materiali foucaultiani I,2

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anno I, numero 2 luglio-dicembre 2012 ISSN 2239-5962


materiali foucaultiani peer reviewed

DIREZIONE & REDAZIONE

Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli

COMITATO SCIENTIFICO

Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert, Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot, Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis, Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti, Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer, Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala, Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière, Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, William Walters, Robert J.C. Young

Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.

© 2012 mf/materiali foucaultiani www.materialifoucaultiani.org e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org

ISSN 2239-5962 Grafica e impaginazione | Daniele Lorenzini Immagine in copertina | progettazione . Orazio Irrera realizzazione . Valeria Farinella


materiali foucaultiani ANNO I, NUMERO 2

LUGLIO-DICEMBRE 2012

SOMMARIO 3 L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli Un’immagine ci teneva prigionieri

Genealogie della razza e dei razzismi 11 L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli Introduzione 19 Ann Laura Stoler Una lettura coloniale di Foucault. Corpi borghesi e sé razziali 49 Matthieu Renault La confessione (anti)coloniale. Razza e verità nelle colonie: Fanon dopo Foucault 69 Glenda Garelli Protezione dislocata. Razzializzazioni e contro-condotte della vulnerabilità per i richiedenti asilo provenienti dalla Libia in guerra 83 John Iliopoulos Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 107

Jonathan Xavier Inda For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita

Interviste 137 Michel Foucault Il potere, i valori morali e l’intellettuale. Un’intervista con Michel Foucault 145 Daniel Defert Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault

Saggi 159 Silvia Chiletti Retenons donc nos larmes. Riletture e polemiche intorno alla conferenza Che cos’è un autore? di Michel Foucault 179 Caterina Croce Dissidenza e stile d’esistenza. La prospettiva della cura tra Jan Patočka e Michel Foucault 205

Marco Malandra Michel Foucault e le immagini. Tre contributi per un’archeologia del figurativo


Un’immagine ci teneva prigionieri di Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


No, no, non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo. Michel Foucault Si crede di stare continuamente seguendo la natura, e in realtà non si seguono che i contorni della forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio e questo sembrava ripetercela inesorabilmente. Ludwig Wittgenstein

Quando abbiamo provato, quasi per scherzo, a sovrapporre alcune fotografie di Michel Foucault alle immagini di una rubrica contenente i rilievi antropometrici effettuati dal criminologo francese Alphonse Bertillon, fondatore del primo laboratorio di identificazione criminale e padre dell’antropometria giudiziaria, siamo stati colti da una risata improvvisa e forse rivelatrice. Alphonse Bertillon era il nipote di quell’Achille Guillard che, nel 1855, in Éléments de statistique humaine ou Démographie comparée, coniò la parola “demografia”, nonché il figlio di Louis-Adolphe Bertillon, anch’egli demografo, statistico, medico e antropologo. Era infine il fratello di Jacques Bertillon, un medico che si occupò di statistica umana, attivo esponente della propaganda “natalista” e autore di studi importanti sulla classificazione delle cause di morte nella Francia della seconda metà del diciannovesimo secolo. Questi ultimi, il padre e il fratello di Alphonse Bertillon, furono entrambi, tra l’altro, responsabili del servizio di statistica municipale di Parigi. Ma sono Alphonse e le sue perizie che ritroviamo in alcuni importanti eventi a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo: dall’identificazione – cui seguì l’arresto e la condanna a morte – del noto anarchico Ravachol (1890), all’acceso dibattito sulla perizia grafologica nell’affaire Dreyfus (iniziato nel 1894), ove le posizioni antisemite di Bertillon si intrecciarono con le procedure “scientifiche” di misurazione e comparazione, secondo un regime di veridizione che era chiamato a rendere intelligibile un presunto atto criminale al fine di poterlo poi collocare all’interno di un procedimento giudiziario. Alphonse Bertillon, in quegli stessi anni, era in contatto anche con Francis Galton, colui che impiegò per la prima volta il termine “eugenetica” e che, in occasione di una visita al laboratorio di Bertillon, nel 1893, si sottopose personalmente alle sue misurazioni antropometriche. materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 3-9.


4 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli Dietro la galleria di volti misurati e schedati con la tecnica del Bertillonage (così chiamata in onore del suo inventore) appare dunque in filigrana questo significativo ritratto di famiglia e, con esso, tutta una serie di saperi e di tecnologie che miravano a oggettivare, controllare e governare gli individui e le loro condotte, considerandoli sia singolarmente sia nel loro insieme. Veniva così portato avanti un progetto di ortopedia sociale e di “normalizzazione” che si appoggiava sul massiccio dispiegamento di dispositivi di sicurezza, secondo una strategia nella quale riconosciamo ancora, nonostante siano intervenute numerose e importanti riconfigurazioni, uno dei tratti caratteristici della nostra società globalizzata. Perché la sovrapposizione delle fotografie di Foucault ai volti schedati da Bertillon ha suscitato in noi una reazione di ilarità tanto intensa? Forse perché quel continuum iconografico, così come le tecnologie governamentali che lo avevano generato a partire dall’ossessione della misura, dell’identificazione e dell’oggettivazione propria delle scienze umane, risultavano in qualche modo interrotti e parodiati dall’immagine di chi non ha mai cessato di indicare nell’articolazione tra epistemologia e politica il luogo di emergenza di un antropologismo di cui si sarebbe potuto e si potrebbe più felicemente fare a meno… In effetti, utilizzare l’effige di Foucault come doppio parodico del portrait parlé di Bertillon sembra rinviare, da una parte, a una messa a distanza critica di tipo storico-epistemologico e, dall’altra, all’esigenza politica di introdurre incessantemente uno scarto nel nostro modo di pensare e di agire dinanzi sia alle rinnovate strategie di identificazione e di oggettivazione che innervano il nostro presente, sia alle forme attraverso le quali concepiamo la nostra esistenza individuale e collettiva. Ma l’ironia iconografica di cui queste immagini sono portatrici opera forse anche in un’altra direzione. Inscrivere la sagoma di Foucault entro contorni così ansiosamente ritagliati da una volontà di verità che pretendeva di fissare scientificamente l’identità degli individui, ci ha fatto riflettere su come tutti gli studiosi che si occupano di Foucault, e noi con loro, si trovino in qualche modo intrappolati in una dinamica, senz’altro più circoscritta, ma tutto sommato analoga. Non dobbiamo in fondo anche noi fare i conti con una serie di immagini di Foucault che sono l’esito di uno sforzo di oggettivazione, di identificazione, e di cui sarebbe dunque utile studiare le regole in base alle quali si sono formate, si sono affermate e circolano più o meno diffusamente? Quali sono le condizioni


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che permettono, oggi, a uno studioso o a un semplice lettore di Foucault di accettare, respingere o creare certe immagini e gli enunciati che le compongono? Di fronte alla proliferazione discorsiva di cui Foucault è oggetto ormai da diversi decenni, non occorrerebbe forse impegnarsi in un’analisi foucaultiana del discorso su Foucault? Una simile impresa non è certo agevole, né è questa la sede adatta per cimentarsi con essa. Ci accontenteremo allora di svolgere alcune considerazioni preliminari su che cosa può significare “usare” Foucault, o “fare un uso” di Foucault. Queste espressioni racchiudono implicitamente una molteplicità di strategie e di finalità interpretative che poggiano su un’ampia gamma di supporti e di contesti non discorsivi, talvolta istituzionali, talvolta no. Una delle forme di uso di Foucault che è possibile reperire al loro interno è il rapido riferimento bibliografico che non sembra incidere né sull’impianto metodologico né su quello tematico, riferimento quindi molto spesso accessorio, ma che talvolta può suggerire accostamenti e linee di ricerca inediti e tutti da sviluppare. Altre volte, forse in modo un po’ improprio, ma non meno effettivo, si dice che faccia uso di Foucault chi si occupa, direttamente o indirettamente, dei suoi stessi oggetti di ricerca, senza però essere troppo condizionato dalla sua pratica metodologica. In questi casi, ciò che Foucault ha detto diviene spesso un riferimento imprescindibile per la ricostruzione complessiva del discorso intorno a questo o quell’oggetto di analisi. Altre forme di uso, invece, impiegano nozioni e strategie di analisi mutuate esplicitamente da Foucault per applicarle a temi, epoche e contesti discorsivi cui Foucault ha solo accennato, o che non ha mai direttamente trattato. Tale quadro comprende al suo interno tutto un ventaglio di pratiche teoriche: vi si può ad esempio riscontrare un uso abbastanza “rigido” di alcune categorie foucaultiane, senza però che questo faccia nascere il bisogno di problematizzare la differenza tra gli strumenti concettuali adottati e gli oggetti dell’analisi. La giustificazione di un’applicazione pura e semplice degli strumenti foucaultiani è fornita direttamente da ciò che di nuovo o di originale può emergere da tale prospettiva interpretativa, per quanto meccanica una simile operazione possa inizialmente apparire. Un’altra forma di uso, vicina a questa, consiste nell’impiegare un concetto foucaultiano non assumendolo tel quel, nella sua originaria operatività riscontrabile (anche se non sempre determinabile in modo univoco)


6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli all’interno del corpus foucaultiano, ma estendendone o generalizzandone la portata, e mettendo così tale nozione in relazione con problemi teorici, costellazioni concettuali e orizzonti tematici o storici talvolta molto lontani da quelli di cui Foucault si è occupato. Questa modalità di uso presuppone un campo di problematizzazione quasi sempre abbastanza diverso da quello foucaultiano; perciò la differente operatività di un concetto così impiegato non dovrebbe essere vista ipso facto come una forzatura, come un’interpretazione “scorretta” o poco ortodossa della lezione foucaultiana, a meno di voler sostenere che un concetto può essere legittimamente utilizzato solo come lo ha fatto colui che lo ha pensato o che lo ha utilizzato per primo. In tale forma di uso, tuttavia, non è in gioco alcuna lettura o interpretazione di Foucault. Del resto, l’uso di un concetto non è validabile soltanto e necessariamente entro le coordinate storico-teoriche in cui esso è emerso. Se l’impiego di un concetto foucaultiano al di fuori del suo campo di problematizzazione originario appare insoddisfacente, con ogni probabilità ciò non è dovuto alla mancanza di conformità con l’uso foucaultiano, quanto piuttosto alle peculiarità storiche e teoriche del nuovo campo di problematizzazione, salvo dichiarare esplicitamente di voler restare all’interno del medesimo orizzonte di Foucault per problematizzarlo a sua volta. Quest’ultima possibilità rimanda a un’ulteriore forma di uso, in forza della quale lo “strumentario” foucaultiano, inteso nel senso più ampio possibile come insieme di nozioni, di strategie di analisi e di forme di periodizzazione, viene mobilitato non tanto per confermare l’impianto teorico, metodologico o storiografico iniziale, né per ritagliare un campo di problematizzazione diverso da quello di Foucault. Si tratta piuttosto di “testare” questi materiali foucaultiani applicandoli a oggetti diversi da quelli di cui si è occupato Foucault, al fine di verificare la possibilità di un duplice spostamento. In primo luogo, spostamento rispetto alla stessa boîte à outils foucaultiana, nella misura in cui l’obiettivo è comprendere se questi strumenti possano funzionare, senza bisogno di essere ridiscussi e trasformati, anche oltre i limiti tematici e storiografici posti da Foucault, e quindi se il loro campo di applicazione possa essere implementato o se invece debba essere circoscritto. In secondo luogo, spostamento anche rispetto all’oggetto, nella misura in cui tanto l’applicazione di una griglia di intelligibilità foucaultiana, quanto un suo eventuale affinamento, derivante dal lavoro di rielaborazione degli strumenti


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offerti dalla boîte à outils di Foucault, possono far apparire oggetti diversi da quelli inizialmente considerati. Vi sono infine usi politici di Foucault, il cui obiettivo non è (o almeno non è direttamente) implementare un’analisi condotta da una prospettiva epistemologica, governamentale o etica, ma disegnare all’interno dell’attualità in cui si vive un campo, un contesto, un dominio da problematizzare. Anche solo a partire da uno slogan, da uno striscione di protesta, o da una ricezione parziale dell’opera di Foucault, questi usi apparentemente “minimalisti”, che spesso intersecano le modalità della performance artistica, segnano le linee incerte di un campo di problematizzazione possibile entro cui, ad esempio, la volontà di non essere governati in questa o quella maniera, di rifiutare questa o quella oggettivazione, può marcare il punto d’avvio di una molteplicità di genealogie non tracciate da Foucault, ma che possono essere intraprese a partire dalle sue analisi e dagli strumenti concettuali che egli ha forgiato. Considerare queste diverse forme di uso di Foucault come l’esito di un atteggiamento che riconoscerebbe nell’opera foucaultiana una sorta di Bibbia in grado di insegnare ai propri “fedeli” come resistere o combattere il potere, significherebbe perdere di vista (o ignorare deliberatamente) una posta in gioco cruciale: l’attuale complessità e problematicità dell’articolazione tra la scena politica e la scena della produzione di sapere, che gli effetti dell’opera di Foucault attraversano sagittalmente. Non cogliere questa articolazione significherebbe, in fondo, impedire il prodursi di quello stupore che, misto a un velo di soddisfazione, anche Foucault ha provato, per esempio dinanzi al fatto che molti carcerati, a un certo punto, si siano messi a leggere Sorvegliare e punire… Naturalmente, se talvolta è possibile reperire queste forme di uso tali e quali le abbiamo sommariamente descritte, più spesso esse appaiono intrecciate secondo una grande varietà di trame. Nondimeno, quello che ci sembra importante sottolineare è come molte di esse vengano talvolta considerate “esterne” e, per questa ragione, gerarchicamente subordinate a usi per l’appunto più “interni” dell’opera foucaultiana. Il sottinteso, nella maggior parte dei casi implicito, ma non per questo meno operativo, è che ogni uso “esterno” di Foucault sia viziato da un’ingenuità di fondo o da un’irrimediabile incongruità che scaturirebbe, necessariamente, dall’utilizzo della sua boîte à outils fuori dal campo di problematizzazione nel quale essa è stata originariamente approntata. Gli usi “interni”, dal canto


8 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli loro, si concentrano per lo più sulle fonti che Foucault ha consultato e utilizzato nelle sue analisi, oppure cercano di ricostruire l’ambiente storico e intellettuale nel quale collocare le sue opere, mettendo l’accento sulle opzioni teoriche che Foucault ha voluto evitare e sulle figure che invece hanno costituito punti di riferimento preziosi per la sua ricerca. O ancora, adottando una prospettiva più simile a quella dello storico, si impegnano a restituire il contesto sociopolitico che può gettar luce sugli importanti legami che esistono tra le prese di posizione politiche di Foucault e la sua produzione intellettuale. Anche tra queste forme di uso, tuttavia, ve ne sono alcune che sollevano il problema di non assumere le analisi di Foucault come verità storiche o articoli di fede, e di non dare quindi per scontato in anticipo il loro funzionamento e la loro portata esplicativa. Per testare la credibilità storica delle analisi e dei concetti foucaultiani, si pone allora l’accento sulle tracce lasciate direttamente da Foucault nelle sue pratiche di lettura, dalla consultazione dei testi all’estrapolazione del materiale (modalità di annotazione, commento, trascrizione, archiviazione, ecc.), mostrando poi in che modo, da tali pratiche, siano scaturiti corsi, libri o articoli. L’idea di fondo è che sia così possibile restituire tanto la forma specifica del lavoro foucaultiano, quanto lo stile di ragionamento sotteso alla sua ricerca. Se tutti gli enunciati prodotti da questi differenti modi di usare Foucault – che abbiamo qui elencato senz’altro troppo schematicamente – circolassero liberamente, combinandosi, ibridandosi, ma anche distinguendosi, affinandosi, non vi sarebbe alcun inconveniente. Anzi, tutti gli studiosi e i lettori di Foucault ne trarrebbero giovamento, e sarebbero forse più liberi di usare Foucault secondo le proprie necessità e in relazione ai propri scopi. Questo non significa, ovviamente, che tutto è lecito e tutto è permesso. Non si può dire n’importe quoi a proposito di Foucault, ma nemmeno si può squalificare a priori un modo di utilizzarlo sostituendo, ad esempio, i criteri di validazione degli usi accademici con quelli di valutazione politica. Considerare a priori uno slogan o una pratica artistica che mobilita un certo uso di Foucault come qualcosa che non rende giustizia alla forma specifica del suo lavoro, equivarrebbe a non vedere che un uso politico di Foucault produce un ordine di considerazioni molto diverso da quello prodotto dall’analisi storico-critica della sua opera. Per questo, ci sembra di fondamentale importanza evitare (e all’occorrenza criticare) ogni prospettiva che mostri di voler schiacciare la con-


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siderazione degli usi possibili di Foucault sull’alternativa ortodosso/eterodosso, o interno/esterno, al fine di introdurre, nella molteplicità di tali usi, una gerarchia più o meno esplicita. Del resto, Foucault si è confrontato più volte con l’impresa di altri filosofi, come ad esempio Marx, senza porsi il problema di oltrepassarlo, ma solo quello di collocarsi a fianco a lui pur facendo altro, talvolta sottolineando i punti di continuità, talvolta quelli di radicale discontinuità, storicizzando e valutando sempre ogni singola analisi, e soprattutto non sentendosi mai in dovere di attribuirsi l’etichetta dell’interprete migliore o più fedele. Perché non dovremmo fare lo stesso con Foucault? Perché mai un uso, con i suoi presupposti e le sue finalità specifiche, non potrebbe semplicemente stare accanto ad altri usi, ma li dovrebbe dominare? Perché mai un differente uso di Foucault dovrebbe essere visto a priori come un ostacolo epistemologico o un’opzione da scartare in partenza? Non si rischia così di produrre un’immagine di Foucault in fondo non tanto dissimile da quella del portrait parlé di Bertillon, e di tenere prigioniera, attraverso di essa, un’intera classe di studiosi o di semplici lettori? Di fronte a simili imprese e a cotante pretese, purtroppo non infrequenti, ci si lasci almeno la possibilità di manifestare una programmatica e onesta perplessità…


Genealogie della razza

e dei razzismi


Introduzione Comprendere in modo più approfondito quel che lega razzismi, biopolitica e Stati moderni potrebbe essere un modo di partecipare all’impresa che Foucault stesso incoraggiava: scrivere storie in grado di alimentare al loro interno inversioni, recuperi, insurrezioni. Ann Laura Stoler1

Abbiamo deciso di dedicare una sessione monografica alla questio-

ne della razza e dei razzismi perché ci sembra importante, oggi, ripartire dall’osservazione che Foucault fece nel 1976, durante l’ultima lezione del suo corso al Collège de France “Bisogna difendere la società”, secondo la quale il razzismo sarebbe un modo di introdurre «una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire»2. Che cosa significa riproporre simile questione nel nostro presente globale, alla luce delle riconfigurazioni del paradigma biopolitico neoliberale degli ultimi decenni? Gli strumenti concettuali forgiati da Foucault e le sue prospettive di analisi sul razzismo possono ancora servire per condurre ricerche feconde in un presente diverso da quello che faceva loro da sfondo? Senza alcuna pretesa di esaustività, i contributi che qui presentiamo cercano di rispondere a tali domande, concentrandosi principalmente su quelli che, schematicamente e malgrado i numerosi punti di contatto, potremmo individuare come due differenti campi di problematizzazione: da un lato, l’emergere dei razzismi entro un orizzonte globale e quindi non circoscrivibile nel quadro esplicativo dello Stato-nazione; dall’altro, i fenomeni più direttamente concentrati sui processi relativi alla biologizzazione della razza. All’interno del primo di questi due campi, si collocano i rapporti tra le forme di razzismo e le nuove geografie disegnate dalla divisione internazionale del lavoro, dai sanguinosi conflitti che esplodono con allarmante frequenza in diverse parti del mondo, dalle situazioni di emergenza causate da epidemie, carestie, crisi ambientali, dovute a fenomeni naturali o all’azione umana. Organizzare la gestione della vita, tracciando linee di separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire, significa, in Infra, pp. 47-48. M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/ Gallimard, Paris 1997; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998, p. 220. 1 2

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 11-18.


12 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli questo contesto, reinterrogare l’emergere dei razzismi alla luce di un orizzonte globale in cui la crescita massiccia dei fenomeni migratori comporta una ridefinizione delle tecnologie governamentali della circolazione degli individui e, nello stesso tempo, una distribuzione differenziale di soglie che delimitano diversi tipi di spazi e un variegato regime di mobilità, i quali producono a loro volta forme di assoggettamento e di resistenza specifiche e puntuali. Tuttavia, un tale allargamento di orizzonte su uno scenario globale non potrà evitare di prendere in considerazione le modalità secondo le quali le forme biopolitiche di razzismo, e le diverse tecnologie governamentali ad esse collegate, sono state messe in opera anche al di fuori dell’Europa, ovvero nel mondo coloniale. Le colonie, come Foucault stesso ha notato incidentalmente nella lezione del 4 febbraio 1976 di “Bisogna difendere la società”, hanno spesso costituito veri e propri laboratori da cui poi certe tecnologie di potere sono state reimportate e applicate in Europa. Per questo, oggi, una parte importante delle genealogie del razzismo non può trascurare una serie di genealogie coloniali e postcoloniali, necessarie per verificare fino a che punto sia possibile ampliare il campo di applicazione delle categorie foucaultiane, testando queste ultime, ed eventualmente cercando di implementarle, alla luce di materiali con cui Foucault stesso, per quanto ne abbia intravisto l’importanza, non si è mai direttamente confrontato. Seguendo questa linea di problematizzazione, abbiamo così deciso di aprire la sessione monografica del presente fascicolo con un importante articolo di Ann Laura Stoler, Una lettura coloniale di Foucault. Corpi borghesi e sé razziali, che presentiamo per la prima volta in traduzione italiana. Stoler è stata tra i primi, a metà degli anni Novanta, a leggere in parallelo gli ultimi capitoli de La volontà di sapere e il corso al Collège de France del 1976, “Bisogna difendere la società”, quando quest’ultimo era ancora inedito. Nel suo noto volume Race and the Education of Desire (1995), e attraverso un lavoro storico ed etnografico condotto sugli archivi coloniali, Stoler si è concentrata sulla ridefinizione delle relazioni tra sessualità e razzismo, collocando l’emergenza del sé borghese europeo all’interno di un contesto più ampio, quello imperiale3. Tale emergenza si verificò proprio nello stesso periodo nel quale Foucault aveva individuato la ricodificazione del vecchio razzismo etnico sulla base di nuove tecnologie di governo, che consideravano la vita un fenomeno del quale farsi carico. Cfr. A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995. 3


Introduzione 13

Nel testo di Stoler che qui pubblichiamo, scritto diversi anni dopo Race and the Education of Desire, l’autrice prova a fare un bilancio delle proprie precedenti riflessioni e, nello stesso tempo, a svilupparle ulteriormente, chiedendosi in che misura il razzismo moderno e i discorsi sulla sessualità fossero interdipendenti tra loro, tanto nelle grandi metropoli imperiali, quanto nelle colonie. In tal senso, il razzismo in atto nelle colonie non era un fenomeno periferico, una sorta di riflesso rispetto a quello che si sarebbe sviluppato, in forme e modalità del tutto indipendenti, in Europa; al contrario, esso faceva parte del medesimo processo di formazione degli Stati europei e della società borghese. In questa prospettiva, i rapporti tra razzismo e sessualità, intesi come meccanismi fondamentali di regolazione miranti a consolidare un ordine di tipo borghese e coloniale, non si fissavano su gruppi la cui “differenza” risultasse chiaramente visibile. Al contrario, questo nesso razzismo-sessualità serviva a fare «presa su identità ambigue – razziali, sessuali e di altro tipo –, su ansie prodotte proprio perché tali artefatte differenze non erano per nulla chiare»4. Perciò, secondo Stoler, «i razzismi traggono la loro forza strategica non dalla fissità dei loro essenzialismi, ma dalla malleabilità interna assegnata alle caratteristiche cangianti dell’essenza razziale»5. I discorsi razziali, quindi, anziché delimitare identità stabili, sembrano piuttosto essere caratterizzati da un’intrinseca mobilità e polivalenza. Essi risultano “flessibili”, tanto da permettere sia la rottura rispetto a precedenti discorsi razziali, sia il recupero di alcuni dei loro elementi. Questo modo di procedere, attraverso categorie foucaultiane, verso una storia che tenga conto delle varie forme di colonialismo, permette a Stoler di fornire un differente ordine di periodizzazioni per quel che concerne la combinazione tra sessualità e razzismo, intesa come base per l’affermazione del moderno sé borghese. Proprio tali specifiche configurazioni assunte dalla razza e dalla sessualità nel mondo delle colonie suggeriscono, a loro volta, di rileggere e ridefinire i modi in cui gli spazi domestici e la dimensione dell’intimità familiare arrivano a strutturare soggettività borghesi, costituendo così una piattaforma di problematizzazione e di intervento per il governo imperiale. Ma le genealogie dei razzismi che considerano il più ampio panorama della scena coloniale non si riferiscono soltanto all’emergere di forme biopolitiche di regolazione tali da garantire un ordine incontrastato e incontrastabile. La questione della razza e del razzismo è stata una delle 4 5

Infra, p. 25. Ibidem.


14 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli poste in gioco più importanti dei movimenti di resistenza che, nella seconda metà del ventesimo secolo, hanno scosso e messo fine agli assetti imperiali instauratisi nei secoli precedenti. L’articolo di Matthieu Renault, La confessione (anti)coloniale. Razza e verità nelle colonie: Fanon dopo Foucault, si sofferma su questo tema attraverso un confronto tra Foucault e Frantz Fanon, condotto a partire da un’analisi delle “politiche razziali di verità”. Renault mostra che, attraverso Fanon, è possibile individuare come, nel mondo coloniale, la razza abbia determinato un regime aleturgico paradossale, in cui l’ingiunzione a dire il vero e ad assoggettarsi secondo forme specificamente coloniali (il divenire soggetto, suddito, coloniale) era accompagnata dalla consapevolezza, da parte dei colonizzati, che i tribunali chiamati a giudicarli erano il luogo di una messa in scena sistematica, dove la loro menzogna si configurava allora strategicamente e sistematicamente come un dir-falso. In conseguenza di ciò, a dispetto dei concreti effetti di potere e di assoggettamento coloniale prodotti dalle istituzioni, i tribunali e le pratiche giudiziarie della confessione venivano radicalmente rifiutati come luoghi in cui fosse possibile una qualsivoglia manifestazione del vero, che avrebbe trovato invece il proprio luogo di sperimentazione e di controassimilazione in tutta una serie di soggettivazioni anticoloniali. Renault spiega come Fanon analizzi in tal senso gli effetti di soggettivazione della violenza anticoloniale, presentata non come un’astorica negatività morale, ma come l’esito storico e politico di relazioni coloniali e razziali di potere fortemente sbilanciate, che nella violenza – e nelle sue implicazioni razziali – trovano forme di soggettivazione provvisorie, eticamente inadeguate ma politicamente necessarie durante i momenti più intensi della lotta anticoloniale. Renault descrive, così, il ritorno strategico di Fanon al tema della guerra delle razze, al fine di ritorcere il razzismo contro se stesso. Nelle situazioni postcoloniali successive ai processi di decolonizzazione, anche quando gli apparati di Stato non erano più gestiti direttamente dagli europei – che nondimeno continuavano a esercitare un controllo politico su di essi, attraverso tutta una serie di condizionamenti interni ed esterni –, il problema della razza e dei razzismi ha continuato a essere al centro di una vasta gamma di regolazioni biopolitiche. Foucault, del resto, ha ben evidenziato come l’insieme delle tecnologie politiche rivolte al potenziamento della vita siano da mettere in relazione con il potere di procurare la morte. Per questo, studiosi come Achille Mbembe si sono soffermati sul funzionamento di meccanismi più specificamente legati a un’amministrazione postcoloniale della morte, che Mbembe chiama


Introduzione 15

“necropolitica”6. Certo, come Foucault stesso ha fatto notare, bisogna intendere tale potere nel suo senso più ampio: «il fatto di esporre alla morte o di moltiplicare per certuni il rischio di morte, o più semplicemente la morte politica, l’espulsione, il rigetto»7. Abbiamo già accennato come queste genealogie coloniali e postcoloniali divengano, oggi, ancora più importanti nella misura in cui gli operatori razziali, che consentono la separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire, tendono sempre più a ridefinirsi su scala globale, agendo a livello di un’eterogenea molteplicità di tempi e spazi. È in questo quadro che si situa l’attuale produzione di discorsi razziali e dispositivi di razzializzazione che caratterizzano molti degli odierni regimi securitari di gestione dei fenomeni migratori. L’articolo di Glenda Garelli, Protezione dislocata. Razzializzazioni e contro-condotte della vulnerabilità per i richiedenti asilo provenienti dalla Libia in guerra, mobilita la prospettiva foucaultiana per leggere la produzione dei profili dei migranti in quanto soggettività vulnerabili. Garelli prende in esame il caso specifico della richiesta d’asilo allo Stato italiano dei migranti provenienti dalla Libia, per mostrare come, nel regime discorsivo e governamentale della cosiddetta “ragione umanitaria”, l’organizzazione della spazialità inneschi processi di razzializzazione particolari. Nella Lampedusa sede di quella che fu definita “Emergenza Nord Africa”, vengono così analizzati i criteri e le logiche operative dei dispositivi del migration management nell’assegnare ad alcuni dei migranti lo status di “vulnerabili”: segmentando e distribuendo in modo differenziale l’eterogenea massa di migranti presenti, l’isola stessa diventa un primo operatore spaziale (e razziale) di quella separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire, tra chi deve essere accettato e chi deve essere respinto. Ma Garelli analizza la razzializzazione della vulnerabilità dei migranti anche attraverso una serie di pratiche discorsive volte a oggettivare questi fenomeni migratori come “tsunami umano” o come “invasione”, recuperando così elementi appartenenti ai tradizionali discorsi razziali centrati sul bisogno di difendere la società. Infine, Garelli pone il problema di come gli effetti dei meccanismi razziali di attribuzione della vulnerabilità possano essere giuridicamente rivolti contro questo stesso dispositivo, insistendo affinché certe forme di permesso di soggiorno temporaneo possano essere concesse non sulla base di astratte appartenenze ad alcuni status giuridici (cittadinanza, residenza, ecc.), ma tenendo conto di concrete pratiche di movimento, ben più aderenti alle forme di spazialità diasporica “agite” dai A. Mbembe, Necropolitics, in «Public Culture», vol. 15, n. 1 (2003), pp. 11-40; Id., De la postcolonie. Essai sur l’imagination politique dans l’Afrique contemporaine, Karthala, Paris 2000. 7 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 222. 6


16 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli migranti. Si tratta, a suo avviso, di uno spostamento che potrebbe operare una “de-razzializzazione” del dispositivo di attribuzione della vulnerabilità all’interno del quadro normativo della protezione internazionale. Il secondo campo di problematizzazione entro cui si inscrivono i contributi di questa sezione monografica si concentra invece principalmente sui processi che hanno prodotto la biologizzazione della razza e che, ancora oggi, malgrado i nuovi sviluppi delle scienze genetiche e biologiche, sembrano tratteggiare i contorni di una politica della vita basata sulla razza. Nell’articolo Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault, John Iliopoulos ripercorre la genealogia foucaultiana del razzismo psichiatrico al fine di mostrare i limiti dell’attuale regime biomedico di verità della psichiatria. Seguendo quindi un percorso interno ai testi di Foucault, Iliopoulos ricostruisce il modo in cui, nelle società disciplinari, le nozioni di follia e di razza – che trovano rispettivamente nel “mostro” e nel “barbaro” le loro figurazioni estreme – fossero inizialmente considerate una sorta di limite esterno della razionalità occidentale. Tuttavia, con l’emergere del biopotere e della sua presa sulla vita, il mostro e il barbaro sono stati progressivamente inclusi all’interno del paradigma governamentale della biopolitica, come un’anormalità genetica che deve essere corretta o eliminata per preservare biologicamente la società. L’operatore principale di questa inclusione è proprio la psichiatria, che troverà nella biologia e nella genetica tutta quella serie di concetti (istinto, degenerazione, ereditarietà, ecc.) che le consentiranno di segmentare il continuum della specie umana, tracciando una linea di separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. Il razzismo psichiatrico è dunque preposto a trattare biologicamente ogni manifestazione genetica ritenuta patologica all’interno del corpo sociale, manipolando gli istinti “anormali” o evitandone geneticamente la riproduzione. Su questo sfondo genealogico, Iliopoulos esamina poi i nuovi regimi di operatività del razzismo psichiatrico all’interno delle forme neoliberali contemporanee di biopotere, che cercano di captare «i fenomeni patologici al momento stesso della loro genesi, al fine di prevenire il crimine, gli infortuni, le catastrofi e la morte. Negli screening della popolazione, nelle polizze assicurative, negli stili di vita urbani e nel controllo della sessualità, il biopotere interviene anche quando non c’è alcuna malattia presente né domanda da parte di malati reali, traendo dalla medicina biologica la propria autorità sulla salute più che sulla malattia, generando un nuovo tipo di mercato, un nuovo ambito di consumatori – laboratori farmaceutici, lavoratori sociali, medici, pazienti reali o potenziali»8. Se, in passato, l’ope8

Infra, pp. 96-97.


Introduzione 17

ratività del razzismo psichiatrico era rivolta contro una minaccia genetica (interna o esterna che fosse) tutto sommato ben riconoscibile, e che aveva la forma dell’individuo pericoloso, oggi è un’ampia gamma di singoli comportamenti a essere considerata anormale o deviante, e a divenire oggetto della psichiatria. Iliopoulos mostra così come si sia formata una nuova “rete di vigilanza biomedica”, che si esercita mediante forme più sottili di razzializzazione a livello delle mutazioni nel sequenziamento del DNA, mutazioni che possono essere geneticamente manipolate in laboratorio o modificate farmacologicamente. Infine, tanto la follia quanto la razza vengono analizzate come elementi di irriducibilità rispetto alle forme di potere che le prendono di mira: le lotte che si sono sviluppate intorno ad esse, a livello di ciò che Foucault chiama “politica della verità”, possono oggi, secondo Iliopoulos, offrire alla psichiatria un’opportunità «per criticare il proprio ruolo nel sostegno al razzismo, e per riflettere sulla propria relazione fondamentale e dimenticata con la follia e la razza, come limiti della razionalità occidentale»9. Infine, anche l’articolo di Jonathan Xavier Inda, che si inserisce nel solco di importanti studi, come quelli di Paul Rabinow e Nikolas Rose10, mira a ripensare le forme di conoscenza e di intervento dell’attuale biopotere alla luce degli sviluppi delle scienze genetiche e biologiche. Nel suo For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita, Inda prende in esame un caso specifico, quello del BiDil, un farmaco contro l’insufficienza cardiaca lanciato sul mercato statunitense come prodotto riservato alla popolazione afro-americana. L’idea implicita in tale operazione, e cioè che gli afro-americani possiedano un profilo biologico sufficientemente identificabile, ha suscitato forti preoccupazioni e polemiche, perché è stata vista come un tentativo di reintrodurre una forma di biologizzazione della razza. Nel proprio testo, Inda cerca di far emergere le poste in gioco relative a questo dibattito ricostruendo, sulla scorta delle analisi di Foucault, i modi in cui la razza è stata storicamente biologizzata, dalle politiche segregazioniste degli Stati Uniti alla costituzione di un sapere sulle variazioni del genoma umano. Inda affronta così la questione della riconfigurazione del tema della razza ai giorni nostri, quando le ricerche genetiche cercano di legittimarsi come tentativo di migliorare la salute e la qualità della vita. Infra, p. 106. Cfr. P. Rabinow, French DNA. Trouble in Purgatory, University of Chicago Press, Chicago 1999; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2007 (trad. it. La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008); P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, in P. Rabinow e N. Rose (a cura di), The Essential Foucault, New Press, New York 2003, pp. vii-xxxv. 9

10


18 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli È all’interno di questo quadro che si pone il problema della comprensione della razza a livello dei geni e delle molecole, nella misura in cui «il sapere relativo alla variazione del genoma umano, in particolare quello relativo alle differenze etniche e razziali nella suscettibilità alla malattia e nella risposta ai farmaci, è considerato potenzialmente prezioso per eseguire diagnosi mediche e dispensare cure»11. In tal senso, un farmaco riservato ai soli afro-americani si presenta come un modo di intervenire a favore di soggetti socialmente svantaggiati, e questo all’interno di un dispositivo discorsivo che fa riferimento alla sfera di diritti della cosiddetta “cittadinanza biologica”. Emergono così i tratti e le logiche operative di una medicina razzializzata e di una politica razziale della vita, che tendono a occultare il significato sociale della razza puntando su una riduzione delle disparità, in fatto di salute, fondata soltanto sulla biologia e sulla genetica. Dimenticando la dimensione sociale, conclude Inda, si rischia di amplificare, anziché ridurre, le diseguaglianze sociali e mediche, perché una medicina su base razziale presenta un potenziale di esclusione che diventa tanto più pericoloso quanto più si tengono a mente le logiche di mercato cui sono legate le case farmaceutiche. Il potere farmaceutico in un’era post-genomica, a dispetto dei progressi che sembra registrare, lascia quindi intravedere un “volto nascosto”, quello di una politica della vita basata sulla razza che è potenzialmente e pericolosamente discriminatoria. Gli articoli di questa sezione monografica non esauriscono di certo le forme di razzializzazione che attraversano il nostro presente, ma il richiamo costante all’attualità ci sembra rappresentare un modo importante di intendere e di usare la genealogia foucaultiana della razza e dei razzismi. Cercando di restituire le condizioni di emergenza della razza e dei razzismi, presi nella loro singolarità storica, a partire da un orizzonte persino più ampio di quello considerato da Foucault, si tratta di instaurare una tensione critica tra le diverse modalità attraverso le quali percepiamo, oggi, le questioni della razza e del razzismo e la differenza che potremmo essere in grado di far giocare, epistemologicamente e politicamente, nella nostra attualità, tentando così di rinnovare incessantemente quella che Foucault chiamava «l’art de l’inservitude volontaire ou de l’indocilité réfléchie»12. Londra, Messina, Parigi, Pisa gennaio 2013 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Infra, p. 125. M. Foucault, Qu’est ce que la critique ?, in «Bulletin de la Société Française de Philosophie», vol. 84, n. 2 (1990), p. 39. 11 12


Una lettura coloniale di Foucault. Corpi borghesi e sé razziali * Ann Laura Stoler

In ognuno dei precedenti capitoli , Foucault figurava come un’ombra, 1

prima come una fonte di ispirazione, poi come una fonte di riflessione e di critica. Come per tanti altri nel campo degli studi coloniali, la mia iniziale concezione del potere e del sapere venne da lui trasformata. Per due decenni e in diverse occasioni, ho elaborato e rielaborato la sua insistenza sulla sessualità come «un punto di passaggio particolarmente denso per le relazioni di potere»2. Tutti i capitoli precedenti erano rivolti a pensare il potere coloniale e l’organizzazione del sesso attraverso Foucault e il femminismo: il modo in cui le autorità coloniali hanno scelto di parlare della “carnalità” e di iterare i suoi pericoli ha contribuito grandemente a sostanziare le sue affermazioni. Nei miei ultimi lavori, più direttamente concentrati sui discorsi coloniali che ponevano il sesso come “la verità” del sé razzializzato, è nuovamente su Foucault che sono tornata. * Questo capitolo è basato su un testo largamente rivisto relativo a due diversi interventi che risalgono al 1997: il primo pronunciato nel quadro del convegno Gender and Imperialism, all’University of the Western Cape, Città del Capo (Sudafrica); il secondo alla conferenza Foucault Goes Troppo, all’Australian National University di Canberra. Entrambi erano public lectures per un auditorio interdisciplinare, nel quale soltanto alcuni avevano letto Race and the Education of Desire [cfr. A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995 (N.d.T.)], libro che i più invece non conoscevano. Parti della sezione centrale attingono direttamente a quest’opera con qualche commento, talvolta con lievi modifiche. In entrambi i casi, mi era stato chiesto di discutere del libro: la qualità autoreferenziale del presente capitolo deriva dal fatto che la seconda conferenza era suggerita da e in parte consacrata ad esso. 1 [Questo testo costituisce il sesto capitolo di Carnal Knowledge and Imperial Power. Race and the Intimate in Colonial Rule, University of California Press, Berkeley 2002. L’autrice si riferisce pertanto ai precedenti capitoli di tale volume (N.d.T.)] 2 M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1978, p. 92. [La traduzione inglese cui l’autrice fa riferimento è a cura di R. Hurley ed è intitolata The History of Sexuality, vol.1. An Introduction, Vintage, New York 1978 (N.d.T.)] materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 19-48.


20 Ann Laura Stoler Ma le argomentazioni di Foucault, intese come uno sfondo per comprendere i legami tra la carnalità e il potere nelle Indie Olandesi del diciannovesimo secolo, avevano senso solo parzialmente. La sua idea che la sessualità fosse “originariamente, storicamente borghese” sembrava tanto più ragionevole e, al contempo, tanto più discutibile quanto più tempo trascorrevo negli archivi coloniali. Quel che era assente, certo da un punto di vista retrospettivo, era la questione della razza. Il mio lavoro sui regimi coloniali ha tratto vantaggio dalle sue argomentazioni, ma ricorrendo piuttosto alla loro cornice concettuale, visto che, da un punto di vista storiografico, evitavo di assumere le sue posizioni. Per chi studia il colonialismo, la lettura di Foucault incoraggia, ma mette anche dei paletti. Il primo volume della sua Storia della sessualità ci ricorda in maniera sconfortante quanto l’impero e i suoi scenari coloniali siano rimasti periferici persino in una visione critica della storia europea – molto meno di quanto non fosse avvenuto per approcci storiografici più convenzionali alle questioni legate alla razza. È questa riflessione che incornicia la sfida del presente capitolo. In esso, rivisito una questione che permeava Race and the Education of Desire, chiedendomi come la produzione di un sé borghese ed europeo possa apparire diversamente quando la sua storia viene elaborata in modo meno autoreferenziale, e quando la politica imperiale è posta al centro della scena. La mia lettura coloniale di Foucault attinge a una massiccia serie di contributi nel campo degli studi coloniali, per interrogarsi su quali implicazioni una simile rilettura potrebbe avere sul modo in cui pensiamo la sfera dell’intimità (intimacies) legata all’impero, alla storia europea e agli etimi coloniali della razza. Riprendo quindi alcuni argomenti del mio libro, ma in maniera selettiva. In questo frangente, sono interessata al perché l’elusivo e suggestivo trattamento che Foucault riserva alla razza resti ancora così marginale rispetto a quello che gli storici del colonialismo traggono oggi dalla sua opera. Scrivere Race and the Education of Desire mi ha spinto a portare avanti certe questioni più prevedibili di altre. Usare l’interfaccia dei lavori di Foucault sulla natura del discorso razziale e sulla storia della sessualità suggeriva di ripensare le tecnologie di governo coloniale e i loro siti di produzione. Questioni circa l’“educazione del desiderio” mi hanno indirizzata meno verso i desideri sessuali in sé che verso una più ampia matrice di sentimenti che il sapere carnale (carnal knowledge) può esprimere3. Tornare a Mi occupo di questa relazione tra sentimento e Stato entro un quadro di filosofia morale nel mio Along the Archival Grain. Epistemic Anxieties and Colonial Common Sense, Princeton University Press, Princeton 2009. 3


Una lettura coloniale di Foucault 21

lavorare, attraverso la prospettiva nietzschiana di Foucault, in un contesto coloniale solleva nondimeno alcune difficili questioni, lasciandole senza risposta: come guardarsi dalla scrittura della storia nella “zona di conforto” (comfort zone)4? Cosa potrebbe costituire una scomoda (discomforting) storia coloniale del presente5? Il continuo ritorno di Foucault sulle implicazioni politiche della produzione di sapere è stato utile e dirompente su un gran numero di registri. Per esempio, si prenda la possibilità che offre di criticare il “colonialismo comparato”. Cosa potrebbe essere più rassicurante del ragionamento in base al quale gli studi comparativi hanno prosperato – ovvero, l’assunto che le differenze nelle politiche coloniali derivano da distinzioni europee di carattere nazionale? All’interno di tale modello, le eredità di alcuni paesi erano sempre più benevole, le violenze di altri erano invece del tutto atroci, e gli sforzi di integrazione fatti da un altro Stato ancora erano considerati più efficaci o più benigni. La posizione può cambiare secondo la prospettiva, ma la struttura della narrazione resta la stessa. Tali comparazioni dicono di più sui presupposti nazionali della comparazione che sulle differenze significative nelle strategie di governo. Non si tratta di risposte “errate”, quanto piuttosto di domande sterili. L’attenzione verso le percezioni e le pratiche dei regimi coloniali in rapporto a spazi e tempi differenti potrebbe avere inizio con un altro genere di domande. Quali sono le premesse e le “sintesi preconfezionate” che hanno reso possibili gli studi comparativi del colonialismo? Si possono comparare forme di colonialismo senza definire i mutevoli criteri di valutazione della razza? Quali tipi di comparazioni sono deprecabili e quali non lo sono? Quali assunzioni consentono una comparazione tra mixed-bloods nelle Indie Olandesi, coloreds in Sudafrica e meticci in Indocina? Quali tipi di grammatica coloniale della razza rendevano gli architetti dell’amministrazione imperiale capaci di pensare che potevano – e rendono noi, oggi, capaci di pensare che dovremmo, con un’agenda politica differente – effet4 Sulla nozione nietzschiana di storia nella “zona di conforto”, cfr. F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974. [La traduzione inglese utilizzata dall’autrice è a cura di R.J. Hollingdale e porta il titolo di On the Uses and Disadvantages of History for Life, in F.W. Nietzsche, Untimely Meditations, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 57-124 (N.d.T.)] 5 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire (1971), in M. Foucault, Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 1004-1024; trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pp. 29-54. [La traduzione inglese utilizzata dall’autrice porta il titolo di Nietzsche, Genealogy, History, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Pantheon, New York 1972 (N.d.T.)]


22 Ann Laura Stoler tuare una tale comparazione? Al cuore di simili domande vi è una ricerca sulla politica del sapere che rende le comparazioni possibili. Tale ricerca interroga quelle unità di analisi che – spesso inavvertitamente – hanno riflesso gli schemi marcatamente circoscritti delle storiografie nazionali del diciannovesimo secolo. Il compito di scrivere nuove genealogie coloniali diviene così un’opportunità sotto tanti aspetti. Ci spinge a imparare da Foucault, nella misura in cui, superando le sue intuizioni, facciamo avanzare le nostre più in là. Alcuni hanno sostenuto che la sua influenza è stata perniciosa – apolitica, anti-marxista, e fondamentalmente contraria all’agenda femminista. Io non ho alcun interesse a confutare queste rivendicazioni. Sono interessata piuttosto a far ricorso alle sue intuizioni per pensare più rigorosamente il ruolo che la produzione della razza ha avuto nel collocare la sessualità al centro della politica imperiale. Mi interrogo circa gli investimenti che lo Stato coloniale ha fatto nell’organizzare la valutazione di ciò che era normale e di quel che non lo era; e su come l’organizzazione della sessualità abbia in parte configurato i sentimenti che potevano essere espressi e i loro destinatari. Gli Stati coloniali si sono dimostrati molto interessati a un sapere di tipo affettivo e a una comprensione sofisticata della politica degli affetti. Sebbene l’interesse verso la politica dei sentimenti sia più mio che di Foucault, mi chiedo che cosa potremmo recuperare nelle sue analisi e dove, al loro interno, potremmo ancora andare a cercare. Dov’è la razza in Foucault? Race and the Education of Desire era basato su alcune semplici domande. Perché, in un momento in cui l’opera di Foucault aveva avuto un enorme impatto su tutta una serie di discipline e sulla svolta discorsiva e storica al loro interno, gli studiosi contemporanei si sono occupati in maniera così obliqua del più esile – alcuni potrebbero dire del più accessibile – dei suoi lavori principali, ovvero La volontà di sapere? Più precisamente, perché gli studi coloniali, all’interno dei quali i temi della sessualità e del potere sono adesso così importanti per l’agenda intellettuale e politica, hanno avuto così poco da dire su questo libro? In un ambito in cui la lettura di questo volume è stata rigorosa e il riferimento a esso conferiva autorità intellettuale, cosa può rendere conto dell’impressionante assenza di un impegno che fosse allo stesso tempo analiticamente critico e storicamente fondato? Race and the Education of Desire voleva essere, inizialmente, una lettura coloniale de La volontà di sapere in grado di mettere in questione sia la de-


Una lettura coloniale di Foucault 23

scrizione foucaultiana relativa alla produzione di soggetti borghesi ed europei, sia la centralità dell’impero e della razza per questo processo. Tuttavia, quello che sembrava un compito semplice e stimolante si è bruscamente interrotto a metà strada. Ciò accadde quando sentii parlare per la prima volta e poi mi fermai ad ascoltare, nella bibliothèque du Saulchoir, a Parigi, i nastri graffiati delle allora inedite lezioni tenute da Foucault nel 1976 al Collège de France. Erano undici lezioni complete, dedicate alla teorizzazione della storia dei razzismi, dei discorsi razziali e dei razzismi dello Stato moderno. Ma ancora più impressionante era che si trattava di lezioni pronunciate lo stesso inverno in cui il primo volume della Storia della sessualità venne dato alle stampe. Ecco Foucault che, in soli due anni, era impegnato in due storie parallele e in due imprese sequenziali: una storia della sessualità e una trattazione del potere attraverso una genealogia della razza. Queste lezioni confermavano immediatamente la prospettiva limitata all’Europa da parte di Foucault, ma altrettanto rapidamente scuotevano il suo sbrigativo disimpegno volto ad aggirare le questioni della razza. Tali lezioni, infatti, collocavano il razzismo in una posizione molto più centrale, nel suo pensiero, di quanto suggerissero gli altri lavori fino ad allora pubblicati. Ma sollevavano anche una valanga di domande. Questo lavoro sulla razza rappresentava davvero un “punto di svolta” nell’itinerario intellettuale di Foucault6? Come dovremmo considerare la sua affermazione, ripetuta a più riprese, secondo la quale ognuno dei suoi scritti sarebbe autobiografico? Riveste qualche importanza il periodo che dal 1966 fino alla primavera del 1968 Foucault ha trascorso in Tunisia – un’ex-colonia francese – dove compose L’archeologia del sapere, dove scrisse ai suoi amici circa l’antisemitismo, e dove il suo lavoro venne ripetutamente interrotto dagli scioperi studenteschi contro i provvedimenti governativi di uno Stato di fresca costituzione7? Scrivendo Race and the Education of Desire ho intenzionalmente evitato di discutere la forte discrepanza tra la sua conoscenza della fase postcoloniale a Tunisi e l’assenza del colonialismo nei suoi lavori. Pensando che [tale discrepanza] fosse troppo semplice da indicare, ho tentato di rispondere alla prima domanda. Oggi ho cominciato a ripensare tale posizione8. Si veda la recensione di Christian Delacampagne, Foucault, généalogie du biopouvoir, in «Le Monde des Livres», 21 febbraio 1997, p. 1. 7 Sul periodo lavorativo e politico trascorso da Foucault in Tunisia, si veda D. Macey, The Lives of Michel Foucault, Pantheon, New York 1993, pp. 183-208. 8 A.L. Stoler, Colonial Aphasia and the Place of Race in France, keynote address alla conferenza 1951-2000: Transatlantic Perspectives on “The Colonial Situation”, New York University, aprile 2001. 6


24 Ann Laura Stoler Nei fatti, qual era il suo rapporto con il colonialismo, e che cosa gli studi coloniali, in un dato momento, hanno immaginato essere un Foucault “utilizzabile”? Perché Sorvegliare e punire fornisce più spesso un modello di quanto non facciano le sfumate intuizioni metodologiche de L’archeologia del sapere? Perché ci sono così tanti lavori recenti sulla “governamentalità” coloniale, ma ve ne sono così pochi sui complessi modi in cui Foucault comprese i movimenti dei saperi assoggettati e le loro “insurrezioni”? E perché, fino a pochissimo tempo fa, ve ne erano ancora meno sulla razza9? Tutto ciò non è un preludio alla tesi secondo cui avremmo tutti mancato di cogliere il “vero” Foucault. Individuare le tensioni tra le sue lezioni e i suoi scritti fa solo parte di uno sforzo più generale – quello di domandare che cosa Foucault offra alla nostra comprensione dei fondamenti borghesi dei regimi coloniali e, specularmente, in che modo l’attenzione verso la dimensione coloniale riconfiguri i parametri foucaultiani e sfidi ciò che viene considerato come una parte della storiografia europea. Ci sono due tesi fondamentali di Race and the Education of Desire che qui sono rilevanti. In primo luogo, la proliferazione discorsiva sulla sessualità che Foucault registra in Europa, nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo, non può essere semplicemente registrata nella sola Europa, ma attraverso un percorso imperiale ben più tortuoso di quello che Foucault suggerisce. Tale proliferazione era riflessa da uomini e donne la cui affermazione di un sé borghese dipendeva da prodotti imperiali, da percezioni, e da Altri razzializzati che essi generavano. Ho sostenuto che, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, non si possano individuare in Europa delle tecnologie legate al sesso senza tracciarne il percorso su una superficie coloniale. Così, ho approcciato La volontà di sapere attraverso una molteplicità di passaggi, comparando le sue cronologie e le sue rotture strategiche con quelle delle colonie. Tuttavia, una cosa altrettanto importante che ho sostenuto è che una “comparazione” di queste due tecnologie centrate sul sesso, apparentemente a se stanti – quella delle colonie e quella della metropoli –, poteva non cogliere in che misura tali tecnologie costituissero ognuna una parte dell’altra e fossero pertanto strettamente legate. Si noti che, per un po’ di tempo, alcuni dei ragionamenti di Foucault sui saperi assoggettati sono stati ampiamente disponibili [per il pubblico di lingua inglese (N.d.T.)], con il titolo Two Lectures, in M. Foucault, Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Writings, 1972-1977, a cura di C. Gordon, Harvester Press, Brighton (Sussex) 1977; e più recentemente nel volume a cura di N.B. Dirks, G. Eley e S.B. Ortner, Culture/Power/History. A Reader in Contemporary Social Theory, Princeton University Press, Princeton 1994. Non vi è alcuna indicazione, in nessuno dei due volumi, del fatto che queste “due conferenze” siano le prime due lezioni del corso sulla razza del 1976. 9


Una lettura coloniale di Foucault 25

In secondo luogo, seguendo questa linea di ragionamento, ho sostenuto che le implicazioni razziali non fossero rilevanti soltanto nelle colonie. Riportando nella nostra prospettiva (una cosa che Foucault non fa) le preoccupazioni e le lotte per la cittadinanza e per la nazione, le identità borghesi nella metropoli e nelle colonie emergono come silenziosamente ma segnatamente codificate dalla razza. Nel reindirizzare la storia della sessualità attraverso la storia dell’impero, il razzismo moderno appare meno “ancorato” alle tecnologie europee centrate sul sesso di quanto Foucault non abbia affermato. Le classificazioni razziali e sessuali appaiono entrambe come meccanismi ordinatori che condividono la loro emergenza con l’ordine borghese del primo Ottocento. Il pensiero razziale non rappresentò una conseguenza dell’ordine borghese: ne fu piuttosto un elemento costitutivo. Le implicazioni sono molteplici. In primo luogo, il razzismo non fu un riflesso coloniale, plasmato per occuparsi dell’Altro distante, ma una parte del processo di formazione degli europei stessi. In questa prospettiva, il “colonialismo interno” non fu una forma singolare di costruzione dell’impero (una variante frequentemente usata per descrivere l’espansione del West americano), ma, secondo Foucault, la sua più antica e durevole incarnazione. In secondo luogo, raramente i razzismi hanno aderito alla chiarezza visuale e sociale della differenza tra gruppi ampiamente diversi. Essi sono piuttosto fioriti nell’ambito di popolazioni simili e confinanti. I razzismi hanno fatto presa su identità ambigue – razziali, sessuali e di altro tipo –, su ansie prodotte proprio perché tali artefatte differenze non erano per nulla chiare. Questa formulazione conferisce un peso maggiore alla tesi che ho esposto altrove: i razzismi traggono la loro forza strategica non dalla fissità dei loro essenzialismi, ma dalla malleabilità interna assegnata alle caratteristiche cangianti dell’essenza razziale10. Nelle Indie Olandesi del diciannovesimo secolo, il sé europeo veniva coltivato attraverso una proliferazione di discorsi sulla pedagogia, sulle cure parentali e sui domestici – micro-luoghi nei quali l’identità borghese era radicata nelle nozioni della civiltà europea, nei quali le designazioni di appartenenza razziale erano soggette alle determinazioni di genere, e nei quali il “carattere”, “le buone maniere”, il ragionamento spassionato e la corretta educazione erano parte delle mutevoli classificazioni culturali ed epistemiche centrate sulla razza.

Si veda il mio Racial Histories and Their Regimes of Truth, in «Political Power and Social Theory», n. 11 (1997), pp. 183-255. 10


26 Ann Laura Stoler Storie di sessualità/storie di razza A lungo avremmo sopportato, e subiremmo ancor oggi, un regime vittoriano. La puritana imperiale apparirebbe sul blasone della nostra sessualità, contenuta, muta, ipocrita11.

