e nuovi mondi – questi sì, sono certamente in gioco. I tipi di confine che vengono creati, le identità personali che sono registrate e verificate dai sistemi biometrici, i tipi di viaggio che vengono tentati combinando insieme veicoli, terreni, navigazione, passeggeri ed equipaggio in inusuali miscugli, le forme di status giuridico che vengono legiferate dalle élites politiche, le forme di solidarietà, di abiezione, di pubblicità e le proteste inventate in mezzo a tutto questo, le autorità e gli esperti convocati – tutto ciò è nuovo. Mentre si possono ovviamente trovare precedenti nella storia delle migrazioni, della cittadinanza e dell’anti-cittadinanza, noi 6

N. Goodman, Ways of Worldmaking, Hackett, Indianapolis 1978.


212 William Walters siamo sicuramente sul punto di entrare in un nuovo territorio, e di farlo senza mappe adeguate. Ma dire che nuove esperienze si stanno verificando, che nuove forme sociali e politiche sono oggi fabbricate e che nuovi mondi delle migrazioni stanno emergendo, non significa suggerire che questi territori, norme, identità, luoghi, soggetti e autorità, si collegheranno e si compatteranno intorno a qualcosa che durerà nel tempo. So che il termine “assemblaggio” è diventato piuttosto di moda tra i teorici, e che, come le banconote prodotte in sovrabbondanza, vi è il rischio che il suo valore analitico venga degradato. Tuttavia, Paul Rabinow ha proposto una definizione abbastanza specifica di assemblaggio, che funziona distinguendosi dalle matrici di potere più durature designate come “apparato” (dispositif). Rabinow considera l’assemblaggio come «un tipo caratteristico di matrice sperimentale costituita da elementi eterogenei, tecniche e concetti. […] Questi sono comparativamente evanescenti, e spariscono negli anni o nei decenni piuttosto che nei secoli»7. Come tutti sappiamo, ad eccezione delle sue lezioni sui neo- e gli ordo-liberali, Foucault si è astenuto, nei propri principali progetti di ricerca, dal rivolgersi direttamente alla storia contemporanea. Il ventesimo secolo era per lui un’area nella quale non avventurarsi. Questo gli ha procurato alcuni vantaggi, come per esempio poter discernere prontamente quali strutture, quali forme ed esperienze fossero durevoli, e quali evanescenti ed effimere, maggiori e minori. Quando, oggi, focalizziamo la nostra attenzione su forme contemporanee e su eventi come le migrazioni, non possiamo farlo con il beneficio di uno sguardo retrospettivo. Dobbiamo stare attenti a non fare di ciò che è mutevole e forse effimero qualcosa di più permanente e importante di quello che è realmente. Dunque, non è soltanto questione di rispondere alla domanda che Deleuze, e più recentemente Agamben, hanno posto – “che cos’è un dispositivo?” –; è anche importante domandare: che cosa non è un dispositivo? Una sfida per i ricercatori consiste nel rendere comprensibile gli strani, e per certi aspetti terrificanti, nuovi mondi delle migrazioni senza reificarli, evitando di renderli più solidi e impermeabili all’intervento di quanto propriamente non siano. L’idea che le strutture di potere con le quali pare che oggi dobbiamo confrontarci possano non essere così permanenti o “strutturali” contiene forse un elemento di speranza. Walter Benjamin riporta una conversazione 7

P. Rabinow, Anthropos Today, cit., p. 56.


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che Kafka ha avuto con l’amico Max Brod riguardo allo stato dell’Europa e al declino della razza umana. Quando Brod gli chiede se vi sia qualche speranza al di fuori del mondo come noi lo conosciamo, Kafka replica, sorridendo, che vi è «molta speranza, un’infinita quantità di speranza, ma non per noi»8. Quindi, per chi c’è speranza? Secondo Benjamin, la speranza è per quelle figure “estremamente strane” che, nell’opera di Kafka, sono chiamate “assistenti”, o “messaggeri” che esistono in uno “stato incompiuto”, e che vivono né come “membri”, né come “stranieri” rispetto a tutti gli altri gruppi. Speriamo dunque tutti negli assistenti, coloro che si associano in modo diverso! Traduzione dall’inglese di Martina Tazzioli

William Walters Carleton University william.walters@carleton.ca

W. Benjamin, Franz Kafka. On the Tenth Anniversary of his Death, in H. Arendt (a cura di), Illuminations, Schocken, New York 1968, p. 116. 8


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