Sebbene ci siano state parecchie letture coloniali di Foucault, nella maggior parte dei casi si trattava di applicare i princìpi generali della prospettiva foucaultiana a spazi e tempi etnograficamente specifici, utilizzando le linee essenziali del suo apparato analitico piuttosto che i contenuti storici delle sue analisi. Questa sorta di passione per le strategie generali di Foucault è visibile nelle letture che sono state fatte di ognuno dei suoi testi – e, più di ogni altra, nella lettura de La volontà di sapere, che è stata tradotta in lingua inglese come il primo volume della Storia della sessualità. Questo libro avanza una tesi di una semplicità disarmante: perché, se nell’Europa del diciannovesimo secolo la sessualità era di fatto qualcosa da mettere a tacere, da nascondere e da reprimere, vi fu attorno ad essa una tale proliferazione discorsiva? Foucault, nella prima riga del suo primo capitolo, ci dice che abbiamo messo in piedi una storia sbagliata: l’immagine della “puritana imperiale” sul blasone della nostra sessualità, contenuta, muta e ipocrita, mancherebbe del tutto quel che fu il regime della sessualità. Quest’ultimo non cercò di limitare un istinto biologico, di sopraffare «una pressione recalcitrante», né fu «una dimensione esterna alla quale [il potere] s’imporrebbe». Per Foucault, il discorso sul sesso non è opposto al potere né è sovversivo rispetto ad esso, ma ne è «un punto di passaggio particolarmente denso», carico di «strumentalità»12. Sebbene noi tutti abbiamo ben afferrato il succo del suo discorso, alcuni lavori più recenti, compreso il mio, si sono indirizzati, con accenti differenti, verso una premessa comune: l’organizzazione delle pratiche sessuali del colonizzatore e del colonizzato era fondamentale per l’ordine coloniale delle cose, e i discorsi sulla sessualità classificavano i soggetti coloniali in gruppi umani distinti, ordinando al tempo stesso i recessi domestici del governo imperiale13. Tali letture prendono seriamente in considerazione la M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 9. Ivi, pp. 91, 135 e 92. 13 Cfr. A.L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power. Gender and Morality in the Making of Race [ovvero il terzo capitolo di Carnal Knowledge and Imperial Power, cit., pp. 41-78 (N.d.T.)]; A. McClintock, Imperial Leather. Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Conquest, Routledge, New York 1995; R.J.C. Young, Colonial Desire. Hybridity in Theory, Culture and Race, Routledge, London 1995. 11 12


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relazione tra il potere coloniale e i discorsi sulla sessualità, ma senza confermare o affrontare né le specifiche periodizzazioni offerte da Foucault, né le selettive mappe genealogiche che i suoi lavori suggeriscono. Gli studiosi dell’impero hanno mostrato scarso interesse verso il fondamentale ripudio di Foucault nei confronti dell’ipotesi repressiva di Freud. Al contrario, noi tutti abbiamo mostrato una grande fedeltà sia alla prospettiva foucaultiana sul potere, sia alle implicite assunzioni freudiane riguardo alla psicodinamica dell’impero e alle energie sessuali “liberate”. Abbiamo applicato una teoria “eiaculatoria” della storia per spiegare come tali regimi funzionano e si disseminano. Alcuni di questi problemi sono di Foucault, altri sono nostri. Il primo volume della Storia della sessualità ci impedisce di intraprendere percorsi alternativi. Tracciando lo sviluppo della sessualità entro un campo di analisi limitato all’Europa – alla “moderna sessualità occidentale” – Foucault presenta in maniera familiarmente sbrigativa un mondo binario: quello dell’ars erotica (l’Oriente) e quello della scientia sexualis (l’Occidente)14. L’immagine di apertura della “puritana imperiale” è il primo e unico riferimento all’impero. Per Foucault, questa immagine della puritana è un puntello per la nostra lettura distorta della sessualità del diciannovesimo secolo che tuttavia viene liquidato, rimpiazzato e non ulteriormente discusso. L’impero d’oltremare scompare insieme alla sua caricatura. Secondo Foucault, l’energia discorsiva che avvolge la sessualità rimane una questione interna all’Europa. Tali miti delle origini relativi alla produzione delle pratiche culturali europee sono meno credibili oggi che il circoscritto ambito della storia europea è stato scompaginato, le sue fonti riesaminate, e i suoi confini sfumati. Più di due decadi dopo che il primo volume della Storia della sessualità apparve per la prima volta15, nella misura in cui gli studi coloniali si sono rivolti alle tensioni che hanno ritagliato gli spazi metropolitani e coloniali del governo imperiale, siamo indotti a chiederci se la formazione dei soggetti borghesi possa essere collocata al di fuori di quei campi di forza in cui il sapere imperiale è stato sostenuto e i soggetti di desiderio sono stati prodotti. L’incoraggiamento foucaultiano a scrivere una storia del desiderio occidentale che rigetti il desiderio, inteso come un istinto biologico o come una risposta a proibizioni repressive, spinge gli studi coloniali in una direzione che il femminismo ha da lungo tempo invitato a seguire: interrogarsi su come, all’interno dello spazio imperiale, i cambiamenti nelle M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 53-54. [Ricordiamo che il libro dal quale è tratto il presente capitolo è stato pubblicato nel 2002: il riferimento temporale è dunque relativo a questa data (N.d.T.)] 14 15


28 Ann Laura Stoler distribuzioni dei soggetti di desiderio maschili e negli oggetti di desiderio femminili possano ugualmente dare forma a questa storia. Inoltre, riconsiderando le colonie come “laboratori della modernità” più ancora che come luoghi dello sfruttamento, ciò che costituisce le invenzioni e importazioni metropolitane, di contro a quelle coloniali, ha cambiato bruscamente orientamento. Timothy Mitchell, in uno studio sull’Egitto coloniale, considera il Panopticon – il più importante modello di istituzione per il potere disciplinare – come un’invenzione coloniale apparsa per la prima volta nell’Impero Ottomano, e non nell’Europa settentrionale16. Gwendolyn Wright e Paul Rabinow hanno sostenuto che la modernità sia stata messa a punto entro scenari coloniali e che le politiche francesi di pianificazione urbanistica adottate a Parigi e a Tolosa siano state con ogni probabilità precedentemente sperimentate a Rabat e ad Haiphong17. Mary Louise Pratt si è spinta ancora più in là, sostenendo che quelle forme di disciplina sociale ritenute essenzialmente europee possano aver tratto ispirazione dalle imprese imperiali del diciassettesimo secolo e soltanto successivamente siano state rimodellate in funzione di un più tardo ordine borghese18. Tali storie così riconfigurate hanno condotto a un ripensamento generalizzato delle genealogie culturali europee, e ci hanno spinto a domandarci se quelli che sono gli emblemi più preziosi della moderna cultura occidentale – il liberalismo, il nazionalismo, lo Stato sociale, la cittadinanza, la cultura, e lo stesso “essere europeo” (“Europeanness”) – non apparirebbero in modo più chiaro in mezzo agli europei esiliati nelle colonie dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, giacché soltanto allora sarebbero riportati “a casa” (brought “home”)19. Ma il punto, qui, non è semplicemente cambiare le carte in tavola e affermare che la “modernità”, il “capitalismo”, o qualunque altra cosa, T. Mitchell, Colonising Egypt, Cambridge University Press, Cambridge 1991. P. Rabinow, French Modern. Norms and Forms of the Social Environment, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1989; G. Wright, The Politics of Design in French Colonial Urbanism, University of Chicago Press, Chicago 1991. 18 M.L. Pratt, Imperial Eyes. Travel Writing and Transculturation, Routledge, New York 1991. 19 [Qui l’autrice impiega la pregnante espressione inglese “to bring home”, che significa tanto “chiarire”, “far capire”, “rendere perspicuo” quanto, più letteralmente, “portare a casa”. In questo frangente, pertanto, ciò significa riconsiderare (rendendoli maggiormente comprensibili) i simboli più importanti della moderna cultura occidentale – riportandoli allo stesso tempo nel loro contesto di origine (l’Europa), e quindi “a casa” – solo attraverso la specifica declinazione cui essi hanno dato luogo all’interno delle molteplici situazioni coloniali nelle quali tali simboli sono stati impiegati (N.d.T.)] 16 17


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siano stati inventati nelle colonie anziché in Europa, come alcuni degli studi sul colonialismo stanno vibratamente sostenendo. Si tratta piuttosto di immaginare nuovi modi di sovvertire profondamente le storiografie di Stato, tracciando gli itinerari transnazionali delle persone e i circuiti della produzione di sapere attraverso movimenti dotati di un respiro globale. Proprio a causa di questa assenza così evidente, gli studiosi del colonialismo dovrebbero essere spronati a elaborare le genealogie di Foucault entro una mappa imperiale più vasta. Tuttavia, l’elemento cruciale de La volontà di sapere che avrebbe dovuto dire qualcosa al mondo imperiale del diciannovesimo secolo è stato largamente ignorato. Questo elemento è il collegamento strategico tra la storia della sessualità e la costruzione della razza. Contrariamente a un’immagine ampiamente acquisita, per cui il libro di Foucault si concentrerebbe sulla sessualità e sul biopotere, i riferimenti al razzismo vi appaiono virtualmente in ogni capitolo. È sorprendente come solo pochi degli interlocutori di Foucault ne abbiano parlato o li abbiano notati, visto che le due sezioni finali del libro si occupano direttamente della “strumentalità” della sessualità in riferimento alla nascita dei razzismi e della convergenza di entrambi nello Stato biopolitico. Si potrebbe affermare, come ha fatto Étienne Balibar, che il razzismo è ciò che il concetto di biopotere si prefigge di spiegare20. Le lezioni del 1976, unitamente a quella pubblicata su «Temps modernes» nel 1991 con il sottotitolo La naissance du racisme (La nascita del razzismo), accreditano ancora di più la tesi di Balibar, rendendo al contempo più profondo il silenzio. Questo silenzio può riflettere le costrizioni di un campo politico e intellettuale all’interno del quale Foucault era al tempo collocato, un campo nel quale il concetto di classe e il tipo di trasformazioni sociali generate dal capitalismo costituivano ancora il fondamento della teoria critica della società e della politica. Non era lo stesso per la razza e la teoria razziale. Le storie del razzismo occupavano un ambito differente: nel mondo della ricerca americano, esse erano relegate a sottotema della storia della schiavitù; in quello britannico, erano relegate nel campo politicamente anestetizzato e astorico delle “relazioni tra razze” (“race relations”); in quello francese, figuravano invece all’interno della storia del genocidio ebraico, mentre in quello tedesco erano inserite nella storia del particolarismo teutonico che aveva prodotto una storia degli orrori solo per liberarsi di ciò che è passato una volta per tutte. É. Balibar, Foucault et Marx. L’enjeu du nominalisme, in Michel Foucault, philosophe. Rencontre internationale, Paris, 9, 10, 11 janvier 1988, Seuil, Paris 1989; trad. it. Foucault e Marx. La posta in gioco del nominalismo, in É. Balibar, La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Mimesis, Milano 2001, pp. 157-170. 20


30 Ann Laura Stoler Ma c’è di più: dopo aver affrontato en passant la storia dei razzismi, Foucault ha bruscamente abbandonato il suo progetto. La “guerra delle razze”, l’esplicita discussione del “razzismo di Stato”, scompaiono dai suoi corsi così come dai suoi scritti successivi. È difficile sapere se, teorizzando il razzismo, Foucault sia infine arrivato a un punto morto, come ha suggerito uno dei suoi più stretti collaboratori. Ad ogni modo, nelle sue lezioni il razzismo è collocato chiaramente nel cuore dei processi di normalizzazione e di regolazione dello Stato e della società, processi che occuparono Foucault per diversi anni, sia prima sia dopo queste lezioni. In esse, il razzismo appariva come un aspetto normalizzante di un gran numero di formazioni statali, e non come un aspetto aberrante di queste ultime. Tuttavia, in Francia, il rifiuto di impegnarsi sulla questione del razzismo può avere poco a che fare con Foucault. Esso potrebbe riflettere, invece, un più diffuso e durevole rifiuto a considerare il razzismo come un aspetto fondamentale della storia contemporanea della Francia. Negli anni Novanta, l’ondata di pubblicazioni e discorsi sulla forza dell’estrema destra contrastava apertamente con il trattamento limitato e parziale che le era stato riservato in precedenza21. È stato davvero soltanto in questo periodo, successivo alle vittorie del Front National alle elezioni regionali, che un più ampio numero di intellettuali ha cercato di argomentare che il riconoscimento del razzismo francese e l’attrattiva che esso esercitava sul Front National erano qualcosa di più di un semplice segnale occasionale all’interno del suo orizzonte politico22. Mentre molti commentatori hanno cercato di enfatizzare la provenienza straniera e la singolare marginalità degli aderenti al Front National, analisi più convincenti lo hanno descritto come un movimento germinato sul suolo francese, con una storia profonda e solidamente “made in France”23. Ma, anche tra queste ultime analisi, nessuna ha esplorato o preso in esame la relazione tra il razzismo francese e la costruzione del moderno Stato francese. 21 Si veda il mio Racist Visions for the Twenty-first Century. On the Cultural Politics of the Radical Right in France, in D. Goldberg e A. Quayson (a cura di), Relocating Postcolonialism, Blackwell, Oxford 2002. 22 Malgrado la recente ondata di libri sul razzismo e la destra radicale che documentano l’ascesa, la divisione e il crollo del Front National francese, i testi adottati nelle scuole medie e nei licei evitano categoricamente di menzionare la storia del razzismo in Francia. 23 Analisi più sofisticate possono essere reperite in J.-Y. Camus, Le front National. Histoire et analyses, O. Laurens, Paris 1997. E, sul Front National come prodotto e parte integrante della storia e della politica francese, si veda il libro del giornalista H. Huertas, FN. Made in France, Éditions Autrestemps, Paris 1997.


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Che sia una coincidenza o meno, bisogna aggiungere che solo recentemente queste lezioni di Foucault sono state pubblicate da due importanti case editrici francesi, Seuil e Gallimard, all’interno di un progetto editoriale destinato a includere i corsi da lui tenuti al Collège de France tra il 1970 e il 1984. Sebbene il volume che ha inaugurato questa serie non sia il suo primo corso, ma quello sulla razza24, l’introduzione a tale volume non menziona il tema principale del corso: le genealogie della razza e dei razzismi di Stato25. Foucault resta così decisamente fuori dal campo di attenzione di coloro che in Francia scrivono sulla razza, e ciò malgrado egli descriva discorsi – quelli di una “guerra delle razze” e di una “difesa della società” contro se stessa – che sono ritornelli familiari nelle affermazioni del Front National, secondo cui occorre difendere la nazione e proteggere una società francese in “guerra civile”. Ciò nonostante, la tesi foucaultiana, presente nel corso del 1976, secondo la quale i razzismi sono alla base del modo in cui il biopotere si è sviluppato in tutti gli Stati moderni, non fu accolta bene, come non lo è stata nemmeno vent’anni più tardi, quando il corso ha visto la luce. Una recensione apparsa su «Le Monde des Livres» nel 1997 fa riferimento a questo aspetto della tesi di Foucault come a un sorprendente e inquietante «sursaut» (un balzo che avviene in modo improvviso e quasi involontario), sottolineando come Foucault sia stato troppo sbrigativo («il va soudain trop vite») e si sia spinto troppo oltre. Anche i filosofi pare abbiano ignorato questo corso. I primi articoli di rivista ad esso dedicati (presentati in una sezione monografica con il titolo Michel Foucault. Dalla guerra delle razze al biopotere) apparvero solo nel 200026. Se alcuni elementi di novità presenti in queste lezioni sono stati mal recepiti, come un prototipo del pensiero di Foucault, altri elementi metodologici sono stati invece acquisiti. In primo luogo, questo corso dovrebbe imporre una battuta di arresto a coloro che intendono la nozione foucaultiana di potere come qualcosa di sempre capillare e microfisico, piuttosto che rivolto ai macro-monopoli dello Stato. In questo corso, infatti, l’accen24 M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/ Gallimard, Paris 1997; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998. Nella recensione di Delacampagne (Foucault, généalogie du biopouvoir, cit.) si nota come sia stata una scelta appropriata quella di far apparire per primo, rispetto dell’intera serie composta da tredici corsi, quello del 1976, dal momento che esso rappresenta un punto di svolta, una “pausa” nel percorso di Foucault. 25 Si veda, a titolo di esempio, Ch. Delacampagne, Foucault, généalogie du biopouvoir, cit., p. 1. 26 Cfr. Y.Ch. Zarka (a cura di), Michel Foucault. De la guerre des races au biopouvoir, in «Cités. Philosophie, politique, histoire», n. 2 (2000).


32 Ann Laura Stoler to è posto sui moderni Stati biopolitici e sulle condizioni di possibilità che, al loro interno, permettono e condonano la spoliazione da ogni diritto e l’omicidio sanzionati dallo Stato. In secondo luogo, piuttosto che fare ciò per cui è famoso, cioè concentrarsi sulle discontinue fratture epistemiche che attraversano la storia, qui Foucault ci informa di un processo più complesso. Tale processo include simultaneamente la “re-inscrizione”, l’“incasellamento” e il “ripristino” – termini usati ripetutamente nel corso – di discorsi razziali più antichi, nella misura in cui sono riformulati in nuovi discorsi, intesi come stratificazione di forme gerarchicamente sedimentate. È attraverso questa tensione tra recupero e rottura che Foucault esplora la mobilità polivalente27 e tangibile dei razzismi. Prestare attenzione al ragionamento foucaultiano sul razzismo non significa pertanto proporre una lettura “presentista” del suo lavoro. Il razzismo è una complessa allusione a come egli intende il biopotere e ai modi in cui concepisce lo Stato. Queste lezioni mostrano i suoi tentativi forzati volti a confrontarsi con il razzismo e a eliderlo da una prospettiva storica così fissata sull’Europa che il “genocidio coloniale” (un termine usato da Foucault una sola volta) potrebbe, secondo la sua descrizione, derivare dalla politica interna europea, venendone sussunto e restando quindi inspiegato. I riferimenti al razzismo nel primo volume della Storia della sessualità non sono né marginali né superficiali, ma accuratamente segnalati in ogni parte del libro – circostanza comprensibile dato che tale volume era collocato in un progetto che non sarebbe mai stato realizzato, quello dei sei volumi che Foucault aveva pensato di scrivere, con il sesto da intitolare Popolazioni e razze. Sebbene i riferimenti al razzismo siano rari all’interno de La volontà di sapere, il razzismo moderno vi riveste un ruolo fondamentale. Secondo la genealogia foucaultiana, il discorso razziale costituiva una parte delle tecnologie del sesso che emersero nel diciottesimo secolo per regolare la condotta sessuale e attraverso le quali le popolazioni potevano essere incrementate e controllate. Tali tecnologie sarebbero diventate «i punti di ancoraggio per le differenti varietà di razzismo del diciannovesimo e ventesimo secolo»28. Era l’arbitrato scientifico del sesso che autoM. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 70. [Per comodità espositiva, abbiamo tradotto questo passaggio sul calco della traduzione inglese del primo volume della Storia della sessualità: «the anchorage points for the different varieties of racism of the nineteenth and twentieth centuries» (M. Foucault, The History of Sexuality, cit., p. 26). Il passaggio originale («Les racismes du XIXe et du XXe siècle y trouveront certains de leurs points d’ancrage»; M. Foucault, La volonté de savoir, cit., p. 37) è tradotto nella versione italiana nel modo seguente: «I razzismi del XIX e del XX secolo vi troveranno alcune delle loro radici»; M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 28 (N.d.T.)] 27 28


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rizzava gli «imperativi d’igiene» volti a purificare e a rinvigorire il corpo sociale in forme che, come scrive Foucault, «giustificavano i razzismi di Stato, allora imminenti». Si noti che qui il razzismo è un potenziale in attesa di attualizzarsi, e non è ancora la terra firma che avrebbe prodotto le rigide tassonomie razziali del tardo diciannovesimo secolo29. Una prospettiva coloniale potrebbe offrire una diversa cronologia con altre prefigurazioni, delle quali Foucault era chiaramente consapevole. Le tecnologie coloniali di governo recano testimonianza di politiche esplicitamente basate sulla razza che erano più antiche e di uso diffuso. Perché, dunque, Foucault ha rifiutato categoricamente la descrizione più comunemente accettata della sessualità del diciannovesimo secolo, ma ha abbracciato questa visione della storia della razza? Il primo volume della Storia della sessualità accenna ad alcune ragioni, ma le lezioni del 1976 ne forniscono certamente di più. Le forme di colonialismo erano estranee alla sua prospettiva, così come lo erano i loro sistemi di classificazione sociale basati sulla razza. Ma è altrettanto importante notare che, come chiariscono i corsi, Foucault era interessato al “razzismo di Stato”, ritenendo che la nozione di “discorso razziale” dovesse essere applicata solo ad esso. Non da ultimo, Foucault si prefiggeva di spiegare lo Stato nazista e la soluzione finale cui esso fece ricorso (nelle lezioni del 1976 ciò vale anche per lo Stato sovietico di Stalin). Tuttavia, egli non menziona mai né l’Africa dell’Apartheid, né gli Stati Uniti del segregazionismo. L’obiettivo del suo discorso era di descrivere in che modo uno Stato si avvalga del diritto e dell’obbligo di uccidere non solo i suoi nemici esterni, ma anche quelli interni. Il suo interesse era rivolto a quelle forme discorsive e a quelle categorie che hanno reso le epurazioni “interne” una cosa di senso comune, a come lo Stato stabilisca quel che è giusto e poi lo trasformi in un obbligo morale. Foucault sostiene che si tratta di un discorso che conferisce a un insieme di cittadini (citizenry) il diritto di uccidere alcuni dei propri membri, da esso designati, come un atto di benefica purificazione. Il corso del 1976, intitolato “Bisogna difendere la società”, affronta questo discorso di difesa come un punto di ampia mobilitazione sociale. Simili tematiche non sono esplicitate nel primo volume della Storia della sessualità, ma nel corso del 1976 danno forma al progetto di Foucault. In questo corso, egli traccia la trasformazione e il rovesciamento di un discorso sullo Stato ingiusto che riapparirà nel diciannovesimo secolo. Nel gennaio del 1976, Foucault afferma (si tratta della sua quarta lezione): «Lo Stato […] è, e deve essere, il protettore dell’integrità, della superiorità e 29

M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 50.


34 Ann Laura Stoler della purezza della razza»30. Il razzismo moderno è figlio di questa conversione da un discorso sulle razze a un discorso sulla razza, da un discorso diretto contro lo Stato a uno organizzato da esso. Ne La volontà di sapere, il razzismo è incorporato nei primi discorsi sulla sessualità, ma non ancora in forma esplicita. È soltanto nel tardo diciannovesimo secolo che «l’insieme perversione-ereditarietà-degenerescenza» arriva a formare «il nucleo consistente» di una nuova tecnologia del sesso, «di cui il razzismo di Stato fu la forma esasperata e coerente ad un tempo»31. Tali riferimenti sembrerebbero suggerire una storia progressiva del razzismo, che sarebbe emerso dalle precedenti tecnologie del sesso; tuttavia, la descrizione di Foucault è più articolata. Nel capitolo finale de La volontà di sapere, il concetto di biopolitica e i suoi legami con il razzismo sono al centro delle argomentazioni foucaultiane. Il “biopotere” è presentato come qualcosa che possiede due forme distinte: una riguardante la vita dell’individuo, l’altra quella della specie. Sono la micro-organizzazione del corpo individuale e la macro-sorveglianza del corpo politico – e i circuiti di controllo che esistono tra esse – a collegare il loro destino. Si noti qui il legame cruciale: l’“incasellamento” di un potere disciplinare che ha come obiettivo l’individuo all’interno di un potere statale che, a sua volta, ha come obiettivo il corpo sociale. È questa configurazione che permette al razzismo di accedere alla sua forma contemporanea. Se ci spostiamo nell’ambito coloniale, queste formulazioni sono certo stimolanti, ma secondo modalità che mettono ancora più in evidenza quel che Foucault non dice a proposito delle coordinate di genere del colonialismo. Nelle Indie Olandesi, nell’Asia meridionale, e nelle colonie del Nord e del Sud America, le condotte sessuali (sexual arrangements) degli ufficiali della Compagnia, dei soldati “subalterni” (subaltern soldiers) e dei coloni erano monitorate, se non coerentemente regolate, da molto tempo, in modi che collocavano costantemente le donne la cui pelle era di colore diverso nella posizione di oggetti di desiderio e, più indirettamente, anche in quella di indisciplinati soggetti di desiderio. È difficile non cogliere le connessioni tra l’elaborazione di categorie razziali, la prescrizione delle funzioni riproduttive femminili e l’organizzazione della sessualità. Già prima della metà del diciannovesimo secolo, come abbiamo visto32, i bambini olandesi nelle Indie – abbandonati, illegittimi, e di sangue M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 74. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 105. 32 [L’autrice fa riferimento al precedente capitolo (il quinto) di Carnal Knowledge and Imperial Power, cit.: A Sentimental Education. Children on the Imperial Divide, pp. 112-139 (N.d.T.)] 30 31


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misto – erano divenuti il segno e l’incarnazione del problema che, nella società coloniale, richiedeva di essere risolto. Più chiaramente definite, le prescrizioni borghesi che incoraggiavano un’endogamia tra bianchi, un’attenta cura dei figli, un’istruzione in lingua olandese e una sorveglianza dei domestici, composero la rete di direttive destinate a sostenere le priorità dello Stato. Presi nel loro insieme, questi discorsi sulla trasgressione sessuale e razziale fornirono ai riformatori sociali una prova evidente che le politiche coloniali dovessero distinguere tra i “veri” (“real”) olandesi e quei nativi assimilati, Indios (olandesi) e bianchi poveri, il cui status di europei era ritenuto “fittizio”, così come dovevano distinguere tra cittadini e sudditi, e tra colonizzatore e colonizzato. Dalla simbolica del sangue a un’analitica della sessualità Nel primo volume della Storia della sessualità Foucault scrive: Dalla seconda metà del XIX secolo è successo che la tematica del sangue sia stata chiamata a vivificare ed a sostenere con tutto uno spessore storico il tipo di potere politico che si esercita attraverso i dispositivi di sessualità. Il razzismo si forma a questo punto (il razzismo nella sua forma moderna, statale, biologizzante)33.

Una descrizione della riapparizione della «simbolica del sangue» nella scienza del diciannovesimo secolo, in quanto tecnologia che funzionava per consolidare il razzismo, è una storia che ci è familiare. Quel che invece stona è la genealogia selettivamente limitata all’Europa che Foucault trae da essa. Egli la traccia solamente a partire da una simbolica aristocratica di legittimità e discendenza, senza alcun cenno a una politica imperiale di esclusione esercitata precedentemente e rielaborata più tardi su una base coloniale. La scienza e la medicina possono avere alimentato il riemergere delle credenze nel sangue, ma così fece anche una teoria popolare (folk theory) del contagio culturale, altrettanto minaccioso del contagio biologico. Il rinnovato interesse per la simbolica del sangue derivava dalla logica imperiale per cui gli ibridi culturali (cultural hybridities) erano sovversivi, la sovversione era contagiosa e le sensibilità e affiliazioni dei nativi erano i legami invisibili che avrebbero potuto posizionare gli europei di “sangue misto” (“mixed blood”) contro i “puri” (“full-blooded”) europei che rivendicavano il diritto di governare. Per Foucault, il razzismo moderno è una 33

M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 132.


36 Ann Laura Stoler conseguenza di quel corpo di classe in corso di elaborazione. Dal mio punto di vista, la razza era invece costitutiva di quel corpo stesso. Le letture coloniali de La volontà di sapere potrebbero essere così poche perché le questioni relative a ciò che costituiva le identità europee nelle colonie, a chi contasse in quanto europeo (potendo rivendicare il fatto di essere bianco), sono state solo adesso portate in primo piano nella teoria e nell’analisi critica delle culture. Elaborazioni coloniali del sé borghese Il colonialismo non fu un progetto borghese sicuro ed egemonico34: fu solo in parte uno sforzo per importare sensibilità colte nelle colonie, essendo piuttosto un progetto interessato a produrle direttamente. Di certo, la maggior parte della popolazione europea nelle Indie Olandesi non ha mai goduto dei privilegi di quella che Benedict Anderson ha etichettato come una vera e propria “aristocrazia borghese”. Quella popolazione così mal definita includeva bianchi poveri, soldati “subalterni”, il basso clero, bambini di sangue misto, ed europei creoli le cui condizioni economiche e sociali rendevano spesso, e nel migliore dei casi, molto tenui i legami con le civilizzazioni (civilities) borghesi delle metropoli. Non si trattava né di attori assenti dalla scena coloniale (come qualche storico ufficiale avrebbe sostenuto), né di un’avanguardia ribelle contro il governo europeo (come pretendevano certe autorità). Si trattava piuttosto di gente in equilibrio precario, economicamente vulnerabile e il cui profilo sociale non era lineare (socially askew). Normalmente invisibili, questi individui venivano spinti al centro della scena in certi momenti strategici, e gli ufficiali coloniali erano sempre in veemente disaccordo su di loro. Il posto nel quale avrebbero dovuto essere collocati nella tassonomia razziale di Stato aveva a che fare con la misura in cui lo Stato era finanziariamente responsabile dei processi di impoverimento, così come del raggiungimento di una certa autorità morale. Si noti che, in questo frangente, la statistica coloniale comparativa relativa ai poveri europei in Sudafrica, Australia, India e nelle Indie Olandesi non intendeva mai stimare quali europei fossero poveri, bensì chi, tra i poveri, fosse davvero europeo e dovesse in quanto tale essere incluso in queste statistiche. La statistica era una scienza morale, e questi erano fondamentalmente giudizi morali sui poveri che servivano Cfr. N. Thomas, Colonialism’s Culture. Anthropology, Travel, and Government, Princeton University Press, Princeton 1994. 34


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e su quelli che invece non servivano. Si trattava di valutazioni che dipendevano da una definizione di razza. Soltanto dopo e in base ad essa, gli ufficiali potevano approntare una politica sociale di welfare europeo e una definizione di povertà. I nostri punti ciechi, però, sono una questione, quelli di Foucault un’altra. La sua descrizione di ciò che la sessualità significava per la borghesia del diciottesimo secolo rigetta quel che egli considerava un facile riduzionismo economico, ovvero l’enfasi sullo sfruttamento dell’Altro (the Other). Foucault poteva così scrivere: [Attorno al] dispositivo di sessualità […] bisogna immaginarvi l’autoaffermazione di una classe piuttosto che l’asservimento di un’altra […], un’organizzazione politica della vita […] che si è data un corpo da curare, da proteggere, da educare, da preservare da tutti i pericoli e da tutti i contatti, da isolare dagli altri perché conservi il suo valore differenziale35.

Si noti come anche la sintassi sia messa al lavoro per rendere assenti alcuni attori chiave. Foucault non concede alcuno spazio al fatto che questi corpi borghesi fossero prodotti entro un insieme di pratiche che non dipendevano mai dalla sola volontà di autoaffermazione. Questo «corpo da curare, da proteggere, da educare, da preservare da tutti i pericoli e da tutti i contatti» richiedeva degli altri corpi che avrebbero svolto queste mansioni educative, e avrebbero fornito la tranquillità necessaria per tali pratiche autoriferite e per tali atti di auto-potenziamento (for such self-absorbed administerings and self-bolstering acts). Si trattava di un corpo caratterizzato per il suo genere (gendered body), e di un corpo dipendente da un intimo insieme di relazioni sessuali e di assistenza tra uomini francesi e donne vietnamite, tra donne olandesi e uomini delle Indie. Si trattava quindi di un corpo plasmato dalla politica della razza. Donne native che, presso le famiglie europee, servivano da concubine, domestiche, bambinaie, mogli, minacciavano al tempo stesso il «valore differenziale» dei corpi di adulti e bambini che erano lì per essere protetti e rinvigoriti. Siamo in presenza di un insieme di tensioni fondamentali: tra una cultura della “bianchezza” (whiteness) che si isola dal mondo nativo e una serie di disposizioni domestiche e di distinzioni di classe tra europei che produce una prossimità culturale, rapporti intimi e simpatie che ne rappresentano la trasgressione. La famiglia, come avvertiva Foucault, non era il rifugio dinanzi alle forme di sessualità che appartenevano a un pericoloso mondo 35

M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 109-110, corsivo mio.


38 Ann Laura Stoler esterno, bensì il loro luogo di produzione. Anche le autorità coloniali lo sapevano bene. Esse erano ossessionate da affronti morali, sessuali, razziali verso l’identità europea che avevano luogo nelle prigioni, nelle scuole e negli ospedali, e maggiormente, certo, là dove queste autorità avevano un controllo più incerto, ovvero tra le mura domestiche. Come si evince dai capitoli precedenti, i manuali di medicina e le riviste di pedagogia insistevano sul fatto che i bambini di sangue misto nelle famiglie povere europee avessero bisogno di essere salvati dall’ambiente domestico circostante e separati della loro madri native. Anche i bambini europei benestanti sarebbero stati a rischio se non fossero state assicurate loro abitudini appropriate, se la socializzazione con i bambini più poveri di origini miste non fosse stata monitorata e se certi protocolli sociali non fossero stati seguiti. Per entrambi, il rischio era che il proprio senso di “appartenenza” e i propri desideri lasciassero troppo il campo a ciò che era stato localmente acquisito ed era considerato giavanese. Foucault sembrava pensare che si potesse facilmente assumere che la classe media fosse sicura di quel che stava sostenendo. Io credo che non fosse così. Queste strategie di fabbricazione identitaria e di autoaffermazione erano labili, e si erano affermate mediante un repertorio culturale di competenze e di prescrizioni sessuali che si modificavano allo stesso modo in cui gli Stati soppesavano le strategie di profitto con la stabilità del governo. L’autodisciplina, la morale sessuale e l’autocontrollo erano segni visibili dell’educazione della classe media e determinavano ciò che era invisibile e più difficile da verificare – in modo particolare, quel che definiva l’essenza dell’essere europeo (the essence of being European), e se le affinità creole e “indie” per le cose giavanesi non costituissero per essa una minaccia. Si potrebbe sostenere che tali nozioni razzializzate relative al sé borghese fossero idiosincrasie coloniali che solo nelle colonie potevano essere applicate. Ma le metafore razziali e imperiali erano applicate alle distinzioni di classe in Europa già da lunga data. Sebbene gli storici sociali abbiano generalmente assunto che le logiche razziali ricorrono a denigrazioni culturali precostituite che si concentrano a distinguere tra le virtù della classe media e l’immoralità del povero, tra il povero “indegno” (“undeserving”) e il povero “rispettabile”, può benissimo darsi che tali etimi sociali fossero talvolta rovesciati. Il lessico dell’impero e le sue immagini sessualizzate possono aver alimentato il linguaggio di classe europeo tanto frequentemente quanto seguendo una direzione inversa. Da Montaigne a Mayhew, in Inghilterra, in Olanda e in Francia, le immagini imperiali dell’accentuato erotismo del colonizzato hanno saturato i discorsi di classe. Ma già prima della metà


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del diciannovesimo secolo venivano tracciati questi parallelismi tra le vite immorali del sottoproletariato inglese, dei miseri (dirt) contadini olandesi, degli operai irlandesi, o dei non-civilizzati dell’Africa e del Sud-Est asiatico. Discutere questo caso non equivale ad abbracciare inconsapevolmente le categorie comparative usate dagli Stati coloniali, quanto piuttosto ad incoraggiare a tracciare le storie di queste stesse comparazioni. Dovremmo quindi essere spinti a domandarci quali tipi di equivalenze si sarebbero dovute approntare e quali pretese di verità avrebbero permesso o meno di fare simili comparazioni. L’impero figurava, anche nella politica borghese del liberalismo e del nazionalismo, in modi che abbiamo soltanto cominciato ad esplorare. Come Uday Mehta ha affermato, all’interno del liberalismo borghese del diciottesimo secolo era inscritta una politica di esclusione basata sulla razza36. Le più fondamentali nozioni dell’universalismo, quali “natura umana” e “libertà individuale”, così care a Locke e ai Mill (padre e figlio), riposavano sull’educazione e sull’apprendimento di abitudini “naturalizzate” che venivano attivate da chi esibiva una tale “natura” ed era dotato della sensibilità che gli avrebbe permesso di esercitare tale libertà innanzitutto nei confronti di chi era considerato inferiore da un punto di vista razziale – in questo caso, il mondo coloniale del Sud dell’Asia. I discorsi sulla sessualità, sul pensiero razziale, sulle retoriche del nazionalismo usavano marcatori visivi per classificare (con scarsi risultati) gli attributi culturali e affettivi su cui queste teorie popolari della differenza erano basate. La ricerca orientata a definire predicati morali ed essenze invisibili legava i discorsi borghesi sulla sessualità, sul razzismo e sul nazionalismo in modi che erano di fondamentale rilevanza. Il discorso nazionalista fissava quelle pratiche sessuali che avrebbero costruito la nazione, che avrebbero affermato la razza e che avrebbero altresì marcato, come nota Doris Sommer, «un erotismo improduttivo […] non solo [in quanto] immorale, [ma anche in quanto] non patriottico»37. In questo ambito, alle donne europee veniva assegnato il ruolo di custodi, da un lato, dei loro uomini moralmente vulnerabili e, dall’altro, dello stesso carattere nazionale. Senza assumere i discorsi sulla nazione e sull’impero del diciannovesimo secolo, U. Mehta, Liberal Strategies of Exclusion, in F. Cooper e A.L. Stoler (a cura di), Tensions of Empire. Colonial Cultures in a Bourgeois World, University of California Press, Berkeley 1997, pp. 59-86. 37 D. Sommer, Irresistible Romance. The Foundational Fictions of Latin America, in H.K. Bhabha (a cura di), Nation and Narration, University of California Press, Berkeley 1990, p. 87. 36


40 Ann Laura Stoler l’elaborazione (cultivation) del sé borghese e le sue attribuzioni di genere sembrano essere radicate soltanto entro i confini dell’Europa e all’interno della nazione, anziché essere considerate un elemento inerente alla costruzione di queste ultime. La sessualità infantile e l’alienazione degli affetti Non era il bambino del popolo, il futuro operaio al quale si sarebbero dovute insegnare le discipline del corpo; era il collegiale, il bambino circondato da domestici, da precettori e da governanti, e che rischiava di compromettere non tanto una forza fisica, ma delle capacità intellettuali, un dovere morale e l’obbligo di conservare alla sua famiglia ed alla sua classe una discendenza sana38.

L’attenzione che, ne La volontà di sapere, Foucault presta a quel che chiamava la “pedagogizzazione del sesso del bambino” è schematica, non sistematica, e inquadrata solo nelle sue linee generali. Tuttavia, questo tema era centrale per la sua concezione dello Stato biopolitico. Di fatto, il terzo dei sei volumi previsti dal progetto della Storia della sessualità doveva essere intitolato “La crociata dei bambini” (La croisade des enfants). Tale progetto non fu mai portato a termine; ciò nonostante, quel che Foucault aveva da dire sul discorso intorno ai bambini e alla masturbazione rende intelligibili in modo significativo le sue varianti coloniali. Se era questo uno dei principali luoghi discorsivi in cui la cultura borghese definiva e difendeva il suo interesse, da una prospettiva coloniale era anche uno dei siti chiave in cui i confini razziali erano trasgrediti e le identità nazionali prendevano forma. Si trattava di un discorso in cui la distribuzione e l’educazione del desiderio erano collocate tra le mura domestiche, come Foucault dice, in quel «minuscolo spazio familiare sessualmente saturo»39. Nelle Indie Olandesi, questi discorsi erano animati non dal timore che i bambini toccassero i propri corpi, ma dalla paura che i loro affetti si sarebbero potuti rivolgere verso corpi che non avrebbero dovuto toccare. Foucault giustamente osservava che la profusione di prescrizioni e di protocolli attorno ai bambini sosteneva l’elaborazione di un sé borghese. Ma proprio qui vi era questo insieme di Altri stereotipici (adombrato, come M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 107-108. M. Foucault, Résumé des cours, 1970-1982, Julliard, Paris 1989, p. 78; trad. it. in M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 291. 38 39


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abbiamo visto, in tali narrazioni) rispetto al quale i quotidiani limiti dell’elaborazione del sé sarebbero stati tracciati. Come Foucault aveva spiegato nei suoi Resumé des cours relativi alle lezioni del 1974-1975 su Les anormaux (Gli anormali), le autorità consideravano le trasgressioni compiute dai bambini come una colpa dei genitori che li affidavano a «nutrici, domestici e precettori – a tutti quegli intermediari che vengono regolarmente denunciati come iniziatori al vizio e alla dissolutezza»40. Filosofi liberali, legislatori coloniali, pensatori nazionalisti non avrebbero potuto concordare di più. Condividevano tutti una preoccupazione politica per le disposizioni dei bambini, per la malleabilità delle loro menti, e per la formazione (training) di pratiche abituali, pratiche che sarebbero “apparse naturali” da bambini e poi anche da adulti. La stretta sorveglianza esercitata sul personale domestico era un modo di proteggere i bambini. L’allontanamento da casa era un altro, come attesta la proliferazione delle scuole materne e degli asili d’infanzia che, durante il diciannovesimo secolo, furono attivamente sostenuti dallo Stato. Filosofi morali e legislatori coloniali erano spinti dalla convinzione che le famiglie borghesi stessero approntando un’insoddisfacente organizzazione dell’infanzia, e dunque che neonati e bambini sarebbero stati meglio negli asili d’infanzia piuttosto che sotto le cure del personale domestico. In quasi tutti i dibattiti che si svolgevano nelle Indie Olandesi intorno alla masturbazione e ai bambini europei sessualmente precoci ci si chiedeva se questi stessi bambini sarebbero stati in grado di acquisire quel tipo di sensibilità che avrebbe loro permesso di crescere come degli europei. L’istruzione scolastica era offerta come una protezione contro i rischi cui le ragazze sarebbero andate incontro al di fuori della famiglia, ma anche contro i rischi ancor più pericolosi cui esse sarebbero state esposte al suo interno. Questi discorsi non prendevano di mira la sessualità infantile, come accadeva per i pericoli generati da desideri culturalmente estranei e da separazioni affettive che finivano per distruggere gli ambienti (milieus) controllati culturalmente cui i bambini europei appartenevano legittimamente. I bambini richiedevano un ambiente isolato da quegli atteggiamenti sentimentali (conduits of sentiment) che avrebbero tolto loro ogni inclinazione a “sentirsi a casa” all’interno di una cornice europea – come affermò un ufficiale coloniale, “pensare e sentire” non in olandese ma in malese o in giavanese. I domestici avrebbero potuto rubare qualcosa di più che la semplice innocenza sessuale dei bambini europei. Essi avrebbero potuto 40

Ivi, p. 290.


42 Ann Laura Stoler orientare diversamente i loro gusti culturali (cultural longings), i loro odori preferiti, i sapori che avrebbero ricercato, e infine i loro desideri sessuali. Judith Butler ha definito la Storia della sessualità una storia del desiderio occidentale, ma io non sono ancora convinta che sia proprio questo il caso. Certo, dal primo volume apprendiamo poco sul tipo di passioni che vengono prodotte e su che cosa la gente ha fatto con esse. E apprendiamo ancora meno sul modo in cui il piacere era distribuito, su come il desiderio era motivato e in quale maniera il potere veniva a mostrarsi. Ma chi tra noi studia la sessualità e l’impero non fa, in fondo, molto di meglio. Potremmo essere tutti d’accordo sul fatto che la carnalità (carnality) abbia sottoscritto credenze popolari europee sulla razza per diversi secoli. Ma negli studi coloniali la sfera carnale (the carnal) risulta sospesa come un istinto preculturale, assunto come dato e non ulteriormente esaminato. Tali analisi spesso procedono non dalla premessa foucaultiana secondo cui i desideri sessuali (sexual cravings) sono costrutti sociali e il sesso è un’invenzione del diciannovesimo secolo, bensì da una premessa implicitamente freudiana (e imperiale). Secondo quest’ultima narrazione, il colonialismo ha espresso il sublimato sfogo sessuale (sublimated sexual outlet) di uomini virili e omoerotici. Inoltre, le donne bianche, nel loro complesso, mostrano di provare sofferenze e piaceri, ma mai di avere una qualche sessualità. Attraverso queste storie sulla sessualità, gli abitanti europei delle colonie e i loro osservatori metropolitani parlavano dei propri desideri, e ciò che li distingueva dagli altri eccitava sensibilità che rivelavano una specificità di classe. Così la suscettibilità sessuale dei bambini europei, a latitudini tropicali, richiedeva una vigilante educazione dei loro desideri e un’attenzione affinché i contatti (con i) nativi fossero controllati. Le donne europee delle colonie le cui scelte coniugali erano reputate inadatte, come abbiamo visto nel quarto capitolo41, potevano essere private dalla loro comunità fatta di europei della protezione riservata alla loro condizione femminile, e vedere così rinnegato il proprio status di vere europee. Analogamente, i discorsi coloniali sul desiderio contrapponevano gli uomini passionali dei ceti bassi a quelli borghesi dotati invece di carattere. Essi non passavano il sesso sotto silenzio, bensì descrivevano volontariamente e minuziosamente i suoi etimi sociali. Questi discorsi attribuivano degli eccessi sessuali a chi era di origine creola, a chi veniva dai ceti bassi, e a chi era di sangue misto: cioè a chi veniva considerato un europeo “fittizio” [Ancora una volta un riferimento interno a Carnal Knowledge and Imperial Power, cit., il cui quarto capitolo porta come titolo: Sexual Affronts and Racial Frontiers. Cultural Compentence and the Dangers of Métissage, pp. 79-111 (N.d.T.)] 41


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e non un europeo borghese in tutto e per tutto. Tali rappresentazioni riposavano sulla presenza di altri attori, su una valutazione della loro sessualità intesa da un lato come verità del sé e, dall’altro, come classificazione della categoria sociale cui essi realmente appartenevano. Le missioni moralizzatrici inglesi, francesi e olandesi producevano discorsi che contrapponevano il desiderio alla ragione, l’istinto del nativo all’autodisciplina del bianco, una sessualità sovversiva e improduttiva al produttivo sesso patriottico. Tuttavia, queste linee non sarebbero potute mai essere tracciate – né erano destinate ad essere tracciate – secondo un’evidenza razziale. Simili valutazioni sulla sessualità della masturbazione infantile, sulla promiscuità tra i domestici, sui bianchi degenerati e sugli estranei presenti nella casa borghese si condensavano attorno a ciò che era considerato come una minaccia all’interno di questi momenti di trasgressione. L’intimità sessuale e la precocità erano certo messe in questione, ma non vi era solo questo. L’evidenza di legami emozionali, il confondersi del sangue e del latte, l’impudenza, la mancanza di rispetto o l’indifferenza erano altrettanto pericolosi del sapere carnale (carnal knowledge) e del sangue impuro. Non vi era inoltre alcun riferimento a particolari sentimenti che non fosse un pretesto per parlare di ciò che “contava realmente”: il sesso. Le sovversioni dell’ordine borghese erano ciò che minacciava questo repertorio di sensibilità etichettato come “carattere personale” e che definiva chi poteva essere classificato come bianco. Queste situazioni di “contagio culturale” potevano distruggere la dicotomia governante/governato nella misura in cui chiarivano e nello stesso tempo confondevano quello che si supponeva significasse l’essere rispettabile e l’essere propriamente coloniale. Il desiderio può certamente esser stato ricondotto alla sfera sessuale, ma i desideri in questione incarnavano altre potenti sensibilità. L’elaborazione di un sé che fosse indipendente (self-reliant), senza pretese e moralmente puro era pensata con l’obiettivo di definire il paesaggio interiore dei “veri” europei e le frontiere interne di quei sistemi politici superiori cui essi appartenevano legittimamente e cui dovevano costantemente ricordarsi di appartenere. Ragionare in modo più ampio su “l’educazione del desiderio” può aiutare a evitare un’aporia: riprodurre gli stessi termini dei più importanti discorsi imperiali che riducevano e interpretavano ogni desiderio in chiave sessuale. Tale ragionamento offre invece una diversa opzione, che consiste nel fare attenzione a un più vasto ambito di disposizioni affettive e di trasgressioni culturali che modellava ciò di cui non si poteva parlare e ciò che doveva essere detto.


44 Ann Laura Stoler Ulteriori riflessioni Per alcuni, Race and the Education of Desire si è rivelato più utile di quanto sperassi, per altri si è invece rivelato scomodo. Studiosi appartenenti a diversi ambiti disciplinari sono stati colpiti o addirittura disturbati da Foucault. Alcuni hanno condiviso il mio interesse sul perché così poche persone abbiano utilizzato le periodizzazioni di Foucault nel mondo delle colonie, unendosi entusiasticamente a me nel domandarsi perché ciò non venisse fatto. Diversi altri studiosi del colonialismo si sono uniti a me nel mettere in discussione l’articolazione tra il biopotere europeo e i razzismi coloniali, sia negli imperi contigui (contiguous empires) sia in quelli “d’oltremare”. Pochi altri hanno invece cercato di chiedersi se un linguaggio della razza si fosse formato a partire da un linguaggio inerente alla classe (come suggerisce il discorso razziale del diciannovesimo secolo) piuttosto che in altro modo. Ma, stranamente, l’interesse portato su Foucault ha disturbato più di quanto potessi immaginare. Per quanto molti studi sul colonialismo in Inghilterra e negli Stati Uniti avessero fatto ricorso a Foucault, gli storici olandesi si erano in linea di massima astenuti dal farlo. Per loro il mio libro non era sull’impero olandese, ma su Foucault. Per gli studiosi foucaultiani di formazione filosofica era invece sul colonialismo e sulla razza. Nessuno lo ha recensito. Un critico notava la mia “eccessiva fiducia nelle forme di analisi empirica”; un altro suggeriva che il libro fosse insufficientemente impregnato del mondo empirico e nativo. Si è fatto riferimento ad esso come a un libro facilmente leggibile e pure allo stesso tempo eccessivamente denso (overcongested). Alcuni hanno abbracciato la mia rilettura della sessualità europea attraverso l’impero; altri l’hanno criticata perché appariva “razzialmente deterministica”. Molti hanno curiosamente suggerito che ero stata troppo generosa con Foucault. Leggendo il libro come un’etnografia coloniale, alcuni hanno cominciato a domandarsi se Foucault non potesse essere omesso del tutto. Più di recente, un collega mi ha chiesto, in modo benevolo, perché ancora un’altra “donna interessata alla teoria” cercasse di inquadrare il suo contributo “attraverso un soggetto maschile”. Il disincanto verso Foucault non è certo nuovo, né mi interessa. Ma chiaramente qualcosa non era stato afferrato. Io sono piuttosto interessata a chiedermi perché, malgrado un ampio numero di lettori, quelli che ancora considero come alcuni dei punti di maggior interesse critico nel mio libro – e ugualmente nei lavori di Foucault – sembrino essere passati inosservati, se non addirittura ignorati.


Una lettura coloniale di Foucault 45

Non da ultimo, tra questi punti d’interesse ve n’è uno che ho già menzionato: lo sforzo foucaultiano di ragionare attraverso una specifica genealogia dei discorsi sulla razza. Altrettanto importante è l’enfasi posta nel corso del 1976 sul razzismo moderno inteso come caratteristica inerente alle forme statali contemporanee. L’attenzione di Foucault era decisamente rivolta non a qualche generica nozione di razzismo, ma a ciò che egli chiamava “razzismo di Stato” o “razzismo nella sua forma statale”, ovvero il razzismo come parte di un apparato di normalizzazione proprio dello Stato capitalista, fascista e socialista. Tale spostamento di attenzione comporta una duplice conseguenza: esso porta a riconsiderare il razzismo non come uno sviluppo aberrante e patologico dell’autorità dello Stato allora in crisi, bensì come una fondamentale e “indispensabile” tecnologia di governo – come un meccanismo operativo del biopotere. Questo suscita una domanda ulteriore: come ha potuto il razzismo funzionare in questo modo? E come ha potuto, allo stesso tempo, soddisfare un’ampia gamma di agende politiche? Tali questioni sono fondamentali sotto diversi aspetti per la progressione delle lezioni del 1976. Poiché, là dove Foucault cominciò la sua esegesi, non vi era alcuna discussione sul razzismo, come ci si sarebbe potuto attendere, ma solo un insieme più generale di osservazioni circa la natura del potere, della conoscenza erudita, delle formazioni discorsive. Come fece nel progetto metodologico de L’archeologia del sapere, ancora una volta Foucault confuta – e rifiuta – l’idea secondo cui una formazione discorsiva può essere identificata in virtù della sua unità e della sua coerenza. Secondo Foucault, invece, essa deve essere identificata con le «differenti possibilità che [tale formazione discorsiva] consente di ridare vita a temi già esistenti, di suscitare delle strategie opposte, di far posto a interessi inconciliabili, di permettere di giocare partite differenti con un numero determinato di concetti»42. Sono le differenti manifestazioni della “mobilità polivalente” che Foucault individua nel suo corso sulla razza. Sostenendo, all’inizio delle sue due prime lezioni, che i discorsi si compongono sia della conoscenza erudita sia dei saperi assoggettati, egli si sofferma su un punto davvero degno di nota: i discorsi, soltanto in apparenza unificati, sono invece storicamente stratificati con una serie di contro-discorsi (oppositional discourses) permeM. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 51. [La traduzione inglese cui l’autrice fa riferimento è a cura di A.M. Sheridan Smith, The Archaeology of Knowledge, Pantheon, New York 1972 (N.d.T.)] 42


46 Ann Laura Stoler ati dal ritorno dei saperi assoggettati, i quali possono insorgere accanto ai discorsi ufficiali. In breve, il discorso sulla razza non è sempre stato uno strumento dello Stato né è stato sempre mobilitato contro di esso. I discorsi razziali si sono diffusi su un campo più ampio. Le loro genealogie dovrebbero individuare i loro «differenti spazi di dissenso» e i loro specifici luoghi di dispersione43. Le prime due lezioni sono state canonizzate (anzi feticizzate) come la parte dell’opera di Foucault che interpella più direttamente gli studi storici sui subalterni. Ma ciò è avvenuto in una maniera molto particolare, ovvero partendo da una proposizione controintuitiva. I saperi squalificati possono essere di diversi tipi. Come il campo della frenologia, essi possono essere valorizzati in un certo momento storico, e più tardi essere messi da parte, senza che vengano scalfiti i princìpi che ne sono alla base; ovvero, una convergenza tra fisiologia e gli stati interni che determina la razza. Tuttavia, i saperi squalificati possono lavorare contro loro stessi ed essere al servizio della conoscenza erudita. Il discorso sulla razza, per esempio, accresce la propria forza non perché è un discorso scientificamente validato, ma proprio per la ragione opposta. Esso è saturo di sentimentalismi che ne accentuano il richiamo. I saperi squalificati possono fare qualcosa di diverso: usurpare lo spazio della conoscenza erudita e, attraverso la loro “insurrezione”, rovesciare il mondo da sotto in su. Così, le prime due lezioni consacrate a questa insurrezione introducono un tipo particolare di storia, una genealogia della razza. Un secondo importante aspetto merita una maggiore attenzione: Foucault ricorre alla nozione di “mobilità polivalente” per spiegare perché il discorso razziale raramente consista soltanto nelle sue affiliazioni politiche o nelle sue rivendicazioni strategiche. Esso può infatti soddisfare un’agenda politica reazionaria o viceversa una riformista; può essere mobilitato contro lo Stato in un certo momento storico ed essere da esso usurpato in un altro momento. Il riconoscimento di questa qualità può aiutare a descrivere la sua plasticità (resilience) e la durevole importanza che ha rivestito nel tempo. Ho provato a sostenere, in altra sede, che questo stesso fatto – che i discorsi razziali contengano, rispettino e coesistano con un’ampia gamma di agende politiche – non è una contraddizione, ma una fondamentale caratteristica storica delle loro genealogie politiche non lineari44. Questa attenzione analitica verso il modo in cui tali contro-narrazioni e tali saperi squalificati possono riaffiorare all’interno dei discorsi ufficiali 43 44

Ivi, p. 202. Si veda il mio Racial Histories and Their Regimes of Truth, cit., nota 5.


Una lettura coloniale di Foucault 47

si lega a una terza tematica. Essa costituisce una critica alla comprensione foucaultiana della plasticità dei discorsi razziali e della forza delle formazioni discorsive: si tratta della tensione che Foucault individua tra processi di rottura e processi di recupero. Colpisce quanto il progetto storico e filosofico di Foucault continui ad essere caratterizzato dall’interesse per la discontinuità storica, le improvvise fratture, le dispersioni in tempi e spazi inattesi. Molti studiosi ritengono che questo sia il suo contributo più caratterizzante, il vero e proprio marchio di fabbrica dei suoi lavori. Nondimeno, da queste lezioni si evince che le formazioni discorsive non sono mai costruite soltanto su una rottura epistemica. I discorsi sulla razza e su come la razza è diventata oggetto di sapere – ovvero le teorie popolari ed erudite che definiscono il sapere su di essa – sono da declinare al plurale e non al singolare; sono inoltre di natura sedimentaria anziché lineare. È all’interno di queste pieghe sedimentate che possono riemergere nuovi piani e nuove superfici. Queste possibilità così preservate rendono conto del perché i discorsi razziali appaiano come nuovi e allo stesso tempo come rinnovati. Ma che cosa rende invece conto di quelle specifiche caratteristiche disponibili per un recupero? Cosa rende certe cose suscettibili di una ricodificazione? Cosa fa sì che l’attuale discorso dell’estrema destra europea sulla cittadinanza, sugli stranieri, sull’educazione nazionale appaia così simile al più ampio discorso che su questi temi riscuote consenso e non dissimile da quello dei demagoghi della razza di un secolo fa? Nessuno sosterrebbe che il corso del 1976 offra un’analisi esaustiva tanto dei discorsi razziali quanto dei razzismi di Stato. D’altra parte, pochi si sono interrogati su tali sconcertanti questioni riguardanti la formazione degli Stati moderni, esplorando la possibile reversibilità dei discorsi razziali e i processi di inversione. Se Foucault insiste su alcune questioni piuttosto che su altre, sta a noi, vent’anni più tardi45, occuparci di quelle di cui egli non ha potuto trattare e non ha trattato. Sta a noi comprendere le condizioni di possibilità che conferiscono al pensiero razziale la sua continua e rinnovata attualità; sta ancora a noi esaminare minuziosamente le forme in cui le prospettive basate sulla razza si proclamano come momenti rilevanti del ventesimo secolo; sta infine a noi comprendere cosa carichi queste ultime di un richiamo populista e d’opposizione. L’assunto foucaultiano secondo cui le politiche statali sono dirette alla “difesa della società” contro se stessa produce agghiaccianti risonanze con i discorsi di estrema destra attualmente presenti in Europa. Comprendere in modo più approfondito quel che lega razzismi, biopoliti45

[Cfr. supra, nota 15 (N.d.T.)]


48 Ann Laura Stoler ca e Stati moderni potrebbe essere un modo di partecipare all’impresa che Foucault stesso incoraggiava: scrivere storie in grado di alimentare al loro interno inversioni, recuperi, insurrezioni46. Traduzione dall’inglese di Orazio Irrera

Ann Laura Stoler The New School for Social Research StolerA@newschool.edu

. A Colonial Reading of Foucault: Bourgeois Bodies and Racial Selves This paper focuses on the “education of desire” in the making of colonial governance. In it, I challenge Foucault’s history of the carnal while drawing on his genealogy of race. In so doing, I both rehearse and move beyond the argument proposed in Race and the Education of Desire, asking not only how the history of empire affects a history of European sexuality, but also how its inclusion may alter our understanding of how racism figures in the making of modern states. Most important, this paper points to the methodological insights that Foucault’s histories of racial discourse and biopower afford by underscoring both the polyvalent mobility of racial discourse and what might be gained by attending to racial discourses as historical processes of rupture and recuperation. It makes theoretically explicit a relevant theme: how and why microsites of familial and intimate space figure so prominently in the macropolitics of imperial rule. Keywords: Colonial history, History of sexuality, Racism, Empire, Bourgeois self, Intimacy.

[Abbiamo omesso l’ultima riga del testo originale («Il capitolo che segue è uno sforzo in questa direzione»), che costituisce un raccordo con il successivo capitolo (il settimo) di Carnal Knowledge and Imperial Power, cit., il cui titolo è Memory-Work in Java. A Cautionary Tale, pp. 162-204 (N.d.T.)] 46


La confessione (anti)coloniale.

Razza e verità nelle colonie: Fanon dopo Foucault * Matthieu Renault

Introduzione. Decentrare la cultura della confessione

Nella lezione inaugurale del suo corso al Collège de France del 1984, Il

coraggio della verità, Foucault traccia il percorso che lo ha condotto a sollevare il problema della parrhesia (il parlar franco), a sostituire alla questione delle strutture epistemologiche quella delle forme aleturgiche, ovvero a interrogare non tanto la verità o i discorsi che «si propongono e che vengono recepiti come discorsi veri», quanto «la produzione della verità», «l’atto attraverso il quale la verità si manifesta». Foucault evoca in questo frangente il passaggio dalle questioni sulle pratiche e sui discorsi di verità sul soggetto (folle, delinquente, che parla e che lavora), allo studio «del discorso di verità su se stesso che il soggetto può fare ed è capace di fare», da cui deriva l’attenzione portata su tutta una serie di pratiche come «l’aveu, l’esame di coscienza, la confessione»1. Questo passaggio era già presente in * [Il titolo originale di questo articolo è L’aveu (anti)colonial. Race et vérité dans les colonies: Fanon après Foucault. Abbiamo deciso di tradurre il termine aveu con “confessione”, seguendo una scelta che va per la maggiore nelle traduzioni italiane dei testi di Foucault. Tuttavia, è importante ricordare che in francese aveu e confession non sono sovrapponibili e che Foucault stesso, già a partire da La volontà di sapere, li distingue. Riportiamo a questo proposito una nota presente nell’Archivio Foucault 3, curato da Alessandro Pandolfi: «La confessione (confession) è l’istituzione sacramentale della pastorale cristiana, codificata a partire dal Concilio Laterano (1215). L’aveu è il cuore della confessione: un rapporto obbligato verso se stessi nei termini di una comunicazione, concernente la verità di sé, rivolta a un altro. Questo nucleo discorsivo della confessione viene assunto e continuamente trasformato dalle pratiche di potere e dalle forme del sapere della modernità: “L’evoluzione della parola aveu e della funzione giuridica che ha designato è di per se stessa caratteristica: dall’aveu (omaggio), garanzia di statuto, d’identità e di valore accordata a qualcuno da un altro, si è passati all’aveu (confessione), riconoscimento da parte di qualcuno delle proprie azioni o pensieri […]. La confessione della verità si è iscritta nel seno delle procedure d’individualizzazione da parte del potere”; M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1978, p. 54» (Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 113). Nel presente articolo viene materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 49-68.


50 Matthieu Renault La volontà di sapere: «Almeno a partire dal Medio Evo, le società occidentali hanno posto la confessione fra i riti più importanti da cui si attende la produzione della verità»; che sia spontanea, imposta o estorta, la confessione è «diventata, in Occidente, una delle tecniche più altamente valorizzate per produrre la verità»: «L’uomo, in Occidente, è diventato una bestia da confessione»2. In ognuna di queste asserzioni, Foucault localizza l’oggetto della sua indagine, situandolo con molta precisione in Occidente, come se lì, piuttosto che altrove, egli avesse dovuto limitare la portata potenziale del proprio discorso, come se la pratica (e il concetto) della confessione rischiassero di rivelarsi singolarmente confinati allo spazio «occidentale»3. Lo stesso vale anche per le conferenze pronunciate nel 1981 all’Università di Lovanio, recentemente pubblicate con il titolo Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice: «se ci si attiene alle “nostre” società – alle società occidentali cristiane – mi sembra che si possa parlare, senza speculare eccessivamente, di un’imponente crescita della confessione»4. fatto riferimento, tanto per Foucault quanto per Fanon, solo all’aveu. Quando questa nozione compare con confession (intesa come istituzione sacramentale) abbiamo modificato la traduzione italiana, lasciando il termine in francese per evidenziare la compresenza delle due nozioni (N.d.T.)] 1 M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, pp. 4-5; trad. it. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, pp. 14-15 (traduzione modificata). 2 M. Foucault, Histoire de la sexualité I, cit., pp. 78-80; trad. it. cit., pp. 54-55. 3 Sugli «spazi di riferimento» del pensiero foucaultiano e sul problema dei suoi limiti e delle sue frontiere, si veda l’intervista che Foucault ha rilasciato alla rivista «Hérodote» nel 1976: M. Foucault, Questions à Michel Foucault sur la gèographie, in «Hérodote», n. 1 (1976), pp. 71-85, ora in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 31-32; trad. it. Domande a Michel Foucault sulla geografia, in M. Foucault, Microfisica del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 151-152. 4 M. Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice, a cura di F. Brion e B. Harcourt, Presses Universitaires de Louvain, Louvain-la-Neuve 2012, p. 7 [trad. it. nostra, come in tutti i successivi passaggi tratti da questo volume (N.d.T.)]. Nella conferenza inaugurale, Foucault consegna al suo pubblico la seguente definizione di questa «tecnologia del soggetto» che è la confessione: «La confessione è un atto verbale attraverso il quale il soggetto, in un’affermazione relativa a ciò che egli è, si lega a questa verità, si pone in un rapporto di dipendenza nei confronti di un altro e modifica nello stesso tempo il rapporto che ha con se stesso» (ibidem). Quel che interessa Foucault è «lo strano rapporto» che lega la confessione alla verità: le differenti «forme di veridizione», le « differenti forme del dir-vero», i «differenti giochi del vero e del falso» (ivi, p. 9); è la «considerevole crescita del ruolo della confessione» in Occidente e le sue «mutazioni» a partire dall’Antichità che Foucault si propone di esporre nelle successive conferenze (ivi, p. 12).


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Risulta legittimo interrogarsi se non proprio sull’attualità di Foucault, quanto meno su una certa «storia del presente» che non poteva non costituire lo sfondo delle sue riflessioni sulla confessione. Come trascurare a questo riguardo la guerra d’Algeria5 che, attraverso l’esercizio sistematico della tortura, aveva dato luogo a una crescita letteralmente mostruosa delle pratiche di estorsione di confessioni? Queste pratiche non erano del resto limitate al colonialismo algerino, come è testimoniato per esempio dal processo ai parlamentari in Madagascar – che aveva seguito l’insurrezione del 29 marzo 1947, la cui sanguinaria repressione aveva in precedenza fatto decine di migliaia di morti6. Ma al di là, o piuttosto al di qua, di questa esperienza-limite che è la tortura, si è in diritto di chiedersi se l’essere in cerca di confessioni da parte del colonizzato non si situi nel cuore stesso del funzionamento quotidiano dei meccanismi di assoggettamento coloniale. In altri termini, non si è avuta una cultura coloniale della confessione? Sollevare tale questione non significa tanto impegnarsi a prendere delle culture altre (non occidentali) come oggetto, quanto piuttosto decentrare la cultura occidentale della confessione magistralmente descritta da Foucault, ovvero pensare a partire dai suoi margini, da questo fuori che sono gli spazi coloniali. Pensare la confessione coloniale significa, in questo senso, dare inizio alla scrittura di una storia della verità nelle colonie all’interno della questione foucaultiana della produzione storica della verità, aggiungendovi, mediante lo stesso gesto, anche quella della sua localizzazione geografica (e geopolitica): «dov’è la verità?»7. Pensare la confessione coloniale equivale così a operare una decolonizzazione della verità, ovvero (in termini più foucaultiani) un’interpretazione decoloniale delle forme aleturgiche. In questa sede non possiamo fare altro che limitarci a dare inizio a un simile compito. Da questo punto di vista, ci sembra particolarmente euristico mettere alla prova il pensiero di Foucault con gli scritti dello psichia5 Tralasciamo qui un’altra storia, quella del Processo di Mosca (1936-1938), che fu – con ritardo e a seguito della pubblicazione di L’aveu di Artur London sul Processo di Praga (A. London, L’aveu. Dans l’engrenage du procès de Prague, Gallimard, Paris 1968) – fonte di un’importante letteratura che interrogava non tanto i fatti in sé, ormai riconosciuti come tali, quanto invece le ragioni per cui gli accusati passavano alle «false» confessioni (si veda come esempio A. Kriegel, Les grands procès dans les systèmes communistes, Gallimard, Paris 1972). 6 Cfr. P. Stibbe, Justice pour les Malgaches, Seuil, Paris 1954; J. Tronchon, L’insurrection malgache de 1947, Karthala, Paris 1986; P. Vidal-Naquet, La torture dans la République, Éditions Maspéro, Paris 1972, pp. 18-19. 7 Abbiamo tratto questa formula da uno scambio personale con Seloua Luste Boulbina.


52 Matthieu Renault tra e teorico delle decolonizzazioni Frantz Fanon, confrontando Foucault con le riflessioni relativamente sconosciute di Fanon sulla confessione (l’aveu-confession) in quanto posta in gioco fondamentale del conflitto coloniale e, inversamente, fare uso degli scritti di Foucault in quanto strumento per interpretare le riflessioni che Fanon dedica agli atti di produzione della verità in situazione (de)coloniale. In questo modo ci auspichiamo di contribuire, per quanto modestamente, alla già prolifica impresa di interpretazioni, di appropriazioni e di traduzioni postcoloniali dell’opera di Foucault8. I luoghi della confessione: la “leturgia” (anti)coloniale Per Fanon, la storia della verità nelle colonie è in primo luogo una non-storia: la situazione coloniale si definisce precisamente come congeCom’è stato sottolineato da Sandro Mezzadra, la teoria foucaultiana è diventata quello che Edward W. Said chiama una Travelling Theory: oggetto di appropriazioni entro spazi geografici e contesti sociopolitici molteplici, oggetto quindi di traduzioni e trasformazioni (S. Mezzadra, En voyage. Michel Foucault et la critique postcoloniale, in Michel Foucault, a cura di Ph. Artières, J.-F. Bert, F. Gros e J. Revel, L’Herne, Paris 2011), la cui analisi sistematica costituirebbe di certo un contributo fondamentale a un’epistemologia politica della circolazione internazionale delle idee. Questa tradizione di interpretazioni resta segnata dall’opera di Ann Laura Stoler, Race and the Education of Desire, che testimonia un doppio registro di questioni sui limiti europei-coloniali del discorso di Foucault (le frontiere del sapere foucaultiano) e sui trasferimenti (transfert)/spostamenti dei suoi concetti al di là della loro “terra d’origine” (i “viaggi” del discorso foucaultiano). Quello che interessa di più Stoler – e che da allora non ha cessato di attirare l’attenzione degli interpreti che si curavano di interrogare il silenzio di Foucault sul colonialismo – è la questione della nascita della biopolitica, intimamente legata all’emergere di un razzismo di Stato, il quale, per essere concepito da Foucault come razzismo che si esercitava all’interno dell’Europa, era nondimeno venuto a svilupparsi, come egli afferma, «in primo luogo con la colonizzazione, vale a dire con il genocidio colonizzatore». E Foucault fa allusione, come Aimé Césaire prima di lui, ai «numerosi effetti di ritorno» che la colonizzazione ha potuto avere «sui meccanismi di potere in Occidente» (M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/Gallimard, Paris 1997, pp. 229, 89; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 222, 91. Tuttavia, sostiene Stoler, «è l’inizio e la fine della storia», poiché Foucault non ha mai più elaborato tali questioni (A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995, p. 75). Sulle relazioni di Foucault con la questione (post)coloniale, si vedano anche M. Foucault, Michel Foucault et le zen : un séjour dans un temple zen (1978) e L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté (1984), in Dits et écrits II, cit., pp. 618 e 1529-1530. 8


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lamento del processo storico-dialettico, la fine (prematura) della storia. La verità non sfugge al manicheismo coloniale, allo schema antidialettico del doppio che governa il colonialismo. Le coscienze coloniali (colonizzatrice e colonizzata) sono, sostiene Fanon in Pelle nera, maschere bianche, delle false coscienze (razziali). Quanto alla verità che il civilizzatore consegna al “selvaggio”, si tratta di «una verità tutta bianca»9. L’errore è in sé necessariamente tutto nero. Soggetto e predicato sono intercambiabili: l’errore è nero = il Nero è errore; la verità è bianca = il Bianco è verità. Si tratta di una verità razzializzata che non è nient’altro che l’attributo di una razza usato contro un’altra, com’era stato illustrato da Sartre in La sgualdrina timorata10. Tuttavia, in opposizione alla négritude, Fanon rifiuta già di porsi «il problema della verità nera»11. Disfare l’identificazione della razza e della verità significherà per lui mettere in questione le politiche della verità in situazione coloniale. Con un gesto quasi foucaultiano, Fanon comincia a svolgere questo compito passando dal problema della verità a quello delle “condotte di verità” (conduites de vérité). Già prima di lui, lo scrittore afro-americano Richard Wright aveva affermato che, in situazione razziale, la regola per il Nero non è più quella di dire il vero, ma di prendersi gioco della verità e della menzogna per sottrarsi all’ira del padrone: «determinavamo automaticamente se fosse attesa una risposta affermativa o negativa; e rispondevamo non in termini di verità oggettiva, ma a seconda di quello che l’uomo bianco avrebbe voluto sentire»12. In relazione a tutto ciò, è in occasione del cinquantatreesimo Congrès de Psychiatrie et Neurologie de Langue Française, nel 1955, in una comunicazione intitolata Conduites d’aveu en Afrique du Nord, che Fanon si impegna a riflettere sulle “condotte di verità” in situazione coloniale, una riflessione che affonda le sue radici nella sua pratica della perizia psichiatrica. Il problema che egli solleva è il seguente: se il medico incaricato della perizia deve sforzarsi per scoprire «la verità dell’atto che 9 F. Fanon, Peau noire, masques blancs, Seuil, Paris 1971, p. 120; trad. it. Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro, a cura di M. Sears, Marco Tropea Editore, Milano 1996, p. 130. 10 J.-P. Sartre, La putain respectueuse, in Théâtre complet, Gallimard, Paris 2005, p. 217, ma si vedano anche pp. 223-224, 230; trad. it. di G. Monicelli, La sgualdrina timorata, in La sgualdrina timorata, Nekrassov, Mondadori, Milano 1989, pp. 21-61. 11 F. Fanon, Peau noire, masques blancs., cit., p. 230; trad. it. cit., p. 201. 12 R. Wright, 12 Millions Black Voices, Thunder’s Mouth Press, New York 2002, p. 41 [trad. it. nostra (N.d.T.)]. Si veda anche S. de Beauvoir, Le deuxième sexe. I. Les faits et les mythes, Gallimard, Paris 2007, p. 403; trad. it. di R. Cantini e M. Andreose, Il secondo sesso, il Saggiatore, Milano 1961.


54 Matthieu Renault sarà il fondamento della verità del suo autore»13, egli si confronterà, nell’Algeria coloniale, con un diniego sistematico da parte degli accusati indigeni, o ancora, con una ritrattazione (rétractation) – nozione che deve essere intesa non solo in senso giudiziario, ma anche in senso psicologico/psicanalitico, in quanto meccanismo di difesa14. Non si dovrebbe allora concordare con gli psichiatri coloniali e riconoscere la verità di questa proposizione: «Il Nordafricano è un bugiardo»? Così si dirà pure che «la razza soffre di una propensione a mentire, a dissimulare volontariamente la verità, oppure che è incapace di discernere il vero dal falso»15. L’indigeno non saprebbe apprezzare la verità o perché è incapace di distinguerla (errore), o perché non smette di dissimularla (menzogna). Ma questa argomentazione, dice Fanon, «si sbarazza del problema senza risolverlo» – come l’argomentazione che pretende di render conto della criminalità indigena richiamandosi a un’enigmatica «impulsività criminale» dell’Arabo. Quello su cui piuttosto occorre interrogarsi è il vissuto (vécu) dell’atto, «i fatti visti da colui che è accusato», sostituendo all’approccio nosologico un approccio esistenziale – approccio che, prima di essere del tutto rigettato da Foucault, sarebbe comunque stato adottato nella sua prima opera, Malattia mentale e personalità. Questo ci indica già che non è tanto dal punto di vista della postura teorica, quanto piuttosto da quello dell’attenzione portata alla materialità delle pratiche, che è possibile stabilire un dialogo tra Fanon e Foucault. Comprendere il diniego dell’atto presuppone quindi per Fanon di analizzare «l’orchestrazione della menzogna», rompendo completamente con la divisione manichea del vero e del falso; «ad ogni modo, il mentitore stesso è un essere che si pone costantemente la questione della verità»16. Il fatto è che, in situazione coloniale, dire il vero non ha altro significato per il colonizzato se non quello di dar prova di fedeltà e di sottomissione a colui che «lo tiene […] in suo potere». La verità del colonizzatore non può che apparire sospetta al colonizzato, alla stregua della sua oggettività: «Per il 13 F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Congrès de Psychiatrie et de Neurologie de langue française, LIIIe session, Nice 1955, pp. 657-660, ristampato in «L’information psychiatrique», vol. 51 (1975), n. 10, pp. 1115-1116 [trad. it. nostra, come in tutti i successivi passaggi tratti da questo testo (N.d.T.)]. 14 A. Freud, Le moi et les mécanismes de défense, PUF, Paris 2001; trad. it. L’io e i meccanismi di difesa, a cura di L. Zeller Tolentino, Martinelli, Firenze 1967. 15 F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord, cit., p. 1116. 16 Ibidem. Si veda anche J. Lacan, Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse en criminologie, in Écrits 1, Seuil, Paris 1999, p. 124; trad. it. Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, pp. 119-144.


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colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui»17. La confusione del vero e del falso non è dunque la conseguenza di una qualsivoglia debolezza biologico-costituzionale; è piuttosto un meccanismo di difesa contro le aggressioni coloniali. Se Fanon parla di denegazione dell’atto, è ancora una volta in un senso che è pure psicanalitico: la difesa del colonizzato non è una negazione logica. Essa rivela tanto quanto dissimula, si mostra nascondendosi: il colonizzato dice il vero nel falso. Queste pratiche di “verità” svolgono allora per Fanon il ruolo di analizzatore delle relazioni colonizzatore-colonizzato. Ritornando a L’anno V della rivoluzione algerina, nel suo articolo seminale sulla confessione, Fanon evoca «la condotta globale del colonizzato, che non ha quasi mai atteggiamenti veritieri (conduites de vérité) verso il colonizzatore. Il colonizzato non si apre mai, non si confessa mai, non si rende mai trasparente in presenza del colonizzatore». «Di fronte all’occupante, l’occupato comincia a nascondersi, a barare (ruser)»; impara a diventare impermeabile al colonizzatore, ai suoi pensieri come ai suoi desideri; impara a costruire delle barriere di protezione, delle superfici deformanti che falsano ogni contatto. Impara insomma le tecniche della menzogna: «Allo scandalo dell’occupazione militare, oppone lo scandalo del contatto. Ogni incontro dell’occupato con l’occupante diventa menzogna»18. Fanon invoca il tema della confessione un’ultima volta a proposito della tortura. Il trattamento dei «patrioti algerini» con il siero della verità (pentotal) volto a un’estorsione di confessioni provoca, scrive Fanon in I dannati della terra, una confusione generalizzata del vero e del falso: «C’è indistinzione fondamentale del vero e del falso. Tutto è vero e tutto è falso nello stesso tempo»19. Già in L’anno V della rivoluzione algerina, egli scriveva a proposito del siero della verità che «la conseguenza più importante ci è parsa essere l’incapacità di distinguere tra il vero e il falso»20. Per quanto sia un’esperienza-limite, la tortura rivela non meno perfettamente l’iscrizione coloniale della verità e della conoscenza, in questo caso medica, anche in seno alle pratiche di assoggettamento: «la scienza spoliticizzata, la scienza posta al servizio dell’uomo, nelle colonie è spesso un non senso»21. Al conF. Fanon, Les damnés de la terre, Gallimard, Paris 1991, p. 109; trad. it. I dannati della terra, a cura di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1972, p. 39. 18 F. Fanon, L’an V de la révolution algérienne, La Découverte & Syros, Paris 2001, pp. 114n. e 49; trad. it. di F. Del Lucchese, Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algerina, vol. II, a cura di M. Mellino, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 109n. e 63. 19 F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 340; trad. it. cit., p. 217. 20 F. Fanon, L’an V de la révolution algérienne, cit., p. 127; trad. it. cit., p. 118. 21 Ivi, p. 130; trad. it. cit., p. 120. 17


56 Matthieu Renault trario, le pratiche decoloniali di emancipazione dovranno essere pratiche di «liquidazione di tutte le false verità» (non-vérités)22 coloniali. Le politiche decoloniali dovranno essere politiche di verità. In che misura questa dislocazione (translation), in situazione coloniale, dell’interpretazione delle pratiche di confessione è fonte di spostamenti (déplacements) epistemici, di traduzioni (traductions) teoriche? Quello che Fanon svela si potrebbe chiamare a ragione una ricerca coloniale della confessione. Il colonialismo non cerca solo di imporre il proprio dominio, di sottomettere i corpi colonizzati; ma cerca anche di conquistarne le menti, di penetrarne le coscienze, di ottenere, anche estorcendolo, il consenso del colonizzato al suo stesso asservimento. In questo dispositivo la confessione è un elemento essenziale. Quel che desidera il colonizzatore è che, per il colonizzato, dire il vero su di sé non significhi niente di più che autenticare la verità coloniale. Si tratta di una verità che, per essere fondata, deve essere detta da colui che ne verrà soggiogato – e qui si ha già un segno della precarietà e delle insicurezze che affliggono il potere coloniale. Riassumendo, quel che la confessione coloniale cerca di produrre è la perfetta identità di soggettivazione e assoggettamento del colonizzato. Tuttavia, non è tanto questa ricerca coloniale della confessione che interessa Fanon, quanto le resistenze che il colonizzato viene immediatamente ad opporle: diniego, denegazione, dissimulazione, eccetera23. Fanon non problematizza tanto la confessione coloniale bensì la sua negazione, il rifiuto della confessione, la sconfessione (dés-aveu). In altri termini, problematizzare il dir-vero del colonizzato, l’aleturgia coloniale, per lui significa soprattutto pensare il dir-falso, che potremmo chiamare – sottraendo la “a” privativa di aleturgia – la “leturgia” anticoloniale. Non si tratta in nessun caso di sostituire la seconda alla prima, bensì di affermare che le politiche postcoloniali di verità non possono cominciare che come politiche del falso. Questo dir-falso, nella misura in cui rivela la «menzogna coloniale», è già un atto di verità: in virtù di un passaggio al limite, la dissimulazione diventa manifestazione di verità. Invertendo la formula foucaultiana, il leitmotiv di Fanon potrebbe essere il seguente: “dire il falso, fare bene” (“dire faux, bien faire”). Fanon si interessa non meno di Foucault alle profonde relazioni F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 367; trad. it. cit., p. 238. Le tesi di Fanon a questo riguardo non possono non evocare le analisi di James Scott. Si veda J.C. Scott, La domination et les arts de la résistance. Fragments du discours subalterne, Éditions Amsterdam, Paris 2009; trad. it. Il dominio e l’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale, a cura di R. Ambrosoli, Eleuthera, Milano 2006 [ed. or., Domination and the Arts of Resistance. Hidden Transcripts, Yale University Press, New Haven 1990]. 22 23


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che legano verità e soggettività. Dislocando questa storia al di là dell’Europa, egli dimostra che la soggettivazione anticoloniale non può che avere inizio come contro-soggettivazione. Tuttavia, egli non arriva mai a postulare l’esistenza di una qualunque verità nascosta del colonizzato che sopravvivrebbe dietro la maschera del “falso”. Sotto di essa non vi è nulla, se non, forse, alla maniera di Nietzsche, una moltitudine di altre maschere. Nella fase di contro-confessione, o di sconfessione, fase di resistenza passiva o, dice Fanon, di contro-assimilazione, il colonizzato resta interamente in una situazione falsata (en porte-à-faux) dinnanzi a se stesso. Questo perché la questione della decolonizzazione non potrà evitare di essere anche una questione relativa alle condizioni di emergenza di un discorso vero del (de) colonizzato su se stesso, di una soggettivazione postcoloniale. Dialettica della verità: l’aleturgia decoloniale Fanon svela la mutazione delle pratiche di produzione di verità durante le lotte di liberazione nazionale. Prima del combattimento, il colonizzato algerino aveva approntato delle “resistenze”, dei meccanismi di difesa che si traducevano in un ripiego sui “valori” autoctoni. Questa «cultura della cultura» ripeteva, invertendola, la scissione coloniale del vero e del falso: «Il passato, ormai costellazione di valori, si identifica con la Verità»24; «la verità è innanzitutto proprietà indiscutibile degli anziani»25. Questa controassimilazione, che Fanon qualifica ugualmente come negritudine, si offriva allora come rifiuto indifferenziato e globale di tutte le verità e dei valori dell’occupante. Fanon non celebra mai questo rifiuto, questo «disinteresse e [questa] diffidenza quasi meccanica» che non sono altro che fonti di «contrapposizioni nette, rigide, statiche»; ma non si tira nemmeno così indietro da non poter affermare che «oggettivamente sarebbe meglio scegliere questi valori». Per questa ragione, talvolta, il colonizzato si vede «costretto, in nome della verità e della ragione, ad accettare certe forme di presenza dell’occupante». L’insolubile dilemma risiede nel fatto che la verità del colonizzatore si presenta sempre anche come «verità della presenza francese nella sua forma coloniale» in Algeria; il riconoscimento delle verità del colonizzatore da parte dell’Altro/colonizzato è immediatamente F. Fanon, Racisme et culture, in Pour la révolution africaine. Écrits politiques, La Découverte & Syros, Paris 2001, p. 48; trad. it. di F. Del Lucchese, Razzismo e cultura, in Scritti politici. Per la rivoluzione africana, vol. I, a cura di M. Mellino, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 54. 25 F. Fanon, L’an V de la révolution algérienne, cit., p. 85; trad. it. cit., p. 89. 24


58 Matthieu Renault tradotto in legittimità del dominio: «La verità espressa obiettivamente è costantemente viziata dalla menzogna della situazione coloniale»26. Con l’inizio della lotta di liberazione nazionale, «la verità […] sfugge ai suoi depositari tradizionali e si mette alla portata di chiunque la cerchi»27. Questo inizio dell’emancipazione coloniale segna ugualmente il ritorno di Fanon a uno schema dialettico (“anti-foucaultiano”) che però di fatto si era rivelato inadeguato per pensare la situazione coloniale, nella misura in cui quest’ultima si definiva mediante una pura dualità (senza alcuna unità soggiacente e quindi senza contraddizione), mediante il manicheismo (antidialettico). Nella lotta invece, afferma Fanon, si produce un’inversione degli atteggiamenti nei confronti dei “doni” del colonizzatore: al “no” radicale si sostituisce un “sì” non meno radicale. Viene a operarsi un «superamento dialettico», testimoniato soprattutto dalla massiccia appropriazione (l’addomesticamento, la digestione – dice ancora Fanon) della radio da parte del colonizzato algerino, radio che precedentemente era rifiutata in quanto tecnica del nemico e quindi puro vettore del messaggio e dei costumi del colonizzatore. Da allora comincia una vera “guerra di onde”, dal momento che le forze coloniali si sforzavano senza sosta di far tacere le radiodiffusioni che celebravano la rivoluzione algerina. Ma è precisamente questo «sabotaggio nemico», questo desiderio di imbavagliare la parola del colonizzato che rivela, come il negativo di una fotografia, l’intensità della lotta. Cercando di velare la voce del colonizzato, il colonizzatore ne manifesta l’esistenza, la disvela. E Fanon conclude: «Alla verità dell’oppressore, respinta un tempo come menzogna assoluta, è opposta un’altra verità finalmente agita […]. Sono le difese dell’occupante, le sue reazioni, le sue resistenze a sottolineare l’efficacia dell’azione nazionale e a renderla partecipe di un mondo di verità»28. Questa formula rivela già tutta la complessità di un ipotetico dialogo tra Fanon e Foucault; poiché il fatto che Fanon dica di questa verità che essa è agita prova che egli la concepisce soprattutto in termini soggettivi ed etici, come “performativa”, in quanto “condotta di verità”; nondimeno, egli integra immediatamente questa condotta come momento di un processo dialettico. Quel che si scopre in questa «pratica dialettica» non è nient’altro, per Fanon, che la pura e nuda verità, separata da ogni scoria come lo è il metallo puro, per riprendere le parole di Hegel. Il disturbo della trasmissione delle onde radio ha importanti ripercussioni sullo stesso processo di ascolIvi, pp. 129, 46-47, 109, 115, corsivi miei; trad. it. cit., pp. 119, 60, 106, 110. Ivi, p. 86; trad. it. cit., p. 90. 28 Ivi, p. 59; trad. it. cit., p. 70. 26 27


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to e di interpretazione: la «Voix»29 radiodiffusa è «spezzata, discontinua», l’interpretazione del messaggio che porta richiederebbe un lavoro collettivo di elaborazione, una «creazione autonoma dell’informazione» che è un’alterazione della verità in quanto «scelta deliberata […] tra la menzogna congenita del nemico e quella propria del colonizzato, che assume a un tratto una dimensione di verità»30. Quel che Fanon si propone qui di pensare è una paradossale menzogna vera: si tratta di una verità ancora fantomatica, e in parte fantasmatica, che, nei termini di Merleau-Ponty, si nasconde mostrandosi e si mostra nascondendosi31. Per Fanon, una verità postcoloniale potrà manifestarsi solo nei termini di un’esigente pratica di decolonizzazione dei corpi e delle menti. Questa verità postcoloniale perverrà ad affermarsi realmente e a disfarsi della menzogna? È legittimo dubitarne quando si assiste alla radicalizzazione dell’intento di Fanon ne I dannati della terra, ove egli scrive: Il problema della verità deve pure fissare la nostra attenzione […]. Alla menzogna della situazione coloniale, il colonizzato risponde con ugual menzogna […]. Il vero è ciò che precipita lo smembramento (dislocation) del regime coloniale, è ciò che favorisce l’emergere della nazione. Il vero è quel che protegge gli indigeni e rovina gli stranieri. Nel contesto coloniale non ci sono comportamenti di verità (conduites de vérité). E il bene è semplicemente quel che a loro fa del male32.

Leggendo queste righe ci si può domandare se il desiderio di rottura radicale con l’Europa che Fanon esprime nella sua ultima opera non si accompagni a una ripetizione/inversione del manicheismo coloniale: al perfetto equilibrio della violenza (coloniale) e della contro-violenza (anticoloniale) risponderebbe la non meno esatta aritmetica della menzogna e della contro-menzogna, senza che possa più aprirsi alcun orizzonte di verità. Non si dovrebbe comunque dimenticare che la contro-violenza, per Fanon, non è mai altro che una fase della “vera” decolonizzazione. Se questa inizia con una conversione alla violenza, deve in seguito dare luogo [Il riferimento è alla Radio de la voix de l’Algérie combattante (Radio della voce dell’Algeria combattente), una radio locale mobile, nata il 16 dicembre del 1956 durante la guerra d’Algeria, la quale giocò un ruolo importante nella “guerra delle onde” contro “Radio-Alger”, la stazione radio gestita dalle autorità coloniali francesi (N.d.T.)] 30 Ivi, p. 71; trad. it. cit., pp. 78-79. 31 M. Merleau-Ponty, Les aventures de la dialectique, Gallimard, Paris 2000, p. 62; trad. it. Le avventure della dialettica, in Umanismo e terrore e le avventure della dialettica, a cura di A. Bonomi, Sugar Editore, Milano 1965, p. 250. 32 F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 81; trad. it. cit., p. 16. 29


60 Matthieu Renault a una conversione della violenza, ovvero trasformare l’insurrezione quasi bestiale degli inizi in lotta politica di decolonizzazione. Nella conclusione de I dannati della terra, Fanon afferma che la decolonizzazione deve non soltanto essere in rottura con l’occupante, ma anche nuovo inizio (recommencement); ovvero essa deve essere inseparabilmente abbandono (déprise) e ripresa dei doni del colonizzatore, doni che dovevano essere oggetto di quel che Fanon chiamava, già in L’anno V della rivoluzione algerina, una quasi invenzione. Non può essere diversamente per la verità: essa non è data, non basta dis-velarla; secondo Fanon bisogna portarla a essere, farla. Si deve (re) inventarla. Sono proprio questi atti di produzione/invenzione di una verità che attirano l’interesse di Fanon verso quel che si rivela adesso qualcosa che potremmo a giusto titolo chiamare una aleturgia decoloniale33. Ma da questo punto di vista, com’è possibile che per Fanon la storia della verità nelle colonie resti da concepire in termini essenzialmente dialettici? Fanon, seguendo Hegel, non invita a rompere la rigida opposizione del vero e del falso? E come Lukács, non pensa che «il “falso” è al tempo stesso, come “falso” e “non falso”, un momento del “vero”»34? E non si è forse rivolto, con Merleau-Ponty, a problematizzare la «mescolanza del falso e del vero»35? Non afferma, come Kojève, che «la verità si crea nel corso del tempo»36 e non può che presentarsi mediante l’azione? Non concepisce forse, proprio come Trotskij, la menzogna come arma da guerra, come strumento necessario nella lotta per l’avvento di una società senza classi e senza razze e quindi senza menzogna37? Questo raQuesto concetto è il frutto di lunghi scambi con Orazio Irrera nel quadro del seminario che dirigiamo a Parigi, tra l’Université Paris-Est Créteil e la Fondation Maison des Sciences de l’Homme, intitolato Décolonisation et géopolitique de la connaissance (già La décolonisation des savoirs), cfr. http://decolonisationsavoirs.wordpress.com/. 34 G. Lukács, Histoire et conscience de classe. Essais de dialectique marxiste, Les Éditions de Minuit, Paris 1960, p. 15; trad. it. Storia e coscienza di classe, a cura di G. Piana, Mondadori, Milano 1973, p. lxx. 35 M. Merleau-Ponty, Les aventures de la dialectique, cit., p. 60; trad. it. cit., p. 249. L’influenza di Le avventure della dialettica su questi ultimi scritti di Fanon richiederebbe di essere scrupolosamente esaminata, allo stesso titolo, del resto, di quella esercitata da Umanismo e terrore. 36 A. Kojève, Hegel, Marx et le christianisme, citato da M. Filoni, Le philosophe du dimanche, La vie et la pensée d’Alexandre Kojève, Gallimard, Paris 2010, p. 252; trad. it. Hegel, Marx e il Cristianesimo, in J. Hyppolite, A. Kojève, A. Koyré e J. Wahl, Interpretazioni hegeliane, a cura di R. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 283-309, in part. pp. 285-286. 37 L. Trotskij, Leur morale et la nôtre, J.-J. Pauvert, Paris 1966, pp. 69-71; trad. it. La loro morale e la nostra, De Donato, Bari 1967. Sul tema dialettico della falsa coscienza, bisogna 33


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dicamento dialettico non inscrive irrimediabilmente il pensiero di Fanon in una episteme con cui Foucault non avrebbe mai smesso di voler rompere? In una prospettiva foucaultiana, Fanon non rappresenta, proprio come Sartre, ciò che è passato e sorpassato, quel che in ultima analisi renderebbe il nostro tentativo di comparazione quantomeno fragile? È sicuramente così. Ma questa differenza è puramente negativa? Non può insegnarci qualcos’altro? Non bisogna continuare a stupirsi della singolare e improbabile combinazione di una dialettica della verità e di un’analisi delle forme aleturgiche in situazione coloniale? Questa congiunzione non è suscettibile di mettere in questione delle rotture epistemiche che si potrebbero dare per scontate? Eppure, e per fare ancora riferimento ad opposizioni disegnate da Foucault, Fanon si cura poco di distinguere il progetto di una «storia politica delle veridizioni» (del dir-vero) dalla determinazione (dialettico-marxista) dei «meccanismi delle illusioni o delle ideologie»38. Alla stessa maniera, nella prospettiva di Fanon si mescolano inseparabilmente «strutture epistemologiche» e «forme aleturgiche», nella misura in cui è precisamente a partire da un’interrogazione sulle “condotte di verità” che egli solleva il problema delle condizioni di possibilità di un autentico discorso (postcoloniale) di verità. Infine, nei testi di Fanon si ibridano pratiche di liberazione e pratiche di libertà, là dove Foucault, prendendo esplicitamente l’esempio delle lotte anticoloniali, concepiva le prime come «condizione politica e storica» per una pratica della libertà irriducibile ad esse, dovendosi essa definire e affermare «successivamente»39. Si potrebbe obiettare che non si tratta dopo tutto che di residui dialettici che oggi bisognerebbe espungere per liberare la forza critica del pensiero di Fanon, facendo di quest’ultimo un nostro contemporaneo. È a grandi linee quello che afferma Homi K. Bhabha, che ha sempre opposto un “Fanon buono” proto-poststrutturalista a un “Fanon cattivo” hegeloricordare che esso non è per nulla messo da parte durante il «passaggio alla confessione» di Fanon. In effetti, in un manoscritto inedito sulle Conduites d’aveu, la condizione di possibilità della confessione è un «assenso soggettivo verso la sanzione». Ma, se la sanzione «vuole indirizzarsi a una libertà, a una coscienza», bisogna ancora una volta che questa «coscienza sia vera»; cfr. F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Résumé de communication à la 53ème session du Congrès des médecins aliénistes et neurologues de langue française, inédit, Archives Frantz Fanon (IMEC). 38 M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 9. 39 M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, cit., pp. 1729-1730; trad. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit.., pp. 274-275.


62 Matthieu Renault esistenzialista40. Ma questo non significa escludere a priori ogni comprensione della peculiarità dell’intervento teorico di Fanon? Poiché, per restare sul caso di cui ci stiamo occupando, non è contro Hegel e in maniera semplicemente negativa, ma invece a partire da lui e attraverso uno spostamento (trasformazione, traduzione) della dialettica hegeliana del servo-padrone ai margini dell’Europa, ed è inoltre da un punto di vista anticoloniale – secondo quello che potremmo chiamare una pratica di dis-eredità – che Fanon viene ad adottare una prospettiva che prefigura, sotto certi aspetti, il pensiero foucaultiano. Bisogna quindi per così dire lasciar essere e dispiegare – al di là di quel che possiamo fare in questa sede – questa tensione dialettico-aleturgica. Piuttosto che cercare di localizzare immediatamente Fanon nella storia intellettuale “europea” del ventesimo secolo, si rivela molto più decisivo chiedersi come il suo sguardo da fuori, la sua prospettiva decentrata (dalle colonie), ci permetta di riconsiderare questa storia, di reinterrogare i conflitti epistemici che si sarebbero potuti pensare puramente interni al mondo intellettuale europeo. Questo compito non può fare a meno di inscriversi all’interno del vasto progetto di formazione di una epistemologia decoloniale. Il soggetto della confessione: dal contratto sociale alla guerra delle razze La precoce apertura di Fanon alla questione del dir-vero non resta meno fortemente dipendente da una prospettiva psichiatrica che, lungi dallo sfuggire al “sapere foucaultiano”, ne costituisce invece uno degli oggetti fondamentali. Poiché leggere Foucault significa anche comprendere, come dice Françoise Vergès, che la pratica psichiatrica di Fanon «resta contenuta nell’istituzione psichiatrica»41, quali che siano queste rivoluzioni che hanno costituito, attraverso un Fanon erede della psicoterapia istituzionale, l’introduzione della socioterapia in Algeria successivamente a quella del ricovero giornaliero in Tunisia. Nella sua conferenza inaugurale all’Università di Lovanio, Foucault, invitato dalla Faculté de Droit, dice di voler pensare la confessione nella prospettiva delle relazioni tra «dir vero H.K. Bhabha, Interroger l’identité : Frantz Fanon et la prérogative postcoloniale, in Les lieux de la culture. Une théorie postcoloniale, Payot & Rivages, Paris 2007; trad. it. Interrogare l’identità. Frantz Fanon e la prerogativa postcoloniale, in I luoghi della cultura, a cura di A. Perri, Meltemi, Roma 2001, pp. 61-96 [ed. or., The location of culture, Routledge, London/New York 1994]. 41 F. Vergès, Dialogue, in A. Read (a cura di), The Fact of Blackness. Frantz Fanon and Visual Representation, Institute of International Visual Art/Bay Press, London/Seattle 1996, p. 140 [trad. it. nostra (N.d.T.)]. 40


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e giudicare»42. Il problema che egli solleva nelle successive conferenze è quello del «collegamento» o della «contaminazione reciproca» tra il soggetto del diritto e il soggetto della confessione – che fu in precedenza il «soggetto della veridizione spirituale per come è stato costituito attraverso [le] tecniche monastiche»43. A questo riguardo, l’identificazione fatta da Fanon della verità dell’atto con la verità del suo autore non si rivela essere nient’altro che la fine di una lunga storia che è la stessa della progressiva giuridificazione delle “condotte di confessione” (conduites d’aveu): «immensa mutazione che fa sì che si passi da un giudizio penale su degli atti a una strana azione giudiziaria che ha per oggetto, per principio di razionalità e di misura, la verità manifestata dall’individuo nella sua interezza»44. Concentrando la propria attenzione sull’introduzione della perizia psichiatrica nelle questioni penali45, Foucault afferma che in un sistema governato dalla «fame di confessione» la perizia psichiatrica ha precisamente la funzione di rimediare a quelle situazioni in cui la confessione non funziona. Sostituendosi all’autoveridizione del soggetto, la perizia psichiatrica in quanto procedura di eteroveridizione mira allora a «fare emergere questa verità del criminale che il criminale stesso non è capace di formulare». «Lente di ingrandimento», la perizia psichiatrica rivela, dice Foucault, l’ultima mutazione della funzione della confessione. Quello che attualmente si tratta di mettere in rilievo è «una soggettività che intrattiene con il suo crimine una relazione significante»: è un «soggetto criminale»46. Quel che si tratta di ottenere, non è tanto il riconoscimento del fatto costituito dal crimine, quanto piuttosto la conoscenza del senso che gli attribuisce il suo autore. Che cosa pertanto Foucault prende qui come oggetto se non proprio la posizione teorica di Fanon? Se gli scritti di Fanon hanno costituito finora un inestimabile strumento di decentramento dell’interpretazione foucaultiana della confessione, Foucault ci svela a sua volta l’accentramento (centration) intellettuale e professionale di Fanon, il suo «eurocentrismo»47. M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., pp. 11 e 169. Ivi, p. 150. 44 Ivi, p. 12. Questa introduzione della confessione nelle pratiche giudiziarie, questo desiderio di produrre una «felice coincidenza tra l’autore del crimine e il soggetto che doveva risponderne» è stato, aggiunge Foucault, la fonte di una deregolamentazione del sistema penale, aprendovi una «breccia irreparabile» e provocando «una crisi da cui sembra che non siamo ancora usciti» (ivi, pp. 200-201). 45 Ivi, p. 11. 46 Ivi, p. 211. 47 Su questo argomento si veda R.J.C. Young, Postcolonialism. An Historical Introduction, Blackwell, Oxford/Malden 2001, p. 276. 42 43


64 Matthieu Renault Tuttavia, impegnandosi a trasferire la questione della confessione sul piano politico delle resistenze anticoloniali e delle lotte decoloniali, a tematizzare la s-confessione (dés-aveu) in quanto pratica di (contro-)soggettivazione collettiva, Fanon si sforza di disancorare la confessione delle strutture psichiatriche e giuridiche – evidentemente non estranea agli apparati di dominazione coloniale – dalle scorie in cui era invischiata. Questa traduzione politica trova la sua migliore testimonianza nelle stesse parole che Fanon pronuncia in occasione del corso tenuto all’Università di Tunisi nel 1959: «Confessare, è confessare di far parte del proprio gruppo sociale»48. Cosa dire se non che la confessione è per definizione doppia: è dir vero su di sé e rivendicazione di appartenenza a una comunità? Fanon già lo spiegava in Conduites d’aveu en Afrique du Nord: «Vi è un polo morale della confessione […]. Ma c’è anche un polo civico e si sa che una tale posizione era cara a Hobbes e ai filosofi del contratto sociale»49. Da qui la domanda seguente: «Il mussulmano autoctono […] si sente vincolato da un contratto sociale? Si sente escluso dal suo errore? […] Che significato avrà ormai il suo crimine, l’istruzione [del processo] e infine la sanzione»50? La confessione del crimine, scrive Fanon seguendo Bergson, lui stesso lettore di Dostoevskij, è per il criminale «il prezzo del suo reinserimento nel gruppo»51. Di questo momento della storia della confessione, Foucault non aveva, ancora una volta, mancato di parlare: «La confessione è [nel suo sistema moderno] un richiamo al patto sociale, ne costituisce la restaurazione […]. Questa confessione va a porre le basi della reintegrazione [del colpevole], poiché attraverso la confessione si riconosce che si è rotto il patto fondamentale, ma riconoscendolo si effettua il primo passo o si fa il primo percorso verso questa reintegrazione»52. Se la posizione di Fanon resta comunque originale è perché egli mette le sue tesi alla prova di una situazione in cui le sue stesse premesse sono negate: come concepire la confessione dal momento che, egli afferma, non vi è e non vi è mai stato alcun patto sociale tra il colonizzatore e il colonizzato, dal momento che il colonizzato ha rigettato il contratto sociale che gli veniva proposto/imposto dal colonizzatore, contratto che di fatto non era altro che un contratto di schiavitù? Quindi, dice Fanon, non può esservi «reinserimento se non vi è F. Fanon, Rencontre de la société et de la psychiatrie (Notes de cours, Tunis, 1959-1960), CRIDSSH, realizzato con il concorso dell’ONRS e dell’APW d’Oran, p. 10, corsivi miei. 49 F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Résumé de communication, cit. 50 F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord, cit., p. 1116. 51 F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Résumé de communication, cit. 52 M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 207. 48


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inserimento»53. La confessione si vede privata da allora di ogni funzione. Se, come afferma Foucault, ogni confessione implica un altro con cui il soggetto risulta inserito in una relazione di potere54, allora forse la sconfessione (désaveu) anticoloniale non testimonia tanto una resistenza nel vero senso del termine, quanto piuttosto una volontà che resta ancora “confessione” di impotenza, volontà di situarsi al di fuori di ogni relazione di potere con il colonizzatore; volontà dello “schiavo” di sottrarsi a ogni opposizione con il padrone bianco, di situarsi al di qua del conflitto (ripiegamento) invece che andare al di là di questo (lotta). Questa negazione coloniale del contratto sociale è quel che, nel pensiero di Fanon, va a collegare il problema della verità con quello della razza, ad articolarli l’uno con l’altro e a istituire così le politiche razziali di verità come principale posta in gioco dei discorsi e delle pratiche di decolonizzazione. In effetti, testimoniare l’assenza di ogni contratto sociale tra colonizzatore e colonizzato, per Fanon che qui si ispira all’antropologia politica hobbesiana, significa affermare che «il colonialismo […] è la violenza allo stato di natura e non può piegarsi se non davanti a violenza ancora maggiore»55. Il colonialismo, secondo Fanon, è la rovina di ogni comunità politica e il ritorno allo stato di natura – di cui Hobbes non ignorava la possibilità – in cui regna lo scontro dei desideri e degli appetiti, la violenza pura. Lo stato di natura non è più il passato immemorabile del potere e del diritto politico (un’origine); è un puro effetto del potere coloniale (un divenire). Questa dislocazione dello schema hobbesiano della sovranità ne è in parte la sua contestazione. In effetti, come sottolinea Foucault, a torto Hobbes è considerato il teorico per eccellenza della guerra perpetua: «Nella guerra primitiva di Hobbes non ci sono battaglie, non c’è sangue, non ci sono cadaveri»56. Ora, quello che tematizza Fanon è a tutti gli effetti una guerra (la Guerra d’Algeria) omicida e sanguinaria; e se per Hobbes, dice F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord, cit., p. 1116. M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., pp. 6-7. 55 F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 92; trad. it. cit., p. 25. Quando Fanon afferma che il colonizzato «scopre che la sua vita, il suo respiro, i battiti del suo cuore sono gli stessi che quelli del colono […], che una pelle di colono non vale di più che una pelle di indigeno» (ivi, p. 76; trad. it. cit., p. 12.), questa uguaglianza non è in nulla un’uguaglianza in termini di valore o di dignità; non è nient’altro che l’uguaglianza che Hobbes scopriva in seno allo stato di natura, designandola come equivalente capacità che ciascuno ha di nuocere agli altri. 56 M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 79; trad. it. cit., p. 82. Il testo continua: «Ci sono solo rappresentazioni, manifestazioni, segni, espressioni enfatiche, astute, menzognere» (ibidem). Questi giochi di calcolata rappresentazione sono proprio quello che permette si sfuggire alla guerra. 53 54


66 Matthieu Renault Foucault, la guerra non è mai decisiva nella costituzione dello Stato, Fanon dal canto suo afferma che la decolonizzazione passa per una lotta a morte che dovrà mettere fine, attraverso la violenza, al regno della violenza. Piuttosto che lo schema antropologico (Hobbes, Locke, Spinoza) secondo il quale le relazioni tra Stati sono analoghe alle relazioni tra individui nello stato di natura, il discorso di Fanon sulla divisione binaria, sulla separazione manichea o ancora sulla scissione interna del mondo coloniale, mettendo colonizzatore e colonizzato faccia a faccia in un rapporto di antagonismo perpetuo, riattiva per così dire uno schema della guerra delle razze di cui Foucault aveva rivelato la profonda opposizione/comparazione con lo schema giuridico-politico di Hobbes. Il discorso di Fanon è un discorso strutturato sull’opposizione degli autoctoni e degli stranieri: «il colono rimane sempre uno straniero […], non assomiglia agli autoctoni»57. È un discorso che assegna il ruolo di principio ai «bruti fatti fisico-biologici» (vigore fisico, forza, energia, ecc.) così come agli elementi psicologici e morali (coraggio, paura, disprezzo, ecc.). È infine un discorso che non cessa di richiamarsi a una rottura profetica58. Vi è una funzione eminentemente strategica in quel che chiamiamo, in modo più euristico che descrittivo, il ritorno di Fanon alla guerra delle razze. Rimettere in gioco l’opposizione binaria delle razze non significa per Fanon opporre al razzismo coloniale un contro-razzismo, ma sovvertire il razzismo facendo leva sulle sue stesse origini, su un discorso (razziale) che non assegna ancora alla razza un senso biologico stabile59, un discorso che resta estraneo a ogni idea (razzista) di «sdoppiamento di una sola e stessa razza in una sovra-razza e in una sotto-razza»60. Fanon, che sa che la lotta delle classi in Europa implica la riproduzione della guerra delle razze nelle colonie, inverte, come dice Robert J.C. Young, «il movimento iniziale che aveva fatto Marx stesso trasformando l’analisi razziale della storia francese […] in un’analisi di classe»61. Per Fanon, i coloni non formano tanto una classe quanto una specie dirigente: «ciò che fraziona il mondo è anzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza»62. DeF. Fanon, Les damnés de la terre, cit., pp. 70-71; trad. it. cit., p. 7. Tuttavia, non è mai lo schema giuridico della cittadinanza in quanto tale che Fanon mette in questione, ma soltanto la decadenza dell’uomo-cittadino europeo e il ritorno (coloniale) al diritto del più forte. Per Fanon, affermare che la situazione coloniale è negazione di ogni contratto sociale, significa che la guerra delle razze è il disastro del politico, in nessun caso la sua verità. 59 M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 57; trad. it. cit., p. 65. 60 Ivi, p. 52; trad. it. cit., p. 58. 61 R.J.C. Young, Postcolonialism, cit., p. 278. 62 F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 70; trad. it. cit., p. 7. 57 58


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scrivere così la lotta per l’esistenza delle «due specie» coloniali, per Fanon, significa ancora una volta sovvertire le tesi d’ispirazione darwiniana – che la psichiatria coloniale aveva ereditato – della lotta biologico-razziale per la vita. E si tratta perciò di rifiutare ogni concezione del corpo sociale come realtà biologica63. Quello che fa Fanon, è rubare al nemico le sue armi (teoriche), rivoltare il razzismo contro se stesso. Rimettere in gioco l’opposizione binaria delle razze significa infine per Fanon appropriarsi di un discorso che, come il discorso della guerra delle razze analizzato da Foucault, impedisce ogni posizione che non implichi necessariamente l’appartenenza dell’enunciatore a uno dei due gruppi in lotta, e che non possa dunque tenersi se non da una decentrata posizione di combattimento. Problematizzare l’opposizione delle razze sociali/coloniali significa dunque contestare il discorso del razzismo, in cui non vi può essere che uno e un solo soggetto (centrato) di enunciazione, la sovra-razza che parla della sotto-razza. Il gesto di Fanon sortisce precisamente l’effetto di far (ri)sorgere un protagonista, di (re)introdurre un altro soggetto della storia che è anche il soggetto di una parola che dice questa (contro)storia64. Ma ancora una volta, Fanon si basava su fonti del tutto diverse da quelle di Foucault, in particolare sulla filosofia esistenziale. Come affermava Jaspers: «Portare gli uomini verso la libertà, significa spingerli a parlarsi»65. Questo “dire” è, secondo Fanon, inseparabile da un dirsi e, di conseguenza, da un rappresentarsi. Questo potere di rappresentazione – così caro ai teorici postcoloniali da Said a Spivak e la cui tematizzazione rinvia al 18 brumaio di Marx66 – è per Fanon la condizione di possibilità dell’emergere di una parola di verità, di un discorso vero del (post)colonizzato su se stesso, di una confessione postcoloniale. Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Matthieu Renault The London School of Economics and Political Science matthieu.renault@gmail.com A questo proposito, si veda M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 217. M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 116; trad. it. cit., pp. 116-117. 65 K. Jaspers, Origine et sens de l’histoire, Plon, Paris 1954, p. 195; trad. it. Origine e senso della storia, a cura di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1965. 66 Marx scriveva allora a proposito dei «contadini piccoli proprietari»: «Non possono rappresentare se stessi; devono essere rappresentati» (K. Marx, Le 18 brumaire de Louis Bonaparte, Flammarion, Paris 2007, p. 191; trad. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Ed. Riuniti, Roma 1964, p. 209). 63 64


68 Matthieu Renault . The (Anti)Colonial Confession. Race and Truth in the Colonies: Fanon after Foucault To decentre what Foucault names the (Western) culture of confession, to reveal, on its margins, the existence of a colonial culture of confession, this is the task that the writings of the psychiatrist and theorist of decolonization Frantz Fanon enjoin us to perform. Fanon scrutinizes the “practices of confession” in the colonial situation, and argues that the colonized cannot tell the truth without being subjected to the colonizer, without “saying yes” to him. Fanon demonstrates that the anticolonial subjectification has to start as a counter-subjectification (désaveu) that depends on methods of telling the untruth to the colonizer, of producing a “true lie”. However, Fanon also unveils the mutations in the making of truth during the struggles for national liberation; in other words, he shows the (dialectical) invention of a postcolonial truth. Finally, he conceives colonialism as the negation of any social contract (as a return to the state of nature) and challenges the racial politics of truth by repeating-subverting the binary opposition of the social-colonial races, by refashioning the “race war”… against colonial racism. Keywords: Foucault, Fanon, Confession, Postcolonial, Race, Truth, Alethurgy.


Protezione dislocata.

Razzializzazioni e contro-condotte della vulnerabilità per i richiedenti asilo provenienti dalla Libia in guerra Glenda Garelli

Je ne pense pas qu’il soit nécessaire de savoir exactement qui je suis. Ce qui fait l’intérêt principal de la vie et du travail est qu’ils vous permettent de devenir quelqu’un de différent de ce que vous étiez au départ1.

Introduzione

Nel contesto dei Migration Studies , la nozione di vulnerabilità presenta 2

un notevole peso specifico: in quanto operatore nella produzione dei profili dei migranti come richiedenti asilo, in quanto soggettività giuridica che presiede alla “legalizzazione” dei migranti senza permesso di soggiorno per mezzo dello status di rifugiato e, infine, in quanto dispositivo di segmentazione tra soggetti da proteggere (i rifugiati) e soggetti da deportare (i migranti “undocumented”). Il regime umanitario si fa però torbido quando, nel governo dei rifugiati, essenzializza la vulnerabilità e si preclude così la possibilità di coglierla definitivamente. A partire dalla situazione dei migranti provenienti dalla Libia in guerra e dal loro iter per la richiesta di asilo in Italia, in questo articolo identificherò una serie di effetti di razzializzazione che attraversano il dispositivo giuridico della vulnerabilità. La cassetta degli attrezzi che metterò al lavoro per dirimere i grovigli della vulnerabilità e del regime umanitario è stata elaborata da Michel Foucault, in particolare nelle sue lezioni al Collège de France. In questo senso, quello che qui presento M. Foucault, Vérité, pouvoir et soi, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 1596. 2 Sulla “vulnerabilità” e l’“umanitario” come strumenti del migration managment, cfr. D. Fassin, La raison humanitaire. Histoire morale du temps présent, Gallimard, Paris 2010; J. Hyndman, Managing Displacement. Refugees and the Politics of Displacement, Routledge, London 2000; V. Squire, The Exclusionary Politics of Asylum, Routledge, London 2009; P. Nyers, Rethinking Refugees. Beyond States of Emergency, Routledge, New York 2006. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 69-82.


70 Glenda Garelli non è uno studio su Foucault3. Si tratta piuttosto di un articolo nel quale mobilito il pensiero di Foucault per studiare i dispositivi di dominio che lavorano all’interno del regime della protezione internazionale, e in particolare la «linea del colore»4 e i profili razzializzati attraverso cui la vulnerabilità viene prodotta e lo status di rifugiato riconosciuto o denegato. Durante la sua analisi della città nel XVIII secolo, Foucault sostiene che la posta in gioco, in quella congiuntura storica, era l’«apertura spaziale, giuridica, amministrativa ed economica della città: […] risituare la città in uno spazio di circolazione»5. Poco dopo, egli precisa come questo riposizionamento venisse operato: «Si trattava […] di organizzare la circolazione, di eliminare i pericoli, di separare la buona circolazione da quella cattiva, potenziando la prima e riducendo la seconda»6. È questa nozione di regolamentazione della circolazione, questo operare una separazione tra la buona e la cattiva circolazione, che utilizzerò come griglia per studiare il dispositivo della protezione internazionale e i meccanismi che presiedono al riconoscimento o al diniego dello status di rifugiato. Sul piano metodologico, questa operazione coincide con un approccio alla “vulnerabilità” molto simile all’atteggiamento che Foucault descrive, nel 1980, parlando dei propri studi sulla follia e definendo la propria postura epistemologica come una “anarcheologia”. Più precisamente, Foucault afferma che, per capire l’internamento, occorre «prendere la follia come una x, e impossessarsi della pratica, della pratica soltanto, come se non si sapesse nulla e facendo in modo di non sapere nulla sulla follia stessa»7. Come mostrerò nelle pagine che seguono, Per una solida analisi della nozione foucaultiana di razzismo biopolitico, si veda il lavoro di Ann Laura Stoler, e in modo particolare: Toward a Genealogy of Racism. The 1976 Lectures at the Collège de France, in Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 2000, pp. 5594, e il capitolo A Colonial Reading of Foucault. Bourgeois Bodies and Racial Selves, in Carnal Knowledge and Imperial Power. Race and the Intimate in Colonial Rule, University of California Press, Berkeley 2002, pp. 140-161, tradotto per la prima volta in italiano in questo numero di «materiali foucaultiani» (supra, pp. 19-48). 4 W.E.B. Du Bois. The Souls of Black Folk, A.C. McClurg & Co., Chicago 1903, ora disponibile all’indirizzo http://www.bartleby.com/114/. 5 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, p. 23. 6 Ivi, p. 27. 7 M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012, p. 78. Riporto qui alcuni passaggi che chiariscono la posta in gioco nell’uso del concetto di “anarcheologia”: «Disons que si la grande démarche philosophique consiste à mettre en place un doute méthodique qui met en suspens toutes les certitudes, la petite démarche latérale et à contre-voie que je vous propose 3


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tale approccio anarcheologico alla “vulnerabilità” permette di focalizzare la razzializzazione iscritta nel dispositivo della protezione internazionale e nel governo della mobilità umana attraverso l’istituto dell’asilo. Nel quadro di un simile approccio foucaultiano alla “vulnerabilità” come una x, adotterò come punto di osservazione la spazialità, concentrandomi sugli operatori del governo della mobilità umana attraverso il dispositivo della vulnerabilità e sui suoi outcome spaziali. In linea con questo focus sulla spazialità, parlerò di “razzializzazione”8 più che di razza o razzismo, e organizzerò l’articolo attorno a tre predicati spaziali: nel primo episodio, discuterò le “linee del colore” lungo le quali la vulnerabilità viene profilata nella classificazione dei migranti provenienti dalla Libia in guerra e nell’analisi delle loro richieste di asilo; nel secondo episodio, rifletterò su una serie di dislocamenti operati dal dispositivo della vulnerabilità nel contesto di questa “Emergenza Nord Africa” italiana9; nell’ultimo episodio, intercetterò una “linea di friabilità” sul terreno di questa vulnerabilità razzializzata e suggerirò un possibile uso tattico della vulnerabilità giuridica. La linea del colore della vulnerabilità Sulle spiagge di Lampedusa, dove arriva la maggior parte dei migranti provenienti dalla regione delle rivolte arabe, una folla scomposta lavora però, secondo un copione condiviso, alla produzione di partizioni. È una folla fatta di forze di polizia, frontalieri, addetti delle organizconsiste à essayer de faire jouer systématiquement, non pas donc le suspens de toutes les certitudes, mais la non-nécessité de tout pouvoir quel qu’il soit. […] Il s’agit […] de mettre le non-pouvoir ou la nonacceptabilité du pouvoir, non pas au terme de l’entreprise, mais au début du travail, sous la forme d’une mise en question de tous les modes selon lesquels effectivement on accepte le pouvoir» (ivi, pp. 76-77). 8 Utilizzo questo termine non foucaultiano, “razzializzazione”, per indicare che la mia attenzione si rivolge alle componenti e agli outcome spaziali del processo attraverso il quale le persone vengono razzializzate. La razzializzaizone può essere definita come «il processo attraverso il quale qualsiasi diacritico di personalità sociale – inclusi classe, etnia, generazione, kinship/affinità e posizioni occupate nella gerarchia del potere – viene essenzializzato, naturalizzato e/o biologizzato. […] La razzializzazione, quindi, indicizza la trasformazione storica di categorie fluide di differenza a specie fisse di alterità»; P.A. Silverstein, Immigrant Racialization and the New Savage Slot. Race, Migration, and Immigration in the New Europe, in «Annual Review of Anthropology», vol, 34 (2005), pp. 363-384, p. 364 (traduzione mia). 9 Il pacchetto di decreti che il governo italiano ha emanato per fronteggiare l’arrivo di migranti provenienti dai paesi delle rivolte arabe è raccolto sotto il titolo “Emergenza Nord Africa”. Aggiungo la specificazione “italiana” per sottolineare la fabbricazione nostrana di un’emergenza a proposito di queste migrazioni.


72 Glenda Garelli zazioni internazionali, personale medico, volontari delle organizzazioni non governative, attivisti, avvocati… La chiamo “folla scomposta” perché sembra procedere senza un coordinamento formalizzato; eppure, in questa mancanza di coordinamento, riproduce ossessivamente la stessa pratica governamentale di categorizzazione dei migranti in status, incanalando la complessità degli individui in movimento all’interno dei confini netti e angusti delle soggettività giuridiche attraverso cui la mobilità umana viene governata. Quella che ho descritto qui è la scena consolidata di migration management sulla linea italiana del confine dell’Unione Europea, dove addetti delle forze dell’ordine e del terzo settore lavorano a segmentare transient communities di migranti, e dove operatori del governo delle migrazioni contano i migranti senza permesso di soggiorno, classificandoli dicotomicamente come migranti economici o richiedenti asilo e, in base a questa classificazione, assegnandoli a iter burocratici e luoghi fisici nettamente distinti: un ordine di espulsione o una domanda di asilo, un CIE oppure un CARA (un Centro di Identificazione ed Espulsione oppure un Centro di Assistenza per Richiedenti Asilo). Questa sbrigativa pratica di classificazione, partizione, demarcazione di linee, assegnazione di soggettività giuridiche, allocazione in diversi centri, è la scena comune di migration management sulle coste di una Lampedusa altamente securizzata. Tuttavia, nonostante questo script consolidato, i primi migranti approdati a Lampedusa sono stati ricevuti in una situazione di estrema confusione. Una confusione in cui la scena sopra descritta è stata temporaneamente destabilizzata. Al di là delle componenti vernacolari, la confusione sul terreno è stata anche il risultato di una reticenza rispetto ai popoli delle “Primavere Arabe”, non così facilmente liquidabili in anonima folla di “illegali”, specialmente quando le loro rivoluzioni erano, proprio in quegli stessi giorni, convenientemente inquadrate come “Risveglio” dai media occidentali; e specialmente in un contesto ove il regime securitario del migration management, nelle diverse scale in cui si esprime, era esso stesso reticente nell’indicare la linea ufficiale rispetto ai migranti arrivati a Lampedusa. Questo iniziale disorientamento è stato velocemente riassorbito e il migration management ha ripreso il proprio business come sempre, con la sua razionalità ordinatrice e la segmentazione dei migranti in tipologie e status. Una delle prime partizioni ad essere operata è stata quella tra migranti provenienti dalla Tunisia e migranti provenienti dalla Libia, una partizione cui era sottesa la distinzione morale e moralista tra tunisini furfanti e ribelli, da un lato, e libici vulnerabili e offesi, dall’altro. Questa razzializzazione moraleggiante sulla base della quale i due gruppi venivano separati è coincisa


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con un outcome molto preciso, ovvero la produzione di due distinti profili: tunisini-“clandestini”, da un lato, e libici-richiedenti asilo, dall’altro. L’attitudine irriverente dei tunisini era del resto, in quei giorni, al centro del battage mediatico sui migranti, con commenti che insistevano sulla loro veemenza e sregolatezza, sulle loro pretese e sul fatto che fossero arrivati in Italia con ogni tipo di richiesta. Questa partizione all’interno dei migranti provenienti dalla regione delle rivolte arabe mostra come la deportabilità10 e la vulnerabilità definiscano soggettività marcate dal moralismo. Descrivendo i processi di razzializzazione dei “musulmani” e degli “arabi” dopo l’11 settembre, Falguni A. Sheth11 identifica un’inversione di rotta nel regime del razzismo di Stato. Nella sua ricostruzione, infatti, il razzismo di Stato non lavora più semplicemente producendo partizioni biopolitiche, ma anche mettendo in scena, in parallelo, quella che Sheth chiama “onto-ethical politics” (politica onto-etica), e che indica l’iscrizione di attributi culturali, morali, religiosi ed etici nel regime del management delle popolazioni. L’incapacità dei migranti tunisini di rispettare le regole, contrapposta alla vulnerabilità dei migranti provenienti dalla Libia in guerra, può essere vista proprio come espressione di questa “politica onto-etica” – un’iscrizione razzializzante lungo linee moraleggianti piuttosto che lungo direttrici biologiche. Ma la vulnerabilità è razzializzata anche lungo l’asse della cittadinanza, e questo nel corso dell’esame delle domande di asilo. Quando presentano domanda di asilo e quando compaiono di fronte alle commissioni territoriali12, i migranti devono rispondere alla seguente domanda: “Perché hai lasciato il tuo paese di origine?” Le domande sulla Libia e la guerra sono pochissime, spesso nessuna. Un elemento particolarmente problematico, se si tiene conto che la maggior parte delle persone che hanno lasciato o sono state obbligate a lasciare13 la Libia non era di nazionalità libica: si trattaSulla nozione di “deportabilità”, cfr. N. De Genova, Migrant “illegality” and deportability in everyday life, in «Annual Review of Anthropology», vol. 31 (2002), pp. 419-447 e W. Walters, Deportation, Expulsion, and the International Police of Aliens, in N. De Genova e N. Peutz (a cura di), The Deportation Regime, Duke University Press, Durham 2010, pp. 69-100. 11 Cfr. F.A. Sheth, The War on Terror and Ontopolitics. Concerns with Foucault’s Account of Race, Power Sovereignty, in «Foucault Studies», n. 12 (2011), pp. 51-76. 12 Si tratta delle commissioni incaricate di decidere rispetto alla domanda di asilo. Nella versione originale (inglese) dell’articolo, uso il termine “auditioning” (presentarsi a un’audizione) per evocare l’idea di una performance che i migranti sono chiamati a produrre, la performance di una storia che rientri nei parametri giuridici della vulnerabilità. 13 Per un resoconto di come la linea del colore abbia giocato sulla sponda sud del Mediterraneo, in Libia, si veda il seguente articolo sui migranti black come obiettivo dei raid delle milizie di Gheddafi e della violenza dei ribelli durante la guerra: http://fortresseurope.blogspot.it/2011/05/revolutionaries-and-racists-rebels.html. 10


74 Glenda Garelli va piuttosto di “migranti economici” in Libia, provenienti principalmente dai paesi sub-sahariani, dal Pakistan o dallo Sri Lanka. Nel contesto della governamentalizzazione della vulnerabilità, la fissazione sul paese di nascita produce un’inquietante conseguenza: la cancellazione, la rimozione della Libia e della guerra. Siamo quindi di fronte a un regime umanitario in cui la protezione viene eventualmente concessa attraverso omissioni: l’omissione della specifica vulnerabilità dei migranti nel contesto della Libia in guerra e l’omissione della responsabilità morale dell’Italia, uno dei “Volonterosi” della Coalizione che è intervenuto militarmente in Libia. In effetti, come mostra Foucault, gli apparati di sicurezza governano facendo leva esattamente sul materiale che si propongono di condurre. Ed è esattamente attraverso questo engagement che gli apparati di sicurezza producono una regolamentazione che, al massimo della sua performance governamentale, finisce per cancellare il suo stesso obiettivo: «la legge vieta, la disciplina prescrive e la sicurezza […] ha la funzione essenziale di rispondere a una realtà in maniera tale da annullarla o limitarla o frenarla o regolarla»14. Da un punto di vista strettamente biopolitico, questa cancellazione è associata con il benessere della popolazione: assumere la materialità della realtà da governare per cancellarla è, in effetti, un modo di «ottimizzare uno stato di vita»15. All’interno di questa “politica onto-etica” allargata, però, l’annientamento della realtà da governare è accompagnato da un risultato “utile” (ottimizzato, direbbe Foucault), che consiste nel ridurre drasticamente il numero di rifugiati di cui l’Italia dovrà farsi carico e cancellare così la geopolitica conflittuale della “guerra umanitaria”, giacché ai profughi viene negato lo status di rifugiati di guerra. Permutazioni razzializzate della vulnerabilità Il secondo episodio della mia analisi degli operatori spaziali di razzializzazione della vulnerabilità riguarda la territorialità, e in particolare il territorio del paese ricevente e la distribuzione spaziale dei rifugiati al suo interno, la loro territorializzazione. Dopo essermi occupata della spazialità geometrica cui fa capo il governo delle migrazioni, e delle sue linee di partizione, vorrei ora analizzare i luoghi della vulnerabilità e le permutazioni M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 47 (corsivo mio). M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975-1976), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2009, p. 212. 14 15


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che si producono al loro interno attraverso la prospettiva della geografia relazionale. Quel che vorrei tentare è una sorta di stretching geografico dell’analisi foucaultiana del potere. Lo chiamo “stretching” perché, nonostante i frequenti commenti liquidatori di Foucault rispetto alla disciplina della geografia, l’analisi foucaultiana del potere mette in campo «sensibilità geografiche»16 che entrano in risonanza con le preoccupazioni della Critical Human Geography contemporanea. Per esempio, in una delle lezioni inaugurali di “Bisogna difendere la società”, Foucault spiega di non essere interessato a guardare al potere dall’interno, ma di voler invece studiare il potere «nella sua faccia esterna, là dove è in relazione diretta ed immediata con quel che possiamo chiamare, del tutto provvisoriamente, il suo oggetto, il suo bersaglio, il suo campo di applicazione; in altri termini, là dove si impianta e produce i suoi effetti reali»17. Uno dei campi di applicazione del potere in questa “Emergenza Nord Africa” italiana è la terra stessa, il territorio della nazione ricevente. Nel febbraio del 2011, il Presidente del Consiglio italiano dichiara uno «stato di emergenza umanitaria» sul territorio nazionale, «in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa»18. Questa dichiarazione introduce surrettiziamente, via decreto ministeriale, un inquietante dispositivo di dominio nel vessillo apparentemente non conflittuale dell’umanitario, operando un dislocamento della vulnerabilità dal corpo del migrante al corpo della nazione, e ritraendo l’Italia come bisognosa di cura e protezione dinanzi a questo «eccezionale afflusso». La razzializzazione che sottende tale permutazione della vulnerabilità individuale, trasformata in soggettività territorializzata della nazione, viene esplicitata un paio di mesi più tardi quando, nell’aprile del 2011, sempre per decreto ministeriale, la Protezione Civile viene messa a capo della gestione dell’“Emergenza Nord Africa”. Una decisione bizzarra, se si considera che l’operatività della Protezione Civile ruota intorno a catastrofi naturali, senza competenza alcuna rispetto al tema dei rifugiati, e se si considera, inoltre, che il sistema nazionale per i richiedenti asilo e i rifugiati (SPRAR) viene deliberatamente escluso dalla gestione dell’“emergenza”. La vulnerabilità viene quindi situata (emplaced) sul territorio della nazione che, come cominciano infatti a dire alcuni politici italiani, si trova a fare i conti con uno “tsunami umano”, N. Ettlinger, Governmentality as Epistemology, in «Annals of the Association of American Geographers», vol. 101 (2011), n. 3, pp. 537-560, p. 541. 17 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 32. 18 Consiglio dei Ministri, Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DCPM), 5/04/2011. 16


76 Glenda Garelli con un’“invasione umana” – tutte espressioni che danno corpo alla razzializzazione dei migranti come calamità naturale per il paese ricevente. Una calamità contro la quale il paese ricevente deve mobilitare un piano d’attacco, contro la quale “bisogna difendere la società”. Questo episodio è probabilmente il più vicino all’analisi di Foucault del razzismo come «la ripresa di questo vecchio, secolare discorso, in termini socio-biologici, a fini essenzialmente di conservatorismo sociale e [...] di dominazione coloniale»19. E infatti, il diacritico di razzializzazione non viene qui “culturalizzato”20 come carattere morale, cittadinanza, o paese di origine; piuttosto, ciò che lavora in questo caso è la designazione apertamente biologica della vulnerabilità come “tsunami umano”. A partire da questa riflessione sul meccanismo di trascrizione biologica dei migranti come minaccia ambientale per la popolazione nazionale, vorrei affrontare ora il tema della vita, attraverso il quale Foucault legge il razzismo. Il tema della vita, infatti, permette di evidenziare l’originalità dell’analisi foucaultiana del razzismo come tecnologia del biopotere: dopo aver presentato il biopotere come quel potere che mira a ottimizzare la vita della popolazione, Foucault introduce lo spettro del nazismo e di un biopotere che, diversamente dalla definizione letterale di un potere che fa vivere e lascia morire, si pone piuttosto come potere che fa morire: «Se è vero che il suo fine è essenzialmente quello di potenziare la vita, di prolungarne la durata, di moltiplicarne le probabilità, di evitarne gli accidenti, di compensarne i deficit, come è possibile, in tali condizioni, che un potere politico siffatto uccida […]?»21. La domanda quindi diventa: come può un mandato di morte procedere da un potere che si costruisce e si fonda sul benessere della vita? Risposta: attraverso il razzismo. E si tratta di un razzismo inteso come tecnologia, come operatore, un razzismo che rappresenta «il modo in cui, nell’ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, è stato infine possibile introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire»22. In questo quadro, il razzismo M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 61. Étienne Balibar e Immanuel Wallerstein spiegano come il dibattito sulla cultura produca una depoliticizzazione della razza, una depoliticizzazione della lettura di quei dispositivi razzializzanti iscritti nella figura del migrante: «We see a general displacement of the problematic. We now move from the theory of races or the struggle between the races in human history […] to a theory of race relations within society, which naturalizes not racial belonging but racist conduct»; É. Balibar e I. Wallerstein, Race, Nation, Class. Ambiguous Identities, Verso, London 1999, pp. 21-22. 21 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 219-220. 22 Ivi, p. 220. 19

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è la tecnologia che classifica, crea partizioni, spezza il continuum della vita presa in carico dal potere; è l’elemento che riconfigura il biopotere come il potere di “far” vivere e di “far” morire. Uno studio del biopotere, ovvero del potere di «far vivere e lasciar morire», localizzato nel territorio italiano dell’“Emergenza Nord Africa”, porta alla luce un’ulteriore permutazione nel meccanismo che il razzismo introduce all’interno del biopotere: una sorta di potere di lasciar vivere e lasciar morire, una sorta di grado zero della cura che il potere dirige sui migranti quando accorda loro protezione in quanto richiedenti asilo e rifugiati, una sorta di «protection-lite»23 della funzione pastorale del governo. In un regime di spese personali stimate in 2,50 euro al giorno, di estenuanti attese per l’espletamento delle domande di asilo, senza alcuna opportunità lavorativa o prospettiva di cambiamento di vita anche nel caso del riconoscimento dello status di rifugiato, la vita dei richiedenti asilo è sospesa nei CARA dell’“Emergenza Nord Africa” italiana. Le loro vite sono messe in stallo alla frontiera, la tremenda frontiera temporale dell’attesa. Vulnerabilità e contro-condotta24: una linea di “friabilità” sul terreno della razzializzazione Fin qui ho svolto una diagnosi di come la vulnerabilità è stata prodotta – confezionata legalmente e gestita attraverso protocolli di governo – in quel particolare episodio del governo della mobilità umana che riguarda i richiedenti asilo provenienti dalla guerra in Libia. Quest’analisi si è concentrata sul processo di razzializzazione attraverso il quale i forced migrants della guerra in Libia sono stati profilati come richiedenti asilo, un’operazione condotta lungo due “linee del colore”: la linea della nascita, in quanto stranieri che stavano “invadendo” l’Italia e in quanto cittadini di un paese terzo diverso dalla Libia; e la linea della specie, in base alla quale i migranti sono stati profilati come uno “tsunami umano” dinanzi alla vulnerabilità del territorio italiano. Nel terzo episodio dell’articolo, vorrei invece esplorare quaT. Gammeltoft-Hansen, Outsourcing Asylum and the Advent of Protection Lite, in L. Bialasiewicz, Europe in the World. EU Geopolitics and the Making of the European Space, Ashgate, London 2011, pp. 129-152. 24 Foucault utilizza la nozione di «contro-condotta» per indicare pratiche agite da soggetti “governati”; cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 151 e Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997. Applico questa nozione a una petizione al governo italiano che produce una contro-condotta della razzializzazione in gioco nel governo della mobilità umana. 23


78 Glenda Garelli le forma di resistenza può emergere dalla genealogia della vulnerabilità di cui ho tracciato la mappa, e mettere questa diagnosi al lavoro sulle «tattiche attuali»25, mobilitando così l’altro elemento della genealogia foucaultiana. Il nodo problematico su cui vorrei lavorare può essere articolato in questi termini: è possibile indirizzare questa “vulnerabilità” contro se stessa, dirigere i suoi dispositivi razzializzanti contro il loro stesso programma di razzializzazione? Si può utilizzare questa tecnologia di condotta della mobilità umana contro la trappola razziale messa in atto proprio dal governo della mobilità umana? Su quali giunture è possibile contro-agire le linee del colore e i predicati gerarchici di questa vulnerabilità razzializzata? O, più semplicemente: può la nozione giuridica di vulnerabilità essere mobilitata contro i suoi stessi effetti razzializzanti? È possibile rovesciare (turn inside-out) questa vulnerabilità razzializzata? Prima di rispondere a tali domande, vorrei provare a situarle metodologicamente. La necessità di indirizzare la diagnosi del potere verso una tattica di resistenza è parte della definizione che Foucault dà di genealogia26 – anche se la letteratura foucaultiana nelle scienze sociali tende a troncare il metodo genealogico e limitarlo al solo compito descrittivo. Nel 2009, criticando l’universalizzazione della nozione di biopolitica, Judith Revel ha descritto la resistenza nei termini seguenti: «Foucault rifiuta l’idea che vi possa essere un fuori del potere, dal momento che una resistenza può avere luogo solo dall’interno di una rete complessa in cui potere, resistenza, soggettivazione e oggettivazione sono interrelati»27. È da questa stessa prospettiva che, in un recente contributo28, Revel lavora sui dispositivi di assujettissement, tra cui la razza, cercando di individuare la linea lungo la quale sia possibile invertirli, “contro-agirli”, resistere loro. Una linea che, utilizzando un lessico foucaultiano, Revel definisce linea di “friabilità”29. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 17. Cfr. ivi, pp. 20-22. 27 J. Revel, Identity, Nature, Life. Three Biopolitical Deconstructions, in «Theory, Cutlure & Society», vol. 26 (2009), n. 6, pp. 45-55, p 49. 28 J. Revel, Per una “friabilità generale dei suoli”: il divenire politico delle differenze, intervento al seminario di Uninomade “Composizione di classe e frammentazione nella crisi: per una lettura materialista di razza e genere”, Napoli, 23-24 giugno 2012. Podcast disponibile all’indirizzo http://www.uninomade.org/wp/wp-content/uploads/2012/06/judith2.mp3. 29 Nell’edizione inglese, il termine “friabilité” è tradotto con “crumbling”. Seguendo l’utilizzo di Judith Revel nel suo intervento in italiano, tuttavia, anch’io scelgo questa traduzione letterale, ovvero “friabilità”, per sottolineare che la friabilità è una caratteristica costitutiva di tutti i terreni anche quando reggono, anche quando sono ben solidi, anche prima del loro sbriciolarsi (“crumbling”). 25 26


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È questa friabilità dell’“Emergenza Nord Africa” italiana, con la sua razzializzazione dell’istituto della protezione, che vorrei intercettare qui, discutendo una petizione al governo italiano30 attraverso cui un gruppo di attivisti chiede il riconoscimento della protezione internazionale temporanea per tutti i migranti arrivati in Italia a causa della guerra in Libia. In un articolo di prossima pubblicazione31, con Martina Tazzioli analizziamo i “sollevamenti spaziali” che questa petizione introduce nell’immaginazione geografica di un sistema normativo che tende a una partizione dicotomica tra mobilità migrante e sedentarietà dei cittadini. Ma la petizione lavora contro le razzializzazioni messe in gioco dall’“Emergenza Nord Africa” italiana anche intervenendo sulla figura giuridica della vulnerabilità e usandola come veicolo per introdurre forzatamente, all’interno della procedura con la quale si chiede il diritto d’asilo, la pluralità delle geografie e delle appartenenze migranti. La richiesta di concedere protezione alle circa 25.000 persone arrivate in Italia dalla Libia in guerra viene infatti espressa nei seguenti termini: «Pur provenendo dalla Libia, sono nati in Somalia, in Eritrea, in Ghana, in Nigeria, nel Mali, nel Ciad, in Sudan, in Costa d’Avorio, in Bangladesh o in Pakistan, per questo rischiano di vedere rigettata la loro domanda d’asilo dalle commissioni territoriali che già stanno procedendo al diniego nella stragrande maggioranza dei casi. […] Per questo, chiediamo l’immediato rilascio di un titolo di soggiorno umanitario attraverso l’istituzione della protezione temporanea (art. 20 TU [Testo unico sull’immigrazione]) o le altre forme previste dall’ordinamento giuridico»32. Chiarendo che le geografie multiple dei migranti costituiscono la base per il diniego della loro richiesta di asilo, questa petizione mette in luce un’ulteriore declinazione del concetto di vulnerabilità: la vulnerabilità dei migranti come soggetti presi in carico dal sistema giuridico, come soggetti governati, insomma la loro vulnerabilità nel contesto della protezione (vulnerability in protection). Chiedendo la concessione del permesso di soggiorno sulla base di queste geografie multiple, la petizione introduce una contro-condotta nel dispositivo di governo delle migrazioni della protezione internazionale, e produce così un’ulteriore dislocazione del luogo della vulnerabilità. QueDiritto di scelta. Petizione per il rilascio di un titolo di soggiorno ai richiedenti asilo provenienti dalla Libia, disponibile all’indirizzo http://www.meltingpot.org/articolo17149.html. 31 G. Garelli e M. Tazzioli, Arab Uprisings’ Making Space. Territoriality and Moral Geographies for Asylum Seekers in Italy, in corso di pubblicazione. 32 Diritto di scelta, cit. 30


80 Glenda Garelli sta terza dislocazione mostra che la vulnerabilità è prodotta all’interno del meccanismo giuridico della richiesta di asilo, e su ciò fonda la richiesta dell’«immediato rilascio» di un permesso di soggiorno per i migranti vulnerabilizzati dalla vulnerabilità giuridica, resi vulnerabili dai confini del loro paese di nascita – confini iscritti in tale governamentalizzazione della vulnerabilità. E la residenza, il luogo di residenza, è la seconda tattica di derazzializzazione che la petizione qui in esame mette in pratica contro lo status quo giuridico della protezione internazionale. È infatti la presenza sul luogo (presence at locality), l’essere situati in determinate coordinate spaziali – l’essere un residente, regolare o irregolare, con permesso di soggiorno o senza –, che la petizione postula come perno del quadro normativo della protezione internazionale. E lo fa nel linguaggio geograficamente saturo e giuridicamente elusivo delle persone in movimento: l’espressione «[persone] provenienti dalla Libia», infatti, introduce forzatamente la concretezza di una pratica di movimento all’interno delle appartenenze astratte degli status giuridici (cittadino, residente legale, straniero, ecc.), status che non si adattano facilmente alle destinazioni plurali e spesso impreviste insite nelle pratiche diasporiche dei migranti. Inoltre, mettendo in scena il paese di residenza dei migranti, la Libia, come base per garantire la protezione internazionale a tutte le persone arrivate dalla Libia in Italia durante la guerra, la petizione introduce un altro fondamentale dispositivo di de-razzializzazione: la dislocazione della vulnerabilità dall’Italia, in quanto paese ricevente invaso dalla folla anonima di uno “tsunami umano”, alla Libia come paese sconvolto dalla guerra. Così, la petizione riporta il discorso sulla politica conflittuale della guerra in Libia. All’interno di un dispositivo altamente moralizzato e moralizzante come quello della “protezione”, presentare la guerra in Libia come la ragione per la quale le persone arrivate in Italia devono ricevere protezione introduce la geografia morale della Coalizione dei Volenterosi nel discorso sul diritto d’asilo. Osservazioni conclusive Foucault presenta il dislocamento (déplacement) come l’operatore fondamentale del pensiero critico33, e usa spesso la figura del dislocamento «Il s’agit […] d’un tracé de déplacement, c’est-à-dire d’un tracé non pas d’édifice théorique, mais du déplacement par lequel mes positions théoriques ne cessent de changer»; M. Foucault, Le gouvernement des vivants, cit., p. 75. 33


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per parlare degli episodi in cui si è articolato il suo lavoro34. Il concetto di dislocamento è stato al centro di questo articolo, innanzitutto caratterizzandone il focus tematico: persone dislocate spazialmente dalla Libia in guerra all’Italia. Ma sul dislocamento si è anche costruita la mia analisi della razzializzazione della vulnerabilità, caratterizzata da: un dislocamento della localizzazione della vulnerabilità dei migranti, spostata sul loro paese di nascita, con la conseguente rimozione della scena conflittuale della guerra in Libia; un dislocamento del punto di applicazione della protezione, spostato dal corpo dei migranti al corpo della nazione; e infine un dislocamento dei criteri qualificanti per la vulnerabilità giuridica, con lo spostamento dalla cittadinanza alla presenza (residenza, con o senza permesso di soggiorno). Se i primi due dislocamenti sono il risultato del governo della mobilità umana, il terzo si contrappone invece a questa stessa condotta, mettendo fuori gioco l’iscrizione razzializzante della vulnerabilità nel paese di nascita. Ma c’è un ulteriore dislocamento che attraversa l’articolo, un dislocamento che ho operato in rapporto alla cassetta degli attrezzi foucaultiana e che, in chiusura, vorrei esplicitare e sottoscrivere. Quando Foucault parla di popolazione, si riferisce alla popolazione dei nationals, alla popolazione cioè dei cittadini degli Sati nazione35. Una lettura filologica di Sicurezza, territorio, popolazione obietterebbe, dunque, che non si può applicare la nozione foucaultiana di popolazione al gruppo dei migranti transnazionali. E su questo non ho nulla da ridire. Eppure, questo dislocamento oltreconfine (cross-border displacement) produce due risultati fondamentali: da un lato, rende visibile la razzializzazione in opera all’interno del regime umanitario e, dall’altro, de-essenzializza le tecnologie della vulnerabilità e del razzismo. In altre parole, dislocare la nozione foucaultiana di popolazione oltreconfine permette di rendere visibile la distribuzione differenziale di quell’«interesse principale della vita e del lavoro» che consiste nel «divenire una persona diversa da quella che si era all’inizio»36 e, così, di rendere visibile come quello stesso “interesse”, che Foucault qualifica appassionatamente come suo nel 1982, sia differenzialmente distribuito. In questo articolo ho analizzato Si veda, per esempio, la descrizione dei suoi tentativi di comprendere la relazione tra l’esercizio del potere e la verità come una serie di déplacements: prima dalla nozione marxista di ideologia alla nozione di potere-sapere, e poi dalla nozione di potere-sapere a quella di «governo attraverso la verità» (ivi, pp. 12-13). 35 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit. 36 M. Foucault, Vérité, pouvoir et soi, cit., p. 1596. 34


82 Glenda Garelli i dispositivi spaziali che, in nome della protezione umanitaria, fissano la popolazione dei migranti transnazionali a predicati essenzializzanti, sbarrando loro la possibilità di accesso proprio a quella libertà di diventare «quelqu’un de différent». Glenda Garelli

University of Illinois at Chicago (UIC) glenda.garelli@gmail.com

. Protection Displaced: The Racialization and Counter-Conduct of Vulnerability for Libyan War Refugees in Italy In this paper I engage with the humanitarian regime, arguing that the dispositive of “vulnerability” works through a series of racializations. Looking at the processing of Libya war migrants as asylum seekers in Italy in the time of the Arab Uprisings, my analysis traces the “colour lines” along which “vulnerability” is profiled; points at the displacements that invest the dispositive of “vulnerability” during processing; and intercepts a “line of friability” for racializing operators. From the premises of this unstable line, the conclusion stages a counter-conduct within the government of human mobility. Keywords: Humanitarian regime, Asylum seekers, Racialization, Arab Uprisings, “North Africa emergency”, Displacement, Anarcheology, Foucauldian geography, Counter-conduct.


Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault John Iliopoulos

Le forme di razionalità e l’etnologia della nostra cultura

Alla fine del XVIII secolo, follia e razza costituivano sia il limite che il

fondamento della razionalità occidentale. La follia era il termine escluso da cui la psichiatria dipendeva per costituirsi come disciplina razionale, mentre la razza rappresentava un’esteriorità rispetto alla cultura occidentale, intorno alla quale il discorso storico occidentale si era organizzato come discorso di guerra. L’emergere di questi due concetti come effetti di potere è un elemento ben noto dell’analisi foucaultiana. Tuttavia, quello che deve essere evidenziato è che, per Foucault, il potere non è altro che una serie di relazioni governamentali regolate da forme razionali, ed è solo nel contesto di queste ultime che l’emergere della follia e della razza come forme estranee e irrazionali di esperienza può divenire intelligibile. Per dimostrare tale intelligibilità, è necessaria un’analisi etnologica basata su conoscenze storiche, analisi che Foucault stesso ha strettamente connesso con la comprensione delle relazioni di potere. Foucault studia il potere in termini di pratiche governamentali, ovvero di modi di regolare la condotta delle persone, pratiche che sono sostenute da modi specifici di razionalizzazione. «Le pratiche politiche assomigliano a quelle scientifiche: non è la “ragione in generale” che viene applicata, ma sempre un tipo molto specifico di razionalità»1. In Occidente, le forme di razionalità programmano il comportamento umano, dirigono il processo decisionale e sono legate a una serie di valori e princìpi che guidano la condotta degli individui. Dietro al sapere, al potere, alle forme di dominio e persino alle azioni più violente, c’è un certo modo di razionalità, così come esso si trova dietro ai sistemi, alle istituzioni, alle pratiche di cui Foucault propone un’analisi storica. Una certa forma di razionalità, una serie di codici storicamente determinata, un programma che prescrive quali finalità perseguire, quali regole seguire, e cosa, all’interno di uno specifico modo di operare dell’istituzione, vale come vero o falso. M. Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, in Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 108-146, p. 130. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 83-106.


84 John Iliopoulos Tutto questo soggiace all’operare dei manicomi, delle prigioni, degli ospedali, delle modalità di comportamento sessuale: Diciamo insomma che non si tratta di confrontare delle pratiche con l’unità di misura di una razionalità, per poterle poi in questo modo considerare come forme più o meno perfette di razionalità; piuttosto, si tratta di vedere in che modo delle forme di razionalizzazioni si inscrivano all’interno di certe pratiche, o all’interno di certi sistemi di pratiche, e di vedere quindi quale ruolo esse vi giochino. Perché è sì vero che non esistono delle “pratiche” al di fuori di un certo regime di razionalità. Ma […] quel che vorrei fare è analizzare [un tale regime] secondo i due assi: da una parte la codificazione-prescrizione (in che cosa esso forma un insieme di regole, di ricette, di mezzi in vista di un fine, ecc.), e dall’altra di formulazione vera o falsa (in che cosa esso determina un campo di oggetti a proposito dei quali sia possibile articolare delle proposizioni vere o false)2.

Per il nostro studio, è centrale il fatto che Foucault non analizzi le forme di razionalità solo nei termini delle loro caratteristiche istituzionali e che non consideri unicamente l’ambito della loro realizzazione e le forme di sapere che esse producono. Egli esamina anche le fratture, le rotture, i punti di rovesciamento e le pratiche di resistenza che emergono non appena una forma di razionalità giunge al limite della propria applicazione: Sarebbe meglio considerare la razionalizzazione della società o della cultura non come totalità, e analizzare un tale processo in diversi campi, in cui ciascuno rimanda a una esperienza fondamentale: la follia, la malattia, la morte, il crimine, la sessualità ecc.3

Il punto di ancoraggio della critica foucaultiana è questo orizzonte etnologico fatto di relazioni di potere costituite, del limite esterno della loro realizzazione, e dell’interazione antagonistica tra razionalità su cui esse si basano e quel che esse escludono. Foucault impiega l’etnologia come un genere di discorso che ha a che fare con l’instaurazione di divisioni razionali e con la demarcazione di limiti culturali4. Come genere di discorso M. Foucault, Perché la prigione. Quattro risposte, in Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Milano, Mimesis 1994, p. 77. 3 M. Foucault, Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, La Casa Usher, Firenze 2010, p. 281. 4 Come Foucault nota in un’intervista, in cui discute la forma di critica da lui proposta, «il s’agirait de quelque chose comme d’une ethnologie de la culture à laquelle nous appartenons [si tratterebbe di una sorta di etnologia della cultura cui apparteniamo]»; M. Foucault, « Qui êtes-vous, professeur Foucault ? », in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 633. 2


Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 85

occidentale, l’etnologia era nata ai margini delle scienze umane, offrendo uno studio del modo in cui la razionalità occidentale governa le proprie pratiche e dà luogo a relazioni storicamente specifiche con le altre società. L’etnologia non è solo un’analisi sociologica, ma è una forma di riflessione sulla storicità che studia modi storicamente costituiti di pensiero, che generano differenze strutturali tra culture. Foucault basa la sua riflessione etnologica soprattutto su Lévi-Strauss che, esplorando le regole prescritte e le norme funzionali che regolano la percezione in una società, ha scoperto come tale razionalità renda possibile l’accettabilità di tali regole e norme, e come condizioni anche il modo in cui gli uomini si pongono in relazione con tutto quello che a tale razionalità sfugge: follia, morte, crimine, sesso5. Ispirato da questo tipo di approccio etnologico, il lavoro storico-critico di Foucault mostra come e a quali condizioni culturali la finitudine umana riceva lo status di esclusione o inclusione, e in che forma di limite della ragione le esperienze siano confinate, espulse, integrate o marginalizzate in una data società. È proprio facendo uso di questo metodo che il destino delle esperienze-limite in Occidente può essere studiato storicamente. È possibile mostrare come sia stata la razionalità disciplinare della fine del XVIII secolo a rendere possibile la problematizzazione della follia e della razza come esperienze-limite. Quel che è significativo, come mostreremo, è che questa problematizzazione ha fatto sorgere l’istituzionalizzazione della follia e della razza, ha dato luogo al loro studio storico e scientifico e ha determinato la genesi della psichiatria e del discorso storico della guerra delle razze, ma non ha tuttavia generato il razzismo psichiatrico. Questa trasformazione ha avuto luogo solo alla fine del XIX secolo, nel quadro del biopotere – in una nuova forma di razionalità – quando sia la follia che la razza hanno smesso di essere esperienze-limite e sono state incorporate nella razionalità e nella scienza, divenendo completamente integrate nel sapere psichiatrico. È stato quindi alla fine del XIX secolo che sono entrambe divenute oggetto di analisi per una pratica psichiatrica che, in quanto «regina»6 della biopolitica, è emersa come forza razzista e globale, responsabile della protezione biologica della razza umana. Questo razzismo psichiatrico di nuovo conio ha assunto una forma parossistica nei regimi totalitari del XX secolo, in cui operava come forza biopolitica coercitiva, capace di discriminare, eliminare e sopprimere intere popolazioni. Foucault ci aiuta a capire, tuttavia, che nel XXI secolo M. Foucault, La follia e la società, in Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a cura di M. Bertani e P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 49-57. 6 Cfr. nota 18. 5


86 John Iliopoulos questo stesso razzismo psichiatrico non possiede più tale base ideologica: pur essendo oggi ancora operativo, le sue caratteristiche specifiche sono determinate dal sistema attuale e globalizzato di biopotere. Foucault evidenzia quindi come sia necessario giudicare l’attuale razzismo psichiatrico alla luce di questo contesto contemporaneo, e non in un senso strettamente totalitario o ideologico. In netto contrasto con il suo passato totalitario, l’attuale razzismo psichiatrico non identifica nemici e non esclude minoranze etniche, ma include individui, cancella differenze e subordina le singolarità alla nozione astratta di anormalità. È quindi inutile mettere in questione il razzismo psichiatrico perché esso esclude od opprime. Al contrario, una critica efficace, oggi, deve prendere in considerazione l’escludersi spontaneo di follia e razza, il loro rifiuto di essere incorporate all’interno dei meccanismi di biopotere, e il loro riemergere in quanto forze antagoniste, irrazionali, perfino violente. Follia e razza: due casi di alterità Follia e razza sono emerse come concetti intorno alla fine del XVIII secolo, all’interno di una specifica forma di razionalità e di un tipo di governamentalità: quella disciplinare. Nella disciplina, il sovrano dell’età classica è assente e si fa invece riferimento a una norma e a un modello7. È la norma ad assegnare gli individui al sistema disciplinare. Per stabilirsi e definirsi, la norma ha bisogno della distribuzione e della classificazione; essa deve necessariamente far riferimento a ciò che le sfugge e che deve esserle reintegrato con la correzione. Dato che i sistemi disciplinari si basano sul sapere clinico che classifica, gerarchizza e sorveglia, essi si scontrano con tutto quel che non può essere classificato, che sfugge alla sorveglianza, che non entra nel sistema di distribuzione: in breve, con il residuo, l’irriducibile, l’inclassificabile, l’inassimilabile. Il folle, il delinquente, il malato e il colonizzato appariranno solo ai limiti, ai margini del dispositivo disciplinare: Occorre notare che, per Foucault, una razionalità non sostituisce l’altra. La sovranità, la disciplina e la sicurezza si sovrappongono e l’analisi storica è in grado di mostrare quale forma prevalga sulle altre in ogni società. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 87-88. Come noterò in seguito, la coesistenza di queste forme di razionalità apparirà più simmetrica ed equilibrata nei regimi totalitari. 7


Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 87 È evidente in ogni caso che ormai si è realizzata l’assimilazione tra i delinquenti come residuo della società, i popoli colonizzati come residuo della storia, i folli come residuo dell’umanità in generale8.

Come concetti, follia e razza sono quindi emersi insieme intorno alla fine del XVIII secolo, in ragione della loro affinità nel designare esperienze che apparivano come “limite” rispetto a uno sfondo di universalità disciplinare. Si trovavano entrambi ai limiti di un sistema di classificazione, di un regime di verità che li isolava e studiava in termini scientifici, filosofici e antropologici. Per la prima volta dall’età classica, essi sono quindi emersi come categorie del vero e come oggetti di percezione. Esaminiamo dapprima l’emergere della follia. Nella razionalità disciplinare della fine del XVIII secolo, c’era un’ampia tassonomia che delineava la norma e tentava di determinare la distinzione tra correzione e punizione. Si trattava del dilemma diagnostico centrale – e pertinente ancora oggi – con cui magistrati, medici e criminologi avevano a che fare: “un individuo che vìola la norma è cattivo o folle? Deve andare in prigione o in ospedale?” Dato che il criminale poteva ospitare un nucleo di follia e, viceversa, il comportamento irrazionale poteva comportare il rischio di crimine, si chiedeva alla psichiatria di rispondere in forma di sapere diagnostico dimostrativo e affidabile. La psichiatria era nata come risposta a questo dilemma, che culminava nel caso più equivoco ed enigmatico: quello del mostro umano. Il mostro umano era il soggetto in cui la follia si manifestava esclusivamente nella forma del crimine. Nel mostro umano, il delirio dominava l’atto criminale, privando il soggetto della propria responsabilità e rendendolo adatto alla terapia. Nel mostro, quindi, la legge si trovava di fronte ai limiti della ragione e la perizia psichiatrica si rendeva necessaria per determinare la sragione e riferirsi ad essa per definire la responsabilità giuridica. La mostruosità divenne il punto di riferimento della psichiatria, il suo oggetto elusivo, una radicale alterità: Il mostro è paradossalmente – malgrado la posizione limite che egli occupa, benché sia al contempo l’impossibile e il proibito – un principio di intelligibilità. Ciò nonostante questo principio di intelligibilità è un principio tautologico, perché la proprietà del mostro è quella di affermarsi come mostro e di spiegare in se stesso tutte le deviazioni che può generare, ma è anche quella di essere in se stesso inintelligibile9. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 110. 9 M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), a cura di F. Ewald, A. Fontana, V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 58. 8


88 John Iliopoulos La psichiatria poteva formare i propri concetti e costruire i propri oggetti di sapere se messa a confronto con l’irrazionalità del mostro. Il mostro era il limite e al tempo stesso la condizione di possibilità per la genesi della psichiatria come disciplina razionale e come discorso il cui riferimento era l’altro inintelligibile. Da qui derivava il nome per questo discorso: alienismo. In questo stesso periodo, anche la razza era emersa come concetto che designava un’esteriorità rispetto alla norma, grazie a un nuovo discorso storico-politico. Durante l’età classica, periodo di monarchie e imperi, prevalevano due discorsi storici opposti e complementari. C’era il discorso della sovranità, sopravvissuto dal tempo degli annalisti romani e rinnovato nel Medioevo, che narrava le avventure del potere, le sue conquiste, le sue guerre contro le monarchie straniere. Contro questo discorso, vi era poi una narrativa rivoluzionaria che spiegava la storia dal basso e parlava in nome del debole, del conquistato, del povero e del dominato. Era un discorso biblico e profetico che derivava dal Vecchio Testamento e che tentava di demolire il potere, di mostrare i suoi abusi e porre in primo piano i diritti naturali degli oppressi10. Alla fine del XVIII secolo venne sistematizzato un nuovo discorso storico-politico: il discorso della guerra delle razze. La lunga battaglia tra forze eterogenee in Europa che aveva avuto inizio nel XVI secolo, l’esperienza della Rivoluzione francese come nuova richiesta giuridica e politica di definizione di diritti, e l’espansione della colonizzazione che aveva portato la razionalità occidentale a contatto con culture estranee, condussero alla tematizzazione del concetto di guerra non più come guerra tra eserciti o classi, ma come guerra tra razze. Prima di divenire un’entità biologica o una categoria sociale, la razza era considerata una divisione antropologica, resa visibile dalle differenze tra razionalità opposte. La guerra era essenzialmente considerata come una lotta tra gruppi e nazioni, tra differenze etniche, differenze tra lingue e religioni e tra razze. La razza, come la follia, emerse per la prima volta come un concetto extra-legale, militare e amministrativo, come un caso di alterità e singolarità. Alla fine del XVIII secolo, la parola “razza” non è da subito fissata a un significato biologico stabile. Questo non significa però che si tratti di una parola incerta e indeterminata. Essa designa, in ultima analisi, una certa dissociazione storico-politica senza dubbio ampia, ma relativamente fissa. Si dirà, e in questo discorso effettivamente si dice, che ci sono due razze quando si fa la storia di due gruppi che non hanno, almeno Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975-1976), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 61-70. 10


Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 89 in origine, la stessa lingua e sovente neppure la stessa religione; di due gruppi hanno formato un’unità e un insieme politico solo a prezzo di guerre, invasioni, conquiste, battaglie, vittorie e disfatte, violenze11.

La razza era contingente e arbitraria, ma era comunque trattata come una reale divisione umana, prodotto di relazioni di conflitto e guerra. Questo conflitto tra avversari, tra gruppi di diversa provenienza formati attraverso lotte sociali, era la preoccupazione di teorici della fine del XVIII secolo come Boulainvilliers, che aveva studiato la società nei termini della sua “costituzione” in senso medico e militare, nei termini dell’equilibrio delle sue forze. Non aveva adottato né la narrativa del potere né il discorso di contro-storia delle persone e dei loro diritti naturali. Aveva esaminato il concetto di rivoluzione, che per lui non era solo il rovesciamento del potere, ma costituiva la transizione da un punto più basso a uno più alto, da uno stato di disordine a un livello di equilibrio e simmetria, in un movimento ciclico che non raggiungeva mai un punto finale12. Per raggiungere questa stabilità, sostiene Boulainvilliers, occorre prendere in conto le forze esterne alla costituzione. Nessuna costituzione – o forma di razionalità – può pretendere all’universalità fintanto che sussistono “razze”, gruppi o individui che non condividono questa uniformità e che resistono attivamente o passivamente all’integrazione in essa. Questo vale in modo particolare per una “razza” che risalta tra le altre come la più estranea alla razionalità occidentale: quella del barbaro. Il barbaro non è il selvaggio, l’uomo di natura, ma l’“altro” rispetto a una data civiltà, colui che minaccia la coerenza della sua razionalità. Il barbaro è l’uomo che vive al di fuori della civiltà e ai margini della storia, che rappresenta la “razza” pericolosa cui la razionalità occidentale deve far riferimento per definire la norma e affermarsi come razionale. In Boulainvillers, il problema diventerà allora quello di sapere in che modo sia possibile stabilire il punto di giunzione ottimale tra lo scatenamento della barbarie da un lato e dall’altro l’equilibrio di quella costituzione che si vuole ritrovare. Come mettere in gioco, insomma, entro una giusta regolazione delle forze, ciò che il barbaro può recare con sé di violenza, di libertà, ecc.? In altri termini, che cosa occorre conservare e che cosa bisogna eliminare del barbaro per far funzionare una costituzione giusta13? Ivi, pp. 70-71. Ivi, pp. 165-168. 13 Ivi, pp. 170-171. 11 12


90 John Iliopoulos Come il mostro in psichiatria, l’irrazionalità del barbaro è inestricabilmente legata alla minaccia che esso presenta per la civiltà. Il barbaro è irrazionale perché rispetto ai valori e alle norme della società si trova in relazione di violenza, conquista e distruzione. Viceversa, è minaccioso perché la sua razionalità non riconosce le norme condivise e le forme giuridiche stabilite. La società non può assimilarlo nel proprio quadro legale e nella propria costituzione. Al contrario, il contatto con il barbaro provoca reazioni extralegali, modifiche istituzionali o risposte scientifiche. È per questi motivi che il barbaro, come il mostro in psichiatria, diverrà il punto di riferimento, il limite e al tempo stesso la condizione di possibilità per la costruzione di questo nuovo discorso storico-politico della guerra delle razze. Il biopotere Chiaramente, con l’alienismo e il discorso della guerra delle razze della fine del XVIII secolo, il problema del razzismo non veniva ancora sollevato nella sua forma attuale e familiare. L’alienismo e la guerra delle razze erano discorsi scientifici, storici e filosofici che mantenevano una relativa autonomia e problematizzavano, per la prima volta nella storia dell’Occidente, le esperienze-limite come categorie di verità e come problemi epistemologici. Grazie alla loro autonomia, potevano inquadrare la follia e la razza come esperienze simili ma distinte, ed esterne al concetto di universale, quale era stato introdotto alla fine del XVIII secolo. Alla fine del XIX secolo, questa autonomia andò perduta. L’alienismo e la storia della guerra delle razze divennero discorsi tanto interdipendenti da fondersi e produssero un discorso ibrido, fondato su princìpi biologici. La biologia non si limitò a trasformare la follia in malattia mentale, ma fissò anche la razza a una realtà anatomo-fisiologica. Essa tentava di sostanziare ed ontologizzare entrambi i concetti, senza per questo dar luogo a una loro comprensione più profonda, come essenze misurabili e oggettivabili. Al contrario, essa determinò la genesi del razzismo psichiatrico, per come lo conosciamo oggi. Fondendo follia e razza nella nozione di anormalità della specie, la biologia rese la psichiatria sia una griglia storica che un’unità di misura per ogni anormalità possibile, una forza politica globale e un nuovo principio razionale. Tuttavia, non era la biologia in sé ad essere responsabile di questa trasformazione. Foucault non mette in causa la scientificità della biologia, la sua oggettività o la sua verità dimostrativa, ma esplora il ruolo politico che le era stato affidato nel momento in cui era


Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 91

prevalso uno specifico tipo di governamentalità, una forma di razionalità che Foucault definisce “biopotere”. Uno degli aspetti principali del biopotere era la sicurezza. La preoccupazione per la sicurezza e il mantenimento della vita avevano generato la nozione diffusa di pericolosità, che divenne il bersaglio di questa nuova forma di razionalità. Follia e razza cessarono di essere categorie di verità che trasgredivano la norma, per divenire categorie di pericolo che minacciavano la popolazione14. Il mostro iniziò ad essere considerato come il barbaro: un criminale potenziale che metteva in pericolo la sicurezza pubblica, mentre il barbaro cominciò ad essere visto come pericolosa follia che turbava l’ordine razionale. La diagnosi, la prevenzione e la cura della pericolosità potenziale intrinseca a simili categorie richiedevano una conoscenza profonda dei processi naturali. La conoscenza dei processi biologici, dei gradi di degenerazione e degli istinti anormali permise agli psichiatri di acquisire il potere prognostico di individuare precocemente il disordine, di eliminare il rischio di mostruosità e, almeno in via ideale, di sbarazzarsi del problema della follia e dei pericoli che avrebbe comportato. Se era possibile studiare il corpo del mostro e del barbaro e la loro costituzione genetica e psicologica a livello biologico e statistico, sarebbe anche stato possibile correggerli e curarli. Questa correzione avrebbe potuto avvenire – sempre in via ideale – a livello preventivo, emendando le irregolarità genetiche e manipolando psicologicamente gli istinti anormali. Con questa trasformazione, il mostro e il barbaro persero la loro specificità e iniziarono ad essere considerati come parti della specie umana, come le sue manifestazioni genetiche patologiche. Conversero entrambi nella figura del malato mentale, dell’individuo malato che non solo possedeva un corpo patologico, ma costituiva anche un’anomalia genetica dell’uomo in quanto specie15. Questa è la genesi del razzismo psichiatrico. Con l’ereditarietà e la patologia degli istinti, anormalità e alterità si erano incrociate e la follia era divenuta una devianza biologica e una sotto-razza inferiore; viceversa, la razza era divenuta una mutazione biologica che generava anormalità: M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 49-69. Cfr. anche M. Foucault, L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo, in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-63. 15 Sulla nascita della genetica e sulla genesi della «meta-somatizzazione», cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 280. 14


92 John Iliopoulos Ecco dunque come la psichiatria ha potuto – a partire dalla nozione di degenerazione e dalle sue analisi sull’ereditarietà – dare luogo a “un” razzismo. Si tratta di un razzismo molto diverso da quello tradizionale, storico. Cioè da quello “etnico”16.

Sussumendo follia e razza, la psichiatria riuscì ad abolire la loro posizione limite e a stabilire un meccanismo preventivo che avrebbe minimizzato il crimine ed eliminato il razzismo tradizionale occidentale, prevalentemente antisemita: il razzismo delle teorie nazional-socialiste del XIX secolo17. In quanto «regina» del biopotere18, la psichiatria aveva introdotto una forma specifica di razzismo, un razzismo scientifico il cui scopo non era quello di discriminare gruppi e individui ma, al contrario, quello di sostituire le nozioni di barbarie e follia, associate all’autorità del sovrano e al legalismo della disciplina, con gli ideali dell’utilitarismo, del liberalismo, della protezione dai rischi e del mantenimento dell’ordine. Dalla psichiatria biologica della genetica alla psicoanalisi, questo nuovo razzismo psichiatrico non aveva di mira avversari etnici o nemici di Stato, ma gli anormali, tutti quegli individui che avrebbero potuto trasmettere casualmente alla propria discendenza l’istinto patologico che portavano in sé19. Questo razzismo funzionava meno come difesa di un gruppo contro un altro, che come individuazione di coloro che erano considerati un pericolo per gli altri membri dello stesso gruppo. Il razzismo psichiatrico nei regimi totalitari Dalla fine del XIX secolo, il razzismo divenne quindi intrinseco alla pratica psichiatrica. Era dunque inevitabile che questo razzismo psichiatrico fosse ripreso e usato politicamente dai regimi totalitari e razzisti del XX secolo. Non è però chiaro il motivo per cui questi regimi avrebbero trasformato questo razzismo psichiatrico, la cui funzione principale era quella di raggiungere lo stato ideale di una società orientata alla sicurezza, priva di rischio ed igienica, in una pratica politica intollerante, sanguinaria, violenta e omicida. Ivi, p. 282. M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 298-329. 18 Foucault chiama la medicina, e la psichiatria in generale, «regina» o «scienza regina» in diverse occasioni. Cfr., ad esempio, M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 113-114 e M. Foucault, L’estensione sociale della norma, in Follia e psichiatria, cit., p. 130. 19 M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 123. 16 17


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Secondo Foucault, questo fenomeno non deve sorprenderci e apparirci come una discontinuità priva di senso. In primo luogo, infatti, la razionalità di questi regimi totalitari non solo era isomorfa alle forme di governo della fine del XIX secolo, ma costituiva il loro logico sviluppo portato all’estremo20. In secondo luogo, era proprio questa razionalità che conferiva uno specifico contenuto politico e un orientamento alla prospettiva biomedica. Sia la medicina nazista che quella sovietica avevano ripreso le teorie mediche già esistenti della degenerazione dell’istinto, e le avevano combinate con un discorso di alterità che derivava dall’ideologia politica del nemico di Stato e con le teorie della razza non mediche e nazional-socialiste del XIX secolo. Questi regimi non inventarono quindi il razzismo psichiatrico, ma lo svilupparono grazie alla sovrapposizione di modelli ideologici e discorsi discriminanti. Nella Germania nazista, di conseguenza, tutte le forme di razionalità, quali erano apparse in Occidente dall’età classica, funzionavano in piena armonia e simmetria. C’era una coesistenza equilibrata di sovranità, potere disciplinare e biopotere. Nel regime nazista, il discorso storico della sovranità, che era anche il discorso rivoluzionario e profetico che prometteva il dominio finale del terzo Reich, si associava con la storia della guerra delle razze nella forma di lotta darwinista, evoluzionista e biologica tra razze (differenziazione della specie, selezione naturale, sopravvivenza del più forte)21. Lo Stato si era appropriato della sintesi di questi discorsi, generando il fenomeno del razzismo di Stato. Il regime nazista era uno Stato sovrano e omicida, che esponeva la propria popolazione al rischio di morte, e al tempo stesso era uno Stato biopolitico che mirava a preservare la vita della nazione tramite l’eliminazione di anormalità e malattie. Questa è la ragione per cui, nella Germania nazista, il razzismo psichiatrico divenne la pietra angolare delle pratiche del nazionalismo e dell’ideologia della purezza razziale. Le anormalità erano considerate intrinseche alla popolazione e dovevano quindi essere corrette dal biopotere nazista, ma al tempo stesso esistevano portatori esterni di anormalità, specifiche categorie etniche che costituivano minacce barbariche alla sovranità nazista e alla purezza razziale e che andavano quindi eliminate. La psichiatria poteva offrire una legittimità scientifica sia per la difesa sociale che per quella nazionale. Da qui la sua appropriazione da parte dello Stato e la sua ritrascrizione nel razzismo etnico: M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 280. Cfr. anche M. Foucault, Crimes et châtiments en U.R.S.S. et ailleurs…, in Dits et écrits II, cit., pp. 63-74. 21 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 57 e 74-75. 20


94 John Iliopoulos Che la psichiatria tedesca abbia operato in modo spontaneo all’interno del nazismo, non deve risultare sorprendente. Il nuovo razzismo, il neo-razzismo, quello che è specifico del XX secolo come mezzo di difesa interna di una società contro i suoi anormali, è nato dalla psichiatria. Il nazismo non ha fatto nient’altro che innestare il nuovo razzismo sul razzismo etnico, che era endemico nel XIX secolo22.

La psichiatria nazista era al tempo stesso lo strumento del biopotere e la giustificazione scientifica della pulizia etnica. Funzionava come istituzione scientifica sia per il mantenimento dell’igiene pubblica, sia per l’individuazione del nemico nazionale, che aveva caratteristiche biologiche. Era grazie alla psichiatria che lo Stato nazista poteva mantenere sia la sua perfezione razziale interna che identificare i suoi avversari esterni, cui avrebbe potuto ufficialmente dichiarare guerra. Allo stesso modo, nel regime sovietico troviamo un equilibrio di tecnologie politiche analogo a quello del regime nazista. C’erano un sistema di sovranità (il partito), una ferrea disciplina scientifica e il biopotere. Possiamo in questo caso osservare un fenomeno simmetrico e opposto: il discorso della sovranità si identifica con un discorso profetico e rivoluzionario, che promette la rivelazione della storia come verità del socialismo. Questo discorso, tuttavia, non ha promosso la lotta per l’esistenza, ma una griglia di intelligibilità economica che ha trasformato la guerra delle razze in lotta di classe. Nello Stato sovietico, biopotere, disciplina e sovranità si incontravano nella lotta di classe. I nemici di classe veri o potenziali erano identificati come barbari che erano anche anormali, bisognosi di cure e di correzione. Ciò che il discorso rivoluzionario designava come nemico di classe, nel razzismo di Stato sovietico diventerà una sorta di pericolo biologico. Chi è ora il nemico di classe? Ebbene, è il malato, è il deviante, è il folle. Di conseguenza, l’arma che un tempo doveva lottare contro il nemico di classe (arma che era quella della guerra, o eventualmente quella della dialettica e della persuasione) non può più essere altro, adesso, che una polizia medica che elimina, come un nemico di razza, il nemico di classe23.

Nell’Unione Sovietica, la forma di razionalità prevalente era diffusamente scientifica, ma si trattava comunque di una scienza al servizio di un’ideologia assolutamente razzista. Ogni agente della falsa coscienza o dell’idealismo era visto come un “altro”, pericoloso per la società, ed era soggetto ad incarcerazione. Era un nemico dello Stato, un nemico della 22 23

M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 283. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 75-76.


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causa rivoluzionaria, una minaccia nazionale, e al tempo stesso era folle, anormale. Confinando i dissidenti, i manicomi funzionavano come strumento del controllo politico, pratica fortemente criticata da Foucault24. Inoltre, il regime di verità sovietico era profondamente impregnato della convinzione che l’epistemologia marxista avrebbe potuto funzionare come tribunale per la distinzione tra scienza e ideologia, convinzione che squalificava alcuni metodi di diagnosi estranei al materialismo (ad esempio, l’esistenzialismo o la psicoanalisi) come ideologici, idealisti o irrazionali. Anche gli psichiatri che avrebbero potuto sposare tali teorie erano quindi sospettati come nemici di classe e perseguiti come folli25. Il biopotere nell’Occidente neoliberale Dopo la fine della seconda guerra mondiale e, più tardi, con il collasso dell’Unione Sovietica, le barriere dello statalismo e dell’ideologia di partito crollarono, permettendo alla psichiatria di funzionare nuovamente in un contesto liberale, in cui avrebbe potuto tornare a nuova vita ed espandere globalmente il proprio modello originario di razzismo, quale era stato concepito nel XIX secolo. Questo modello era libero di svilupparsi e di ottenere un consenso diffuso e, all’alba del XXI secolo, è divenuto sempre più penetrante e influente. Se, da un lato, esso condivide alcune caratteristiche di fondo sia con le sue origini liberali che con la sua versione totalitaria – teorie biomediche, forme comuni di razionalità – la forma attuale di razzismo psichiatrico opera in un quadro razionale che presenta differenze lievi, ma centrali. Nella razionalità occidentale attuale, il biopotere non è solo riuscito a prevalere su altre forme di tecnologia politica, ma aspira anche a un’accoglienza globale e a un consenso generale. Esistono ancora forme di sovranità, alcuni modi di disciplina e sorveglianza sono diffusi e gli obiettivi liberali sono all’opera, ma è la regola della prestazione, della sicurezza e della prevenzione ad essere particolarmente accentuata. L’attuale biopotere occidentale non è quindi totalitario, ma totalizzante. Non c’è ideologia di partito, non c’è Stato onnipotente, bensì una distribuzione di relazioni di potere più diffusa, che ruota intorno alla sicuCfr. M. Foucault, Internamento, psichiatria, prigione, in Follia e psichiatria, cit., pp. 195-227. Sulla funzione del marxismo come tribunale della scienza, cfr. D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 2005, pp. 39-59. Sull’incarcerazione dei medici negli ospedali psichiatrici, cfr. S. Bloch e P. Reddaway, Russia’s Political Hospitals, Victor Gollanz, London 1977. Si veda anche H. Fireside, Soviet Psychoprisons, Norton, New York 1979. 24 25


96 John Iliopoulos rezza e alla profilassi26. Il ricorso a un discorso ufficiale di purezza razziale e di lotta di classe è ridondante e obsoleto: queste nozioni sono in realtà sussunte in un discorso più generale e astratto di igiene sociale e di razionalizzazione. Anche quando, nel caso in cui si debba entrare in guerra, si evoca il tema della lotta tra razze, non si dichiara guerra contro un avversario politico, ma contro una minaccia biologica alla razza: Siamo anche molto lontani da un razzismo inteso come una sorta di operazione ideologica attraverso cui gli Stati, o una classe, tenterebbero di volgere verso un avversario mitico le ostilità che altrimenti sarebbero rivolte verso di loro o che potrebbero attraversare e perturbare il corpo sociale. Credo che la specificità del razzismo moderno sia tutt’altra cosa. […] Ciò che costituisce la specificità del razzismo moderno non è infatti collegato a delle mentalità, a delle ideologie, a delle menzogne del potere, ma è legato piuttosto alla tecnica del potere, alla tecnologia del potere27.

Il biopotere neoliberale differisce allo stesso modo anche dalle sue origini liberali del XIX secolo. Durante il XX secolo, ha incrementato il proprio livello di sofisticazione tecnica e il proprio sapere onnicomprensivo, ha massimizzato e globalizzato i propri modi di intervento e ha portato le capacità della sua precedente forma liberale al più alto grado di astrazione e virtualità. Dalle vaccinazioni alla sicurezza sul lavoro, all’educazione scolastica, all’igiene e al controllo delle nascite, dall’estensione della ricerca biologica alle misurazioni statistiche di fenomeni su larga scala, l’attuale biopolitica sussume l’identità e l’alterità, la vita e la morte, la salute e la malattia, la virtualità e l’attualità, ponendo queste alternative binarie nello stesso continuum, come equivalenti astratti, riducibili al livello più elementare di processi micromolecolari. Il biopotere interviene dunque a questo livello, captando i fenomeni patologici al momento stesso della loro genesi, al fine di prevenire il crimine, gli infortuni, le catastrofi e la morte. Negli screening della popolazione, nelle polizze assicurative, negli stili di vita urbani e nel controllo della sessualità, il biopotere interviene anche quando non c’è alcuna malattia presente né domanda da parte di malati reali28, traendo dalla medicina biologica la propria autorità sulla salute più che sulla malattia, generando M. Foucault, La nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), a cura di F. Ewald, A. Fontana, M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 154-155. 27 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 223. 28 M. Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina?, in Archivio Foucault 2. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, p. 210. 26


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un nuovo tipo di mercato, un nuovo ambito di consumatori – laboratori farmaceutici, lavoratori sociali, medici, pazienti reali o potenziali – così come una nuova concezione della vita, intesa come una serie di formule, di equazioni matematiche e di connessioni astratte che, se efficacemente controllate, possono offrire protezione e sicurezza contro qualsiasi forma di negatività. Il potere neoliberale si impone quindi come forma universale della gestione biologica, biochimica e psico-sociale delle popolazioni, grazie alla quale l’igiene e la sicurezza si fondono per produrre un modo di governo totalizzante29. Operando nei limiti di questa razionalità, l’attuale razzismo psichiatrico mette pienamente in atto questo principio di sicurezza sanitaria, motivo per cui si trova intrappolato in un paradosso fondamentale: mentre la psichiatria si basa ancora sull’opposizione tra normalità e anormalità, questa distinzione non ha validità per i nemici evidenti e identificabili. Nei regimi totalitari c’era un “altro” ben definito, un nemico di classe o della nazione, che costituiva anche una realtà biologica concreta. Nel liberalismo del XIX secolo, il mostro e il barbaro costituivano concetti più vaghi, ma rappresentavano ancora una minaccia al contratto sociale, allo Stato e agli ideali dell’ideologia liberale, una minaccia proveniente dall’esterno30. Nel complesso della sicurezza sanitaria, invece, la logica dell’astrazione permea completamente questi gruppi. Non ci sono mostri o barbari, ma solo un campo ampio e non specificato di anormalità. Ci sono solo individui da correggere, minacce biologiche intrinseche alla matrice genetica dell’uomo in quanto specie. Il lessico della neurologia del XIX secolo – istinto e degenerazione – vale in modo indiscriminato per ogni aspetto del comportamento umano. Il sistema di tassonomia e di diagnosi differenziale patologizza ogni devianza possibile, senza fare necessariamente riferimento a un “altro” non intelligibile. Il sapere psichiatrico ha anche abbandonato la sua relazione originaria con il delirio e la cura, accentuando concetti equivoci e non clinici come quello di pericolosità, e affrontando questioni più importanti per la difesa sociale rispetto a quella della cura. La negatività e l’alterità si riducono a contraddizioni e a difetti biologici, e il dilemma del XVIII secolo – prigione o ospedale? – non preoccupa più giuristi e medici. Un nuovo tipo di potere punitivo ha ora generato una continuità tra punizione e cura, conferendo sia ai criminologi che agli psichiatri il ruolo preventivo Cfr. P. Virilio, The Administration of Fear, Semiotext(e), Los Angeles 2012, pp. 15 e 45. Cfr. M. Foucault, L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo, cit. 29

30


98 John Iliopoulos di individuare e cancellare le anomalie genetiche all’interno di una rete di vigilanza biomedica, e trasformando la loro funzione terapeutica in una «caccia ai degenerati»31. Per questa ragione, la nozione di degenerazione sottintende oggi l’esistenza di una razza singola e globale, e lo scopo della tecnologia psichiatrica è quello di individuare i portatori di rischio nascosti nelle sotto-razze, elementi interni alla popolazione che mettono in pericolo l’igiene pubblica. La follia diventa una di queste sotto-razze; non è più una singolarità, una categoria di verità che deve essere diagnosticata come un’esteriorità alla ragione, o essere affrontata come una forza dispotica che minaccia i valori della società liberale. È una mutazione, un difetto biologico, che contiene uno specifico sostrato genetico identificato come un’anormalità nel sequenziamento del DNA, e che può essere testato per via sperimentale, modificato o manipolato nei laboratori dei genetisti. In via ideale, può essere individuato al momento della nascita del soggetto, se non prima, contribuendo alla prevenzione del crimine tramite la rimozione chirurgica dei “geni criminali” associati alla malattia mentale32. In alternativa, è possibile modificare tale sostrato genetico per via farmacologica, ora che la follia può essere simulata e riprodotta nell’ambiente controllato del laboratorio, e può essere colta nella sua alterità in modo diretto, al livello neurochimico e dei trasmettitori cellulari, senza bisogno di una semiotica diagnostica o della mediazione del corpo. La follia può essere plasmata sul cervello e la sua essenza astratta, elementare e molecolare può essere dimostrata tramite modelli animali o grazie allo studio degli effetti specifici delle droghe a livello neuroanatomico (come ad esempio gli allucinogeni), e attraverso la stimolazione digitale del cervello con tecniche di neuroimmagine che mirano a cogliere in vivo l’attività interiore della follia (scansioni fMRI, SPECT o PET)33. Questa priorità del cervello sul corpo, sia in genetica che in psicofarmacologia, ha creato un nuovo «spazio governamentale»34 nel quale il razzismo psichiatrico esercita il proprio potere sull’individuo, considerato come un’entità astratta la cui follia non possiede marcatori clinici, ideologici o etnici di differenziazione, M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 283. Cfr. N. Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008. 33 Cfr. Kaplan & Sadock’s Comprehensive Textbook of Psychiatry, Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia 2009, pp. 248 e 333. 34 Cfr. M.H. Nadesan, Governmentality, Biopower and Everyday Life, Routledge, New York–London 2008, pp. 138-182. 31 32


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ma costituisce semplicemente una disfunzione neuronale e un errore nella costituzione genetica e istintuale, e presenta quindi una minaccia biologica universale, intrinseca alla società. La resistenza È dunque evidente che l’accusa secondo cui la pratica psichiatrica attuale e le forme contemporanee di razzismo sono totalitarie, ideologiche e oppressive non coglie la razionalità complessa che vi è alla base e che mantiene il razzismo psichiatrico come un meccanismo di difesa sociale. Questa razionalità opera a un livello astratto e onnicomprensivo, capace di integrare e neutralizzare le forme più estreme di opposizione ideologica. L’opinione più diffusa, condivisa da riformatori umanisti, rivoluzionari e antipsichiatri, per cui la psichiatria diagnosticherebbe false differenze, come quelle del barbaro o del mostro, per esercitare il proprio ruolo oppressivo, non possiede più alcun credito. Sembra essere vero l’opposto: la diagnosi psichiatrica è razzista perché omogeneizza le differenze e le sottopone alla logica uniforme della sicurezza, dell’integrazione e dell’inclusione. Ora, la barbarie e la mostruosità, le due forme di alterità della fine del XVIII secolo, tornano come forme di resistenza, introducendo la singolarità e la logica dell’esclusione35. Come categorie sufficientemente astratte per evitare una definizione biologica, ma anche come esperienzelimite concrete e singolari che sfidano l’astrazione biopolitica, la mostruosità e la barbarie pongono alla psichiatria problemi politici e, viceversa, rendono la psichiatria una forza politica di critica. È quindi nel concetto biopolitico di pericolosità che la mostruosità si manifesta più chiaramente, rovesciando i meccanismi del biopotere. Come abbiamo mostrato, con la dubbia categoria diagnostica di pericolosità, il biopotere sospende la legge e trasforma la psichiatria in una forza di polizia globale che isola gli individui in modo indefinito, tentando di prevenire il crimine prima ancora che venga commesso o di offrire un’intelligibilità biologica per criminali che non mostrano alcun segno di malattia mentale nota. Tuttavia, questa pratica ha in sé i propri limiti: la pericolosità implica necessariamente l’associazione della follia con l’infraÈ questa forma di resistenza, in atto in queste forme contemporanee di esclusione, ad interessare Foucault e che analizzeremo nel seguito del presente studio. Come Foucault nota in un’intervista: «Credo che ci sia il bisogno di una resistenza al fenomeno dell’integrazione»; M. Foucault, Un sistema finito di fronte a una domanda infinita, in Archivio Foucault 3, cit., p. 187. 35


100 John Iliopoulos zione della legge, e ripristina quindi il problema del mostro umano, quale psichiatri e criminologi come Esquirol e Lombroso lo avevano tematizzato36. Mentre si aspira ad associare la follia alla rete globale di normalizzazione, priva di elementi legali extra-psichiatrici che potrebbero falsare un intervento medico obiettivo, la detenzione forzata e indefinita rimane essenzialmente una pratica medico-legale e amministrativa che riconosce la follia e la esclude come una pericolosa alterità. Per questo motivo, la nozione di pericolosità, che Foucault esamina a lungo nei suoi corsi e in diverse interviste, ha fatto riemergere il problema dell’alterità al cuore dell’impresa psichiatrica, fondendo i concetti di follia, morte e crimine nella figura dell’individuo pericoloso, del nemico sociale. La pericolosità reinserisce l’alienismo al cuore del positivismo psichiatrico, riproblematizzando la follia come alterità radicale, nella forma della minaccia sociale e della paura collettiva del crimine, più che come una realtà biologica concreta. Con la nozione di pericolosità, la psichiatria forense reintroduce suo malgrado la mostruosità all’interno della pratica psichiatrica come un problema politico urgente: Ponendo oggi al medico la domanda propriamente insensata: “Questo individuo è pericoloso?” (domanda che contraddice un diritto penale fondato sull’esclusiva condanna degli atti e postula un’appartenenza di natura tra malattia e infrazione), i tribunali reintroducono, attraverso trasformazioni che andranno appunto analizzate, gli equivoci dei vecchi mostri secolari37.

L’incarcerazione indefinita e forzata di un individuo sulla base di una criminalità potenziale suggerisce l’esistenza di soggetti che stanno al di fuori del patto sociale e per i quali la legge non vale. Con tale pratica, questi soggetti sono considerati “altri”, estranei alla società, soggetti che violano la legge, lasciandola «senza voce»38. La loro razionalità è al di là dell’ambito della punizione, ma anche al di fuori della possibilità immanente di trattamento medico. Gli “individui pericolosi” sono soggetti a sorveglianza preventiva proprio perché sfuggono alle categorie mediche; sono isolati e sottoposti a una sorveglianza e a un’osservazione indefinite proprio perché danno luogo, o sono soggetti a dar luogo, ad “atti di delirio”, crimini immotivati, non riducibili alla codificazione medica della schizofrenia e ai criteri biologici, sociologici ed etici che le sono associati39. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 58. Ivi, p. 288. 38 Ivi, p. 58. 39 Cfr. ivi, pp. 120-121. 36 37


Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 101

In tutti i «criminali nati, negli anarchici, che respingono per l’appunto il patto sociale, in tutti i criminali mostruosi, in tutti quei grandi nomadi che ruotano attorno al corpo sociale, ma che il corpo sociale non riconosce come facenti parte di se stesso»40, c’è un nucleo nascosto di mostruosità, che sfugge alla legge e turba la medicina, trasformando l’ospedale in una prigione temporanea. Gli “individui pericolosi” costituiscono un’alterità che il diritto penale non riconosce come punibile e che la medicina non considera come correggibile. Essi rappresentano un segmento marginalizzato della società, un ambito inaccettabile, irrazionale e non riconoscibile, in cui tutte le categorie mediche o ideologiche sono sospese. La pericolosità fa rivivere non solo l’alienismo, ma anche la guerra delle razze all’interno della pratica psichiatrica. Come abbiamo mostrato, il biopotere si basa su una razionalità onnicomprensiva che considera le provenienze culturali come sotto-categorie e aspetti astratti dell’idea generale della specie umana. In quanto regime di verità coerente con questa logica dell’equivalenza, la diagnosi psichiatrica è pensata come scala universale in cui le differenze razziali divengono comparabili secondo il comune denominatore della biologia e della psicologia. La pericolosità, tuttavia, è una categoria diagnostica non medica che introduce una cesura all’interno della classificazione psichiatrica, divenendo un’istanza in cui la razza appare come mostruosa alterità all’interno dell’istituzione psichiatrica, resistendo all’integrazione nella rete sociale delle politiche della salute mentale e della socializzazione41. In effetti, è nell’ospedale, nelle manifestazioni pericolose di malattia mentale, che l’eterogeneità delle singolarità razziali è più visibile, come è evidente per le minoranze etniche e per gli immigrati, la cui pericolosità, definita da un punto di vista medico, porta in primo piano differenze culturali che sarebbero altrimenti rimaste invisibili. Con la pericolosità, alcuni comportamenti mostruosi, espressi esclusivamente in forma di malattia mentale, comportamenti estranei alle norme e agli standard medici e morali attuali – antropofagia, incesto, abuso di droghe, alcune pratiche religiose – servono a smascherare l’estraneità radicale delle razze42. È nella mostruosità che la diagnosi psichiatrica costituisce un’occasione di lotta, un punto di rovesciamento in cui gruppi o individui di provenienze culturali diverse passano dall’essere soggetti che devono essere governati con il biopotere, ad avversari strategici, oppositori tattici che la Ivi, p. 92. Sulla pericolosità come nozione extra-clinica, cfr. ivi, p. 32. 42 Sull’antropofagia e il cannibalismo, e sulle loro relazioni con l’alterità, cfr. ivi, pp. 96-99. 40 41


102 John Iliopoulos biopolitica si trova costretta ad affrontare43. Nella mostruosità, la diagnosi diventa il punto debole per il biopotere psichiatrico, la “presa tattica” attraverso cui pratiche specifiche, modi di spiritualità e particolari credenze appartenenti a comunità etniche si rivelano come pericolo sociale, come zone di interruzione nella libera circolazione degli scambi culturali, che la logica globalizzante della razionalità occidentale promuove44. In questi casi, la diagnosi psichiatrica non maschera le singolarità razziali medicalizzandole – come direbbe l’anti-psichiatria – ma portandole involontariamente alla ribalta45. La barbarie Se la mostruosità è un problema politico per la psichiatria, la barbarie è un problema psichiatrico per la politica. Nello stato attuale di globalizzazione, controllo demografico, protezione dell’uomo come specie, e infiltrazione mondiale dei sistemi di sicurezza, la razza torna come barbarie e alterità. Il terrorismo ha portato alla ribalta singolarità in cui la razza non può essere più posta in termini di iscrizioni economiche, biologiche o evolutive, ma è vista come un campo di differenze etniche e religiose, di differenze linguistiche e di differenze tra pratiche quotidiane e razionalità. Come nel caso del mostro, ritorna la problematica del barbaro della fine del XVIII secolo. Il barbaro solleva problemi di Foucault discute anche dell’emergere delle rivolte politiche nelle carceri – scatenate dalla morte di George Jackson, importante membro del movimento delle Black Panther – e delle rivolte nella prigione di Attica; cfr. M. Foucault, The Masked Assassination, in Warfare in the American Homeland. Policing and Prison in a Penal Democracy, a cura di J. James, Duke University Press, Durham 2007, pp. 140-160 e A proposito della prigione di Attica, in Archivio Foucault 2, cit., pp. 269-280. Foucault mette anche in luce gli elementi di guerra delle razze all’interno del movimento dei lavoratori, in cui le minoranze etniche costituiscono un sottoproletariato irriducibile alle analisi economiche astratte; cfr. M. Foucault, Rituals of Exclusion, in Foucault Live. Interviews, 1966-1984, Semiotext(e), Los Angeles 1989, pp. 68-73, p. 72. Sulle questioni politiche sollevate dalle minoranze etniche nel sistema globalizzato della salute mentale negli Stati Uniti, cfr. R. Castel et al., The Psychiatric Society, Columbia University Press, New York 1982. 44 Per «prese tattiche», Foucault intende le occasioni politiche e tattiche in cui teorie, ideologie e atteggiamenti diversi entrano in opposizione. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 164 nota. 45 Cfr. L. Roland e L. Maurice, Aliens and Alienists. Ethnic Minorities and Psychiatry, Routledge, New York–London 1997. 43


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differenze etniche e culturali, di alterità e “follia” che, nel contesto della protezione globale, appaiono come pericolo e minaccia per la civiltà. Il barbaro costringe la razionalità biopolitica attuale a riconsiderare le proprie categorie razziali, mediche e giuridiche, e a ridefinire cosa è umano e dove sono i limiti della ragione46. Questa osservazione era già stata fatta da Foucault nelle sue riflessioni sui comportamenti e sugli atteggiamenti derivanti da altre culture, rifiutati dalla razionalità occidentale come folli. Nel caso della Rivoluzione iraniana, Foucault aveva analizzato la barbarie e gli elementi arcaici e retrogradi di una civiltà che, secondo gli standard della razionalità occidentale, conteneva un pericoloso spirito conservatore e un fondamentalismo religioso. Aveva però insistito nel contestare l’evidenza di questi standard, mettendo in dubbio gli schemi analitici politici, storici e giuridici che la razionalità occidentale impiegava per concettualizzare questo evento. Gli Iraniani erano infatti barbari “folli” e pericolosi, ma non nel senso che erano fanatici psicopatici e suicidi, o consumatori dell’oppio della religione, secondo uno schema medico-ideologico47. La strategia di questi rivoluzionari era del tutto estranea, completamente “altra” rispetto alla razionalità occidentale, in quanto consisteva in tattiche politiche – scioperi, manifestazioni, propaganda – decontestualizzate dal loro supporto ideologico convenzionale (assenza di leadership di partito o di agenda politica). E, soprattutto, queste strategie non erano dirette contro un particolare regime politico, ma costituivano una resistenza a una forma di razionalità globale e a un modo uniforme di pensare: È l’insurrezione di uomini dalle mani nude che vogliono sollevare il peso formidabile che grava su ciascuno di noi, ma, più particolarmente, su di loro, lavoratori del petrolio, contadini alle frontiere degli imperi: il peso dell’ordine del mondo intero. È forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più moderna di rivolta48.

Dopo le osservazioni di Foucault, hanno avuto luogo altre rivolte “folli” simili a questa, azioni anti-globalizzazione violente, terroriste e barJudith Butler sostiene la necessità di ridefinire l’umano e riconsiderare il giuridico di fronte alla barbarie dei sospetti terroristi che il biopotere imprigiona in modo indefinito, trattandoli come pericolosi folli. Cfr. J. Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004. 47 Cfr. M. Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, in Dits et écrits II, cit., pp. 743-755. 48 M. Foucault, Il mitico capo della rivolta iraniana, in Taccuino persiano, a cura di R. Guolo e P. Panza, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 60. 46


104 John Iliopoulos bare, e che esprimono il rifiuto di gruppi di individui di aderire a una mentalità globale49. Come nel caso della Rivoluzione iraniana, la critica, per come Foucault la concepisce, non appoggia né denuncia questi atti, ma li tratta come elementi della guerra delle razze, la quale può essere valutata solo dal punto di intersezione tra l’ambito giuridico-politico, quello storico e quello psichiatrico. Il barbaro non è inferiore né malato rispetto alla società: l’obiettivo non può quindi essere la sua correzione medica, la sua umanizzazione o la sua eliminazione fisica, per restaurare la pace e l’ordine. L’incontro con il barbaro deve essere analizzato in termini storici e nei termini del suo impatto giuridico, politico e culturale sulla costituzione occidentale: in questo modo, alcuni aspetti della sua alterità saranno utili per riconsiderare le forme stabilite della razionalità e delle verità costituenti. Questo stesso effetto può però essere considerato in termini psichiatrici. La psichiatria può svolgere il ruolo di discriminante politico, ma non perché possiede i criteri per distinguere tra il malato e il rivoluzionario, tra il folle e l’uomo di fede autentica e progressista. Questa funzione era stata assunta da alcuni psichiatri e criminologi del XIX secolo, come Lombroso e certi psichiatri forensi francesi e italiani che applicavano i metodi anatomici, antropologici e psicologici per determinare la vera differenza tra malattia mentale e attivismo politico, tra anarchia sterile e patologica e azione politica progressista50. Foucault suggerisce invece che il ruolo politico e culturale della psichiatria possa consistere nell’esaminare il modo in cui la follia – problema clinico locale e specifico – costituisca anche un problema generale, un punto di riferimento per le società che si battono per definirsi culturalmente e politicamente razionali. Conclusione Follia e razza sono categorie di verità e, in quanto tali, presentano zone di alterità, di irriducibilità e anche di pericolo in un sistema globalizzato di razionalità uniforme e di sicurezza. Il biopotere attuale impone la regola universale di differenze astratte, la riduzione di tutte le singolarità alla biologia e a una possibilità di scambio generalizzata. Si tratta di un sistema di governo che sottomette la storia, gli eventi e la negatività al posi49 50

J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano 2002. M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 139-140.


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tivismo, alla socializzazione e alla razionalizzazione. Il potere promuove la vita ad ogni costo, elimina l’alterità, usa la legge più come tattica che come strumento di legittimazione, è permeato più dal successo e dal fallimento che dal vero e dal falso, e promuove più il controllo dei processi naturali e biologici che il modello di lotte tra lingue, religioni e culture. Follia e razza, come concetti che sfuggono a questa crescente razionalità, introducono un modello di non riconciliabilità che serve da esempio di quel che Foucault concepisce come resistenza. La resistenza al biopotere non consiste nel rifiutare tout court il governo, apertamente e globalmente, né equivale ad attaccare il suo edificio in termini scientifici o ideologici. Consiste nell’introdurre la guerra, la “follia” e la negatività in un sistema preoccupato dalla regolazione, dal calcolo e dal controllo. Nella resistenza, i processi lineari e teleologici vengono rovesciati e i metodi razionali di governo perdono il proprio significato e il proprio fondamento. Il controllo totale sulla vita e sulla salute raggiunge il proprio limite esterno quando la morte e la follia divengono un problema politico, più che un problema strettamente biologico. La critica di Foucault mette in luce queste rotture, questi punti di rovesciamento e le linee di divisione che emergono tra le interazioni continue degli scambi controllati e delle reciprocità, e trasformano le relazioni astratte di potere in istanze concrete di scontro tra avversari51. Tuttavia, gli avversari impegnati in questi scontri non portano chiari marcatori biologici, ideologici o antropologici di differenziazione, come sostiene la teoria razzista. Le loro lotte hanno luogo al livello della «politica della verità»52. I folli non sono solo quelli che costituiscono un’entità clinica, una malattia mentale, ma quelli che compongono una “razza” separata priva di sostanza: la razza di coloro che sfuggono all’egemonia razionale. Viceversa, la “razza” designa un caso di “follia”, una singolarità culturale, religiosa o etnica che resiste alla riduzione antropologica o biologica53. Come “regina” del biopotere, ma anche come disciplina storicamente radicata nell’alienismo, la psichiatria possiede sia gli strumenti concettuali M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 293. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 14. 53 Felix Guattari e Gilles Deleuze considerano razza e follia come categorie ontologiche. Individuano la razza in ogni delirio e per loro razza e follia sono entrambe minoranze che comunicano attraverso «passaggi inconsci». Cfr. F. Guattari, Molecular Revolution in Brazil, Semiotext(e), Los Angeles 2008, p. 107 e G. Deleuze, Due regimi di folli, in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, a cura di D. Broca e P.A. Rovatti, Einaudi, Torino 2010, pp. 3-7. Foucault le considera invece come esperienze ai confini dell’epistemologia. 51 52


106 John Iliopoulos sia quelli scientifici per criticare il proprio ruolo nel sostegno al razzismo, e per riflettere sulla propria relazione fondamentale e dimenticata con la follia e la razza, come limiti della razionalità occidentale. Traduzione dall’inglese di Laura Cremonesi

John Iliopoulos University College London johnelliot73@hotmail.com

. Foucault, Biopower and Psychiatric Racism In this paper I explore the emergence and development of psychiatric racism. Following Foucault’s historical and ethnological approach, I shall show how madness and race constituted the limit of western rationality in the late eighteenth century. I shall then go on to illustrate how, a hundred years later, these two notions were inserted into psychiatric discourse by way of biology. Foucault’s analysis demonstrates that this insertion was not a sign of scientific progress or the result of a deeper understanding of madness or race, but the effect of a specific type of governmentality, which he terms “biopower”. Within this new form of rationality, biological psychiatry emerged as an agent of social protection and as a scientific apparatus for the prevention and correction of abnormalities. Although totalizing, however, this form of psychiatric practice is not by definition totalitarian. Foucault highlights the subtle but important differences between the political and ideological role of psychiatric racism in the totalitarian regimes of the twentieth century and its normalizing function in the context of today’s globalized system of security. These differences need to be taken into account as current psychiatric racism determines new forms of resistance, different strategies and modes of critique. Keywords: Foucault, Biopower, Ethnology, Race, Madness, Psychiatric racism, Barbarism, Monstrosity.


For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita Jonathan Xavier Inda

A metà giugno del 2005, il Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee

della Food and Drugs Administration (FDA) statunitense tenne un meeting, che durò una giornata intera, per discutere una nuova applicazione della prescrizione di un farmaco per curare l’insufficienza cardiaca negli afroamericani. Conosciuto come BiDil®, questo farmaco ha rappresentato un caso piuttosto unico1. A differenza dei farmaci standard, che si rivolgono alla popolazione in generale, il BiDil è stato proposto per un gruppo razziale specifico: solo i neri (blacks only). Oltre ai membri del Comitato, al meeting erano presenti dei consulenti della FDA, dei rappresentanti di NitroMed (il produttore del BiDil) e alcuni altri ospiti, dagli scienziati e ricercatori in medicina ai malati di cuore e ai portavoce di varie organizzazioni afroamericane, politiche, professionali e per i diritti civili delle minoranze. Significativamente, diversi partecipanti hanno preso la parola nel corso della discussione. Una di loro era Debra Lee, una donna afroamericana di quarantotto anni con problemi cardiaci che era al meeting per sostenere il BiDil. «Nel 1999», ha asserito, «ho avuto un arresto cardiaco. Il mio cuore si è bloccato. Mi è stato inserito uno stent. All’inizio del 2003 ho notato Il BiDil è una combinazione a dose fissa di due farmaci generici, l’idralazina cloridrato e l’isosorbide dinitrato. Entrambi i farmaci generici sono vasodilatatori, che rilassano la muscolatura liscia dei vasi sanguigni causandone la dilatazione. Il risultato finale è che il sangue riesce a scorrere più facilmente nelle vene e nelle arterie, e che quindi il cuore non deve sforzarsi. Il BiDil era stato sviluppato come terapia contro l’insufficienza cardiaca congestizia, una malattia cronica e progressiva in cui il muscolo del cuore gradualmente perde la capacità di pompare sangue a sufficienza per rispondere ai bisogni del metabolismo. Questa malattia colpisce circa cinque milioni di americani, con una stima che va dai quattrocentomila ai settecentomila nuovi casi ogni anno. Cfr. Heart Failure Society of America, Quick Facts & Questions About Heart Failure, consultabile all’indirizzo http://www.hfsa.org/heart_failure_facts.asp. Sul numero complessivo, la percentuale di donne e uomini è circa la stessa, la maggioranza è over-65 e intorno ai settecentocinquantamila sono afroamericani. Cfr. W. Rosamond et alii, Heart Disease and Stroke Statistics. 2007. Update, Report from the American Heart Association Statistics Committee and Stroke Statistics Subcommittee, 2007, Circulation 115, e69–e171; NitroMed, Heart Failure Backgrounder, NitroMed, Lexington. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 107-135.


108 Jonathan Xavier Inda un cambiamento nel mio stato di salute: tossivo continuamente; ero visibilmente a corto di fiato; camminare anche per brevi distanze mi stancava; mi svegliavo in piena notte; dormivo su una sedia perché se mi sdraiavo mi sentivo soffocare»2. I dottori sottoposero Lee a varie analisi nell’agosto del 2003, e le fu diagnosticata un’insufficienza cardiaca congestizia. Successivamente, quello stesso anno, le fu offerta la possibilità di partecipare all’African American Heart Failure Trial (A-HeFT), un esperimento co-sponsorizzato da NitroMed e dall’Association of Black Cardiologists per testare il BiDil in pazienti di colore auto-identificati (self-identified black patients). Lei accettò senza indugiare. Come stava Lee al momento della sua testimonianza? «Stavo meravigliosamente», ha raccontato. «Nessuna mancanza di fiato; sono in grado di camminare e di fare esercizio senza pausa; posso dormire nel mio letto la notte; lavoro di più al museo d’arte di Indianapolis; ho più energia»3. E a cosa attribuiva questo cambiamento? «Alla mia fede salda in Dio», rispose Lee, «e a una piccola pillola che si chiama BiDil. Credo che questa pillola stia aiutando il mio cuore a pompare con maggiore energia. […] Per quanto mi riguarda, questa pillola ha cambiato tantissime cose per me, dandomi nuova fiducia nella vita. […] Credo di avere ancora quarant’anni o quasi davanti a me, da vivere pienamente»4. La storia raccontata da Debra Lee riguarda al contempo un corpo sofferente e un corpo di speranza. Riguarda il dolore che emerge in una condizione debilitante, cronica e fatale come l’insufficienza cardiaca: l’assenza di fiato, il tossire persistente, la fatica e il ritmo cardiaco accelerato – e la lista prosegue. La sua storia riguarda anche la fiducia che il BiDil non solo prolunghi la durata della vita, ma migliori anche la qualità della propria esistenza. Questa mobilitazione di sofferenza e speranza non è specifica della storia di Lee. L’immagine era emersa con frequenza in altre testimonianze rilasciate nel corso dell’udienza pubblica5. Per esempio, Donna Christensen, membro del Congresso, parlando da presidente del Congressional Black Caucus Health Braintrust, cominciò la sua testimonianza dipingendo il quadro della sofferenza dei neri, sottolineando le disparità in fatto di salute che la popolazione di colore aveva subito. «Ogni giorno», D. Lee, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, Center for Drug Evaluation and Research, U.S. Department of Health and Human Services, Washington 2005, vol. 2, pp. 218-221, p. 218. 3 Ivi, p. 219. 4 Ivi, pp. 219-220. 5 U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2. 2


For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 109

affermò, «più di duecento afroamericani muoiono di morte prematura. La causa principale di queste morti è la cardiopatia di cui noi soffriamo in maniera molto più sproporzionata rispetto ad altri gruppi etnici o razziali. Si prevede che l’insufficienza cardiaca, tra gli afroamericani, aumenterà da 725.000 a 900.000 casi nei prossimi cinque anni, e il 50% di questi pazienti si prevede che sopravvivrà per meno di cinque anni dopo la diagnosi»6. In questo contesto, Christensen vedeva nel BiDil un’opportunità per ridurre le disuguaglianze relative alla salute. Mettendo in evidenza i dati dell’AHeFT, sottolineò come il farmaco riducesse la mortalità del campione di partecipanti del 43%, riducesse di un terzo il tasso di ospedalizzazione per cardiopatia e, in generale, migliorasse la qualità della vita. Secondo Christensen, il BiDil era interamente permeato di speranza e carico della prospettiva di salvare vite di neri (black lives). Come affermò lei stessa, «il BiDil può salvare migliaia di vite e ridurre le sofferenze taciute dei pazienti cardiopatici afroamericani e delle loro famiglie»7. Tuttavia, non tutti i partecipanti al forum pubblico guardavano al BiDil con tanto ottimismo. Sebbene tutti i relatori concordassero sul fatto che il farmaco andasse approvato, alcuni sostennero che limitarne l’uso agli afroamericani senza renderlo disponibile a tutta la popolazione fosse altamente problematico. Tra i critici vi era il dottor Shomarka Keita, un antropologo affiliato alla Smithsonian Institution e al National Human Genome Center dell’Università di Howard. Il suo argomento principale, condiviso da altri, era che il BiDil sembra basarsi sull’idea che gli afroamericani possiedano un profilo biologico (e presumibilmente anche genetico) specifico che fa sì che il farmaco sia più efficace su di loro che non sugli americani di origine europea. Questo ragionamento implica che gli afroamericani costituiscano un gruppo biologico e genetico discreto – il che è semplicemente falso, secondo il dottor Keita. Come egli ha affermato, «il gruppo degli afroamericani non è costituito da individui uniformi che sono biologicamente identici, a causa di un’uniformità genealogica o perfino di un’offesa ambientale (environmental insult)»8. Piuttosto, a suo avviso, questa popolazione è un’entità puramente sociale. Le implicazioni di una simile prospettiva rispetto a come il BiDil avrebbe dovuto essere indicato erano significative. Come il dottor Keita fece notare, «i farmaci lavorano al livello D.M. Christensen, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 203-210, p. 204. 7 Ivi, p. 209. 8 S. Keita, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 221-224, p. 222. 6


110 Jonathan Xavier Inda della fisiopatologia, dei fenotipi clinici e degli individui, e non su categorie socio-demografiche, gruppi o identità mistiche»9. Dunque, se gli afroamericani sono un gruppo sociale e non genetico, non c’è motivo per credere che il BiDil funzioni su tutti i membri di questa popolazione e non su quelli di altri gruppi. Semplicemente, i farmaci non funzionano sulla base di categorie razziali o etniche socialmente designate; al contrario, la loro efficacia è collegata a specifici genotipi che sono condivisi nelle popolazioni. In definitiva, il dottor Keita raccomandò che il BiDil non fosse indicato esclusivamente per gli afroamericani, e suggerì la necessità di identificare «la specifica fisiopatologia e il fenotipo clinico sui quali le componenti del BiDil funzionano», e di trattare «il fenotipo clinico suscettibile in tutti e in ciascun individuo che lo possieda, indipendentemente dalle sue origini»10. Taciuta, ma certamente sottesa a questo intervento, vi era una grande preoccupazione per la biologizzazione della razza. Data l’esperienza storica degli Stati Uniti in fatto di scienza razziale, con la classificazione di alcuni gruppi come biologicamente inferiori e di altri come biologicamente superiori, biologizzare gli afroamericani e designare il BiDil come un farmaco razziale significava aprire potenzialmente la porta agli stereotipi etnici, alla discriminazione e alla marginalizzazione. Alla fine, il Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, citando tra le altre cose l’«incidenza sproporzionata della cardiopatia nelle persone di colore» e il bisogno di sviluppare un efficace trattamento in quella popolazione «alla luce delle disparità in fatto di salute», raccomandò l’approvazione del BiDil per gli afroamericani11. Salvare le vite degli afroamericani sembrò vincere ogni preoccupazione legata ai problemi della biologizzazione della razza. Ben presto, la FDA, seguendo le raccomandazioni del Comitato, approvò il farmaco «per il trattamento della cardiopatia in pazienti di colore auto-identificati (self-identified black patients)»12. Così, il BiDil divenne il primo farmaco approvato dalla FDA per uno specifico gruppo razziale13. Ibidem. Ivi, pp. 222-223. 11 S.E. Nissen, Report from the Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, U.S. Food and Drug Administration, Gaithersburg, July 15-16, 2005, Circulation 112, pp. 20432046, p. 2046. Il voto con il quale il BiDil venne approvato fu di nove a zero, con due persone che raccomandarono l’approvazione del BiDil per la popolazione in generale. 12 U.S. Food and Drug Administration, FDA Approves BiDil Heart Failure Drug for Black Patients, 2005, consultabile all’indirizzo http://www.fda.gov/NewsEvents/ Newsroom/PressAnnouncements/2005/ucm108445.htm. 13 M. Meadows, FDA Approves Heart Drug for Black Patients, in «FDA Consumer Magazine», vol. 39 (2005), n. 5, pp. 8-9. 9

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For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 111

In questo saggio vorrei esaminare la politica contemporanea della razza e dei farmaci focalizzandomi sul BiDil. Facendo riferimento ai lavori di Michel Foucault sul biopotere, suggerirò che farmaci come il BiDil sono implicati in quella che può essere definita una politica razziale della vita. Si tratta di una politica che ha come oggetto la vitalità biologica (biological vitality) del corpo razziale. Negli Stati Uniti contemporanei, i temi relativi alla vita e alla salute sono diventati indubbiamente questioni politiche cruciali14. Infatti, potenziare la vitalità (vitality) del corpo vivente – tramite pratiche che vanno dalle cure di base alla medicina e ai farmaci ad alta tecnologia – è diventato un obiettivo centrale delle autorità politiche e di altro genere. Ciò che è importante, in questa politica della vitalità (vitality), è il desiderio di superare le disparità razziali in fatto di salute. Dalla cardiopatia e dal diabete fino al cancro e all’asma, le popolazioni maggiormente affette da una varietà di malattie sono le minoranze razzializzate (afroamericani, latinos, nativi americani e così via). Le soluzioni generalmente proposte per combattere il problema delle disparità razziali in fatto di salute sono state di natura sociale e ambientale (per esempio, un accesso più facile alle cure mediche e un miglioramento delle condizioni di vita), ma sulla scia della mappatura del genoma umano, il pensiero genetico ha cominciato ad avere una considerevole influenza sul modo in cui le disparità razziali vengono problematizzate. Vi è una convinzione progressivamente sempre più forte tra gli scienziati, i ricercatori in medicina e i politici: esistono differenze notevoli a livello genomico tra gruppi razziali e queste differenze sono significative dal punto di vista medico15. In tal modo viene sostenuto che la classificazione razziale è necessaria al fine di isolare quei disturbi che colpiscono principalmente le minoranze razziali svantaggiate e di rimediare alla svalutazione di queste popolazioni nella ricerca medica, nello sviluppo dei farmaci e nell’accesso alle cure mediche. La speranza è che una medicina fondata su base genetica giocherà un ruolo fondamentale nel migliorare le disuguaglianze in fatto di salute basate sulla razza16. I farmaci indirizzati a gruppi razziali specifici sono la chiave di volta di questa politica della A. Ong, Mutations in Citizenship, in «Theory, Culture & Society», vol. 23 (2006), nn. 2-3, pp. 499-505; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2007. 15 N. Risch et alii, Categories of Humans in Biomedical Research: Genes, Race, and Disease, in «Genome Biology», vol. 3 (2002), n. 7, pp. 1-12. 16 Il BiDil, tecnicamente, non è un farmaco fondato su base genetica, dal momento che i meccanismi genetici che sottendono il suo funzionamento non sono conosciuti. Tuttavia, la creazione del farmaco fu resa possibile dall’idea che la razza conta quando ci si chiede come i farmaci funzionino sul corpo. 14


112 Jonathan Xavier Inda vita. Essi promettono di apportare i benefici della medicina moderna alle popolazioni socialmente escluse. Tuttavia, suggerirò anche che, sebbene i farmaci razzializzati funzionino apparentemente per potenziare le forze vitali del corpo biologico, la loro politica della vita fa emergere questioni spinose riguardo alla biologizzazione della razza. Molti studiosi, scienziati e laici hanno messo in discussione che la medicina possa legittimamente impiegare la nozione di “razza”, dal momento che la sua inconsistenza scientifica è stata più volte dimostrata17. Riferendosi alla ricerca genetica sulla salute della popolazione, essi concludono che non esistono razze distinte e che semplicemente non vi sono giustificazioni biologiche per i cosiddetti gruppi razziali. In gioco, per questi critici, è la probabilità che combattere per un’equità della salute trattando il corpo razziale come un’entità genetica, porterà alla naturalizzazione delle disparità in fatto di salute, consentendo alle spiegazioni biologiche di mettere in ombra una comprensione sociale, economica ed ecologica della malattia18. Un importante fulcro di questo saggio sarà dunque costituito dai problemi associati al targeting dei farmaci su gruppi razziali particolari, fondato sulla convinzione che questi gruppi siano geneticamente differenti tra loro. Pensare attraverso il biopotere A livello teorico, questo saggio emerge da e intende contribuire al corpus crescente di letteratura interdisciplinare sviluppatosi intorno al tema della politica vitale o della politica della vita. Tale corpus è emerso dai brevi ma significativi scritti e dalle lezioni che Michel Foucault ha dedicato al tema del biopotere19. In essi, il termine “biopotere” designa una forma di S.S.-J. Lee et alii, The Meaning of “Race” in the New Genomics. Implications for Health Disparities Research, in «Yale Journal of Health Policy, Law, and Ethics», vol. 1 (2001), n. 1, pp. 33-75; J.H. Fujimura et alii, Introduction. Race, Genetics, and Disease: Questions of Evidence, Matters of Consequence, in «Social Studies of Science», vol. 38 (2008), n. 5, pp. 643-656; I. Whitmarsh e D.S. Jones (a cura di), What’s the Use of Race? Modern Governance and the Biology of Difference, MIT Press, Cambridge 2010. 18 D. Fullwiley, The Molecularization of Race. Institutionalizing Human Difference in Pharmacogenetics Practice, in «Sciences as Culture», vol. 16 (2007), n. 1, pp. 1-30. 19 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1978; M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975-1976), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 206-227; M. Foucault, Governmentality, in The Essential Works of Foucault, 1954-1984. Vol. 3: Power, a cura di J.D. Faubion, New Press, New York 2000, pp. 201-222. 17


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potere che fa del potenziamento della vita il proprio oggetto, e si riferisce a come le autorità politiche e di altra natura si siano attribuite il compito di amministrare i corpi e di gestire il benessere collettivo. Influenzati dalla nozione foucaultiana di biopotere, gli studiosi hanno mappato un vasto campo di indagine relativo al modo in cui i processi vitali dell’esistenza umana contano quando si tratta di politica. A loro avviso, spesso ciò che è in gioco nel governo degli individui e delle popolazioni non è altro che la vita stessa. All’interno di questo vasto campo, i ricercatori hanno prodotto un certo numero di studi importanti su un’ampia gamma di temi, tra cui salute e malattia20, gravidanza e riproduzione21, umanitarismo22, rifugiati e immigrazione23, colonialismo24, politica della morte25, genetica e genomica26, cittadinanza27, guerra28. Di particolare importanza per il presente saggio sono i lavori di Paul Rabinow e Nikolas Rose, che hanno significativamente rielaborato la nozione di biopotere per prendere in considerazione gli sviluppi contemporanei nelle bioscienze, inclusa la genetica. Comincerò esponendo la prospettiva di Foucault sul biopotere, e in seguito passerò ad esaminare la riarticolazione di tale concetto in Rabinow e Rose. Foucault e il biopotere Nel capitolo finale de La volontà di sapere, Foucault osserva che, per lungo tempo, una delle prerogative basilari del potere sovrano è consistita nel diritto di decidere sulla vita e sulla morte. Ad esempio, se un nemico J. Biehl, Will to Live. AIDS Therapies and the Politics of Survival, Princeton University Press, Princeton 2007. 21 L. Weir, Pregnancy, Risk, and Biopolitics. On the Threshold of the Living Subject, Routledge, New York 2006. 22 P. Redfield, Doctors, Borders, and Life in Crisis, in «Cultural Anthropology», vol. 20 (2005), n. 3, pp. 328-361. 23 D. Fassin, The Biopolitics of Otherness. Undocumented Foreigners and Racial Discrimination in French Public Debate, in «Anthropology Today», vol. 17 (2001), n. 1, pp. 3-7. 24 A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995. 25 G. Agamben, Homo Sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press, Stanford 1998. 26 P. Rabinow, French DNA. Trouble in Purgatory, University of Chicago Press, Chicago 1999; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, cit. 27 A. Petryna, Life Exposed. Biological Citizens After Chernobyl, Princeton University Press, Princeton 2002; A. Ong, Mutations in Citizenship, cit. 28 J. Reid, Life Struggles. War, Discipline, and Biopolitics in the Thought of Michel Foucault, in «Social Text», vol. 42 (2006), n. 1, pp. 127-152. 20


114 Jonathan Xavier Inda esterno cercava di rovesciare il sovrano, quest’ultimo poteva giustamente dichiarargli guerra, chiedendo ai propri sudditi di combattere per difendere lo Stato. Così, senza causare direttamente la morte dei propri sudditi, il sovrano era autorizzato a mettere a rischio le loro vite, esercitando dunque un potere indiretto di vita e di morte su di loro. Tuttavia, se qualcuno si azzardava a ribellarsi contro il sovrano e a violare le sue leggi, egli aveva sempre la possibilità di esercitare un potere diretto sulla vita del trasgressore, condannandolo a morte. Il diritto di decidere della vita e della morte era quindi alquanto dissimmetrico, sbilanciato dal lato della morte. Come afferma Foucault, «il sovrano non […] esercita il suo diritto sulla vita se non mettendo in atto il suo diritto di uccidere, o astenendosene; rende manifesto il suo potere sulla vita solo attraverso la morte che è in grado di esigere. Il diritto che si formula come “di vita e di morte” è nei fatti il diritto di far morire o di lasciar vivere»29. In ultima analisi, il potere sovrano funzionava principalmente come un meccanismo di sottrazione – un mezzo a disposizione del sovrano per appropriarsi di una porzione di ricchezza, lavoro, servizi e sangue dei propri sudditi. In quanto tale, si trattava fondamentalmente di un diritto di cattura che culminava in una presa sulla vita mirante a sottometterla. Questo potere di appropriazione o sottrazione, suggerisce Foucault, non è più la forma principale del potere politico in Occidente. A partire dal XVII secolo, i meccanismi di potere hanno subito una trasformazione radicale. Il potere, oggi, funziona in linea generale organizzando, controllando, rinforzando, monitorando, incitando e ottimizzando le energie degli individui e della vita collettiva. Non è focalizzato a impedire o a distruggere la vita, ma a produrla, facendola crescere e ordinandola. Quindi, rispetto a un potere organizzato intorno al sovrano, il potere moderno non ha più a che fare «solo con soggetti di diritto sui quali la morte è la presa estrema, ma con degli esseri viventi»30. Foucault suggerisce, infatti, che la funzione suprema del potere non sia più di uccidere, quanto piuttosto di investire interamente la vita. È sulla vita che il potere politico moderno stabilisce la sua presa e cerca di avere un’influenza positiva. Il nome che Foucault dà a questo potere sulla vita è, appunto, biopotere. Il biopotere designa essenzialmente «quel che fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e [che] fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana»31. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 120. Ivi, p. 126. 31 Ibidem. 29 30


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Il biopotere, secondo Foucault, ha assunto due forme principali in Occidente. Una forma, che egli chiama biopolitica della popolazione (o semplicemente biopolitica), riguarda la popolazione «al livello dei suoi effetti aggregati»32. Qui il biopotere prende a bersaglio la popolazione considerata come corpo-specie, cioè come corpo «attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farle variare»33. Detto in altri termini, la biopolitica si occupa dei processi biologici del corpo sociale collettivo. Riguarda la regolazione dei fenomeni che tipizzano i gruppi degli esseri umani viventi: riproduzione e sessualità umana, dimensione e qualità della popolazione, salute e malattia, condizioni di lavoro e di vita, nascita e morte, ecc. L’obiettivo della biopolitica è di ottimizzare la vita della popolazione nel suo insieme. La seconda forma, che Foucault definisce anatomo-politica del corpo umano (o semplicemente disciplina), «implica la regolazione della popolazione in profondità e nel dettaglio»34. Qui il biopotere si concentra non sulla popolazione in sé, ma sui corpi individuali che la compongono. L’oggetto della disciplina, infatti, non è la massa collettiva, ma il corpo umano individuale – il corpo preso come un oggetto da manipolare. La disciplina mira a produrre esseri umani i cui corpi siano sia utili che docili; essa mira a ottimizzare la vita del corpo – incrementare le sue capacità, estorcere le sue forze, aumentare la sua utilità e la sua docilità. Il biopotere, dunque, consiste nientemeno che in una presa in carico della vita da parte del potere politico. Esso indica come le autorità politiche e altre autorità si siano attribuite il compito di amministrare i corpi e regolare la vita collettiva. Significativamente, sebbene Foucault sostenga che il governo dei corpi e la gestione calcolata della vita abbiano soppiantato l’antico potere di morte che caratterizzava il potere sovrano, egli non intende affermare che il diritto di provocare la morte sia scomparso. Piuttosto, tale diritto ha subito una trasformazione, o almeno ha teso «ad appoggiarsi sulle esigenze di un potere che gestisce la vita ed a finalizzarsi a ciò che queste domandano»35. In altri termini, il formidabile potere di morte «si presenta ora come il completamento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa M. Foucault, Governmentality, cit., p. 219. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123. 34 M. Foucault, Governmentality, cit., p. 219. 35 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 120. 32 33


116 Jonathan Xavier Inda controlli precisi e regolazioni d’insieme»36. Eppure, come nota Foucault, le guerre moderne sono più sanguinose che mai, e per la prima volta i regimi politici hanno costretto le proprie popolazioni a subire olocausti insensati (come quello nazista, ad esempio). Tuttavia, se il genocidio è un effetto del potere moderno, ciò non si deve al ritorno del diritto sovrano di uccidere, ma proprio al fatto che il potere è ora collocato e praticato al livello della vita. Infatti, le guerre non sono più condotte in nome del sovrano. Esse sono dichiarate in difesa dell’esistenza collettiva. È per alimentare la vita – la vita della popolazione – che la vita può essere respinta. Come sostiene Foucault, «si spingono intere popolazioni ad uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere. […] Come gestori della vita e della sopravvivenza, dei corpi e della razza, tanti regimi hanno potuto condurre tante guerre, facendo uccidere tanti uomini»37. Foucault ha ulteriormente esplorato questo rovescio della medaglia del biopotere nell’ultima lezione del corso “Bisogna difendere la società”. Qui egli domanda: poiché l’obiettivo del biopotere «è essenzialmente quello di far vivere, come può lasciar morire? In un sistema politico incentrato sul biopotere, in che modo è possibile esercitare il potere della morte, come esercitare la funzione della morte?»38. La sua risposta è il razzismo. All’interno di un regime di potere che mira a potenziare la vita, osserva Foucault, il razzismo è la precondizione necessaria che rende accettabile l’uccisione. Esso introduce essenzialmente «una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire»39. Il razzismo lavora per introdurre tale separazione in due modi. Prima di tutto, esso prende il continuum biologico della specie umana e lo divide in razze, designandone alcune come buone e altre come inferiori. In secondo luogo, esso stabilisce una relazione tra la propria vita e la morte degli altri tale che più uno uccide, o permette che gli altri muoiano, più egli vivrà. Questa relazione, secondo Foucault, è una relazione di guerra, ma i nemici da eliminare non sono avversari in un senso politico. Sono piuttosto nemici biologici – minacce interne ed esterne alla specie o alla popolazione. L’idea qui è che la morte dell’altro, la morte della razza cattiva o inferiore, renderà in generale la vita più pura e sana. Questa morte non deve necessariamente consistere in una morte diretta o nell’atto letterale di condannare a morte. Si può anche trattare di una morte indiretta: dell’atto di esporre alla morte, di moltiplicare per alcuni il rischio di morte, o semplicemente di morte politica, di espulIvi, p. 121. Ibidem. 38 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 220. 39 Ibidem. 36 37


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sione, rigetto o esclusione. In ogni caso, quando la vita diventa un valore politico supremo, sembra che la logica della guerra – la logica secondo la quale bisogna essere in grado di uccidere al fine di sopravvivere – si configuri come principio predominante del potere politico. Il rafforzamento della vita della popolazione diviene così indistinguibile dalla lotta contro il nemico biologico e dalla necessità di eliminarlo. Sebbene la morte continui a funzionare nella tecnologia del biopotere, oggi non abbiamo più a che fare con il «vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere». A questo diritto «si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»40. Ciò significa che, nonostante l’equilibrio tra vita e morte continui a essere dissimmetrico, adesso è sbilanciato dal lato della vita. È alla vita che il potere presta attenzione, e la vita può essere legittimamente investita soltanto in nome della vita stessa. Per Foucault, questa trasformazione storica nella tecnologia di potere, dal potere di sovranità al biopotere – da un potere che opera in base al principio del diritto di uccidere a un potere che generalmente lavora per rafforzare la vita –, rappresenta una rivoluzione fondamentale nell’ordine della politica. Essa significa «nientemeno che l’ingresso della vita nella storia – voglio dire l’ingresso dei fenomeni propri alla vita della specie umana nell’ordine del sapere e del potere –, nel campo delle tecniche politiche»41. Essa ci informa su come la vita biologica si sia riflessa nell’esistenza politica. In definitiva, secondo Foucault, questo ingresso della vita all’interno dei meccanismi del potere segna l’avvento del moderno: «quel che si potrebbe chiamare la “soglia di modernità biologica” di una società si colloca nel momento in cui la specie entra come posta in gioco nelle sue strategie politiche»42. Così, Foucault suggerisce che la concezione aristotelica dell’uomo come «un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica» debba essere rettificata: «l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente»43. Il biopotere oggi Una delle revisioni più influenti del concetto di “biopotere” si trova in Paul Rabinow e Nikolas Rose44 che, sia nei loro lavori individuali sia M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 122. Ivi, p. 125. 42 Ivi, p. 127. 43 Ibidem. 44 P. Rabinow, French Enlightenment. Truth and Life, in «Economy and Society», vol. 27 (1996), nn. 2-3, pp. 193-201; P. Rabinow, French DNA, cit.; P. Rabinow, Artificiality and Enlightenment. From Sociobiology to Biosociality, in J.X. Inda (a cura di), Anthropologies of 40 41


118 Jonathan Xavier Inda in quelli collettivi, hanno cercato di ripensare il biopotere alla luce degli sviluppi nelle scienze genetiche e biologiche. Come Foucault, Rabinow e Rose sostengono che, nonostante l’economia del biopotere abbia senza dubbio i suoi circuiti di esclusione e possa sfociare in una tanatopolitica omicida, essa opera generalmente in base a una «logica della vitalità (vitality)»45. Così, i due studiosi affermano che, «se il biopotere sutura insieme la gestione della vita e la gestione della morte, oggi il “sogno del potere” si focalizza sul polo della vita»46. Il loro lavoro riguarda dunque principalmente l’esplorazione di progetti relativi alla produzione della vita – ossia, di schemi che hanno la vita, piuttosto che la morte, come proprio fine. In particolare, Rabinow e Rose si concentrano su come la crescita delle bioscienze abbia dato forma a nuovi modi di conoscere e di intervenire nella vita individuale e collettiva. Centrale nella loro prospettiva è l’idea che il biopotere, oggi, si focalizzi principalmente sulle «nostre capacità crescenti di controllare, gestire, progettare, rimodellare e modulare proprio le capacità degli esseri umani in quanto creature viventi»47. Simile assunzione si basa su due importanti osservazioni. La prima è che c’è stato un cambiamento generale nel modo di governare le società occidentali. Secondo Rose, l’ideale del welfare State sociale, dominante per la maggior parte del ventesimo secolo, ha tendenzialmente ceduto il passo a quello dello Stato liberale (o neoliberale) avanzato. Questo nuovo ideale implica che il dispositivo politico non appare più obbligato a salvaguardare il benessere della popolazione mantenendo una sfera di sicurezza collettiva. L’assicurazione sociale – come insieme di meccanismi statali che cercano di garantire gli individui contro le insicurezze della vita sociale – ha quindi abdicato in favore del governo privatizzato e individualizzato del rischio. Pragmaticamente, ciò ha comportato l’appalto (tendenzialmente al mercato) di molti doveri correlati all’amministrazione della salute umana e del welfare che in precedenza erano sotto la responsabilità del dispositivo ufficiale di Stato. Tra gli attori che, come sotModernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, Wiley-Blackwell, Malden 2005, pp. 181193; N. Rose, The Politics of Life Itself, in «Theory, Culture & Society», vol. 18 (2001), n. 6, pp. 1-30; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, cit.; P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, in P. Rabinow e N. Rose (a cura di), The Essential Foucault, New Press, New York 2003, pp. vii-xxxv; P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, in «Biosocieties», vol. 1 (2006), n. 2, pp. 195-217. 45 P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, cit., p. 211. 46 P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, cit., p. xxx. 47 N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, cit., p. 3.


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tolinea Rose, hanno oggi un’influenza importante nella gestione della vita, ci sono imprese private (aziende farmaceutiche transnazionali e l’industria biotecnologica, per esempio), agenzie regolative quasi autonome (come le commissioni bioetiche) e organizzazioni professionali. La devolution dei poteri dello Stato ha significato anche che, adesso, agli individui viene chiesto di farsi carico in prima persona della responsabilità fondamentale nella gestione della loro stessa sicurezza e di quella delle loro famiglie. Ci si aspetta che gli individui adottino una disposizione imprenditoriale nei confronti della vita e che assicurino se stessi (usando i meccanismi di mercato) contro la cattiva salute, le perdite accidentali, la disoccupazione, e contro qualunque altra cosa che potrebbe potenzialmente minacciare la loro soddisfazione. Questa enfasi sulla responsabilità individuale, suggerisce Rose, è particolarmente evidente nel campo della salute, «dove ai pazienti viene sempre più richiesto di diventare consumatori attivi e responsabili di servizi medici e di prodotti che vanno dai farmaci alle tecnologie riproduttive e ai test genetici»48. La seconda osservazione centrale nella concezione di biopotere di Rabinow e Rose è che, come risultato degli sviluppi nelle scienze della vita, c’è stato un cambiamento fondamentale nella capacità della società di progettare e costruire la vitalità umana (human vitality). Tale cambiamento è essenzialmente un cambiamento di scala, che comporta un movimento da una conoscenza molare a una conoscenza molecolare della vita. Il termine molare si riferisce al corpo considerato dal punto di vista degli ormoni, del sangue, del tessuto, degli organi, degli arti e così via. È su scala molare che la medicina clinica del XIX e del XX secolo ha cercato di conoscere il corpo e di agire su di esso. Il corpo molare, secondo Rose, era quello «rivelato allo sguardo del medico nelle dissezioni post mortem, visualizzato negli atlanti anatomici, accessibile nel corso della vita attraverso un certo numero di strumenti, a partire dallo stetoscopio, che incrementa lo sguardo clinico e gli permette di scrutare negli organi e nei sistemi del corpo vivente»49. Sebbene, oggi, il livello molare rivesta ancora un ruolo importante nella biomedicina, Rabinow e Rose suggeriscono che esso sia stato integrato, se non soppiantato, da una visione molecolare dell’esistenza biologica. Rose afferma: La vita è ora compresa, e vi si agisce, a livello molecolare, in termini di proprietà funzionali delle sequenze codificate delle basi nucleotidiche e delle loro variazioni, in termini di meccanismi molecolari che regolano l’espressione e la 48 49

Ivi, p. 4. Ivi, pp. 11-12.


120 Jonathan Xavier Inda trascrizione, in termini di legame tra le proprietà funzionali delle proteine e la loro topografia molecolare, in termini di formazione degli elementi intracellulari particolari – canali ionici, attività enzimatiche, geni trasportatori, potenziali di membrana – con le loro specifiche proprietà meccaniche e biologiche50.

A livello molecolare, la vita appare come un insieme di elementi vitali intelligibili che possono essere identificati, isolati, controllati, mobilitati e riassemblati. In tal modo, la vita non è più vista come un destino naturale o immutabile. Piuttosto, come osservano Rabinow e Rose51, la vita è considerata artificiale – in quanto costitutivamente manipolabile e riformabile, aperta a un intervento e a un’amministrazione calcolati. È il complesso formato da commercializzazione (attraverso il mercato), responsabilizzazione e molecolarizzazione che dà alla contemporanea politica vitale occidentale il suo carattere particolare. Secondo Rabinow e Rose, il biopotere, oggi, con la sua enfasi sulla produzione della vita, è chiaramente visibile in un certo numero di modi fondamentali. Prima di tutto, lo scopo della biomedicina contemporanea non è più semplicemente quello di curare la malattia e ristabilire la salute. Al contrario, scopo della biomedicina è anche controllare e governare i processi biologici umani al fine di prevenire la malattia, migliorare la salute e ottimizzare la qualità dell’esistenza. In secondo luogo, gli individui oggi si riferiscono sempre più a se stessi in termini somatici, ossia come creature biologiche. In molti sono quindi giunti a definire la loro cittadinanza non come un insieme di diritti e di doveri legati a uno Stato-nazione, ma come un obbligo a perseguire attivamente la vita, la salute e la guarigione. In terzo luogo, vi è stato un fiorire di nuovi tipi di competenza sulle questioni somatiche (somatic expertise) – di vocazioni che rivendicano autorità su, e cercano di governare, alcuni aspetti particolari della vita biologica. Questi esperti vanno dai genetisti e dagli specialisti in medicina riproduttiva ai terapisti di cellule staminali e agli studiosi di bioetica. Infine, nel corso degli ultimi decenni, sono emersi nuovi circuiti di bioeconomia. Stiamo così assistendo, come riscontrano Rabinow e Rose, «a una capitalizzazione su larga scala della bioscienza e alla mobilitazione dei suoi elementi in nuove relazioni di scambio: il nuovo sapere molecolare della vita e della salute viene mappato, sviluppato e sfruttato da una serie di imprese commerciali, talvolta in alleanza con gli Stati, talvolta indipendenti, che stabiliscono connessioni costitutive tra vita, verità e valore»52. Assumendo questa prospettiva, quindi, possiamo Ivi, p. 12. P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, cit., p. xxxi. 52 P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, cit., p. 203. 50 51


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concludere che il biopotere, oggi, riguarda essenzialmente l’amministrazione e la massimizzazione della vita. Il biopotere riguarda il modo in cui gli individui – insieme ai dottori, agli scienziati, agli imprenditori e agli altri attori che individuano la vita come oggetto primario del loro sapere e intervento – hanno trasformato la promozione della vita biologica in una posta in gioco politica centrale. La politica razziale della vita Dove possiamo situare la politica della vita del BiDil e dei farmaci razzializzati? Come ho osservato, la questione attuale relativa alla razzializzazione dei farmaci è parzialmente collegata ai modi in cui la razza è stata storicamente biologizzata. Cercherò quindi di descrivere questa storia e di discutere come la razza sia stata riconfigurata, oggi, a causa degli sviluppi nelle bioscienze. Sulla base di tale sfondo, tratterò poi della politica della vita del BiDil. Dal molare al molecolare A partire dal XVIII secolo, come parte di una serie di sforzi più generali per trovare un ordine nella natura, gli scienziati hanno cercato di usare caratteristiche fisiche – come il colore della pelle, la conformazione del volto e del cranio, la forma dei capelli – per costruire schemi classificatori dell’umanità53. Sulla base della conformazione del cranio, ad esempio, il fisico tedesco Johann Blumenbach aveva classificato la specie umana in cinque varietà o razze: caucasici, mongoli, etiopi, americani e malesi. Sebbene questi schemi classificatori fossero stati inizialmente concepiti come riferimenti a raggruppamenti biologici piuttosto fluidi, già nel XIX secolo essi erano considerati come descrizioni di tipi umani fondamentalmente distinti. Inoltre, si cominciò a pensare che i singoli gruppi razziali possedessero capacità naturali differenti: ragionare, formulare giudizi morali, acquisire un comportamento civilizzato, e così via. In definitiva, tali gruppi venivano classificati in relazione l’uno con l’altro, e alcuni erano considerati costitutivamente superiori, altri inferiori. Nello specifico, gli scienziati delle razze insistevano sulla superiorità essenziale degli europei bianchi, N. Stepan, The Idea of Race in Science. Great Britain 1800-1960, Archon Books, Hamden 1982; M. Omi e H. Winant, Racial Formation in the United States. From the 1960s to the 1990s, Routledge, New York 19942; J.P. Jackson e N.M. Weidman, Race, Racism, and Science. Social Impact and Interaction, Rutgers University Press, New Brunswick 2006. 53


122 Jonathan Xavier Inda distinguendoli dagli “altri” gruppi e stabilendo effettivamente una gerarchia in modo che le caratteristiche fisiche potessero designare il posto che ogni gruppo occupava nelle relazioni sociali. Questi sistemi scientifici di classificazione hanno acquisito rilevanza nel corso del XIX secolo, creando così gerarchie apparentemente immutabili basate sulle differenze molari e fenomenali nell’umanità – ossia, sulla credenza che certi tratti fisici siano collegati ad attributi di comportamento, intelletto e moralità. La razza era fondamentalmente costruita come un’essenza, un fenomeno biologico e naturale il cui significato precedeva ed era ben oltre la portata dell’intervento umano. Per gli scienziati della razza, infatti, la razza era un destino. Questo modo biologicamente determinista di pensare alla razza, che è penetrato nel XX secolo in diverse forme, costituiva il supporto di politiche razziali della vita differenti ma invariabilmente discriminatorie. L’esempio più celebre è senza dubbio il progetto eugenetico della Germania nazista. L’obiettivo fondamentale dello Stato nazista, come di altre imprese eugenetiche, era di creare un nuovo e migliore ordine sociale incrementando le qualità vitali del corpo-specie54. Infatti, il compito supremo delle autorità politiche, mediche e di altre autorità naziste era di assicurare la vita del popolo. Significativamente, questo progetto eugenetico era un progetto razzista. Esso era focalizzato sulla preservazione della salute razziale. Questo comportava, da un lato, la coltivazione delle vite di quegli individui reputati essere di ceppo razziale tedesco sano e, dall’altro, il contenimento o l’eliminazione di qualsiasi elemento difettoso. Si pensava che la propagazione dell’idoneo (fit) potesse realmente avere luogo soltanto attraverso la sistematica selezione e l’eliminazione di ogni minaccia insalubre55. Tra gli individui destinati all’esclusione e all’eliminazione c’erano gli ebrei. Questa popolazione era caratterizzata in modo tipico come una razza costitutivamente malata, come un cancro nel corpo della nazione tedesca. Gli scienziati tedeschi avevano efficacemente costruito una visione mondiale degli ebrei come razzialmente predisposti a commettere crimini e come portatori di una serie di altre disfunzioni, dalla malattia mentale al diabete56. In definitiva, tale sapere era usato per giustificare il brutale maltrattamento delle popolazioni ebree: la loro segregazione in ghetti sovraffollati, il loro Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, Cornell University Press, Ithaca 1989; R.N. Proctor, The Destruction of “Lives Not Worth Living”, in J. Terry e J. Urla, Deviant Bodies. Critical Perspectives on Difference in Science and Popular Culture, Indiana University Press, Bloomington 1995, pp. 170-196. 55 Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, cit. 56 R.N. Proctor, The Destruction of “Lives Not Worth Living”, cit. 54


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imprigionamento nei campi di concentramento e il loro sterminio di massa. Quindi, ciò che lo Stato nazista ha fatto, secondo Zygmunt Bauman, è stato «dividere la vita umana in meritevole e non meritevole; la prima doveva essere amabilmente coltivata e occorreva assicurarle uno spazio vitale (Lebensraum), l’altra doveva essere “messa a distanza” o – se distanziarla fosse risultato impossibile – sterminata»57. Al lavoro nella politica razziale nazista vi era dunque una miscela di governo della vita e amministrazione della morte58. È stato in nome della preservazione e del potenziamento della vita che la Germania nazista ha massacrato milioni di ebrei. Negli Stati Uniti, la scienza razziale ha parimenti rafforzato le modalità di esclusione tipiche della politica vitale. Nel corso degli anni Venti, ad esempio, fu introdotta una legge restrittiva sull’immigrazione (l’Immigration Act del 1924) che frenò drasticamente il flusso degli europei del sud e dell’est nel paese. A guidarne la logica era la convinzione che gruppi di immigrati come gli italiani, i greci e gli ebrei provenissero da un ceppo razziale inferiore e fossero ereditariamente predisposti ad essere portatori di deficienze che andavano dal crimine, dal pauperismo e dalla debolezza mentale all’epilessia, alla tubercolosi e alla follia59. Si credeva che gli immigrati provenienti da questo ceppo inferiore potessero condurre soltanto al deterioramento biologico della popolazione statunitense e all’indebolimento della vitalità (vitality) della nazione. Come sostenne il noto eugenista Lothrop Stoddard, «le migrazioni dei tipi umani più bassi che hanno prodotto un tale scompiglio negli Stati Uniti devono essere rigorosamente limitate. Tali migrazioni alterano gli standard, sterilizzano i ceppi migliori, favoriscono i tipi inferiori e compromettono il futuro nazionale più delle guerre, delle rivoluzioni o dei deterioramenti nativi»60. Un altro caso che si potrebbe citare è la sperimentazione medica sugli afroamericani, e soprattutto il Tuskegee Syphilis Study61. Dal 1932 al 1972, lo U.S. Public Health Service Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, cit., pp. 67-68. G. Agamben, Homo Sacer, cit. 59 Sebbene la scienza razziale degli inizi del XX secolo abbia costruito gli europei come globalmente superiori agli altri gruppi razziali (gli africani, ad esempio), vi erano anche gerarchie tra gli europei stessi. In generale, si riteneva che gli europei del nord fossero di un ceppo razziale migliore rispetto agli europei del sud o dell’est. Cfr. J.P. Jackson e N.M. Weidman, Race, Racism, and Science, cit. 60 L. Stoddard, The Rising Tide of Color Against White World-Supremacy, Scribner, New York 1921, p. 308. 61 A.M. Brandt, Racism and Research. The Case of the Tuskegee Syphilis Study, in «Hastings Center Report», vol. 8 (1978), n. 6, pp. 21-29; P.A. Lombardo e G.M. Dorr, Eugenics, Medical Education, and the Public Health Service. Another Perspective on the Tuskegee Syphilis 57 58


124 Jonathan Xavier Inda (PHS) sperimentò su circa quattrocento afroamericani poveri una sifilide latente non curata, al fine di determinare il decorso naturale della malattia. Uno degli obiettivi del PHS era mettere alla prova quelle teorie scientifiche che suggerivano che la malattia venerea si presentasse in maniera differente nei neri e nei bianchi. Come nota Harriet Washington, «il PHS si aspettava di convalidare la propria convinzione in uno specifico dimorfismo razziale della sifilide: mentre si pensava che la malattia arrecasse i danni peggiori al sistema neurologico e al cervello dei bianchi, si credeva che agisse in modo distruttivo sul sistema cardiovascolare dei neri, risparmiando però il loro cervello relativamente primitivo e “sottosviluppato”»62. Quando lo studio cominciò, vi era scarsa conoscenza di cure efficaci per la sifilide. Già negli anni Cinquanta, tuttavia, la penicillina era ampiamente accettata come cura efficace. Eppure, i soggetti dello studio furono lasciati senza cure e fu loro attivamente impedito di cercare cure al di fuori dello studio, con tragiche conseguenze. Alla fine non meno di ventotto uomini, e probabilmente più di cento, morirono a causa delle lesioni sifilitiche avanzate. Gli uomini di Tuskegee furono dunque effettivamente privati di protezioni giuridiche, degradati a meri esseri biologici e resi disponibili. Sulla base di questa storia della politica vitale razziale di esclusione, si comprende come la biologizzazione contemporanea della razza possa e debba suscitare gravi preoccupazioni. È chiaro, tuttavia, che la politica della vita dei farmaci razzializzati non equivale a un ritorno al razzismo scientifico. Infatti, non possiamo collocare questa politica semplicemente all’interno della biologia deterministica del passato. Piuttosto, come suggeriscono Rabinow e Rose63, dobbiamo situarla all’interno della più complessa biologia contemporanea: una biologia genomica molecolare. Essenziale per comprendere la biologizzazione della razza, oggi, è la mappatura del genoma umano. Nel 2000, lo Human Genome Project (HGP) – uno sforzo coordinato dal Dipartimento statunitense per l’energia, dal National Institutes of Health e dalla Celera Genomics Corporation, una società biotech privata – è riuscito a mettere in sequenza i tre miliardi di coppie di basi (base pairs) che costituiscono il genoma umano. L’incentivo primario sotteso a tale mappatura consisteva nella ricerca di modi per prevenire, Experiment, in «Bulletin of the History of Medicine», vol. 80 (2006), n. 2, pp. 291-316; H.A. Washington, Medical Apartheid. The Dark History of Medical Experimentation on Black Americans from Colonial Times to the Present, Harlem Moon, New York 2006. 62 H.A. Washington, Medical Apartheid, cit., p. 156. 63 P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, cit.


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diagnosticare e curare le malattie – ossia, nel tentativo di migliorare la salute umana64. L’idea era che la decodificazione del genoma avrebbe permesso agli scienziati di identificare i geni umani e dunque di migliorare la nostra conoscenza dei processi biochimici fondamentali del corpo umano e delle cause genetiche della malattia. Rispetto al tema della razza, le dichiarazioni iniziali che hanno seguito la messa in sequenza del genoma umano si sono focalizzate sulla somiglianza dell’umanità65. La sequenza mostrava che gli esseri umani condividono il 99,9% della loro composizione genetica, così gli scienziati dell’HGP proclamarono che gli esseri umani sono essenzialmente uguali dal punto di vista genetico e che le differenze razziali non hanno basi biologiche. Tuttavia, altri ricercatori del genoma hanno ben presto cominciato ad affermare che perfino una variazione dello 0,1% nella composizione genetica può tradursi in differenze significative a livello biomedico, e che questa variazione può venire mappata attraverso le tradizionali nozioni di razza66. La tendenza contemporanea della ricerca genomica è quindi di focalizzarsi sempre più su quel piccolo numero di variazioni genetiche che separa un essere umano dall’altro, con categorie razziali ed etniche che si presume stiano a indicare differenze biologiche in quanto variabili necessarie67. Significativamente, la giustificazione di questo tipo di ricerca genomica consiste ancora nel tentativo di migliorare la vitalità (vitality) e la salute umana. Il sapere relativo alla variazione del genoma umano, in particolare quello relativo alle differenze etniche e razziali nella suscettibilità alla malattia e nella risposta ai farmaci, è considerato potenzialmente prezioso per eseguire diagnosi mediche e dispensare cure68. Questa inscrizione molecolare della razza69 – ossia la comprensione della razza al livello dei geni e delle molecole – è in molti sensi fondamentalmente diversa dalla vecchia visione molare della differenza umana. Oggi, i modi scientifici di concepire la razza non si pongono generalmente 64 T. Duster, The Molecular Reinscription of Race. Unanticipated Issues in Biotechnology and Forensic Science, in «Patterns of Prejudice», vol. 40 (2006), nn. 4-5, pp. 427-441. 65 S.S.-J. Lee, Biobanks of a “Racial Kind”. Mining for Difference in the New Genetics, in «Patterns of Prejudice», vol. 40 (2006), nn. 4-5, pp. 443-460; I. Whitmarsh e D.S. Jones (a cura di), What’s the Use of Race?, cit. 66 J.H. Fujimura et alii, Introduction. Race, Genetics, and Disease, cit.; I. Whitmarsh e D.S. Jones (a cura di), What’s the Use of Race?, cit. 67 S.S.-J. Lee, Biobanks of a “Racial Kind”, cit. 68 J.H. Fujimura et alii, Introduction. Race, Genetics, and Disease, cit. 69 T. Duster, The Molecular Reinscription of Race, cit.; D. Fullwiley, The Molecularization of Race, cit.


126 Jonathan Xavier Inda come obiettivo la dominazione e la subordinazione, non mirano a fissare gerarchie immutabili di differenze, a scoprire essenziali verità razziali, a stigmatizzare individui e popolazioni, a legittimare disuguaglianze o a eliminare il nemico biologico. Il loro principio generale è piuttosto la speranza: la speranza che la scoperta dei fattori genetici sottesi alla malattia umana possa condurre a interventi che miglioreranno la salute e il benessere delle popolazioni razzializzate. La politica della razza e del genoma è dunque fondata non sul volto nascosto, razzista e omicida, del biopotere, ma sul suo polo che promuove la vita. Infatti, come afferma Nikolas Rose, la politica della medicina razzializzata si basa saldamente sulla biopolitica trasformata del XXI secolo. Si tratta di una biopolitica organizzata intorno al principio di rafforzare la vita individuale, e non di eliminare coloro che minacciano la qualità delle popolazioni; è una biopolitica che non opera nel segno dello Stato sovrano; è una biopolitica che non cerca di legittimare la disuguaglianza, ma di intervenire sulle sue conseguenze. In modo cruciale, è una biopolitica in cui i riferimenti al biologico non significano fatalismo, ma sono parte dell’economia della speranza che caratterizza la biomedicina contemporanea70.

Quella che potrebbe essere definita una politica vitale molecolare della razza, allora, consiste nel massimizzare la qualità della vita individuale e collettiva in tutta la sua differenza. Nella configurazione odierna del sapere e del potere, la vita razziale non è vista come un destino, come una sorte biologica specifica cui gli individui sono consegnati, ma come potenzialmente malleabile e aperta a vari tipi di trasformazioni e interventi positivi. La politica vitale del BiDil In un certo senso, la politica vitale del BiDil ricade chiaramente all’interno della biopolitica di affermazione della vita propria del XXI secolo. In particolare, mi pare che la difesa del BiDil come un farmaco rivolto agli afroamericani vada compresa nei termini della cittadinanza biologica. Generalmente, l’espressione cittadinanza biologica si riferisce al legame istituito tra i diritti e la cittadinanza, da un lato, e le questioni della salute, della malattia e dell’infermità, dall’altro71. Essa comprende dunque ogni progetto N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, cit., p. 167. 71 N. Rose e C. Novas, Biological Citizenship, in A. Ong e S.J. Collier (a cura di), Global Assemblages. Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problems, Blackwell Publishing, Malden 2005, pp. 439-463. 70


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di cittadinanza nel quale le idee di cittadinanza siano legate alle credenze relative alla vita biologica e somatica degli esseri umani. Tali progetti di cittadinanza sono diventati una parte importante del panorama politico statunitense, con individui e comunità che sempre di più si concepiscono in termini somatici e definiscono cosa significhi essere un cittadino usando l’idioma dei diritti vitali – diritto alla vita, alla salute, alla cura. La difesa del BiDil, specialmente da parte degli afroamericani, si incentra precisamente sui diritti vitali: diritto di accesso ai servizi sociali, miglioramento dell’assistenza medica, speranza in una cura migliore. Tale difesa si fonda sulla convinzione che la comunità afroamericana, che storicamente è stata esclusa dai benefici della biomedicina, meriti anch’essa di beneficiare delle cure in grado di salvare la vita. Centrale qui è l’idea che gli afroamericani abbiano bisogni particolari in fatto di salute, bisogni che potrebbero essere fondati su base genetica, e che le cure mirate specificamente a questa popolazione siano essenziali per realizzare la speranza di trovare soluzioni efficaci e ottenere corpi sani. In quanto progetto di cittadinanza biologica, la promozione del BiDil ha fondamentalmente dato speranza a una popolazione sofferente e ipoassistita dall’establishment biomedico72. Questa materializzazione biochimica della speranza ha due importanti dimensioni. Prima di tutto, il BiDil viene pubblicizzato come prodotto che mira a salvare vite afroamericane e a migliorare la qualità dell’esistenza collettiva e individuale. Il messaggio che si suppone questo farmaco trasmetta è che le malattie degli afroamericani meritano di essere curate e le loro vite salvate. In secondo luogo, la promessa del BiDil consiste più generalmente nel ridurre le disparità in fatto di salute. Essa ha a che fare con l’eliminazione delle disuguaglianze che esistono tra i neri e le altre popolazioni in fatto di salute cardiovascolare. La speranza della salute e della felicità, dunque, è qui strettamente connessa con la possibilità di accedere ai farmaci. Cruciale nella promozione del BiDil come mediatore di speranza è stato NitroMed. Il produttore del BiDil, infatti, è stato molto attento a promuovere il farmaco come un rimedio ai problemi di insufficienza cardiaca della comunità afroamericana73. Secondo Michael Sabolinski, chief Per una discussione che collega il BiDil e la cittadinanza biologica ai discorsi neoliberali, cfr. D. Roberts, Race and the New Biocitizen, in I. Whitmarsh e D.S. Jones (a cura di), What’s the Use of Race?, cit. pp. 259-276. 73 Nel dicembre del 2011, la Arbor Pharmaceuticals ha acquistato da NitroMed i diritti di commercializzazione del BiDil. La promozione del BiDil sembra tuttavia essere la stessa. Mi sono concentrato su NitroMed perché questa azienda è stata il maggior promotore del farmaco. 72


128 Jonathan Xavier Inda medical officer di NitroMed tra il 2006 e il 2007, una delle ragioni principali per cui l’azienda ha focalizzato i propri sforzi di sviluppo del farmaco sugli afroamericani consisteva nelle disparità in fatto di salute. Egli nota che «i neri tendono ad avere forme di insufficienza cardiaca più gravi, e hanno una probabilità di morire a causa di questa condizione doppia rispetto ai bianchi. Nonostante questo, nessun farmaco contro l’insufficienza cardiaca era mai stato studiato su una popolazione afroamericana»74. In questo contesto, il BiDil viene presentato come una medicina della speranza. Come afferma Manuel Worcel, un altro chief medical officer di NitroMed (1997-2006), «il BiDil darà nuova speranza ai pazienti di colore che soffrono di insufficienza cardiaca e che sono schiacciati dal peso sproporzionato di questa malattia»75. Le fondamenta di questa speranza sono i risultati dell’A-HeFT, che NitroMed ha pubblicizzato attraverso molteplici piattaforme: il BiDil è un farmaco in grado di salvare e rafforzare la vita. Nel suo sito internet (ora discontinuo) Heart.Health.Heritage, ad esempio, l’azienda promuoveva il BiDil come il «primo trattamento riservato nello specifico agli afroamericani che soffrono di insufficienza cardiaca»76. Più importante ancora, NitroMed metteva in luce che questo trattamento si era dimostrato molto efficace: Nel corso di una vasta ricerca clinica, denominata African American Heart Failure Trial (A-HeFT), un gruppo di afroamericani affetti da insufficienza cardiaca ha assunto il BiDil insieme alle proprie medicine usuali. Rispetto a un gruppo simile di pazienti – che invece ha assunto soltanto le medicine usuali – il 39% in meno dei pazienti che avevano assunto il BiDil è stato ospedalizzato per insufficienza cardiaca. E il 43% in meno è morto nel corso dello studio. I pazienti del gruppo che ha assunto il BiDil hanno anche manifestato un miglioramento significativo nel loro funzionamento quotidiano77.

Il BiDil è stato quindi presentato come un farmaco in grado di aiutare una popolazione che ha un disperato bisogno di una terapia adatta 74 F. Johnmar, Conversations About Race-Based Medicine: NitroMed’s Michael L. Sabolinski, M.D. Envisioning 2.0 Blog, 2006, consultabile all’indirizzo http://trusted.md/feed/ items/blog_perspective/consultants/health_biz/2006/06/27/conversations_about_ race_based_medicine_nitromed_s_michael_l_sabol - axzz26AWL2v9a. 75 NitroMed, CFDA Advisory Committee Recommends Approval for NitroMed’s BiDil® to Treat Black Patients with Heart Failure, June 16, 2005, consultabile all’indirizzo http://www. abcardio.org/article_jun17.html. 76 NitroMed, Advances in Heart Failure Treatment in African Americans, 2006, consultabile all’indirizzo http://www.hearthealthheritage.com/risk.asp (sito discontinuo). 77 Ibidem.


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contro l’insufficienza cardiaca. Questo farmaco promette di alleviare la sofferenza collettiva degli afroamericani e forse perfino di ridurre le disparità in fatto di salute. Significativamente, NitroMed non è stato il solo a promuovere il BiDil. Gli afroamericani stessi avevano riposto nel farmaco una grande speranza. Durante il meeting del Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee della FDA per discutere del BiDil, un buon numero di rappresentanti delle organizzazioni afroamericane si pronunciò in favore del farmaco. Tra tali organizzazioni vi erano il Congressional Black Caucus, la National Minority Health Foundation, l’Association of Black Cardiologists, la National Association for the Advancement of Colored People, l’International Society on Hypertension in Blacks e la National Medical Association. Un punto sottolineato da tutti furono i benefici del BiDil nel migliorare la vita. Gary Puckrein, ad esempio, parlando in nome della National Minority Health Foundation, affermò: «Come evidenziato dai risultati di A-HeFT, l’approvazione del BiDil avrà un impatto immediato e positivo sulla salute e sulla qualità della vita di molti pazienti affetti da insufficienza cardiaca […] Io supporto il BiDil perché prolungherà la vita di molti americani affetti da insufficienza cardiaca. Lo supporto perché migliorerà la qualità della vita di questi pazienti»78. Un altro aspetto messo in evidenza era la possibilità, grazie al BiDil, di ridurre le disparità in fatto di salute. Nelle sue osservazioni, il membro del Congresso Donna Christensen affermò: «Oggi, signore e signori, avete di fronte un’opportunità senza precedenti di ridurre significativamente una delle maggiori disparità in fatto di salute nella comunità degli afroamericani e, nel farlo, di dare il via a un processo che porterà una certa uguaglianza e giustizia all’interno del sistema sanitario americano»79. Questo supporto al BiDil culminò infine in un energico appello affinché il comitato della FDA approvasse il farmaco. Come sostenne Lucille Perez, rappresentante della National Medical Association, «dato l’impatto sproporzionato della malattia cardiovascolare sugli afroamericani, nessuna mancanza di appoggio può essere giustificata. […] La National Medical Association invita questo comitato a suggerire alla FDA l’approvazione del BiDil. […] Gli afroamericani continuano a morire […] a causa dell’insufficienza cardiaca con un tasso allarmante di settantottomila all’anno. Questo numero potrebbe essere significativamente ridotto, mettendo il BiDil sul mercato il G.A. Puckrein, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 210-214, pp. 211-212. 79 D.M. Christensen, Testimony, cit., pp. 203-204. 78


130 Jonathan Xavier Inda prima possibile»80. Questi portavoce, quindi, presentavano essenzialmente gli afroamericani come una comunità sofferente e domandavano che tale popolazione venisse riconosciuta sulla base della sua biologia difettosa. Vedevano inoltre nel BiDil un farmaco che offriva ai neri l’opportunità di ottenere un miglioramento della salute, di prolungare le proprie vite e di ridurre le disuguaglianze in fatto di salute cardiovascolare. Affermare che la politica vitale del BiDil si situa dal lato della vita e non è esplicitamente allineata con l’aspetto razzista e produttore di morte del biopotere, non significa tuttavia suggerire che il farmaco sia esente da problemi. Il BiDil è in realtà problematico dal punto di vista scientifico, politico ed economico81. Scientificamente, vi sono almeno tre problemi relativi all’approvazione del BiDil come farmaco destinato ai soli neri82. Innanzitutto, tale approvazione dà l’impressione, anche se non intenzionale, che il farmaco avrà effetto su tutte le persone di colore, mentre non è questo il caso. Data la diversità genetica della popolazione afroamericana, è probabile che il farmaco funzionerà solo su alcuni individui. L’approvazione del BiDil sembra dunque ignorare le variazioni all’interno dei gruppi nel modo in cui si risponde ai farmaci83. In secondo luogo, anche se ci sono differenze nel modo in cui diverse popolazioni reagiscono ai farmaci, esse tendono tutte a coincidere, e in maniera significativa, nella loro risposta. Riassumendo un articolo che analizza i dati di quindici studi relativi a farmaci contro l’ipertensione84, Steven Epstein osserva che, «anche se i bianchi in media rispondono meglio ai betabloccanti e agli ACEinibitori rispetto ai neri, e i neri in media rispondono meglio ai diuretici e ai calcio-antagonisti rispetto ai bianchi, complessivamente tra l’80 e il 95% dei neri e dei bianchi rispondono a questi farmaci in maniera simile»85. Da ciò segue che vi è una scarsa giustificazione scientifica nell’approvare un farmaco esclusivamente per una popolazione. In terzo luogo, nell’AL.N. Perez, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 255-259, pp. 258-259. 81 Cfr. anche D. Roberts, Fatal Invention. How Science, Politics, and Big Business Re-create Race in the Twenty-First Century, New Press, New York 2011. 82 M. Root, The Use of Race in Medicine as a Proxy for Genetic Differences, in «Philosophy of Science», vol. 70 (2003), n. 5, pp. 1173-1183; S. Epstein, Inclusion. The Politics of Difference in Medical Research, University of Chicago Press, Chicago 2007. 83 M. Root, The Use of Race in Medicine as a Proxy for Genetic Differences, cit., p. 1178. 84 A.R. Sehgal, Overlap Between Whites and Blacks in Response to Antihypertensive Drugs, in «Hypertension. Journal of the American Heart Association», vol. 43 (2004), n. 3, pp. 566-572. 85 S. Epstein, Inclusion, cit., p. 220. 80


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HeFT, NitroMed ha usato persone di colore auto-identificate (self-identified blacks). Ma la nerezza auto-identificata (self-identified blackness) non è necessariamente un buon indicatore per il carattere genetico. Secondo Rick Kittles e Kenneth Weiss, la diversità genetica può essere meglio compresa in termini geografici: La variazione genetica umana è di fatto caratterizzata da cline (gradienti spaziali) della frequenza allelica piuttosto che da variazioni categoriche tra popolazioni, e lo schema varia tra i geni per ragioni storiche di tendenze, selezione e storia demografica. Anche definite nei modi usuali, le razze non corrispondono a tipi umani discreti o monomorfi. Invece, lo schema di variazione può essere generalmente descritto come un isolamento in base alla distanza: le differenze genetiche tra le popolazioni sono pressappoco proporzionali alla distanza geografica che le separa86.

Dato che la nerezza auto-identificata (self-identified blackness), negli Stati Uniti, è soprattutto una designazione sociale, culturale e politica, essa non corrisponde sempre alle origini geografiche. Ad esempio, alcune persone con pochi o nessun antenato di colore concepiscono se stesse e sono viste dagli altri come persone di colore. Queste persone sono state considerate nere (black) per gli obiettivi dell’A-HeFT. Geneticamente, questo non ha molto senso. L’idea, qui, è che l’origine geografica è un indicatore genetico più sicuro dell’auto-identificazione. Politicamente, vi sono almeno due problemi chiave con il BiDil. Innanzitutto, c’è una questione relativa all’utilità nel tentare di fronteggiare le disparità attraverso la lente della genetica. Sebbene il BiDil sia stato presentato come strumento capace di ridurre le disuguaglianze in fatto di salute, il farmaco potrebbe in realtà contribuire alla riproduzione della disuguaglianza. Per esempio, se viene dato troppo peso alla genetica come fattore esplicativo della causa della malattia, l’effetto potrebbe essere di minimizzare altre (verificate) spiegazioni delle disparità in fatto di salute, come quelle che prendono in considerazione l’ambiente fisico e sociale87. Sottostimare l’influenza dell’ambiente sociale come meccanismo esplicativo significherebbe rischiare di riprodurre le stesse disparità che si cercano di superare. Jonathan Khan, un importante critico del BiDil, articola tale preoccupazione nel modo seguente: R.A. Kittles e K.M. Weiss, Race, Ancestry, and Genes. Implications for Defining Disease Risk, in «Annual Review of Genomics and Human Genetics», n. 4 (2003), pp. 33-67, pp. 37-38. 87 S.S.-J. Lee et alii, The Meaning of “Race” in the New Genomics, cit. 86


132 Jonathan Xavier Inda Nella misura in cui vi sono reali disparità in fatto di salute correlate a gruppi razziali, un’enfasi eccessiva sulla genetica come spiegazione delle disparità può portare a una cattiva distribuzione delle risorse intellettuali e materiali. Ad esempio, l’ipertensione (una delle cause principali dell’insufficienza cardiaca) è causata da un ampio spettro di fattori, alcuni sociali e ambientali, altri genetici. Vi sono disparità nell’incidenza dell’ipertensione tra neri e bianchi. Il tentativo di ridurre tali disparità razziali a una funzione di variazione genetica alimenta una logica che vorrebbe concentrare le risorse necessarie a porre rimedio alle disparità su interventi farmacologici che lavorano a livello molecolare, anziché rivolgersi a questioni più ampie come la dieta, il comportamento, il razzismo, le disuguaglianze economiche, che giocano tutte un ruolo significativo nell’ipertensione88.

Il secondo problema politico consiste nel fatto che, se anche la medicina contemporanea razzializzata non cerca di stigmatizzare gli individui e le popolazioni, ciò non significa che non possa farlo. Quando un gruppo razzialmente definito è identificato tramite la sua più alta suscettibilità genetica a una malattia particolare, c’è sempre la possibilità che tale gruppo venga stigmatizzato. Sforzi precoci di monitorare l’anemia falciforme, per citare solo un caso, hanno condotto a una razzializzazione di questa malattia come malattia tipica delle persone di colore, nonostante essa presentasse alte incidenze anche in altri sottogruppi. Il risultato è stato che gli afroamericani hanno subito discriminazioni sostanziali in campo lavorativo e assicurativo89. Che tale scenario possa ripresentarsi non è escluso. Come osserva Sharona Hoffman, «la percezione pubblica secondo la quale l’evidenza scientifica ha stabilito che una “razza” particolare è più vulnerabile alla minaccia delle malattie rispetto ad altre, o che non risponde ai medicinali che curano le altre, potrebbe rafforzare i luoghi comuni e gli stereotipi negativi basati sulla razza. Popolazioni particolari potrebbero essere viste come malate o incurabili, e questo potrebbe alimentare la convinzione secondo cui vi sono sottospecie umane inferiori ad altre»90. In effetti, la pratica che consiste nel “geneticizzare” (geneticizing) gli afroamericani può avere conseguenze piuttosto rilevanti e deleterie. J. Kahn, Getting the Numbers Right. Statistical Mischief and Racial Profiling in Heart Failure Research, in «Perspectives in Biology and Medicine», vol. 46 (2003), n. 4, pp. 473-483, p. 479. 89 K. Wailoo, Dying in the City of Blues. Sickle Cell Anemia and the Politics of Race and Health, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2001. 90 S. Hoffman, “Racially-Tailored” Medicine Unraveled, Case Research Paper Series in Legal Studies, Working Paper 05-32, Case Western University School of Law, Cleveland 2005, p. 22. 88


For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 133

Infine, economicamente, il problema con il BiDil riguarda la capitalizzazione della vita razziale. Nel complesso, la produzione della salute e della vitalità (vitality) negli Stati Uniti è giunta a essere strettamente legata alla generazione del benessere91. Infatti, la biomedicina e le scienze della vita in generale sono oggi altamente soggette alle richieste di capitalizzazione, cosicché le considerazioni commerciali (ossia, le domande degli azionisti e l’obbligo del profitto) modellano in profondità i problemi medici cui la biomedicina e le scienze della vita cercano di dare una risposta. Le aziende farmaceutiche hanno giocato un ruolo importante in questa capitalizzazione della vita. Attraverso la produzione di farmaci, esse mirano non solo ad accrescere la vitalità (vitality) del vivente, ma anche, e forse in modo più significativo, a generare valore economico. In questo contesto, il corpo razziale è emerso come una biomerce potenzialmente molto preziosa. Nel caso del BiDil, non vi è dubbio che i fattori commerciali costituissero una forza trainante della razzializzazione del farmaco. Gli scienziati che avevano sviluppato il BiDil cercarono inizialmente di ottenere l’approvazione del farmaco per tutta la popolazione. Ma, quando la FDA respinse la richiesta, recuperarono i dati dei loro primi test clinici (i Veterans Affairs Vasodilator-Heart Failure Trials, V-HeFT I e II), li rianalizzarono secondo linee razziali, e conclusero che il BiDil sembrava funzionare meglio nei neri che nei bianchi92. Così la razza finì per contare solo in seguito alla bocciatura della FDA. Gli scienziati del BiDil, sostanzialmente, si rivolsero alla razza per salvare il farmaco. E riuscirono a farlo in parte grazie al clima N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, cit. 92 Secondo Jonathan Kahn (How a Drug Becomes “Ethnic”. Law, Commerce, and the Production of Racial Categories in Medicine, in «Yale Journal of Health Policy, Law, and Ethics», vol. 4 (2004), n. 1, pp. 1-46), Jay Cohn, il creatore del BiDil, e gli altri ricercatori del V-HeFT, selezionarono i dati sulla base della razza sin dall’inizio. Tuttavia, non considerarono inizialmente la razza tra i fattori rilevanti per l’efficacia del BiDil come cura per l’insufficienza cardiaca. Nel suo discorso dinanzi al Cardiovascular and Renal Drug Advisory Committee della FDA, nel febbraio del 1997, Cohn affermò: «La maggior parte dei pazienti [dei V-HeFT I e II] erano caucasici (circa il 70% in entrambi gli esperimenti). Ma c’era un numero piuttosto considerevole anche di afroamericani. Non lavoreremo in questa direzione, ma siamo in possesso di molti dati che ci permettono di comparare le risposte dei caucasici e degli afroamericani [al farmaco]»; U.S. Food and Drug Administration, Eightieth Meeting of the Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, Center for Drug Evaluation and Research, U.S. Department of Health and Human Services, Washington 1997, pp. 20-21. La razza divenne un fattore significativo solo dopo che l’advisory committee della FDA raccomandò di non approvare il BiDil. 91


134 Jonathan Xavier Inda politico propizio: la ri-analisi dei dati del BiDil avvenne infatti nel contesto di un crescente desiderio politico di affrontare i problemi legati alle disparità razziali e di genere nella politica della salute93. Da un certo punto di vista, dunque, la rinascita del BiDil come farmaco razziale ha avuto meno a che fare con la volontà di salvare vite afroamericane che con il profitto economico che sarebbe derivato dal salvataggio del farmaco stesso. Conclusioni La tesi proposta in questo saggio è che il BiDil e i farmaci razzializzati in generale debbano essere collocati nel contesto della biopolitica trasformata del XXI secolo. Questa è una politica che assume chiaramente la vita, e non la morte, come proprio telos. Concentrandomi in maniera specifica sul BiDil, ho suggerito, da un lato, che i farmaci rivolti a particolari gruppi razzializzati mirano apparentemente al potenziamento della vitalità (vitality) del corpo razziale. In effetti, i promotori del BiDil, da un certo punto di vista, mirano chiaramente a salvare vite e a migliorare la qualità dell’esistenza biologica delle persone. Per questo, il BiDil è integralmente connesso alle questioni dei diritti e della cittadinanza94. I farmaci razzializzati riguardano il diritto delle popolazioni socialmente escluse ad avere accesso ai benefici della medicina moderna. Concernono il riconoscimento della sopravvivenza biologica come un valore supremo e l’obbligo di salvaguardare l’essere corporale della persona. Dall’altro lato, ho fatto anche notare che, sebbene farmaci come il BiDil possano aiutare a salvare vite afroamericane e portare un po’ di speranza a una comunità cui storicamente è stato negato l’accesso ai benefici della medicina moderna, è necessario tenere presente la politica vitale di esclusione propria ai farmaci razzializzati. Nello specifico, è necessario evitare di oscurare il significato sociale della razza e di ridurre le disparità in fatto di salute a differenze di salute basate semplicemente sulla biologia e sulla genetica95; occorre inoltre diffidare del potenziale stigmatizzante insito nella combinazione di razza e J. Kahn, How a Drug Becomes “Ethnic”, cit. J.X. Inda, Materializing Hope. Racial Pharmaceuticals, Suffering Bodies, and Biological Citizenship, in M.J. Casper e P. Currah (a cura di), Corpus. An Interdisciplinary Reader on Bodies and Knowledge, Palgrave Macmillan, New York 2011, pp. 61-80. 95 J. Kahn, From Disparity to Difference. How Race-Specific Medicines May Undermine Policies to Address Inequalities in Health Care, in «Southern California Interdisciplinary Law Journal», n. 15 (2005), pp. 105-129. 93 94


For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 135

biologia. Se si dimentica il sociale e si biologizza la razza, si corre il rischio che le disuguaglianze sociali e mediche semplicemente si amplifichino con una medicina fondata su base razziale. Il punto, allora, è che, sebbene il biopotere in un’era post-genomica possa essere fondato sulla vita e non essere esplicitamente razzista (nel senso di un potere che cerca di produrre una divisione tra coloro che devono vivere e coloro che devono morire), esso ha tuttavia un volto nascosto. Dobbiamo quindi prestare attenzione sia agli aspetti affermativi della vita propri della medicina razzializzata, sia al suo aspetto meno evidente: una politica della vita potenzialmente discriminatoria. Traduzione dall’inglese di Martina Tazzioli e Daniele Lorenzini

Jonathan Xavier Inda University of Illinois at Urbana-Champaign jxinda@illinois.edu

. For Blacks Only: Pharmaceuticals, Genetics, and the Racial Politics of Life This essay examines the contemporary politics of race and pharmaceuticals, with a focus on BiDil, a heart failure medication approved by the Food and Drug Administration solely for blacks. Drawing on Michel Foucault’s work on biopower, the essay suggests that pharmaceuticals such as BiDil are implicated in what could be called a racial politics of life. This is a politics that takes as its object the biological vitality of the racial body. The essay pays attention both to the lifeaffirming aspects of this racial politics of life and to its exclusionary underside. Keywords: Biopower, Genetics, Racialized pharmaceuticals, African Americans, BiDil.


Interviste


Il potere, i valori morali e l’intellettuale. Un’intervista con Michel Foucault

Questa intervista fu rilasciata da Michel Foucault a Michael Bess, al tempo dottorando

al Dipartimento di Storia della University of California, Berkeley, il 3 novembre 1980. Foucault si trovava a Berkeley perché, qualche giorno prima (il 20 e il 21 ottobre), aveva pronunciato le “Howison Lectures”; un paio di settimane più tardi (il 17 e 24 novembre), pronunciò due conferenze molto simili anche al Dartmouth College1. L’intervista della quale presentiamo qui, per la prima volta, la traduzione italiana è stata condotta originariamente in francese (la registrazione è disponibile all’IMEC, Fonds Foucault, FCL.20) e pubblicata, in lingua inglese, su «History of the Present», n. 4 (1988), pp. 1-2, 11-13. Alcuni estratti erano già apparsi in un articolo scritto da Bess e pubblicato il 10 novembre 1980 sul «Daily Californian», il giornale degli studenti di Berkeley. Ci sia permesso ringraziare Michael Bess, ora Chancellor’s Professor of History alla Vanderbilt University, per la sua gentilezza, nonché la famiglia Foucault e Daniel Defert per la loro generosità.

. Michael Bess: Un attimo fa stava dicendo di essere un moralista… Michel Foucault: In un certo senso, sono un moralista nella misura in cui credo che uno dei compiti, uno dei significati dell’esistenza umana – l’origine della libertà umana – sia di non accettare mai niente come definitivo, intoccabile, ovvio o immobile. Non dovremmo permettere a nessun aspetto della realtà di divenire una legge definitiva e disumana. Dobbiamo sollevarci contro tutte le forme di potere – e non solo contro il potere nel senso stretto del termine, che si riferisce al potere di un governo o di un particolare gruppo sociale su un altro: queste sono solo alcune istanze specifiche di potere. Potere è tutto ciò che tende a rendere immobili e intoccabili quelle cose che ci sono presentate come reali, vere e buone. Michael Bess: Ciò nonostante, abbiamo bisogno di fissare le cose, anche se in modo provvisorio… Di queste conferenze è ora disponibile la traduzione italiana: M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé. Due conferenze al Dartmouth College, a cura di mf / materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 137-144.


138 Michel Foucault Michel Foucault: Certo, certo. Questo non significa che si debba vivere in una discontinuità indefinita. Quello che voglio dire, è che dobbiamo considerare tutti i punti di fissità, d’immobilizzazione, come elementi in una tattica, in una strategia – come parte di uno sforzo teso a riportare le cose alla loro originaria mobilità, alla loro apertura al cambiamento. Poco fa le stavo parlando dei tre elementi della mia morale, che sono: 1) il rifiuto di accettare come auto-evidenti le cose che ci sono proposte; 2) la necessità di analizzare e conoscere, perché non possiamo realizzare nulla senza riflessione e comprensione – dunque, il principio della curiosità; e 3) il principio dell’innovazione: individuare nella nostra riflessione quelle cose che non sono mai state concepite o immaginate. Quindi: rifiuto, curiosità, innovazione. Michael Bess: Mi sembra che il concetto filosofico moderno del soggetto implichi tutti e tre questi princìpi. Intendo dire che la differenza tra il soggetto e l’oggetto sta precisamente nel fatto che il soggetto è capace di rifiuto e d’innovazione. Il suo lavoro costituisce dunque un attacco alla tendenza a congelare questa nozione di soggetto? Michel Foucault: Ciò che intendevo chiarire è l’ambito di valori in cui situo il mio lavoro. Lei mi ha chiesto, poco fa, se non fossi un nichilista che ha rifiutato la moralità. A questo rispondo: no! In realtà, mi stava anche domandando: “Perché fa il lavoro che fa?” Questi sono i valori che propongo. Ritengo che la teoria moderna del soggetto, la filosofia moderna del soggetto, possa ben accordare al soggetto una capacità d’innovazione, etc., ma che, di fatto, la filosofia moderna lo faccia solo a un livello teorico. In realtà, non è in grado di tradurre nella pratica questi diversi valori che sto cercando di elaborare nel mio lavoro. Michael Bess: Il potere può essere qualcosa di aperto e fluido, oppure è intrinsecamente repressivo? Michel Foucault: Il potere non dovrebbe essere concepito come un sistema oppressivo che grava sugli individui dall’alto, colpendoli con divieti di ogni genere. Il potere è un insieme di relazioni. Che cosa significa esercitare potere? Non vuol dire prendere questo registratore e gettarlo a terra. Ho la capacità di farlo – materialmente, fisicamente, sportivamente. Ma se lo facessi, non starei esercitando potere. Tuttavia, se prendessi questo registratore e lo gettassi a terra per irritarla, o per impedirle di ripetere quel che ho detto, o per fare pressione su di lei e indurla a un certo comportamento, o per intimidirla – beh, ciò che avrei fatto, plasmando il suo comportamento tramite determinati mezzi, questo sarebbe potere.


Il potere, i valori morali e l’intellettuale 139

Il che significa che il potere è una relazione tra due persone, una relazione che non è dello stesso ordine della comunicazione (anche se lei fosse obbligato a farmi da strumento di comunicazione). Non è come dirle: “Il tempo è bello”, oppure “Sono nato questo o quest’altro giorno”. Bene. Io esercito il potere su di lei: influenzo il suo comportamento, o tento di farlo. Provo a guidare il suo comportamento, a condurre il suo comportamento. Il mezzo più semplice per farlo è, chiaramente, quello di prenderla per mano e forzarla ad andare in un certo luogo. Questo è il caso limite, il grado zero del potere; ed è proprio in questo momento che il potere cessa di essere potere per divenire mera forza fisica. D’altro canto, se sfrutto la mia età, la mia posizione sociale, la conoscenza che posso avere di questa o quell’altra cosa, per farla comportare in un modo particolare – quindi, senza forzarla affatto e lasciandola completamente libera – ecco che allora inizio ad esercitare potere. È chiaro che il potere non dovrebbe essere definito come un atto costrittivo di violenza che reprime gli individui, forzandoli a fare qualcosa o impedendo loro di fare qualcos’altro. C’è potere quando c’è una relazione tra due soggetti liberi e questa relazione è sbilanciata, così che uno può agire sull’altro e l’altro ne è influenzato, o acconsente ad esserne influenzato. Il potere, quindi, non è sempre repressivo. Può assumere varie forme ed è possibile che ci siano relazioni aperte di potere. Michael Bess: Relazioni di uguaglianza? Michel Foucault: Mai di uguaglianza, perché la relazione di potere è una disuguaglianza. Ma ci possono essere sistemi di potere reversibili. Consideriamo, ad esempio, quel che accade in una relazione erotica. Non parlo di una relazione amorosa, ma di una semplice relazione erotica. Sappiamo bene che si tratta di un gioco di potere, in cui la forza fisica non è necessariamente l’elemento più importante. Ciascuno agisce sul comportamento dell’altro in un certo modo, plasmandolo e determinandolo. Uno dei due può usare questa situazione in un certo modo, e poi mettere in atto l’esatto contrario vis-à-vis dell’altro. Ecco, questa non è altro che una forma puramente locale di potere reversibile. Le relazioni di potere non sono di per sé forme di repressione. Ma accade che, nella società, nella maggior parte delle società, vengono create delle organizzazioni per congelare le relazioni di potere, mantenerle in uno stato di asimmetria, così che un certo numero di persone ne traggano vantaggio socialmente, economicamente, politicamente, istituzionalmente, etc. Questo congela totalmente la situazione. È quel che chiamiamo potere nel senso stretto del termine: un tipo specifico di relazione di po-


140 Michel Foucault tere che è stato istituzionalizzato, congelato, immobilizzato a beneficio di alcuni e a discapito di altri. Michael Bess: Ma entrambe le parti della relazione ne sono vittime? Michel Foucault: No, affatto! Affermare che coloro che esercitano potere sono vittime, significherebbe spingersi un po’ troppo oltre. In un certo senso, è vero che possono essere presi nella trappola del loro stesso esercizio del potere, ma non sono vittime quanto gli altri. Provi lei stesso… e vedrà. [Risate] Michael Bess: Lei è quindi allineato alla posizione dei marxisti? Michel Foucault: Non saprei. Vede, non sono sicuro di sapere cosa sia realmente il marxismo – e non credo che esista come qualcosa di astratto. La sfortuna, o la fortuna, di Marx è che la sua dottrina è stata regolarmente adottata da organizzazioni politiche, ed è dopotutto l’unica teoria la cui esistenza sia sempre stata legata ad organizzazioni socio-politiche che sono state straordinariamente forti, straordinariamente mutevoli – fino al punto di divenire addirittura un apparato di Stato. Quindi, quando menziona il marxismo, le chiedo quale marxismo intenda – quello insegnato nella Repubblica Democratica Tedesca (il marxismo-leninismo)? I concetti vaghi, disordinati, spuri [bastard] usati da qualcuno come Georges Marchais? O il corpo dottrinale che funge da punto di riferimento per certi storici inglesi? In altre parole, non so cosa sia il marxismo. Provo a lottare con gli oggetti della mia stessa analisi, e quando mi capita di far uso di un concetto impiegato anche da Marx, o dai marxisti – un concetto utile, soddisfacente – bene, per me è lo stesso. Ho sempre rifiutato di considerare una presunta conformità o non conformità con il marxismo come un fattore decisivo per accettare o ripudiare quel che dico. Non potrebbe importarmene di meno. […] Michael Bess: Ha qualche idea di un sistema di potere capace di mettere ordine nella massa di esseri umani presenti sul pianeta – un sistema di governo [governance] che non divenga una forma repressiva di potere? Michel Foucault: Un programma di potere può assumere tre forme. Da un lato: come esercitare il potere nel modo più efficace possibile (essenzialmente, come rafforzarlo)? O, dall’altro lato, la posizione inversa: come rovesciare il potere, quali sono i punti di attacco in grado di minare una data cristallizzazione di potere? Infine, la posizione intermedia: come giungere a limitare le relazioni di potere per come sono incarnate e sviluppate in una particolare società?


Il potere, i valori morali e l’intellettuale 141

Bene, la prima posizione non mi interessa: fare un programma di potere per esercitarlo ancora di più. La seconda posizione è interessante, ma mi colpisce il fatto che dovrebbe essere considerata essenzialmente con uno sguardo ai suoi obiettivi concreti, alle lotte che si vogliono intraprendere. E questo implica precisamente che non se ne debba fare una teoria a priori. Per quel che concerne la posizione intermedia – quali sono le condizioni accettabili di potere – sostengo che queste condizioni accettabili per l’esercizio del potere non possano essere definite a priori. Non sono mai nient’altro che il risultato di relazioni di forza all’interno di una data società. In tale situazione, succede che un certo disequilibrio nelle relazioni di potere sia in effetti tollerato dalle sue vittime, quelle che sono nella posizione più sfavorevole in un determinato momento. Ma in nessun modo ciò significa che tale situazione sia accettabile. Le vittime ne divengono subito consapevoli, e così – dopo qualche giorno, qualche anno, qualche secolo – la gente finisce sempre per opporre resistenza, e il vecchio compromesso non funziona più. È tutto. Ma non si può approntare una formula definitiva per un esercizio ottimale del potere. Michael Bess: Intende dire che, nelle relazioni tra le persone, c’è qualcosa che congela o che coagula, qualcosa che infine diventa, dopo un certo periodo di tempo, intollerabile? Michel Foucault: Sì, sebbene talvolta ciò accada immediatamente. Le relazioni di potere, quali esistono in una data società, non sono mai altro che la cristallizzazione di un rapporto di forza. E non c’è alcuna ragione per cui queste cristallizzazioni di relazioni di forza debbano essere formulate come una teoria ideale per le relazioni di potere. Per carità, non sono uno strutturalista, né un linguista, e nient’altro del genere, ma vede, è un po’ come se un insegnante di grammatica dicesse: “Bene, questo è il modo in cui la lingua dovrebbe essere parlata, questo è il modo in cui l’inglese o il francese dovrebbero essere parlati”. Ma no! Si può descrivere come una lingua sia parlata in un dato momento, si può affermare cosa sia comprensibile e cosa inaccettabile, incomprensibile. Questo è tutto ciò che si può dire. Ma ciò non implica, d’altro canto, che questo tipo di lavoro sulla lingua non consentirà delle innovazioni. Michael Bess: È una posizione che rifiuta di parlare in termini positivi, fatta eccezione per il momento presente… Michel Foucault: A partire dal momento in cui si concepisce il potere come un insieme di rapporti di forza, non ci può essere alcuna definizione programmatica di uno stato ottimale di forze – a meno che, naturalmente,


142 Michel Foucault non si prenda posizione dicendo: “Voglio che il bianco, l’ariano, la razza pura prenda il potere e lo eserciti”, oppure: “Voglio che il proletariato eserciti il potere e che lo faccia in modo totalizzante”. E allora sì che risulta dato un programma per la costruzione del potere. Michael Bess: È intrinseco all’esistenza degli esseri umani che la loro organizzazione finirà per consistere in una forma repressiva di potere? Michel Foucault: Oh sì, naturalmente. Non appena ci sono persone che si trovano in una posizione (all’interno del sistema delle relazioni di potere) tale da poter influenzare altre persone, e determinare la vita, il comportamento, di altre persone – ebbene, la vita di quelle altre persone non sarà molto libera. Di conseguenza, a seconda della soglia di tolleranza, a seconda di tutta una serie di variabili, la situazione potrà essere più o meno accettata, ma non sarà mai totalmente accettata. Ci sarà sempre chi si ribella, chi resiste. Michael Bess: Mi lasci fare un esempio diverso. Se un bambino volesse scarabocchiare i muri di una casa, sarebbe repressivo impedirglielo? A che punto si può dire: “Basta così!”? Michel Foucault: […] Se io accettassi l’immagine del potere che è frequentemente adottata – ovvero che il potere è qualcosa di orribile e repressivo per l’individuo – è chiaro che impedire a un bambino di scarabocchiare i muri sarebbe una tirannia insopportabile. Ma non è questo: io dico che il potere è una relazione. Una relazione in cui uno guida il comportamento di altri. E non c’è alcuna ragione per cui questa maniera di guidare il comportamento degli altri non debba alla fine avere risultati positivi, preziosi, interessanti e così via. Se avessi un figlio, le assicuro che non scriverebbe sui muri – o, nel caso in cui lo facesse, lo farebbe contro la mia volontà. Ci mancherebbe altro! Michael Bess: È problematico… qualcosa che si deve continuamente mettere in discussione. Michel Foucault: Sì, sì! È esattamente così! Un esercizio di potere non dovrebbe mai essere qualcosa di per sé evidente. Non è perché sei un padre che hai il diritto di dare un ceffone a tuo figlio. Spesso anche il non punirlo è un modo di modellare il suo comportamento. Si tratta di un ambito di relazioni molto complesse, che richiede una riflessione infinita. Quando si pensa alla cura con cui i sistemi semiotici sono stati analizzati nella nostra società, tanto da scoprire il loro valore significante [valeur signifiante], [non si


Il potere, i valori morali e l’intellettuale 143

può non rilevare] che, invece, i sistemi che riguardano l’esercizio del potere sono stati relativamente trascurati. Non si è prestata abbastanza attenzione a questo complesso insieme di connessioni. Michael Bess: La sua posizione sfugge continuamente alla teorizzazione. È qualcosa che deve essere rifatto sempre di nuovo. Michel Foucault: Se vuole, si tratta di una pratica teorica. Non è una teoria, quanto piuttosto un modo di teorizzare la pratica. […] Talvolta, poiché la mia posizione non è stata resa in modo sufficientemente chiaro, la gente pensa che io sia una specie di anarchico radicale che nutre un’avversione assoluta per il potere. No! Quello che sto cercando di fare è di affrontare questo fenomeno estremamente importante e intricato presente nella nostra società, ovvero l’esercizio del potere, con il più riflessivo, e direi pure il più prudente degli atteggiamenti: essere prudente nella mia analisi, nei postulati morali e teorici che uso; cerco di capire quali siano le poste in gioco. Ma interrogare le relazioni di potere nel modo più scrupoloso e attento possibile, badando a tutti gli ambiti dell’esercizio del potere, non equivale a costruire una mitologia del potere come la bestia dell’Apocalisse. Michael Bess: Ci sono delle tematiche positive nella sua concezione di ciò che è buono? In pratica, quali sono gli elementi morali sui quali lei basa le sue azioni nei confronti degli altri? Michel Foucault: Gliel’ho già detto: rifiuto, curiosità, innovazione. Michael Bess: Ma non sono tutti piuttosto negativi nel loro contenuto? Michel Foucault: La sola etica che si può avere, riguardo all’esercizio del potere, è la libertà degli altri. Io non dico agli altri: “Fai l’amore in questo modo, fai dei figli, vai a lavorare”. Michael Bess: Devo ammettere che sono un po’ smarrito, non mi oriento più nel suo mondo – forse perché è troppo aperto. Michel Foucault: Senta, senta… quanto è difficile! Non sono un profeta; non sono un organizzatore; non voglio dire alla gente che cosa dovrebbe fare. Non dirò loro: “Questo per te è un bene, questo per te è un male!” Provo ad analizzare una situazione reale nelle sue varie complessità, con lo scopo di permettere rifiuto, curiosità e innovazione. Michael Bess: E rispetto alla sua vita personale, è diverso…


144 Michel Foucault Michel Foucault: Ma questo non riguarda nessun’altro all’infuori di me! Credo che, al cuore di tutto ciò, ci sia un fraintendimento della funzione della filosofia, dell’intellettuale, e del sapere in generale: cioè che spetti a loro dirci cos’è bene. Ebbene, no! No, no, no! Questo non è il loro ruolo. In realtà hanno già fin troppo la tendenza a giocare questo ruolo. Per duemila anni ci hanno detto cos’è bene, con tutte le conseguenze catastrofiche che ciò ha implicato. Siamo qui di fronte a un gioco terribile, un gioco che nasconde una trappola, per cui gli intellettuali tendono a dire cos’è bene, e la gente non chiede niente di meglio che le si dica cos’è bene – e potrebbe essere ancora meglio se cominciassero a strillare: “Quant’è male questo!” Ebbene, cambiamo il gioco. Diciamo che gli intellettuali non avranno più il ruolo di dire cos’è bene. Così starà alla gente stessa, che baserà il proprio giudizio sulle differenti analisi della realtà che le verranno offerte, lavorare o agire spontaneamente in modo tale da poter definire da sé che cosa sia bene per sé. Cos’è bene, è qualcosa che s’innova. Il bene non esiste di per sé, in un cielo senza tempo, con persone che sarebbero come gli Astrologi del Bene e il cui lavoro consisterebbe nel determinare quale sia la natura favorevole delle stelle. Il bene è definito da noi, è praticato, è inventato. E si tratta di un’opera collettiva. È più chiaro adesso? Traduzione dall’inglese a cura di mf / materiali foucaultiani: Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli, rivista da Michael Bess

. Power, Moral Values, and the Intellectual In this interview, Michel Foucault discusses several crucial topics of his work: his conception of power, his idea of the task of the intellectual, and the essential elements of his “ethics”. Keywords: Foucault, Power, Subject, Intellectual, Ethics, Refusal, Curiosity, Innovation.


Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault. Intervista a Daniel Defert

Questa intervista è stata realizzata il 9 novembre 2011 da Orazio Irrera e Daniele Lorenzini. Ci sia permesso ringraziare Daniel Defert per la sua gentilezza e disponibilità.

. mf: Durante il corso al Collège de France del 1979-80, che sarà presto pubblicato, Foucault inaugura uno studio “aleturgico” della soggettività, una storia dei “regimi di verità” che proseguirà poi fino al termine della propria vita. Ci sembra che parlare di “regimi di verità” per sottolineare la necessità di smascherare la pretesa di ogni “verità” di essere assoluta, e quindi di non dipendere da una forza esteriore per far valere la propria legge, sia in fondo un modo di riprendere e sviluppare un’intuizione che Foucault aveva già espresso ne L’ordine del discorso: il discorso vero, aveva detto, non può riconoscere la “volontà di verità” che lo attraversa, poiché questa volontà è sempre “mascherata” dalla verità stessa che vuole. Un’intuizione il cui valore non è soltanto epistemologico, ma anche etico e politico – come la riflessione foucaultiana degli anni settanta e ottanta rende evidente. Signor Defert, potrebbe dirci se secondo lei è corretto stabilire una sorta di “continuità” tra questa problematica della “volontà di verità” (che Foucault sviluppa anche nel suo primo corso al Collège de France1, di cui lei lo scorso anno ha curato l’edizione), e la storia dei regimi di verità abbozzata da Foucault negli ultimi corsi al Collège de France? Più precisamente, qual è, a suo avviso, l’importanza concettuale e strategica della nozione di “volontà di verità”, in Foucault? Daniel Defert: In realtà, mi pare abbiate sollevato tre problemi diversi che, in un certo senso, sono indipendenti l’uno dall’altro. C’è il problema della verità, poi quello della volontà di verità, e infine c’è il problema della continuità con i regimi di verità. Mi sembra si tratti di tre problematiche, o di tre temi, differenti, che certamente sono collegati in Foucault, ma che si presentano come degli approfondimenti di una posta in gioco che, Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France. 1970-1971, Seuil/Gallimard, Paris 2011. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 145-157.


146 Daniel Defert credo, è costante in tutta la sua opera. Nel senso che, sin dall’inizio – nel suo primo grande libro – Foucault si pone il problema della produzione di verità sulla follia. E questo è stato comunque un tema ricorrente, che Foucault ha ripreso più volte nel corso del proprio lavoro. L’ospedale, il manicomio divenuto ospedale psichiatrico, ha preteso di essere un luogo di produzione di verità; ma alla fine non si è mai arrivati a una verità sulla follia, ci sono sempre stati degli effetti di verità e delle decisioni, e così, sin dall’inizio, Foucault sostiene che il sapere sulla follia è una forma di potere, una normalizzazione, la riduzione al silenzio… Dunque, in un certo senso, a partire da simile posta in gioco, Foucault pone questo problema della verità, e della verità vera e della verità menzogna – sin dall’inizio. Si può dire che non sia del tutto esplicitato, ma naturalmente è già su uno sfondo nietzscheano che Foucault pone il problema della verità, immediatamente, e della verità vera e della verità menzogna: la Storia della follia è proprio questo. Poi c’è il corso del 1970-71, che è un corso di filosofia, e in un certo senso è l’instaurazione di Foucault nel suo statuto di filosofo. In precedenza, Foucault aveva avuto una cattedra di psicologia e di filosofia, ma aveva insegnato soprattutto la psicologia, mentre al Collège de France ha una cattedra di filosofia. E quindi tiene un corso di filosofia, che è un corso molto teorico, piuttosto complesso, nel quale non oppone tra loro due epoche, com’era sua abitudine fare nei testi precedenti (nei quali analizzava differenze di epoca, differenze di periodo, di periodizzazione); qui, nel corso del 1970-71, Foucault contrappone invece due paradigmi di conoscenza – il paradigma aristotelico e il paradigma nietzscheano – e pone il problema della volontà di verità, che è un concetto abbastanza difficile. mf: E in che modo l’introduzione di questo concetto cambia, trasforma la posta in gioco dell’analisi? Daniel Defert: Foucault aveva già utilizzato, come termine, l’espressione “volontà di verità”, credo nella Storia della follia, o nella Nascita della clinica, insomma c’è un luogo in cui la nozione era già apparsa2. Foucault si era di nuovo immerso nella lettura di Nietzsche – si era ricollegato molto alla lettura di Nietzsche a partire dal 1967-68 – e la volontà di verità, dice, ecco ciò che mi interessa: in effetti non è la volontà di potenza che mi interessa, ma la volontà di sapere. In fondo, tra volontà di verità e volontà di sapere c’è come uno slittamento continuo, e Foucault è in difficoltà dinanzi a tale nozione, perché in un certo senso si chiede: com’è possibile fare Cfr. M. Foucault, Philosophie et vérité (1965), in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 480. 2


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una filosofia che voglia sbarazzarsi del soggetto e introdurre la nozione di volontà di verità? Foucault evoca il problema, ma non lo sviluppa. La sola cosa che dice, è che la volontà di verità è un sistema di esclusione, cioè a questa nozione di volontà di verità attribuisce subito un contenuto che non è un contenuto di soggettività, ma un contenuto di sistema e di anonimato. È molto curioso! Personalmente, questa nozione di volontà di verità, o di volontà di sapere, mi ha messo in difficoltà… Anche Foucault lo dice, anche lui è in difficoltà: quando si vuole fare un’analisi del sapere e della verità senza il soggetto, cosa significa utilizzare questa nozione di volontà di verità? Allora, Foucault esce dall’impasse dicendo: è un sistema di esclusione, un sistema di interdetto, e così si ricolloca nel quadro delle analisi che aveva già condotto a proposito della ragione. Lo dice rapidamente, ma ci ritorna più volte; ed è vero che con la nozione di “regime di verità”, più tardiva, Foucault riprenderà una delle poste in gioco del corso del 1970-71, ma eliminerà del tutto questa sorta di “residuo” di soggettività che si trovava nella volontà, ed entrerà completamente in qualcosa che non è stato colto da alcuna recensione di questo corso, se non da quella di Frédéric Gros3. In questo corso, Foucault ci propone una storia della verità che può essere letta in due modi. In un certo senso, ci mostra che la verità, praticamente a partire da Platone, possiede tutte le caratteristiche della verità come la definiamo noi oggi: è oggettiva, è universale, è neutrale – e così, da un certo punto di vista, Foucault fa un’archeologia o una genealogia dei valori di verità. E poi ci mostra che questa verità è menzogna: c’è tutto un discorso sulla filosofia, sul saggio, questo saggio la cui parola proviene da un luogo fuori dalla storia, e c’è una completa messa in questione dell’oggettività, della neutralità e dell’universalità. La cosa che mi sorprende è che le recensioni, le buone recensioni che abbiamo letto e che sono facili e piacevoli da leggere, abbiano effettivamente evidenziato la storia delle pratiche di istituzione della verità, ma non abbiano affatto dato conto di questa doppia lettura nietzscheana, che è al contempo una genealogia della verità e una genealogia della critica della verità. Perché, in questo corso del 1970-71, Foucault mostra bene come la verità, attraverso il nomos, attraverso la purezza, attraverso la legge scritta, vestirà queste categorie di neutralità, di universalità, di purezza, di valore morale; ma allo stesso tempo ci mostra che tutto ciò è menzogna. È complesso, ecco perché questo corso è così difficile… Nei corsi di cui abitualmente si realizza l’edizione a partire da una registrazione, Foucault dice la stessa cosa tre volte, ma vi sarete accorti che non dice mai esattamente la stessa cosa Apparsa sul numero 22 della rivista «Agenda de la pensée contemporaine» (gennaio 2012). 3


148 Daniel Defert tre volte: ogni volta aggiunge un accento, una precisazione… Ogni volta che spiega qualcosa oralmente lo si comprende bene, ma per iscritto (e per l’edizione del corso del 1970-71 era possibile basarsi solo su documenti scritti) resta spesso in sospeso. Ora, giustappunto, quasi sempre ci sono entrambe le vie: c’è la via genealogica della nostra concezione abituale della verità, e poi c’è la via genealogico-critica della verità come menzogna. Invece la nozione di “regime di verità” oggettiverà senza volontà, senza questo residuo di soggettività e di metafisica; e questo mostra anche che, nel percorso di Foucault, si assiste a un cammino costante più che a una svolta, a una problematizzazione approfondita di un certo numero di punti nodali. Non si tratta quindi né di una vera continuità, né di una vera discontinuità, quanto piuttosto di un approfondimento costante delle medesime poste in gioco; direi perfino che tutti i suoi libri sono dei “teatri di verità”. In Nascita della clinica, Foucault stesso dice che l’ospedale è un teatro di verità, ma questo vale per l’ospedale psichiatrico, per la prigione, per la medicalizzazione della sessualità – tutti questi teatri di verità moltiplicano i regimi di verità e desacralizzano totalmente l’epistemologia, che considera teatro di verità soltanto la ricerca scientifica e la verità degli eruditi, mentre Foucault ha costantemente studiato delle verità nella loro complessità e nella loro eterogeneità. Si capisce, dunque, perché una posta in gioco importante per lui fosse quella di non conservare la distinzione scienza/ideologia, cara ad Althusser, ma non pertinente per Foucault, che già in Philosophie et psychologie definiva la psicologia non come una scienza, ma come una forma culturale4. mf: Ci è perfettamente chiaro in che senso lei sostenga che questa nozione di “regimi di verità” esclude la problematica del soggetto. Tuttavia, nei corsi e nella riflessione del Foucault degli anni ottanta, si trova comunque un’attenzione straordinaria al rapporto che certi regimi di verità intrattengono con certe pratiche di soggettivazione… Daniel Defert: Sì, ma non si tratta affatto del soggetto fondatore, bensì del soggetto costituito dai regimi di verità. Il tema del “ritorno del soggetto” in Foucault è una stupidaggine, non si tratta per nulla del ritorno del soggetto! Si tratta dell’introduzione di una soggettività del tutto diversa dalla soggettività trascendentale. È questa la svolta. Ciò non ha dunque niente a che fare [con il soggetto fondatore], e solo dei lettori davvero superficiali hanno potuto dire “ah, ritorna alla soggettività” – ma questa soggettività non ha affatto lo stesso statuto. Foucault non ritrova la soggettività 4

Cfr. M. Foucault, Philosophie et psychologie (1965), in Dits et écrits I, cit., p. 466.


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trascendentale di Husserl! Introduce una soggettività costruita, plurale, a partire da un certo numero di pratiche, in particolare a partire dal cristianesimo. mf: Ci consenta di ritornare su un punto che ha evocato poco fa: lei ha detto che Foucault, quando si trattò di tenere il suo primo corso al Collège de France, volle in un certo senso instaurarsi nel suo ruolo di filosofo. Per farlo, decise di parlare di Aristotele, da una parte, e di Nietzsche, dall’altra: era un modo di presentarsi in quanto filosofo, dichiarando allo stesso tempo il proprio debito intellettuale nei confronti di Nietzsche. Ma nei due corsi seguenti, Théories et institutions pénales e La société punitive, le cose cambiano, e non si può più dire che Foucault sia “filosofo” nel senso “classico” del termine… Daniel Defert: Dunque, a questo proposito ci sono diverse cose da considerare – anche se non ne so niente, sono solo delle ipotesi. Nel lavoro di edizione del primo corso, mi sono interessato alla “fabbricazione” del corso, questa nozione sulla quale Philippe Artières e Jean-François Bert hanno insistito non poco, per esempio nel loro ultimo libro Un succès philosophique. L’Histoire de la folie à l’âge classique de Michel Foucault5. In questo primo corso, a mio avviso, siccome ha una cattedra di filosofia, Foucault è obbligato a porsi come filosofo; ma, al contempo, fa comunque una critica molto visibile di una certa filosofia, e ha di mira alcuni dibattiti contemporanei con Althusser e Derrida. Non so esattamente quando, ma dovrebbe essere stato intorno al 1968 che cominciarono a svilupparsi dei dibattiti sullo statuto del filosofo e dell’insegnamento della filosofia, nel contesto del Sessantotto, e mi sembra che Derrida vi sia intervenuto molto, e che Foucault avesse di mira un po’ questi dibattiti, sia dal lato di Althusser, sia dal lato di Derrida. E bisogna anche ricordare che la candidatura di Foucault al Collège de France fu presentata da Jules Vuillemin, titolare della cattedra “Philosophie de la connaissance” – una circostanza da tenere in considerazione, dato che Vuillemin era un grande conoscitore di Nietzsche… Bene, c’è questo da tenere presente. In secondo luogo, al Collège de France i corsi sono tenuti di solito da specialisti di un argomento, davanti a un pubblico non molto numeroso di specialisti. Foucault, al contrario, ha dovuto affrontare immediatamente un pubblico vasto e differenziato. Lo aveva previsto? mf: Già nel 1970? Ph. Artières e J.-F. Bert, Un succès philosophique. L’Histoire de la folie à l’âge classique de Michel Foucault, PUC, Caen 2011. 5


150 Daniel Defert Daniel Defert: Sì, fin dall’inizio – era al completo! Dovete sapere che l’“aura” di Foucault è stata riconosciuta molto presto: alla sua discussione di tesi, alla quale ho assistito nel 1961, c’era una gran folla, l’anfiteatro Louis Liard era pieno. La reputazione intellettuale di Foucault era quindi già forte. E poi anche a Vincennes c’era folla… Al Collège de France, Foucault ha avuto immediatamente un pubblico che non era quello per il quale si era preparato, e allora a partire dal secondo anno si è adattato meglio a questo pubblico e a un progetto preciso: il ruolo del diritto nella costruzione della verità. Si vede bene che il suo primo corso è esitante, e insieme pieno di sottointesi: Foucault suppone che tutti quanti conoscano gli argomenti di cui parla, non sempre è preciso, c’è comunque molta complicità, molto “siamo tra noi”… In seguito, nei corsi successivi, sarà più didattico. In secondo luogo, c’è una cosa davvero curiosa da notare: nella Situation, affermo che a mio avviso il libro di Deleuze Differenza e ripetizione ha giocato un ruolo considerevole – Differenza e ripetizione che è comunque un libro difficile, uno dei grandi libri di Deleuze, e rappresenta un momento cruciale per lui (c’è un’inversione nel metodo di Deleuze, che fino a quel momento era stato uno storico della filosofia, straordinario ed estremamente meticoloso, mentre in Differenza e ripetizione fa subire una sorta di torsione alla maniera di fare storia della filosofia). Foucault, nel corso del 1970-71, e Deleuze, in Differenza e ripetizione, discutono esattamente lo stesso brano di Aristotele. Deleuze ne dà subito una lettura nietzscheana, mostrando che questo testo di Aristotele è un testo interamente morale, e non fornisce un commento “interno” ad Aristotele – è completamente nietzscheano. Foucault, al contrario, fa un commento del tutto “interno” ad Aristotele, assume la postura dello storico della filosofia e mostra come da una prospettiva interna all’opera di Aristotele si comprenda perfettamente tutto ciò che dice – in pratica, ricostruisce per noi la metafisica di Aristotele a partire da queste quattro righe della Metafisica6. Il “chiasmo” rispetto a Deleuze è davvero sorprendente. Quindi, da un lato, Deleuze fa una specie di collage di storia della filosofia (è Foucault che utilizza il termine “collage”), mentre Foucault, al contrario, gioca allo storico della filosofia, quasi à la Guéroult, ricostruendo un meticoloso commento del testo, e tutto ciò per giungere alla conclusione che il saggio è comunque il più grande mentitore, è colui – il saggio e il filosofo – che si suppone parli da un luogo fuori dalla storia. Ma com’è possibile parlare da un luogo fuori dalla storia quando si vede il reale processo di costituzione di ogni discorso di verità, tutto lo sfondo di pratiche, di lotte sociali e di dominazione che 6

Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 7-14.


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gli sta dietro? Foucault si costituisce dunque come filosofo e, allo stesso tempo, distrugge la valorizzazione accademica tradizionale del filosofo. E il corso successivo, che avete citato, è molto curioso, perché Foucault in pratica non vi fa che della storia: maneggia un sacco di testi di storici del Medioevo, ma di storici spesso molto marginali, mentre nel corso del 1970-71, il primo corso, utilizza soltanto gli storici up to date – tutto ciò che costituisce il corpus legittimo, accademico, il corpus rispettabile e affidabile degli storici che sono sempre presi in considerazione, che costituiscono un punto di riferimento per gli studi ellenistici. Nel corso del 1971-72, invece, a proposito del Medioevo, Foucault considera un campo molto più vasto: ci sono comunque i grandi storici del Medioevo, c’è Georges Duby – naturalmente si serve molto di Duby – ma ho controllato tutte le fonti che utilizza e non hanno più nulla a che vedere con le fonti recenti utilizzate nel corso del 1970-71. Foucault si pone un problema del tutto nuovo: seguire la costituzione di un apparato repressivo di Stato durante il Medioevo. Tema althusseriano, è evidente. Foucault cerca, accanto all’apparato di giustizia e all’apparato fiscale, il modo in cui si è costituito un apparato la cui funzione era puramente la repressione. Non ho mai visto nessuno fare la storia della nascita dell’istanza repressiva all’interno dell’apparato di Stato. È questo il secondo corso. Tutto ciò non ha dunque più nulla a che fare con il corso del 1970-71, e qui davvero ci avviciniamo a Sorvegliare e punire – c’è una rottura totale, una rottura in rapporto alle fonti storiche di Foucault e, contemporaneamente, una rottura in rapporto al progetto iniziale di istituirsi come filosofo. E quindi, per riassumere, in occasione di questo primo corso al Collège de France, credo che Foucault non conoscesse il proprio pubblico e che progressivamente lo abbia saggiato, lo abbia messo alla prova; d’altronde, mi pare che alla fine si sentisse molto più libero… Ma utilizza un materiale da storico! È molto strano il suo corso, perché è estremamente filosofico ma al contempo si presenta come storia; è un corso nel quale ci sono dei filosofi messi in primo piano, Aristotele e Nietzsche, e ce ne sono anche altri: Deleuze, Heidegger, Althusser, Derrida, la psicanalisi considerata come filosofia da Deleuze che è messa in questione. Ci sono un sacco di sottoconversazioni, come direbbe Nathalie Sarraute, che non sono esplicitate. Ma ci sono sempre delle sottoconversazioni, in tutti i libri di Foucault, che è qualcuno che cancella la polemica e che tuttavia è sempre immerso nella discussione, nella contestazione. mf: Secondo lei, questa “rottura” tra il primo e il secondo corso può essere spiegata anche pensando alla costituzione, in quegli anni, del G.I.P.?


152 Daniel Defert Daniel Defert: Nel corso del 1970-71 non lo si avverte… C’è il tono, che è in tutto e per tutto sessantottino, però se non si è vissuto tutto questo, non so se lo si riesca a percepire. mf: C’è comunque un atteggiamento genealogico che è sempre presente in Foucault, che parte sempre dall’attualità, dai problemi politici del presente… Daniel Defert: Sì, ma questi problemi non sono così esplicitati, bisognerebbe fare davvero una doppia lettura, o un doppio ascolto, per capirlo: oggi tutto questo potrebbe tranquillamente rimanere nascosto. mf: Potrebbe far emergere per noi qualche traccia di questa esperienza? Daniel Defert: Beh, potremmo dire che nel corso del 1970-71 Foucault è nietzscheo-marxista. Incredibilmente! È quel che era da giovane: allora credeva che Nietzsche e Marx fossero un po’ l’uomo nuovo… Ora, nel 1970-71, è vero che analizza comunque tutti questi conflitti di dominazione come rapporti di classe: vediamo i contadini, gli aristocratici, gli opliti, insomma l’infrastruttura – modi di produzione e rapporti di produzione cari ad Althusser. Tutto questo è molto presente. Nella Situation ho detto che, in fin dei conti, queste condizioni sociali sono molto vicine a quelle che evoca Marx, anche se i concetti di classe e tutto il resto non si trovano in Nietzsche. Ma Frédéric Gros usa chiaramente l’espressione “nietzscheo-marxismo” per questo corso, e credo che vada bene, perché c’è in effetti una presenza reale dei rapporti di produzione – non soltanto i modi di produzione, ma i rapporti di produzione sono molto espliciti. E non si tratta solo di rapporti di pura dominazione: ci sono analisi di tipo economico, e poi analisi che non sono affatto economiste [économistes], come in particolare quella della moneta. Questa analisi del simulacro e non del segno, che non è proprio nuova (Foucault la trae da Édouard Will, che l’aveva ripresa a sua volta da Bernhard Laum), è davvero interessante e mi sembra un elemento molto importante di questo corso. Foucault dice: non c’è una storia universale della moneta, questa è solo una delle origini della moneta, ce ne possono essere state altre, forse ce ne sono altre che sono avvenute effettivamente nel puro ambito dello scambio; ma qui si tratta di un partage politico, di un atto politico di redistribuzione, e Foucault fa un’analisi politica [politicienne] e non economista dell’origine della moneta. È comunque un momento esemplare della posta in gioco del corso: fare un’analisi politica e non economista. Questo, appunto, fa molto Sessantotto: ci si riconosceva in questo, si vibrava a un’analisi come questa.


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Bene. Invece l’impurità [souillure]7 e la penalità erano temi molto distanti da quello che stavamo costituendo intorno alle prigioni. Ad ogni modo, è Nietzsche che dice che è possibile fare una storia della verità a partire dalla storia della giustizia greca; gran parte dello sfondo storico della Grecia arcaica, Foucault lo prende in prestito da Nietzsche. Solo, come sempre, Foucault non riprende la storia tale e quale Nietzsche la afferma, ma la mette alla prova degli storici, non dei filologi, e cerca di capire, grazie agli storici attuali, se quel che afferma Nietzsche è verificabile. D’altra parte, Foucault criticava la Scuola di Francoforte per aver utilizzato spesso il lavoro degli storici senza prima verificare negli archivi se quel che questi storici dicevano fosse valido. Foucault fa invece un lavoro d’archivio: tutto è stato consultato, tutto è stato letto. Quindi, se non possiamo dire che “si sente” il G.I.P., possiamo affermare che “si sente” comunque il politico che ha la meglio sull’economico, e questo è molto sessantottino. mf: Nel corso dell’anno successivo, invece, si comincia forse a sentire più esplicitamente l’importanza dell’esperienza del G.I.P.… Daniel Defert: No, nemmeno… Forse negli anni seguenti. Ma Foucault aveva comunque una preoccupazione, che era quella di fare analisi il più possibile approfondite, e di non mettere in scena le proprie poste in gioco ideologiche. Si tratta di problemi teorici: la teoria è politica. mf: Quindi, a suo parere, Foucault ha sempre tentato di tracciare una linea di separazione molto netta tra il proprio impegno militante nelle lotte concrete e la propria pratica genealogico-critica nell’esercizio del pensiero? Daniel Defert: No, non come Weber. Foucault sviluppa un approccio molto teorico, che domina i propri oggetti dall’alto, e il coinvolgimento concreto lo conforta, lo distende. Nonostante tutto, la questione della genealogia nietzscheana può avere alcune consonanze con certi approcci marxisti, come può anche non averne affatto – dipende dalla lettura. Foucault l’aveva già capito quando era più giovane, quando ha lasciato il PCF; ma credo soprattutto che Foucault inizi, con questo corso del 1970-71, a studiare la produzione di verità al di fuori dell’ambito tradizionale dell’epistemologia. Non è l’attività scientifica. In Sur les façons d’écrire l’histoire8, Foucault evoca appunto questa epistemologia che si fa a partire da individui che cercano la verità, essenzialmente gli esperti… In questo corso, invece, Foucault svolge una ricerca della verità a partire da un teatro di verità che è la giustizia, 7 8

Cfr. ivi, pp. 161-182. Cf. M. Foucault, Sur les façons d’écrire l’histoire (1967), in Dits et écrits I, cit., pp. 613-628.


154 Daniel Defert cioè lo scontro tra individui e potere di Stato che si sta costituendo, il puro scontro. È Nietzsche che, dopo i Sofisti e Aristotele, è tornato su questo e possiamo dire che, a partire dal 1970 fino a Sorvegliare e punire, gli apparati giudiziari saranno, per Foucault, luoghi di produzione di sapere. mf: Lei ha appena evocato l’esperienza di Foucault nel Partito Comunista Francese. Nell’intervista del 1978 con Duccio Trombadori, Foucault parla proprio di questa esperienza, tracciando un quadro della militanza nei termini di una dissoluzione dell’io, di una conversione, dell’ascetismo e dell’autoflagellazione. Tuttavia, nell’ultimo corso al Collège de France, quello del 1984, Foucault parla della militanza rivoluzionaria come di una delle piste più interessanti da percorrere, nel caso in cui ci si voglia impegnare a lavorare sul cinismo “trans-storico” – nei tre aspetti della società segreta, dell’organizzazione istituita (come, ad esempio, il partito o il sindacato) e della testimonianza attraverso la vita. Nondimeno, Foucault sembra considerare anche la possibilità di sovrapposizioni, se non di una iscrizione della testimonianza della verità tramite la vita nelle forme di organizzazione di un movimento o di un partito, ivi compresa quella del gauchismo. Come legge, lei, i rapporti tra queste due modalità di riferirsi alla militanza? In che modo ritiene che l’esperienza personale di Foucault si situi rispetto a queste due idee diverse di militanza? Daniel Defert: Nell’ultimo corso ci sono in effetti alcune cose che mi sembrano piuttosto interessanti a proposito della “vita altra”, e appunto della rivoluzione, della vita rivoluzionaria… C’è una cosa che Foucault ha ben messo in luce: la costituzione della militanza come un modello sociale concepito nel XIX secolo. Il militante rivoluzionario è qualcosa che si è costruito, che è esistito praticamente in tutti i paesi, che si trova in Russia come negli Stati Uniti, ed è una delle forme dell’ascetismo, una delle forme del dire il vero e, per un certo verso, uno dei problemi complicati, sui quali non saprei pronunciarmi, dei rapporti che Foucault stabilisce tra la storia e la verità. Perché c’è, allo stesso tempo, una storicizzazione completa dei regimi di verità, e poi ci sono delle figure che attraversano il tempo – qual è il loro statuto? Ero rimasto colpito dal fatto che Foucault avesse detto: la storia della verità non è forse la storia di un’esclusione, dell’esclusione della déraison rispetto alla ragione? C’è questa storia di una follia precedente al partage, che riaffiorerebbe in Artaud, in Van Gogh, e poi infine si avrebbe una sorta di riaffiorare della sofistica in Brisset, in Roussel… E poi, nel corso del 1984, di nuovo, questo personaggio del rivoluzionario che è capace di dire il vero e di proporre una vita altra, e che è anche un riaffio-


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rare del cinico. Allora, si tratta solo di modelli di vita, di “idealtipi”, come direbbe Weber, costruiti per comparare, o c’è una reale trans-storicità? Spesso le cose sono un po’ ambigue. Forse per Foucault non lo erano, ma su questo punto non è sufficientemente esplicito e ci si può chiedere se ci sono delle specie di figure trans-storiche che riaffiorano, delle forme, delle stilizzazioni dell’esistenza al tempo stesso politiche ed etiche, e non semplicemente estetiche. Un’analisi più attenta permetterebbe forse di capire se si tratta di idealtipi, di puri modelli di una metodologia comparativa o di tutt’altro, di una percezione trans-storica di percorsi etici e politici il cui numero è finito. mf: L’esperienza personale della militanza di Foucault, quel che racconta a Duccio Trombadori a proposito del PCF, ha potuto influenzare la sua maniera di considerare la militanza? Daniel Defert: Non sono sicuro che sia nel PCF che Foucault ha avuto l’esperienza militante più intensa, né la più evocatrice del cinismo antico (il cinismo stalinista è davvero tutt’altra cosa)… mf: Di certo la più negativa! Daniel Defert: Sì, perché sapete come funziona l’appartenenza a un partito: si va alle riunioni, si distribuiscono volantini… Beh, Foucault scriveva anche articoli, che venivano spesso tagliati. Era certo un’esperienza militante, perché era data come tale e Foucault la prendeva come tale; era comunque una rottura molto forte rispetto al suo ambiente di origine, provinciale e borghese. So che io, quasi vent’anni dopo, mi sono posto la domanda: entro nel Partito oppure no? Grazie a Dio, il rapporto del PCF con la guerra d’Algeria, con l’indipendenza dell’Algeria, mi ha evitato di entrarci! Nel 1960-61, entrare nel Partito era ancora di per sé una rottura, anche se una volta dentro la pratica consisteva nel vendere l’Humanité, nel distribuire volantini, nell’andare alle riunioni… Sicuramente nella Gauche prolétarienne e nel G.I.P. abbiamo avuto una pratica molto più militante, e proprio all’interno di questa pratica militante che avevamo nel G.I.P. Foucault era estremamente attento a non dare spazio alcuno all’autocritica. Non sopportava questa abitudine religiosa e comunista dell’autocritica! Al contrario, se qualcosa aveva successo bisognava festeggiare! Cioè: “Abbiamo fatto una buona manifestazione, ha avuto un buon impatto, si festeggia, ci si festeggia”. Foucault era favorevole alla celebrazione tanto quanto vietava tutto quel che assomigliava a un’autocritica – e quindi le sedute di confessione,


156 Daniel Defert di colpevolizzazione, tutto questo lo trovava orribile! È vero, quindi, che Foucault ha reinventato una militanza a partire dalla nostra pratica: non si è ispirato a ciò che aveva imparato prima. E so che, appunto, il G.I.P. ci ha permesso di avere una pratica politica molto diversa dalla pratica dei nostri compagni che lavoravano con gli operai: i nostri compagni erano a volte di origine borghese, ma vivevano in tutto e per tutto come operai, come operai militanti, ovvero: “Come, hai figli? Guarda che stasera vieni comunque alla riunione, anche se sei una madre di famiglia e hai passato la giornata in fabbrica!” In altri termini, i militanti che lavoravano con gli operai cancellavano i segni della loro origine per somigliare alle persone con cui militavano. Invece, quando ci siamo occupati dei detenuti, avevamo a che fare con persone che erano spesso anarchici, ma anche semplicemente ladri che non avevano necessariamente un ideale ascetico, e sono certo che alcuni di loro avessero nascosto refurtive che, anche quando sono usciti di prigione, la polizia non ha trovato! Ecco, queste persone tenevano piuttosto a vivere in modo confortevole, e non volevano che ci si vestisse male per andare da loro: preferivano venire a cena da noi o che si andasse da loro e si portassero fiori, dolci, etc., insomma che ci si ricevesse da borghesi. Ed erano molto contenti che non simulassimo una falsa vita proletaria. Al contrario, dato che si sentivano esclusi, erano felici di sentirsi accettati. Il G.I.P. a quel tempo condivideva un locale, prestatoci da Guattari, con l’MLF (Mouvement de libération des femmes) e con il FHAR (Front homosexuel d’action révolutionnaire), ma una sera non abbiamo potuto usarlo. Avevamo una riunione con una banda di “garçons”9 del quartiere della Bastiglia, che era ancora un quartiere popolare; c’era quindi una “banda della Bastiglia” che conoscevamo piuttosto bene, e non avevamo il locale per accoglierli. Alla fine li abbiamo fatti venire a casa di Foucault. E un ragazzo esclama: “Oh mio Dio, i borghesi ci aprono le loro porte, senza costringerci a scassinarle!” Erano contenti. Era un’altra militanza… mf: Era un modo molto diverso di stabilire rapporti personali nella pratica militante… Daniel Defert: Sì! Dovete sapere che c’erano già parecchi giovani in prigione per droga, anche se non se ne parlava ancora, e molti di loro erano difesi da avvocati del PCF. Ora, il problema non era mai stato posto politicamente, era visto come una specie di disagio morale per le famiglie di questi raIl termine “garçons” ha un senso elogiativo nell’ambiente penitenziario, dei duri – si diceva “loubards” [nota di Daniel Defert]. 9


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gazzi. Quando abbiamo cominciato a proporre a queste famiglie dei comportamenti di tipo politico (manifestare in strada con striscioni davanti al Ministero della Giustizia e cose così), le famiglie dette di “diritto comune” hanno iniziato a politicizzare il proprio comportamento in un ambito che non aveva ancora uno statuto politico, e quando hanno cominciato a prendere i nostri volantini e a distribuirli alle porte delle prigioni, nei mercati, le cose hanno iniziato a cambiare! In quel momento, il nostro obiettivo politico era quello di reintrodurre le poste in gioco delle prigioni nelle lotte operaie, che erano ancora le lotte politiche dominanti dell’epoca. Alla fine, tutto ciò non si è reinscritto nelle lotte operaie, anche se, quando si andava ai cancelli delle fabbriche con gli attori del Théâtre du Soleil che mimavano scene sulle prigioni, eravamo ben accolti dagli operai: molti di loro avevano fatto un po’ di galera, come immigrati, o conoscevano qualcuno in prigione. Insomma, il mondo della prigione non era loro estraneo, non era più il mondo morale del “Lumpenproletariat”, che era scomparso… Ci confrontavamo invece con problemi di “identità”, con lotte nuove sui diritti identitari, perché le persone con cui avevamo a che fare non erano solo detenuti, ma anche immigrati, consumatori di droga, etc. Ci trovavamo con i travestiti e i problemi affrontati in prigione dagli omosessuali, ci trovavamo con le donne in prigione, la cui storia non è la stessa di quella degli uomini in prigione (diversi i reati, diversi i maltrattamenti, diversa la solitudine), e quindi non ricomponevamo tutte queste poste in gioco all’interno delle grandi lotte proletarie, ma incitavamo nuove lotte della società intorno alle questioni di identità, di genere, di sessualità, ed eravamo in tutt’altro registro di lotte… È quindi vero che ci siamo trovati, Foucault ed io, in un momento di inventività di comportamenti militanti, in un momento cardine delle lotte, e che vi abbiamo contribuito! Traduzione dal francese a cura di Laura Cremonesi e Daniele Lorenzini

. Will to Truth and Militant Practice in Michel Foucault In this interview, Daniel Defert discusses the first series of Michel Foucault’s lectures at the Collège de France, Leçons sur la volonté de savoir, and describes the militant activity of Foucault in the G.I.P. (Groupe d’information sur les prisons). Keywords: Foucault, Truth, Nietzsche, Deleuze, Critique, G.I.P., Militancy.


Saggi


Retenons donc nos larmes.

Riletture e polemiche intorno alla conferenza Che cos’è un autore? di Michel Foucault Silvia Chiletti

Qualche anno fa, alla pagina culturale di un noto quotidiano italiano,

compariva un articolo dal titolo altamente drammatico: Noi scrittori uccisi da Foucault. L’articolo in questione porta la firma di un noto romanziere e giornalista irlandese, John Banville, il quale prende di mira, così come si evince già dal titolo, il nome e la figura di Michel Foucault in quanto principale responsabile della cosiddetta «morte dell’autore». Banville si interroga, non senza una certa ironia, sul fenomeno di sparizione delle figure autoriali all’interno del panorama d’interesse della critica letteraria e filosofica ispirata dalla cultura francese del ventesimo secolo; punta il dito contro il processo di annullamento dell’individualità, così come dell’autorità, degli scrittori, declassati da «creatori» delle proprie opere a «strumenti» di esse e, addirittura, di un linguaggio anonimo che li sovrasta, facendoli parlare. Fornendo una sorta di caricatura del pensiero di Foucault, il quale avrebbe reso ogni autore schiavo di un anonimato impersonale, le parole di Banville non lasciano spazio a eufemismi: egli definisce «sinistra» la campagna intellettuale di Foucault e di «molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa»1. Banville non è di certo il primo a scagliarsi contro Foucault a tal proposito: a partire dagli anni Ottanta una nutrita schiera di intellettuali, appartenenti per lo più all’ambito accademico anglosassone, hanno rivolto lo stesso tipo di attacco al filosofo francese2. A dare adito al sollevarsi delle J. Banville, Noi scrittori uccisi da Foucault, in «La Repubblica», 23 giugno 2009, pp. 42-43. Per una panoramica generale sulle teorie dell’autore nella critica letteraria contemporanea e sull’influenza del pensiero francese all’interno di essa si vedano J.V. Harari (a cura di), Textual Strategies. Perspectives in Post-Structuralist Criticism, Cornell University Press, Ithaca 1979 e A. Brunn, L’auteur, Flammarion, Paris 2001. 2 Tra questi: H. Sluga, Foucault, the Author and the Discourse, in «Inquiry. An Interdisciplinary Journal of Philosophy», vol. 28 (1985), pp. 403-415; P. Lamarque, The Death of the Author. An Analytical Autopsy, in «British Journal of Aesthetics», vol. 30 (1990), pp. 319-331; S. Burke, The Death and the Return of the Author. Criticism and Subjectivity 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 159-178.


160 Silvia Chiletti polemiche sono state le parole pronunciate da Foucault nella conferenza dal titolo Qu’est-ce qu’un auteur ?, tenuta dal filosofo il 22 febbraio del 1969 al Collège de France davanti alla Société française de philosophie e ripetuta l’anno successivo all’università di Buffalo, negli Stati Uniti3. Oggetto particolare della polemica sarebbe la celebre frase, che Foucault pronuncia aprendo e chiudendo la conferenza, citando le parole di Samuel Beckett: «Che importa chi parla?»4. Tali parole propugnerebbero irrevocabilmente, secondo i critici, una filosofia dell’indifferenza totale rispetto alla figura, all’autorità e alla responsabilità del romanziere, del poeta o più in generale dello scrittore, l’irrilevanza del soggetto scrivente rispetto alla propria produzione e al circolare anonimo e indifferente dei discorsi. È tuttavia abbastanza curioso, a mio avviso, che l’obiettivo polemico principale di coloro che rivendicano uno statuto importante per la figura dell’autore sia proprio Michel Foucault, dal momento che egli non è stato di certo l’unico, né tantomeno l’iniziatore di questo preteso rito funerario nei confronti dell’autore. Nel 1968, ad esempio, un anno prima della conferenza Qu’est-ce que un’auteur ?, compariva sulla rivista francese «Tel Quel» l’articolo di Roland Barthes La mort de l’auteur, destinato anch’esso a suscitare un certo scalpore per aver per primo annunciato la «destruction de toute voix, de toute origine»5 nel linguaggio anonimo dell’écriture contemporanea. Basterebbe considerare i titoli dei due interventi per supporre che il colpo di spada più efferato, nei confronti della tradizione, sia stato inferto da Barthes piuttosto che da Foucault il quale, interrogandosi su «Che in Barthes, Foucault and Derrida, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998; D.W. Foster, In the name of the Author, in «New Literary History», vol. 33 (2002), n. 2, pp. 375-396; A. Wilson, Foucault on the “Question of the Author”. A critical Exegesis, in «The Modern Language Review», vol. 99 (2004), n. 2, pp. 339-363. 3 M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 817-849; trad. it. Che cos’è un autore?, in M. Foucault, Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 2004 (1971), pp. 1-22. Per ragioni di completezza, nel seguito dell’articolo utilizzerò anche la versione originale francese, in quanto comprende anche le variazioni introdotte nella conferenza pronunciata da Foucault l’anno successivo a Buffalo, così come il dibattito successivo alla conferenza stessa. Per quanto riguarda l’edizione inglese, essa contiene invece già incorporata la variante di Buffalo, ma non riporta il dibattito. Cfr. M. Foucault, What is an Author?, in J.V. Harari (a cura di), Textual Strategies. Perspectives in Post-Structuralist Criticism, Cornell University Press, Ithaca 1979, pp. 141-160. 4 S. Beckett, Krapp’s Last Tape and Embers, Fabers, London 1959; trad. it. L’ultimo nastro di Krapp, in Teatro completo, Einaudi/Gallimard, Torino 1994, pp. 179-191. 5 R. Barthes, La mort de l’auteur, in Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984, p. 61; trad. it. La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988.


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cos’è un autore?», risulta, almeno apparentemente, meno provocatorio rispetto all’affermazione della morte dell’autore proclamata dal suo collega. Eppure, per molto tempo, con intento polemico o meno, i due testi sono stati assimilati, entrambi considerati come il riferimento di una presunta cultura letteraria postmoderna in rottura radicale con la tradizione degli studi umanistici. Oltre a ciò, a dispetto di colui che ha pronunciato il verdetto di morte già nel proprio titolo, il nome di Barthes, soprattutto negli ultimi tempi, sembra aver suscitato un minor sdegno, e molto meno di Foucault è stato identificato come principale responsabile del tracollo degli autori-scrittori; a tal proposito si può far notare, infatti, che gli articoli e i saggi polemici intorno alla figura dell’autore non citano quasi mai Barthes senza citare anche Foucault, mentre troviamo interventi – come quello appena menzionato di Banville – che hanno di mira solo ed esclusivamente Foucault, così considerato come il più accanito seppellitore della figura dell’autore. Si potrebbero poi individuare precursori ancora più remoti della presunta campagna foucaultiana: basti pensare ai formalisti russi, forse i veri iniziatori della teoria letteraria della morte dell’autore6; eppure nessuno dagli anni Ottanta in poi ha preso di mira Šklovskij attribuendogli questa pesante responsabilità. Perché dunque Foucault viene tuttora additato come il principale responsabile della sorte tragica del ruolo dell’autore nel pensiero contemporaneo? Cercare una risposta a tale domanda non significa semplicemente mettere Foucault al riparo dalle accuse, bensì provare a cogliere, innanzitutto, gli aspetti per i quali il suo discorso si è rivelato più dirompente agli occhi dei suoi interlocutori, quei momenti in cui, più o meno provocatoriamente, egli ha colpito i punti nevralgici all’interno di un campo di sapere come quello delimitato dagli studi umanistici, costantemente attraversato da movimenti di trasformazione che plasmano continuamente nuovi contorni e nuove regole. Come vedremo, molte delle critiche rivolte a Foucault poggiano su basi comuni, basi che toccano le stesse fondamenta della pratica dello scrivere, del ruolo e dello statuto di uno scrittore, e finanche, potremmo dire, dell’intellettuale. Cercheremo quindi di capire in che modo Foucault, attraverso le parole pronunciate in una conferenza di ormai quarant’anni fa, ha preparato il terreno per un dibattito ancora così vivo. V. Šklovskij, L’art comme procédé (1917), in T. Todorov (a cura di), Théorie de la littérature, Seuil, Paris 1965; trad. it. L’arte come procedimento, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Einaudi, Torino 1968. 6


162 Silvia Chiletti Diagnosi e profezia della morte dell’autore Come Foucault stesso anticipa in apertura della conferenza, l’analisi del concetto di autore è volta a chiarire e rispondere alle obiezioni mossegli in occasione di Le parole e le cose, opera di tre anni precedente, in cui il filosofo mette in atto una lettura storica delle forme della nostra cultura, utilizzando i nomi di certi autori in modo da suscitare le critiche da parte di diversi lettori. Nell’opera in questione, Foucault sposta deliberatamente l’attenzione rispetto alle determinazioni apportate dalle figure individuali dei singoli autori e delle singole opere, tradizionalmente concepiti come i momenti focali delle rotture e dei passaggi da un sapere a un altro, per concentrarsi sull’analisi dei discorsi, forme di sapere che attraversano il pensiero e le pratiche della nostra cultura, dotandosi di proprie regole di formazione dei concetti. Se l’operazione portata avanti ne Le parole e le cose è stata considerata come fortemente arbitraria da parte dei suoi critici, Foucault cerca ora di rispondere alle accuse mossegli mettendo in luce una serie di problemi che si riscontrano nel momento in cui si associa spontaneamente un’opera all’espressione volontaria di un soggetto individuale parlante o scrivente, così definito autore. Di fronte a questo problema egli propone di considerare l’idea fondamentale di una funzione-autore che si sostituisce all’autore come individuo, costituendo piuttosto un ruolo, una funzione classificatoria che permette di raggruppare un certo numero di testi e dare loro un determinato statuto, fornire un principio di unità e coerenza a certe forme discorsive attraverso l’individualità di chi le enuncia. Letta da questa prospettiva, la funzione-autore può esser definita, secondo le parole stesse di Foucault, come «un modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all’interno della società»7 e quindi come parte del metodo, definito archeologico, di analisi delle condizioni formali di pratiche discorsive specifiche. Considerata generalmente come «il punto forte dell’individualizzazione nella storia delle idee, delle conoscenze, delle letterature nonché nella storia della filosofia e in quella delle scienze»8, la nozione di autore è dunque in realtà molto più complessa e diversificata di quanto non appaia a prima vista. Una prima rapida considerazione basta infatti a far notare che i modi attraverso cui un testo si rapporta a colui che lo ha scritto possono essere diversi, a seconda sia delle epoche che delle forme discorsive di cui fa parte. A tal proposito, Foucault individua alcuni momenti fondamentali 7 8

M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 9. Ivi, p. 2.


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che hanno segnato dei mutamenti nella nozione d’autore: l’autore come individuo emerge, ad esempio, nel momento in cui si instaura un regime di proprietà per i testi, nel momento cioè in cui diventa necessario un referente giuridico cui la legge possa fare appello in caso di violazione di certe norme; contrariamente ai benefici che l’autore potrà in seguito trarre dalla propria produzione, nel momento della sua apparizione tale categoria è indissociabile dai rischi che essa comporta9. Oltre a questo aspetto, Foucault fa presente che lo statuto dell’autore varia storicamente a seconda delle tipologie discorsive: basti infatti considerare che, prima del XVIII secolo, il nome dell’autore era considerato come fondamentale per la circolazione dei discorsi scientifici in quanto garante del valore di verità dei propri contenuti, laddove, al contrario, i testi letterari circolavano perlopiù anonimamente. Dopo questa soglia temporale e sino più o meno all’epoca contemporanea, la situazione, spiega Foucault, si è pressoché ribaltata: il valore di un’opera letteraria ha cominciato a legarsi in maniera sempre più salda alla fama già consolidata del nome di colui che l’ha prodotta, mentre l’affermazione di una scoperta, una teoria o un’opera scientifica, viene giudicata valida e innovativa attraverso criteri che prescindono dalle caratteristiche individuali di chi l’ha portata a termine10. Un altro aspetto problematico della funzione-autore, continua Foucault, riguarda quei casi in cui al nome di un autore non si associa semplicemente la produzione dei testi da lui scritti ma anche una teoria, una tradizione o un’intera disciplina. Foucault si riferisce qui a quelli che lui stesso definisce fondatori (o instauratori) di discorsività, autori – quali ad esempio Freud e Marx, ma anche Omero, Aristotele, Ippocrate, Cuvier o Saussure – che si trovano in una posizione “transdiscorsiva”, a cavallo cioè tra forme discorsive differenti. La loro opera inaugura infatti un campo aperto di nuove possibilità discorsive, un campo indefinito di differenze, più che di analogie, di sviluppi successivi di un discorso non riducibili semplicemente al concetto di “influenza” teorica o intellettuale o di derivazione scientifica, al punto che l’opera dei cosiddetti fondatori si rivela come un termine di confronto costante per chi si colloca all’interno del campo da essi inaugurato. Anche in questo caso la figura del fondatore di discorsività, spiega Foucault, non coincide semplicemente con l’origine di un discorso: tale fondatore rappresenta piuttosto un nodo all’interno di una pratica discorsiva, la quale, a un Cfr. M. Woodmansee e P. Jaszi, The construction of authorship. Textual appropriation in law and literature, Duke University Press, Durham–London 1994. 10 Cfr. M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., pp. 14-19. Cfr. anche F. Grossmann, L’auteur scientifique. Des rhétoriques aux épistémologies, in «Revue d’anthropologie des connaissances», vol. 4 (2010), n. 3, pp. 410-426. 9


164 Silvia Chiletti certo momento storico, muta nei propri presupposti al punto da confluire negli enunciati di una soggettività cui convenzionalmente si riconosce un ruolo di rottura, di innovazione o di scoperta11. In questo senso, la figura del fondatore di discorsività non è altro che il luogo d’apertura di una serie di sviluppi discorsivi che sopravanzano continuamente la presunta origine che si individua in un autore. Se dunque l’obiettivo principale della conferenza consiste nel fare il punto su un aspetto del lavoro archeologico rispetto alla problematicità della nozione, ciò non toglie che l’intervento di Foucault, come egli stesso suggerisce, possa essere considerato sotto un’altra chiave di lettura. Le parole di Foucault suggeriscono infatti, in determinati momenti della conferenza, una sorta di diagnosi sul presente della letteratura, o più in generale della scrittura, intesa come l’insieme indefinito dei generi e delle discipline che hanno come principio della propria pratica «l’atto puro di scrivere»12. Qui Foucault incontra la tendenza critica propria della letteratura a lui contemporanea, in aperta rottura rispetto all’Ottocento: laddove si studiava un’opera letteraria per scoprire il volto nascosto dell’autore, la sua individualità concreta e psicologica, nella letteratura contemporanea si è fatta spazio in maniera sempre più prorompente l’idea che un’opera non coincida con la forma di espressione di una soggettività particolare, bensì consista nell’«apertura di uno spazio in cui il soggetto scrivente non cess[a] di sparire»13. Di qui la parentela tra la scrittura e la morte, attraverso una pratica dello scrivere intesa come esperienza di pensiero che si costituisce nel suo rapporto con l’impensato, un pensiero del fuori14 in cui lo scrittore si In questa prospettiva, la nozione di fondatore di discorsività è particolarmente feconda per la storia delle scienze umane; si veda ad esempio la riflessione che Foucault svolge intorno alla figura di Cuvier in La situation de Cuvier dans l’histoire de la biologie, in Dits et écrits I, cit., pp. 898-934. Per uno studio più recente che affronta tale questione metodologica in modo interessante, si veda anche J. Carroy e N. Richard, La découverte et ses récits en sciences humaines : Champollion, Freud et les autres, L’Harmattan, Paris 1998. 12 Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; trad. it Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1998 (1967), p. 324. 13 M. Foucault, Che cos’è un autore, cit., p. 3. 14 È questo il titolo dell’articolo di Foucault consacrato all’opera di Blanchot, comparso sulla rivista «Critique» nel 1966. Cfr. La pensée du dehors, in Dits et écrits I, cit., pp. 546-567. Foucault tratta del tema della morte in relazione alla scrittura in un’intervista del 1968, incentrata proprio sulla pratica dello scrivere. Cfr. M. Foucault, Le beau danger. Entretien avec Claude Bonnefoy, Editions EHESS, Paris 2012, pp. 36 e ss. Sul rapporto tra Foucault e Blanchot si veda J.F. Favreau, Vertige de l’écriture. Michel Foucault et la littérature (1954-1970), ENS Éditions, Paris 2012, pp. 201-251. 11


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fonde completamente con l’essere denso del linguaggio, sino a scomparire in esso e nello spazio da esso aperto. Forte del riferimento costante a Maurice Blanchot, Foucault rileva così come lo scrivere, inteso come il luogo trasgressivo in cui il parlare intransitivo può essere sperimentato, comporti inevitabilmente la morte dell’autore, il sacrificio dei caratteri individuali del soggetto scrivente di fronte al dispiegarsi anonimo dell’«essere selvaggio e imperioso delle parole»15. Il tema, che resta sullo sfondo durante tutta la conferenza, riemerge vigorosamente in conclusione della stessa, quando Foucault esprime una sorta di profezia sul futuro della funzione-autore, supponendo che, in balìa delle trasformazioni storiche che hanno avuto luogo, essa possa mutare nella propria forma, complessità e finanche nella propria esistenza, sino a scomparire lasciando spazio alla pura circolazione delle parole in tutta la loro densità. La conferenza si chiude così con la stessa domanda inaugurale, «Che importa chi parla?», la quale rivelerebbe la fine del privilegio della soggettività come fondamento originario dell’enunciazione discorsiva, a vantaggio di un’analisi che si interroga piuttosto sulle forme che la soggettività può assumere all’interno della variabile complessità dei discorsi. Un tale scenario rivelerebbe la materialità propria della parola discorsiva nella sua contingenza storica, le caratteristiche di un gesto evenemenziale che non può essere esaurito né dalla lingua con cui si esprime, né dal senso espresso. Certamente, a facilitare il congedo dalla centralità imperante dell’autore e dalle interpretazioni in termini di soggettività come interiorità nascosta, interviene il discorso già consolidato dello strutturalismo, rispetto cui Foucault non è di certo estraneo. La critica letteraria di matrice strutturalista ruota infatti intorno all’idea di intransitività della letteratura, principio che postula l’assenza di un senso originario di cui l’intenzione dell’autore sarebbe la fonte, per dare spazio al proliferare di un linguaggio infinito, del quale la letteratura rinnova eternamente il commento. Il tema della sparizione dell’autore nella pratica della scrittura riecheggia dunque indubbiamente alcune delle riflessioni di Roland Barthes intorno a La mort de l’auteur. L’accostamento tra i due pensatori non è di certo illecito se si considera la vicinanza intellettuale che li accomuna, in particolar modo negli anni Sessanta, avendo entrambi, tra l’altro, collaborato attivamente alla rivista letteraria «Tel Quel»16. L’attenzione al linguaggio e ai suoi poteri è d’altronde un aspetto che accomuna la riflessione di Foucault alla linguistica strutturalista, cui Barthes fa riferimento nel proprio saggio. Se Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 324. Cfr. P. Maniglier (a cura di), Le moment philosophique des années 1960 en France, PUF, Paris 2011. 15 16


166 Silvia Chiletti è dunque indubbio che vi sia un terreno comune al pensiero foucaultiano e barthesiano, è altrettanto inevitabile istituire una parentela, per lo meno semantica, tra la morte dell’autore annunciata da Barthes e la morte dell’uomo, segnalata due anni prima da Foucault ne Le parole e le cose, la cui eco risuona nelle parole pronunciate da Foucault nella riflessione sulla figura dell’autore. Per Barthes, così come per Foucault, soggetto e autore incontrano un destino comune nel pensiero contemporaneo: l’annullamento della propria capacità costituente e significante, da cui deriva il rifiuto dell’analisi e della spiegazione di un’opera a partire da colui che l’ha prodotta, dal riferimento alla sua psicologia, individualità o biografia. L’articolo di Barthes ha una portata storica indubbiamente importante, principalmente legata al contesto culturale degli anni Sessanta. Esso può senza dubbio essere letto come una sorta di manifesto della Nouvelle critique facente eco agli eventi del ‘68 e all’imponente affermazione delle teorie strutturaliste negli studi di linguistica e di letteratura17. L’annuncio della morte dell’autore, secondo Barthes, costituisce infatti il gesto affermativo della costituzione della teoria letteraria come disciplina autonoma, in particolar modo autonoma dalla storia e dalla psicologia, provvista di un oggetto di studio singolare e specifico: il testo. Se la nascita dell’autore, secondo Barthes, è un fenomeno concomitante alla scoperta dell’individuo nell’epoca moderna, l’età contemporanea, caratterizzata dalla messa in discussione della soggettività e del carattere antropologico delle scienze, ha invece prodotto un discorso letterario di cui gli autori, in quanto individui, non sono i principali artefici. In particolare, la linguistica ha mostrato come la figura dell’autore non sia altro che un punto vuoto che lascia trasparire il linguaggio: L’énonciation dans son entier est un processus vide, qui fonctionne parfaitement sans qu’il soit nécessaire de le remplir par la personne des interlocuteurs : linguistiquement, l’auteur n’est jamais rien de plus que celui qui écrit, tout comme je n’est autre que celui qui dit je : le langage connait un «sujet», non une «personne»18.

L’autore, secondo Barthes, viene dunque sostituito dallo scripteur, cioè il copista, il cui solo potere è quello di «mêler les écritures, de les contrarier les unes par les autres, de façon à ne jamais prendre appui sur l’une d’elles»19. Per un’analisi più approfondita del testo di Barthes, cfr. A. Brunn, L’auteur, Flammarion, Paris 2001, pp. 152-157. 18 R. Barthes, La mort de l’auteur, cit., p. 63. 19 Ivi, p. 65. 17


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L’idea, molto forte in Barthes, della riduzione dell’autore alla semplice figura di colui che scrive, sembra in effetti riproporsi nell’immagine tratteggiata da Foucault all’inizio della conferenza, quando questi evoca l’annullamento del soggetto all’interno della pratica della scrittura20. Diversamente dal testo di Barthes, tuttavia, la conferenza di Foucault non può essere considerata né come un manifesto né come l’annuncio di una nuova teoria o corrente di pensiero, capace di delimitare un campo di studi già esistenti. Come egli stesso puntualizza a più riprese, la riflessione sulla nozione d’autore, lungi dal fondare una teoria interpretativa del testo, intende piuttosto suggerire delle direzioni di lavoro, aprire cioè uno spazio per un nuovo ambito di riflessione critica, sondandone le condizioni di possibilità. In tal senso, molto probabilmente, si può cominciare a comprendere come mai l’eco delle parole di Foucault risuoni soprattutto a distanza dal momento in cui vennero pronunciate. Il riferimento esplicito all’analisi delle pratiche discorsive, la quale non coincide semplicemente con l’applicazione della linguistica agli altri ambiti del sapere umano, impone inoltre un’ulteriore presa di distanza rispetto alla posizione di Barthes o dello strutturalismo. L’anno in cui la conferenza viene pronunciata, il 1969, ci rimanda infatti direttamente alle problematiche affrontate ampiamente ne L’archeologia del sapere, opera che, da un lato, mira a chiarire alcuni assunti metodologici de Le parole e le cose, e dall’altro mette a punto un arsenale di concetti che rompe nettamente con le ricerche portate avanti durante gli anni Sessanta e, nello specifico, con le riflessioni intorno al linguaggio e la letteratura. Non è un caso, dunque, che il riferimento all’autore appaia nel momento in cui l’interesse per il linguaggio viene sostituito da quello per il discorso, ovvero per le pratiche di circolazione e di appropriazione del sapere; la scelta di tale nozione, ad ogni modo, segna se non altro un distacco esplicito dalla chiave di lettura strutturalista, così come dal riferimento alla linguistica, centrale invece nelle considerazioni di Barthes21. Lo scopo della conferenza di Foucault, così come lui stesso si preoccupa di sottolineare, non è dunque tanto proclamare la morte dell’autore, bensì interrogarsi sul processo della sua scomparsa, o meglio ancora individuare le possibilità analitiche che si dispiegano attraverso le forme Nell’intervista con Claude Bonnefoy, Foucault riprende proprio la distinzione di Barthes tra écrivain e scripteur (o écrivant), per collocare se stesso all’interno della seconda categoria. Cfr. M. Foucault, Le beau danger, cit., pp. 59-60. 21 «Les linguistes, je le sais bien, ont découvert que le langage, c’était très important parce qu’il obéissait à des lois, mais ils ont surtout insisté sur la structure de la langue, c’est-à-dire sur la structure du discours possible. Mais ce sur quoi je m’interroge, c’est sur le mode d’apparition et de fonctionnement du discours réel, sur les choses qui ont été effectivement dites»; M. Foucault, Le beau danger, cit., pp. 34-35. 20


168 Silvia Chiletti discorsive che rientrano nella categoria della funzione-autore, sostituendosi all’autore-individuo: Ma evidentemente non basta ripetere, come affermazione vuota, che l’autore è scomparso. Ugualmente non basta ripetere indefinitamente che Dio e l’uomo sono morti d’una morte comune. Bisognerebbe invece individuare lo spazio lasciato vuoto dall’autore scomparso, seguire con lo sguardo la ripartizione delle lacune e delle crepe e scrutare i luoghi e le funzioni liberi che tale scomparsa ha reso visibili22.

Molto diverso, infine, è il ruolo svolto dalla storicità della nozione stessa di autore. Secondo Barthes, la storia della figura dell’autore conoscerebbe infatti un percorso a parabola: l’autore nascerebbe come fenomeno concomitante alla scoperta dell’individuo nell’epoca moderna e conoscerebbe il proprio apogeo nell’Ottocento e in particolare nel positivismo, quale trionfo dell’individualismo del pensiero occidentale, in concomitanza con il quale, come per una sorta di declino della parabola, si collocherebbe la nascita della letteratura. Il momento finale della parabola consisterebbe poi, nella storia tratteggiata da Barthes, con la letteratura contemporanea, e in particolare con la nascita degli studi di linguistica, la quale avrebbe portato alla morte della soggettività scrivente e dell’individuo autore. La morte dell’autore è dunque, secondo Barthes, una sorta di svelamento finale, l’evento che si compie al termine di un percorso lineare organizzato teleologicamente intorno al presente e alle recenti scoperte delle scienze del linguaggio, che costituiscono la struttura portante della critica letteraria contemporanea. La storia della nozione di autore, secondo Foucault, è invece ben lontana dall’essere una storia lineare. Innanzitutto essa tiene conto, come si è visto, delle differenze che si riscontrano nelle diverse tipologie discorsive, ragion per cui la sparizione, o la morte, dell’autore sarebbe propria solamente di una certa modalità contemporanea dello scrivere e non di un approccio totalizzante della critica letteraria. Foucault guarda al proprio presente leggendolo certamente come il prodotto delle condizioni poste dal passato; tuttavia, egli rifiuta di considerarlo come il termine finale di una successione evolutiva fatta di scoperte e declini23. Si tratta piuttosto M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 6. In questo senso, la storia della nozione di autore riflette la concezione generale della storia (e dell’archeologia) secondo Foucault. Si vedano M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Dits et écrits I, cit., pp. 1004-1024 e M. Potte-Bonneville, Michel Foucault, l’inquiétude de l’histoire, PUF, Paris 2004. 22 23


Retenons donc nos larmes 169

di una storia, potremmo dire, materiale del concetto di autore, in opposizione a una storia intellettuale, come quella delineata da Barthes: più che procedere in associazione quasi parallela al cammino intellettuale di una soggettività ideale, il concetto di autore, secondo Foucault, è determinato in modo variabile dalle condizioni e dalle regole impersonali di circolazione dei discorsi. Per Foucault, quindi, la sparizione dell’autore non è un evento finale, consolidato e totalizzante, ma una sorta di episodio frammentario posto entro condizioni di possibilità strettamente legate alla posizione di una certa pratica della scrittura all’interno del sapere contemporaneo; una scrittura intesa non tanto come il luogo di un’espressione estetica, bensì, secondo un tema caro al Foucault degli anni Sessanta, come spazio di trasgressione, esperienza di sovvertimento delle condizioni di enunciazione del pensiero, «un gioco che oltrepassa infallibilmente le proprie regole, passando così all’esterno»24. In questo senso Foucault immagina, e in un certo senso profetizza, l’esistenza di una modalità discorsiva in cui la funzione-autore possa essere assente. Attraverso tale diagnosi sulla pratica dello scrivere, Foucault si pone come in sospeso tra l’attualità che sta constatando e che lo ingloba e un’altra epoca di cui si preannunciano i tratti, facendo così del presente non il momento statico di una teleologia giunta al suo capolinea, ma una sorta di processo in continuo cambiamento, un episodio sottoposto a un’interrogazione e una storicizzazione costanti. La provocazione del gesto foucaultiano potrebbe stare dunque innanzitutto nell’aver aperto un nuovo campo di studio, nell’essersi posto come fondatore di una discorsività nuova, attraverso una sorta di mise en abyme del suo stesso discorso: un discorso costituito da indefinite possibilità di applicazione e, allo stesso tempo, da un numero indefinito di differenze, anche sotto forma della critica, rispetto alla propria parola iniziale. L’ordine dell’autore Sino ad ora abbiamo provato a fare ulteriore luce sul testo della conferenza foucaultiana Qu’est-ce qu’un auteur ?, così come sul contesto da cui prende le mosse, ivi incluso l’articolo La mort de l’auteur di Roland Barthes, da cui ciononostante Foucault si discosta in maniera piuttosto netta sia nei propositi che nei contenuti. Proveremo ora a sviluppare la nostra riflessione entrando nel vivo delle diverse critiche suscitate dal testo, in parti24

M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 3.


170 Silvia Chiletti colare concentrandoci sulla domanda «Che importa chi parla?», che apre e chiude la conferenza, costituendo dunque uno dei principali leitmotiv della riflessione foucaultiana. Il gesto sotteso dalla domanda che Foucault riprende da Beckett si dichiara sin da subito provocatorio, lasciando supporre che la questione dell’autore non sia neutrale dal punto di vista di una politica del sapere, ovvero del ruolo e dell’autorità degli scrittori così come dello statuto della pratica dello scrivere all’interno della società contemporanea. Foucault stesso, sin dalle prime battute della conferenza, sembra infatti spostare i termini della discussione da un mero approccio teorico verso un ambito pratico, nel momento in cui puntualizza che proprio l’indifferenza nei confronti di colui che sta parlando costituisce il principio etico, forse il più fondamentale, della scrittura contemporanea25. È proprio questo passaggio cruciale ad aver suscitato la reazione sdegnata di molti critici, tra cui lo stesso John Banville, che interpretano tali parole come l’affermazione dell’autonomia e della separazione totale dello scrittore rispetto alla propria produzione, con la conseguente negazione dell’autorità e della responsabilità dell’autore sui propri scritti. Foucault promuoverebbe, secondo questi lettori, un’etica dell’indifferenza nei confronti dell’autore, con tutte le conseguenze e i connotati morali e politici che il termine “indifferenza” comporta. Una delle critiche più severe connotate in questo senso viene mossa da Seàn Burke, critico letterario britannico, nella sua fortunata opera The Death and the Return of the Author. Criticism and Subjectivity in Barthes, Foucault and Derrida, pubblicata per la prima volta nel 1992. Le accuse di Burke si rivolgono specialmente alla categoria foucaultiana di fondatore di discorsività, quale esempio lampante della fallacia del tentativo di Foucault di eliminare la rilevanza della figura autoriale: essa mostrerebbe, infatti, come il progetto foucaultiano secondo cui l’anonimato del discorso occuperebbe un posto primario rispetto alla singolarità dell’individuo autore sia destinato allo scacco, se posto di fronte a questi «grandi nomi» cui Foucault stesso allude. Inoltre, l’avere indicato proprio due figure chiave del sapere contemporaneo quali Freud e Marx, come esempio della categoria foucaultiana dei fondatori di discorsività, mostrerebbe come, per una sorta di cavallo di Troia, la singolarità dell’autore riemerga in maniera ancor più vigorosa all’insaputa del lettore, sotto la forma dell’ideologia mascherata dall’apparente anonimato del discorso. La critica di Burke considera la riflessione foucaultiana come una visione metafisica che riarticola i termini 25

Ibidem.


Retenons donc nos larmes 171

e la posizione della soggettività rappresentata dall’individuo scrivente e dell’universale identificato con il discorso; a partire da tale presupposto, Burke deduce che il principio della responsabilità dello scrittore, non più metafisico bensì pratico-morale, nei confronti dei propri testi, sarebbe brutalmente negato da Foucault nel momento in cui afferma la sovranità dell’anonimato del discorso e l’indifferenza verso colui che parla. La responsabilità dell’individuo autore deve invece, secondo Burke, essere posta nuovamente al centro dell’attenzione della critica, dal momento che un testo comporta necessariamente un’autorità di cui qualcuno deve farsi carico: ricostruire i tratti dell’autore, della sua opera e della soggettività diventa fondamentale proprio all’interno di una pratica di anti-autoritarismo, di smascheramento dell’ideologia che si cela dietro l’apparente anonimato dei testi26. Molto simile è la critica mossa più recentemente da Adrien Wilson, storico della scienza e teorico della letteratura – già autore di una polemica antifoucaultiana a proposito di Nascita della clinica27 – il quale riprende diversi punti del testo di Seàn Burke al fine di dimostrare l’incoerenza e l’intenibilità della posizione che Foucault esprime nella conferenza. Contro quella che egli definisce la teoria foucaultiana dell’autore, Wilson, in modo consonante alla critica di Burke, attacca principalmente il concetto foucaultiano di discorso, categoria trascendentale che ipostatizzerebbe arbitrariamente l’annullamento dell’individualità dell’autore e l’anonimato che ne deriva28. Nell’interpretazione data da Wilson, Foucault, tramite la sua nozione di funzione-autore, avrebbe infatti reso la figura dell’autore un puro costrutto interpretativo operato dal lettore, un’entità costruita distinta dall’individuo storico-empirico che ha, effettivamente e materialmente, scritto un’opera o un testo29. Così facendo, egli avrebbe dunque cancellato l’individualità dell’autore trasformandolo da un «chi?» – verso cui il filosofo riserva la propria indifferenza – a un «che?» – il «che?» del titolo della stessa conferenza e dell’impersonalità del discorso incarnato dalla funzione-autore –, dimenticando tuttavia che nell’approccio comune ai testi non è possibile non fare i conti con gli autori in quanto individui, portatori di una singolarità e di un nome proprio, dal momento che «it is precisely as a person that the authorS. Burke, The Death and Return of the Author, cit., pp. 78-89. Cfr. A. Wilson, Porter versus Foucault on the “Birth of the Clinic”, in R. Bivins e J. Pickstone (a cura di), Medicine, Madness and Social History. Essays in Honour of Roy Porter, Palgrave Macmillan, London 2007, pp. 25-35. 28 Si veda anche la critica di Burke in The Death and Return of the Author, cit., pp. 89 e ss. 29 A. Wilson, Foucault on the “Question of the Author”, cit., p. 350. 26

27


172 Silvia Chiletti figure is constructed»30. D’altronde, sostengono sia Wilson che Burke, la stessa conferenza foucaultiana è densa di rimandi ai nomi di autori importanti, tra cui, oltre ai già citati Freud e Marx, figura anche il nome di Beckett, senza il riferimento al quale la famigerata frase «Che importa chi parla?» non sortirebbe di certo lo stesso effetto. Se considerassimo la conferenza Qu’est-ce qu’un auteur ? come l’esposizione di una teoria dell’autore, fondata sul principio metafisico della sovranità del discorso anonimo rispetto alla soggettività individuale, in effetti ci troveremmo di fronte all’opposizione che vede, da un lato, una forma di analisi riservata a certe tipologie d’autore, i fondatori di discorsività come Freud e Marx, e dall’altro lato invece l’affermazione ambigua e apparentemente contraddittoria dell’indifferenza verso colui che scrive. Sarebbe tuttavia una forzatura interpretare la conferenza come l’esposizione di una teoria, e a maggior ragione una teoria metafisica, di cui i diversi esempi citati non sarebbero altro che applicazioni dirette o corollari. Come si è detto in precedenza, infatti, la conferenza è costituita da un insieme di spunti e riflessioni metodologiche che si sviluppano intorno a due tematiche fondamentali che, per quanto legate fra loro, non rappresentano l’enunciazione esaustiva di una vera e propria teoria, o di un sistema metafisico, quanto una serie di direzioni di lavoro, o percorsi d’analisi, riferiti a diversi ambiti delle forme del sapere. Questo aspetto è sicuramente la fonte principale dei fraintendimenti suscitati nei lettori della conferenza, dal momento che i due temi principali, da un lato la riflessione sul ruolo della scrittura come pratica, dall’altro lato il ruolo del soggetto individuale nell’analisi delle forme discorsive, non sono esattamente sovrapponibili. Tuttavia, più che ricostruire la coerenza interna del discorso foucaultiano nel passaggio dallo studio del linguaggio e della scrittura a quello del discorso, è utile cercare di tratteggiare qualche filo conduttore, alcune poste in gioco comuni ad entrambi gli ambiti31. Ritorniamo dunque al contenuto principale della critica, ovvero a quanto concerne la presunta indifferenza verso gli scrittori che Foucault difenderebbe. A tal proposito, è bene ricordare che Foucault stesso, subito dopo aver affermato che l’indifferenza è il principio etico fondamentale Ivi, pp. 358-360. La stessa critica viene mossa anche da Banville: «Per Foucault, come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la risposta alla domanda di Beckett non è tanto un chi bensì un cosa» (Noi scrittori uccisi da Foucault, cit., p. 42). 31 In questo senso opera anche la lettura di Judith Revel, che individua una linea di continuità tra gli scritti foucaultiani degli anni Sessanta sulla letteratura e le riflessioni portate avanti negli anni Settanta intorno al binomio sapere/potere. Cfr. J. Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifestolibri, Roma 1996. 30


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della scrittura contemporanea, chiarisce il senso della parola etico da lui utilizzata. Tale termine designerebbe non tanto il «tratto che caratterizza la maniera di parlare o scrivere, quanto piuttosto una sorta di regola immanente, sempre ripresa e mai applicata del tutto, ma che la domina come prassi»32; non tanto quindi la relazione che l’individuo intrattiene con la propria opera, bensì la modalità stessa con cui lo scrittore considera se stesso nel gesto e nella pratica dello scrivere. Dato questo primo chiarimento, possiamo provvisoriamente escludere che Foucault intenda affermare l’irresponsabilità o la separazione totale dell’autore rispetto al proprio testo: al contrario, egli indica qui, senza dubbio aderendovi, un principio pratico secondo il quale, in un frammento storico-culturale quale è quello della scrittura contemporanea, in cui la circolazione dei libri e dei testi è strettamente legata al nome dei loro autori, colui che scrive miri ad annullare la propria individualità nella materialità della parola scritta. Per comprendere meglio tale proposito, si consideri la breve variante introdotta l’anno successivo a Buffalo, negli Stati Uniti, in cui Foucault affronta la questione dello statuto “ideologico” dell’autore, vera e propria funzione votata a scongiurare la proliferazione infinita dei significati dei testi. L’autore, in questo senso, non sarebbe altro che un principio di rarefazione (secondo la terminologia già usata da Foucault nei contributi più o meno coevi) e di controllo nell’enunciazione del discorso. L’auteur rend possible une limitation de la prolifération cancérisante, dangéreuse des significations dans le monde où l’on est économe non seulement de ses ressources et richesses, mais de ses propres discours et de leurs significations. L’auteur est le principe d’économie dans la prolifération du sens33.

Si tratta di tematiche facilmente riagganciabili alle questioni poste all’interno de L’archeologia del sapere, opera coeva alla conferenza, in cui Foucault si interroga sui princìpi di rarefazione discorsiva che fanno sì che, all’interno di un campo aperto dalle possibilità enunciative di una lingua, solo alcuni enunciati abbiano avuto effettivamente luogo34. La questione M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 3. M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, cit., p. 839. 34 «Si studiano gli enunciati nel limite che li separa da ciò che non viene detto, nell’istanza che li fa nascere ad esclusione di tutti gli altri» (M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 160). Da notare che, nell’opera qui in questione, Foucault individua come principio di rarefazione discorsiva proprio la modalità enunciativa espressa attraverso la soggettività, ovvero la domanda, che riecheggia le questioni nietzscheane poste nella Genealogia della morale, sul 32 33


174 Silvia Chiletti della soggettività enunciante, ovvero della figura individuale dell’autore, rivelerebbe proprio quel principio di economia che lega la parola a rapporti di potere e di controllo sulla circolazione discorsiva. In termini ancora più espliciti, nella lezione inaugurale al Collège de France, Foucault arriva a paragonare la scrittura a una forma di assoggettamento, attività la cui regola immanente di comportamento è quella dell’interpretazione, del porre argine al senso, impedendo alla dimensione aleatoria del discorso di dispiegarsi. Proprio l’autore, «considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato e scritto un testo, ma bensì l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, fulcro della loro coerenza»35, costituisce una delle forme più comuni di tale assoggettamento del discorso. In questo senso, sempre nella variante della conferenza pronunciata a Buffalo, Foucault arriva a immaginare, in un modo che egli stesso definisce puramente romantico, una cultura in cui i discorsi possano circolare liberamente senza l’attribuzione a una figura individuale che risulti in qualche modo vincolante36. Tale immagine, per quanto romantica, è presente nei diversi momenti della variegata produzione foucaultiana in cui il filosofo esprime un interesse particolare nei confronti dell’anonimato della scrittura. Basti pensare alla celebre frase che chiude l’introduzione all’Archeologia del Sapere: «più d’uno, come faccio io senz’altro, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere»37. O ancora all’esordio della lezione inaugurale al Collège de France, quando Foucault annuncia al proprio pubblico il desiderio di lasciarsi avvolgere dalla parola, piuttosto che di prendere la parola, lasciando parlare «una voce senza nome [che] mi precedeva da tempo»38. In maniera ancora più esplicita, possiamo poi leggere un’intervista comparsa su «Le Monde» nel 1979, la quale, sotto condizione posta da Foucault stesso, viene pubblicata anonima: Chi parla?: «Chi – si chiede Foucault –, nell’insieme di tutti gli individui che parlano, è autorizzato a tenere questo tipo di linguaggio? Chi ne è titolare? Chi riceve da esso la sua singolarità, il suo prestigio, e chi da esso a sua volta riceve in cambio se non la sua garanzia, per lo meno la sua presunzione di verità?» (M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 68). Per quanto riguarda la domanda nietzscheana, si veda altresì M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, in Dits et écrits I, cit., pp. 592-607, in particolare pp. 601-602. 35 M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972, p. 14. 36 M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, cit., p. 839. 37 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 25. 38 M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 4.


Retenons donc nos larmes 175 C’est une manière de m’adresser plus directement au lecteur – spiega Foucault – le seul personnage ici qui m’intéresse : puisque tu ne sais pas qui je suis, tu n’auras pas la tentation de chercher les raisons pour lesquelles je dis ce que tu lis ; laisse toi aller à te dire tout simplement : c’est vrai, c’est faux. Ça me plaît, ça ne me plaît pas. Un point, c’est tout39.

Nella stessa intervista, Foucault propone poi come una sorta di gioco la possibilità che «pendant un an, on éditerait des livres sans nom d’auteur», possibilità cui allude nuovamente in un’altra intervista del 1984, in cui esprime l’augurio di vedere istituita una legge sulla stampa che sancisca «la prohibition d’utiliser deux fois le nom de l’auteur, avec en plus le droit à l’anonymat et au pseudonyme, pour que chaque livre soit lu pour lui-même»40. È dunque alla luce della concezione della scrittura come assoggettamento che possiamo meglio capire cosa intenda Foucault a proposito dell’indifferenza nei confronti dell’autore: essa rappresenterebbe un gesto di liberazione dalle leggi costrittive della parola normativa, dalle condizioni di enunciazione proprie della nostra episteme, nell’ottica di una libera circolazione dei significati dei testi, delle modalità di comprensione, interpretazione e azione. La pratica dell’anonimato, o anche dello pseudonimo, che Foucault cita e utilizza in diversi momenti del suo prendere la parola, non costituisce quindi un rifiuto a identificarsi con il proprio testo, bensì il rifiuto di identificare la propria opera al nome già noto dell’autore “Michel Foucault”, con tutte le conseguenze – anche di risonanza mediatica e sociale – che ne derivano, al fine di una trasmissione diretta delle idee e delle parole, che arriverebbero al lettore senza il filtro di potere rappresentato dall’individualità di chi scrive. In tal modo, inoltre, Foucault mette esplicitamente in discussione la pratica stessa della scrittura, mostrando come le caratteristiche di autonomia e trasgressività che le sono riconosciute non siano altro che il prodotto di una contingenza storica e delle trasformazioni delle regole discorsive. Proprio questo aspetto, molto probabilmente, può risultare particolarmente inviso agli scrittori, in quanto fa traballare la figura dell’autore nella sua posizione stabilita nel presente del sistema del sapere, nel suo ruolo garantito, riconosciuto e giustificato rispetto al resto della società intellettuale e non41. M. Foucault, Le philosophe masqué, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 923-929, p. 925. 40 M. Foucault, Une esthétique de l’existence, in Dits et écrits II, cit., p. 1554. 41 Foucault affronta più direttamente questo argomento rispetto alla letteratura in un’intervista svoltasi a Tokyo nel 1970. Cfr. M. Foucault, Folie, littérature et société, in Dits et écrits I, cit., pp. 975 e ss. 39


176 Silvia Chiletti La domanda provocatoria «Che importa chi parla?», così come l’idea di un mondo senza autori, ovvero senza i vincoli del potere che ora delimitano la pratica della scrittura, non condurrebbe dunque ad affermare un’etica dell’indifferenza, bensì ad immaginare costantemente una pratica di resistenza alla parola normativa, nel tentativo incessante di aggirare o resistere al potere associato alla presa di parola e alla scrittura. Foucault, quindi, non elimina la questione della soggettività scrivente, ma propone di considerarla sotto una nuova angolazione, quella di un interrogativo costante dei rapporti tra il soggetto e le posizioni discorsive da cui questi prende la parola42. La questione del rapporto tra l’individuo e la propria opera non verrebbe eliminata bensì riscritta: la pratica dell’anonimato porterebbe l’individuo a coincidere con la propria opera e a far coincidere la stessa attività dello scrivere con il gesto trasgressivo e dirompente dell’irruzione dello spessore della parola all’interno della catena dei discorsi. Se dobbiamo quindi ora provare a rispondere alla domanda iniziale che ci siamo posti, intorno alle ragioni per cui alla figura di Michel Foucault sia stata attribuita, in modo particolare negli ultimi anni, la responsabilità principale nell’aver contribuito alla morte degli autori, le ipotesi conclusive possono essere diverse, e non certo esaustive. In primo luogo, si può riflettere su come la conferenza foucaultiana abbia fornito innumerevoli spunti per un’ampia serie di lavori pluridisciplinari che si collocano sotto il suo segno, studi effettuati soprattutto in ambito anglosassone laddove, non a caso, hanno origine anche le critiche più efferate mosse a Foucault43. In questo senso, Foucault è stato, per utilizzare una categoria da lui stesso coniata, il fondatore di una nuova discorsività intorno alla figura dell’autore e in tal senso il suo nome riverbera ben al di là dei semplici contenuti dei suoi testi, continuando ad essere al centro di riprese e polemiche. Si è visto inoltre come le parole di Foucault, che apparentemente si limitano a un interrogativo intorno al ruolo e alla categoria dell’autore, Cfr. J. Oksala, From the Death of the Author to the Freedom of Language. Foucault on Literature, in «Acta Philosophica Fennica», n. 79 (2006), pp. 191-201, pp. 198-199. 43 I lavori che si ispirano alla concezione foucaultiana dell’autore sono moltissimi e attraversano diversi campi disciplinari. Ne cito dunque solo alcuni a titolo di esempio: J. Caughie, Theories of Authorship, Routledge, London 1981; M. Biriotti e N. Miller, What is an Author?, Manchester University Press, Manchester 1993; C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura cancellata, Feltrinelli, Milano 1999; N. Jacques-Lefèvre e F. Regard (a cura di), Une histoire de la « fonction-auteur » est-elle possible?, Publications de l’Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 2001. 42


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abbiano in realtà una portata alquanto dirompente. Il principale gesto provocatorio messo in atto da Foucault sta nell’aver legato indissolubilmente la parola scritta, e in generale il sistema del sapere – tradizionalmente concepito come separato e contrapposto alla sfera del potere –, a meccanismi di controllo che le sono propri, meccanismi propri delle relazioni di potere che Foucault studierà più nel dettaglio negli anni successivi, ma che già trovano una prima definizione nello studio delle formazioni discorsive. Di converso, e in modo altrettanto provocatorio, tale gesto non fa altro che porre al vaglio della critica l’idea che la presa di parola da parte di un autore possa avere un valore, o un interesse, all’interno della nostra cultura, a prescindere da un interrogativo costante sulla stessa pratica dello scrivere. Il gesto di Foucault è un gesto che egli stesso, in un altro momento, definirà dissacrante: pur riconoscendo la scrittura come possibile ambito per un’esperienza della trasgressione, egli ne contesta la dimensione di quasi sacralità che le viene attribuita dalla nostra cultura, dal momento che impone a tale pratica l’imperativo della riflessione costante e dell’analisi discorsiva del proprio presente44. In tal senso si può leggere anche la personale diffidenza che Foucault ha sempre dimostrato nell’identificarsi con la figura dell’intellettuale engagé in voga negli anni Sessanta, proponendosi invece di ripensare i rapporti tra lo studioso, o il filosofo, e la presa di parola pubblica, anche attraverso la scrittura45. «Retenons donc nos larmes»: così Foucault commenta, durante il dibattito che segue la conferenza, le proprie affermazioni sulla morte dell’uomo e dell’autore, consapevole delle reazioni che hanno potuto e che possono suscitare. Più che decretare la morte degli scrittori, Foucault lascia dunque loro un compito alquanto gravoso, proprio quel compito che sembrerebbe non appartenere al campo apparentemente autonomo e protetto della scrittura: il compito di interrogarsi costantemente sul presente delle proprie condizioni discorsive e sui rapporti che la pratica dello scrivere intrattiene con esso. Silvia Chiletti Centre Alexandre Koyré - Histoire des sciences et des techniques, Paris s.chiletti@gmail.com

M. Foucault, Le beau danger, cit., p. 28. Su questo aspetto si veda l’introduzione di Philippe Artières, Faire l’expérience de la parole, in M. Foucault, Le beau danger, cit., pp. 7-22. 44 45


178 Silvia Chiletti

. Retenons donc nos larmes. Re-readings and Polemics around Michel Foucault’s Lecture What is an Author? The paper focuses on the critical reception of Michel Foucault’s lecture What is an Author? by academics and writers, especially in the Anglo-Saxon world. Specifically, it focuses on Samuel Beckett’s phrase “What does it matter who is speaking?”, quoted by Foucault at the beginning and at the end of his 1969 lecture. The paper shows what separates the Foucauldian concept of “author” from Roland Barthes’ theory of the death of the author, and thus identifies two distinct but not unconnected perspectives under which the lecture can be read. Firstly, the point of view of the Foucauldian archaeology, a concept that Foucault developed during the same years, distancing himself from structuralism. Secondly, the reflections on writing (écriture) as a practice, a theme constantly present until Foucault’s last works. The confusion of these two readings, even if they are not unconnected, could be at the origin of the contentious reactions. Keywords: Foucault, Author, John Banville, Roland Barthes, Writing, Anonimity.


Dissidenza e stile d’esistenza.

La prospettiva della cura tra Jan Patočka e Michel Foucault Caterina Croce

Marc Richir, nella sua Prefazione all’edizione francese di Qu’est-ce que la

phénoménologie ? di Jan Patočka, sostiene che la nozione di cura dell’anima promossa dal filosofo cèco nomini una pratica ben diversa da un’egoistica cura di sé1. Come ha sostenuto Arpad Szakolczai2, le parole di Richir sembrano alludere criticamente alle ricerche sulla cura di sé svolte da Michel Foucault nella fase finale della sua riflessione. In queste pagine vorrei interrogarmi sulla distanza che corre tra la nozione patočkiana di cura dell’anima e le indagini foucaultiane sulla cura di sé, poiché ritengo che gli studi sviluppati dai due autori possano convergere in una prospettiva comune che consente a noi, oggi, di tornare a riflettere sul rapporto tra etica e politica. Le ricerche sulla cura, condotte da due autori tanto diversi per esperienze di vita e interessi teorici, potrebbero costituire delle direttrici utili per orientarci in un’epoca, la nostra, che sembra aver smarrito l’orizzonte dell’azione comune. La prospettiva della cura potrebbe aiutarci a delineare i vettori lungo i quali le prassi etiche, che i singoli ingaggiano con se stessi, entrano in rapporto con la politica, giungendo a riformulare i termini della responsabilità collettiva. L’ambivalenza di una pratica che è insieme impegno e presa di distanza, partecipazione emotiva e interesse cognitivo, invito alla coerenza e consapevolezza dell’opacità del reale, può forse aiutarci ad articolare il rapporto tra ethos – inteso come atteggiamento, presa di posizione, stile di vita – e nomos, evitando che le disaffezioni dell’antipolitica inducano a rifugiarsi nell’intimità dell’oikos. «Il est toujours possible de penser malgré les pressions et les censures des Pouvoirs en place. Il y faut […] ce soin de l’âme dont Patočka a si bien parlé à propos de Platon, et qui est tout autre chose qu’un égoïste souci de soi»; M. Richir, Préface, in J. Patočka, Qu’est-ce que la phénoménologie ?, Millon, Grenoble 1988, p. 14. 2 «Though not mentioning Foucault by name, Marc Richir’s Preface to a collection of essays by Patočka makes some evident hidden remarks against Foucault»; A. Szakolczai, Thinking Beyond the East-West Divide. Foucault, Patočka, and the Care of the Self, in «Social Research», vol. 61 (1994), n. 2, p. 318. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 179-204.


180 Caterina Croce Non sarà qui possibile tematizzare in modo approfondito gli elementi di distanza e di criticità che separano la prospettiva di Patočka da quella di Foucault. Tuttavia, mi sembrano necessarie almeno due precisazioni. Innanzitutto, occorre tenere presente che la stessa appartenenza di Patočka al movimento fenomenologico introduce alcuni elementi di dissonanza nel nostro tentativo di avvicinare le ricerche dei due filosofi. Com’è noto, infatti, Foucault – attraverso la lettura dei testi nietzscheani, l’influsso dello strutturalismo e dell’epistemologia di Canguilhem, l’esperienza letteraria con Blanchot, Bataille e Roussel – arriva a prendere le distanze dalla fenomenologia che aveva influenzato l’impianto teorico della sua formazione, tanto da riconoscere in essa uno dei propri principali bersagli polemici. Per riassumere una questione assai ampia e complessa, potrebbe essere utile richiamare quanto afferma Remo Bodei nella sua Introduzione a Discorso e verità nella Grecia antica. Egli mostra, infatti, come Foucault si sia mosso in una direzione diversa da quella dell’ambiente filosofico della sua formazione: se l’esistenzialismo riformulato su basi fenomenologiche di Sartre e di Merleau-Ponty poneva al centro della riflessione un soggetto circondato dalla distruzione ma ancora capace di edificare un senso a partire dai cumuli di macerie, Foucault non si affida più alla centralità del soggetto: «Sposta l’asse delle sue indagini dalla filosofia del soggetto alla “genealogia del soggetto moderno”, dai drammi dell’interiorità alle “tecniche di sé”. Passa dal “conosci te stesso!” al “modifica te stesso!” e, da ultimo, al “governa te stesso”»3. Sulla scorta delle parole di Bodei, potremmo avviare la nostra indagine tenendo presente che Patočka, per quanto forzi la semantica della sogR. Bodei, Introduzione, in M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996, p. XI. Nel corso di un’intervista con Duccio Trombadori, quando questi gli chiede perché riconduca l’esistenzialismo sartriano alle filosofie tradizionali, Foucault risponde: «Anche in una filosofia come quella di Sartre era in fondo il “soggetto” che restituiva un senso al mondo. Questo punto non veniva messo in discussione. Era il soggetto ad attribuire i significati»; D. Trombadori, Colloqui con Michel Foucault, Castelvecchi, Roma 1999, p. 46. Nella conferenza Soggettività e verità, tenuta al Dartmouth College nel novembre del 1980, Foucault spiega che il suo tentativo di superare la filosofia del soggetto di stampo fenomenologico va ricondotto alla ricerca genealogica: «Ho provato ad esplorare un’altra pista [rispetto a quella dello strutturalismo]: ho provato a uscire dalla filosofia del soggetto tramite una genealogia di tale soggetto, studiando la costituzione del soggetto attraverso la storia che ci ha portato fino al concetto moderno del sé. […] In breve, lo scopo del mio progetto è di costruire una genealogia del soggetto; il metodo è un’archeologia del sapere, e il dominio preciso dell’analisi è ciò che definirei “tecnologie” – vale a dire, l’articolazione di certe tecniche e di certi tipi di discorso sul soggetto»; M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cronopio, Napoli 2012, pp. 35-37. 3


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gettività fino a tentarne una declinazione “asoggettiva”, sembra cionondimeno rientrare nel novero di quegli eredi della tradizione fenomenologica che, pur confrontandosi con la “distruzione”, pongono ancora al centro della loro riflessione un soggetto capace di “edificare un senso a partire dai cumuli di macerie”. Inoltre, va ricordato come Foucault stesso abbia segnalato la differenza fra il proprio approccio alla questione antica dell’epimeleia e quello promosso da Patočka. Infatti, nel suo ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità, Foucault fa esplicito riferimento all’opera di Patočka, riconoscendo al filosofo cèco il merito di essere uno tra i pochi autori contemporanei ad essersi interessato alla questione antica della cura4. Tuttavia, secondo Foucault, la propria ricerca – articolata intorno alla nozione di epimeleia heautou, alla cura come messa alla prova, problematizzazione e stilizzazione del sé – divergerebbe da quella di Patočka, orientata invece allo studio dell’epimeleia tes psychés, ossia dell’anima sotto il profilo ontologico e gnoseologico. In breve, Foucault crede che Patočka si sia impegnato in una riflessione ontologica sull’anima, mentre con le proprie ricerche egli vorrebbe occuparsi della questione del bios: della vita come esistenza – singolare e plurale – da qualificare. La mia impressione, tuttavia, è che fra i due autori sia possibile individuare numerose aree di convergenza, prima fra tutte quella legata al tema della cura come postura etica, come “pratica riflessa della libertà”, per dirla con Foucault5. La “tentazione dicotomica”6 che percorre gli ultimi scritti foucaultiani dovrebbe forse cedere il passo a un’analisi più cauta che permetta di riconoscere nell’anima patočkiana il movimento stesso dell’esistenza nella sua apertura ek-statica e asoggettiva. Le nozioni di bios e di psyché restano inassimilabili sotto un profilo ontologico: il bios in Foucault allude all’orizzonte immanente della vita, ladCfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano 2011, p. 130. 5 Cfr. M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1527-1548. 6 Frédéric Gros suggerisce di chiamare “tentazione dicotomica” la tendenza presente negli ultimi scritti di Foucault ad attraversare il pensiero occidentale ricorrendo alla struttura della biforcazione: soprattutto nei corsi al Collège de France degli anni ’80, egli individua una serie di snodi attorno ai quali costruisce dei giochi di opposizione tra due diverse opzioni teoriche, tra due diverse matrici spirituali, tra due diversi modelli di soggettivazione e così via. Cfr. F. Gros, Platon et les cyniques chez Foucault, in L. Bernini (a cura di), Michel Foucault, gli antichi e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità, ETS, Pisa 2011, p. 65. 4


182 Caterina Croce dove l’anima di Patočka, seppur reintrodotta nelle pieghe della Lebenswelt e nella trama corporea dell’esistenza7, reca traccia di un movimento spirituale di trascendenza. Tuttavia, entrambe le nozioni sono utilizzate dai nostri due autori per alludere alla necessità di non arrestare la dynamis dis-obiettivante8 e dis-assoggettante9 che, affrancando sempre di nuovo la vita dalla presa del potere e del sapere, scopre e reinventa la dimensione del comune. Cura e dissenso La tesi secondo cui gli studi foucaultiani sull’epimeleia heautou possono offrire un nuovo punto prospettico da cui interrogare la prassi politica si scontra con quanto ha sostenuto Charles Taylor, secondo cui Foucault sarebbe uno dei responsabili dello scollamento tra condotta soggettiva e vita politica pubblica10. Secondo Taylor, i principi della cura di sé e dell’estetica dell’esistenza avrebbero favorito forme di ripiegamento individualistico e di allontanamento dalla dimensione comunitaria: una forma di disimpegno narcisistico e gaudente. Mathieu Potte-Bonneville11 replica alle parole di Taylor sostenendo che una simile lettura non coglie lo spirito della riflessione foucaultiana, la quale, invece, avrebbe il merito di tracciare due movimenti fondamentali. Da un lato, essa ci permette di comprendere come la cura di sé non sia una Come scrive Simona Forti nel suo ultimo libro, «la nozione di anima di Patočka non ripropone affatto un dualismo metafisico, ma si fa piuttosto occasione per un ripensamento del soggetto etico dentro il quadro di una teoria fenomenologica che ha rotto il legame con il trascendentalismo husserliano e che viene definita dal suo stesso autore una “fenomenologia asoggettiva”»; S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012, p. 333. 8 Patočka, nel suo scritto sul Platonismo negativo, intende liberare l’Idea platonica da qualsiasi contenuto rappresentativo facendone un’eccedenza, un’ulteriorità, che dà a vedere i limiti del contingente. Egli arriva a definire l’idea come «forza di disobiettivazione e di de-realizzazione da cui prendono origine tutte le nostre capacità di lotta contro la “realtà pura e semplice” che tenderebbe a imporsi a noi come legge assoluta, irrevocabile e insormontabile»; J. Patočka, Le platonisme négatif, in Liberté et sacrifice. Écrits politiques, Millon, Grenoble 1990, p. 89. 9 Cfr. S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma–Bari 2000, p. 122. 10 Cfr. C. Taylor, The Malaise of Modernity, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Il disagio della modernità, Laterza, Roma–Bari 1999, in particolare il capitolo Lo slittamento nel soggettivismo, pp. 65-81. 11 Cfr. M. Potte-Bonneville, Éthique, in Id. e P. Artières, D’après Foucault. Gestes, luttes, programmes, Les Prairies Ordinaires, Paris 2007, pp. 280-310. 7


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forma di distanziamento dalla politica, ma al contrario una sua messa in causa; dall’altro, ci consente di capire come questa piega soggettiva, attraverso problematizzazioni apparentemente estranee all’ordine della politica, faccia ritorno allo spazio pubblico, interpretando la sessualità, la follia o la malattia come altrettante maniere di porre questioni politiche condivise. La tesi di Potte-Bonneville, dunque, è che l’emergenza della cura di sé assuma un valore eminentemente politico nella misura in cui le norme della condotta individuale diventano un luogo decisivo del confronto politico. Infatti, nel momento in cui Foucault problematizza la nozione di governo, rientra in gioco una nozione che era rimasta sullo sfondo delle sue precedenti riflessioni, ossia la nozione di libertà. Con l’analisi delle strategie governamentali, il rapporto tra potere e libertà si ridefinisce chiamando in causa l’etica, perché la maniera in cui l’individuo dà forma alla propria libera attività diventa il punto di investimento delle tecnologie politiche. L’espace des comportements individuels devient le lieu d’un affrontement et d’un déséquilibre, irréductible à l’opposition entre soumission à un pouvoir extérieur et libre détermination de soi par soi, entre hétéronomie politique et autonomie morale12.

La cura di sé sembra operare su quell’orlo ibrido in cui l’esercizio della propria libertà si configura insieme come il punto di radicamento del potere e l’occasione della sua contestazione. Essa, in altri termini, riguadagna sempre di nuovo quel terreno che le strategie di “occupazione della vita” erodono progressivamente. È bene precisare che Foucault parla di “occupazione della vita” negli scritti dedicati a Solidarnosc, il movimento di dissidenza polacco. Se possiamo ricondurre a un dato biografico l’interesse di Foucault per la Polonia – l’anno trascorso a Varsavia, tra il 1958 e il 1959, durante il quale scrisse Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique – occorre tener presente l’attenzione generale e costante che il filosofo dedica agli avvenimenti dell’altra Europa. Sembra, infatti, che i sistemi di potere sovietici rendano più urgente che mai ciò che Foucault ritiene necessario anche per l’Europa occidentale, ossia un’analisi dei sistemi sociali, degli organismi statali e dei meccanismi di potere che «superi le leggi e il dogmatismo del materialismo dialettico»13; una critica politica che non faccia più leva sulla «tradizione del socialismo»14. In questo senso, si può dire che lo sguardo – quello che Ivi, p. 297. D. Trombadori, Colloqui con Foucault, cit., p. 67. 14 M. Foucault, La torture, c’est la raison, in Dits et écrits II, cit., pp. 390-398. 12 13


184 Caterina Croce Foucault rivolge ai paesi dell’Est – fosse reciproco: l’analitica del potere elaborata dal filosofo francese fornisce agli storici, ai sociologi, ai filosofi est-europei delle piste significative e inedite per esaminare la questione del potere, dei rapporti tra la società e lo Stato, tra i saperi e l’ideologia. In breve, i pochi volumi di Foucault che riuscirono a circolare nei paesi satellite dell’URSS (Nascita della clinica, La volontà di sapere, Sorvegliare e punire) rappresentarono des fenêtres grandes ouvertes sur l’exigence de penser la complexité. Face aux litanies d’un marxisme en bout de course, érigé en dogme académique, mais aussi face aux trop grandes facilités liées à l’emploi passe-partout de la notion de « totalitarisme », en vogue dans les années 1980 parmi les opposants et dissidents de l’Est ainsi que dans la soviétologie occidentale15.

Ma non sono solo i meccanismi di potere ad attirare l’interesse di Foucault, vi è anche l’altro versante, quello della “sollevazione”16, del gesto di ribellione che introduce una discontinuità nel regolare funzionamento del potere. È per questo che Foucault guarda con attenzione alle esperienze di dissidenza che sorgono nei paesi dell’Est. Mi sembra significativo, in questo senso, che un primo riferimento a Patočka si trovi già nelle lezioni di Sicurezza, territorio, popolazione17. Foucault, affrontando il tema delle controcondotte, avanza l’ipotesi che, per descrivere una forma di ribellione che non si esaurisca in un semplice rifiuto ma inventi forme di esistenza alternative, possa rivelarsi adatto proprio il termine di “dissidenza”: La dissidenza, per come ha trovato espressione nei paesi dell’Est, non indica solo una forma di contestazione a un potere politico, ma anche il rifiuto di una società in cui l’autorità politica […] svolge anche il compito di condurre gli individui nella vita quotidiana attraverso un gioco di obbedienza generalizzata che assume la forma del terrore18. 15 A. Brossat, Présentation, in Id. (a cura di), Michel Foucault, les jeux de la vérité et du pouvoir, Presses universitaires de Nancy, Nancy 1994, p. 10. 16 L’espressione “sollevazione” si rifà al testo del 1979 Inutile de se soulever ? (trad. it. Sollevarsi è inutile?, in M. Foucault, Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 132-136) che Foucault scrive in seguito alla rivoluzione iraniana. 17 Facendo riferimento all’esperienza di Charta 77, Foucault annovera Patočka, insieme a Jiří Hájek e Václav Havel, tra le figure attorno alle quali si è organizzata la dissidenza cecoslovacca. Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 19771978, trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005, p. 332. 18 Ivi, p. 150.


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Sebbene Foucault scelga di non adottare il termine “dissidenza” per indicare le molteplici forme di contro-condotta19, mi pare importante considerare come l’immagine del dissidente ricompaia in Foucault laddove egli vuole alludere alla pratica di contestazione e di dissenso di colui che non vuole conquistare il potere, ma esercitare il proprio diritto «à vivre, à être libre»20, disattendendo la centratura giuridica e disertando l’imperativo del potere21. L’occupazione della vita e la non-evidenza della realtà Come si diceva, nell’articolo dedicato alle vicende di Solidarnosc, Foucault mostra come la pratica del dissenso fosse rivolta, in primo luogo, contro l’occupazione della vita che rendeva impossibile «l’invenzione di nuove relazioni sociali»22. Sotto il regime polacco, la vita di ciascuno era assorbita – occupata – dalle preoccupazioni individuali, tanto che si era perduto il senso di una dimensione comune e condivisa. «Cette “occupation”, c’est aussi la solitude, la dislocation d’une société»23. Foucault spiega che la moralizzazione invocata da Solidarnosc nasceva come risposta al tentativo di occupare e individualizzare le vite dei singoli rendendole insensibili alle sollecitazioni comunitarie. Il concetto di “occupazione della vita” si rivela particolarmente interessante per le nostre analisi perché esprime l’idea di una saturazione che soffoca quel margine critico che rende possibile l’esercizio della distanziazione etica. Distanziazione etica che ritroviamo al centro dell’interesse di Patočka, come dimostrano i numerosi scritti che il filosofo dedicò alla Secondo Foucault, il termine “dissidenza” è troppo connotato dai fenomeni che si stanno svolgendo nei paesi dell’Est per risultare adatto a un numero molto più variegato di lotte e comportamenti. Inoltre, al filosofo pare poco adatta la sostanzializzazione (substantification) del termine “dissidente”, giacché esistono forme di contro-condotta esercitate da chi non sceglie di essere o non si definisce dissidente, come il pazzo o il criminale. 20 Nello scritto dedicato all’affare Croissant compare la figura del “perpétuel dissident”, ovvero colui che non mira a diventare il “futur gouvernant” ma vuole esercitare il proprio diritto «à vivre, à être libre, à partir, à n’être pas persécuté»; M. Foucault, Va-t-on extrader Klaus Croissant ?, in Dits et écrits II, cit., p. 364. 21 Cfr. S. Chignola, Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Ombre Corte, Verona 2006, p. 9. 22 M. Foucault, L’expérience morale et sociale des Polonais ne peut plus être effacée, in Dits et écrits II, cit., p. 1165. 23 Ibidem. 19


186 Caterina Croce necessità di fare un passo indietro rispetto al dominio assillante della realtà oggettiva. Infatti, il senso dell’epoché patočkiana, lungi dall’esaurirsi nella sospensione del giudizio della coscienza trascendentale, assume anche il valore di uno scuotimento esistenziale che mette tra parentesi le certezze che orientano le nostre prassi quotidiane24. Per Patočka, come per Heidegger25, l’epoché non è il gesto teorico di una soggettività disinteressata, ma si configura come un indietreggiamento effettuato dall’esserci dinnanzi alla datità immediata dell’ente. In questo senso, l’epoché fenomenologica rinvia all’esperienza della libertà negativa che sarà al centro dello scritto sul Platonismo negativo: «l’esperienza di un distanziamento di fronte alle cose reali, l’esperienza di un senso indipendente dall’oggettivo e dal sensibile, che si ottiene invertendo l’orientazione primitiva, “naturale”, della vita»26. Nella sua rilettura del platonismo, Patočka è alla ricerca di un movimento di trascendenza che non conduca alla scissione (tra mondo vero e mondo apparente, nel caso platonico), ma alla trasformazione, un movimento che non sfoci nella contrapposizione, bensì nell’affermazione della differenza: è questo il senso della concezione patočkiana del chorismos, una «separazione senza un secondo regno d’oggetti»27. Anche nell’ambito delle riflessioni che Patočka dedica allo scenario politico della sua attualità ritroviamo la stessa tonalità negativa che caratterizza le sue ricerche sull’epoché e la sua concezione della libertà. In questo caso, il “non” sembra svolgere la funzione di dissuadere il filosofo dal formulare «programmi positivi»28, di trattenerlo, cioè, dal tradurre l’esercizio Si deve probabilmente a Fink la rilettura in chiave esistenziale dell’epoché husserliana proposta da Patočka. Fink identifica infatti nello stupore la situazione emotiva fondamentale: esso viene descritto come lo spaesamento espropriante che sospende l’atteggiamento naturale nei confronti del mondo e pone di fronte alla natura enigmatica delle cose. Cfr. E. Fink, Studien zur Phänomenologie 1930-1939, trad. it. di N. Zippel, Studi di fenomenologia 1930-1939, Lithos, Roma 2010. 25 Come ricorda Guido Davide Neri, per quanto il termine non compaia mai esplicitamente, anche nel pensiero di Heidegger possiamo trovare qualcosa di analogo all’epoché. Il passaggio dall’atteggiamento naturale della quotidianità media all’atteggiamento autentico, tuttavia, non avviene in virtù della decisione liberamente assunta da parte del filosofo, ma si produce come conseguenza di un evento che sopraggiunge, o di una situazione in cui ci troviamo a cadere, al di fuori della nostra volontà: si tratta, evidentemente, della disposizione emotiva dell’angoscia. 26 J. Patočka, Le platonisme négatif, cit., pp. 87-88. 27 Ibidem. 28 J. Patočka, Kacířské eseje o filofii dějin, trad. it. di D. Stimilli, Saggi eretici sulla filosofia della storia, a cura di M. Carbone, Einaudi, Torino 2008, p. 151. 24


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della critica nell’elaborazione di modelli d’azione e paradigmi di attuazione29. Patočka, infatti, diffida di ogni progetto filosofico di compimento e ricomposizione30, e crede che il compito della filosofia consista, piuttosto, nel mettere la politica dinnanzi alla non-evidenza della realtà. Queste tesi le troviamo espresse in un breve testo del 1975, finalizzato a distinguere l’uomo spirituale dal semplice intellettuale di professione31. Patočka spiega che l’uomo spirituale, pur non essendo un politico nel senso comune del termine, deve assumersi il compito politico di rendere consapevoli gli altri uomini della non-evidenza della realtà, e cioè dell’irresolubile problematicità della vita. Il richiamo alla non-evidenza della realtà anima tanto le ricerche che il filosofo conduce in ambito fenomenologico, dove è espressione del modo in cui egli riformula la consegna fenomenologica ad assumere un diverso punto di vista32; quanto le sue considerazioni sulla filosofia della Sembra farsi interprete di un simile pensiero anche Foucault, il quale, nello scritto sui Lumi, scrive: «Si sa per esperienza che la pretesa di sfuggire al sistema dell’attualità per dare dei programmi di insieme di un’altra società, di un altro modo di pensare, di un’altra cultura, di un’altra visione del mondo non hanno fatto altro che riportare alle più pericolose tradizioni»; M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 228. 30 Proprio per l’attitudine a percorrere il rovescio taciuto e disconosciuto del politico, Roberto Esposito propone di ascrivere Patočka al filone dell’impolitico, ossia a quella disomogenea corrente di pensiero che pensa al politico fuori dalle visioni edulcoranti della teoria politica. Cfr. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1999 e Oltre la politica, Mondadori, Milano 1996. 31 Rifacendosi esplicitamente al Sofista platonico – dove l’obiettivo era quello di distinguere i veri filosofi dai sofisti – Patočka intende distinguere l’uomo spirituale dall’intellettuale di professione. Gli uomini spirituali non sono dei semplici “lavoratori culturali”, sono coloro che hanno sperimentato sulla propria pelle lo sconvolgimento del senso quotidiano: il lato notturno e negativo dell’esistenza si è spalancato dinnanzi a loro ed essi hanno fatto esperienza del vuoto. L’esperienza dello sradicamento e del negativo non getta l’uomo spirituale nello sconforto scettico o nel buio nichilista, ma gli fa comprendere che la vita è interrogazione e ricerca, e che il senso è possibile solo come cammino. Gli uomini spirituali sono dunque coloro che possono vivere senza le solide garanzie della terraferma e mettere in discussione l’assolutezza dei valori diurni. Cfr. J. Patočka, Duchovní člověk a intelektuál; trad. fr. a cura di E. Abrams, L’homme spirituel et l’intellectuel, in Liberté et sacrifice, cit., pp. 243-257. 32 Come scrive Josep M. Esquirol, «proponendo il cambiamento del punto di vista, Patočka resta fedele alla consegna fenomenologica: la cosa più importante e anche la più difficile è il cambiamento di atteggiamento, che significa un accesso a un’altra prospettiva, a un altro modo di vedere ciò che si mostra e ciò che c’è dietro a ciò che si mostra»; J.M. Esquirol, Tecnica e sacrificio in Jan Patočka, in D. Jervolino (a cura di), L’eredità filosofica di Jan Patočka, Atti del convegno internazionale tenutosi a Napoli il 6 e 7 giugno 1997, Cuen, Napoli 2000, p. 66. 29


188 Caterina Croce storia, dove l’inizio della storia viene fatto coincidere con lo sconvolgimento del senso dato e la scoperta scioccante della problematicità. In generale, il richiamo alla non-evidenza della realtà rimanda al gesto di colui che mette in dubbio la perentorietà del dato, la necessità dell’immediato, l’inevitabilità dell’istituito33. In questo senso, l’appello patočkiano converge con quella tensione a mettere in discussione “i limiti del necessario” di cui Foucault parlerà nello scritto sui Lumi34. Se la questione di Kant riguardava limiti della conoscenza, scrive Foucault, oggi sarebbe più utile interrogarsi sull’apparente cogenza di ogni positività35, così da dar vita a un’ontologia critica di noi stessi in cui l’analisi storica dei limiti che ci sono posti è insieme «prova del loro superamento possibile»36. Potremmo dire che l’appello alla non-evidenza della realtà procede in direzione di un’ontologia critica di noi stessi, laddove incoraggia un rapporto con l’attualità che è insieme di identificazione e di distanziazione, di sollecitudine e di insofferenza, di adesione e di dissenso. Patočka ripone negli uomini spirituali una fiducia dimessa e crepuscolare, che ha perso i toni enfatici con cui Husserl, nella Crisi delle scienze europee, definiva i veri filosofi come “funzionari dell’umanità”. Cionondimeno, egli ritiene che gli uomini spirituali, pro-vocando la comunità alla non-evidenza della realtà, svolgano un’irrinunciabile funzione politica. Patočka crede infatti che, nella nostra contemporaneità, la non-evidenza della realtà – e cioè la problematicità della vita e l’enigmaticità del senso – A questo proposito, Karel Novotný scrive che per Patočka «è sempre uno slancio per raggiungere i limiti di ciò che può essere dato, pensato, creato, ad animare il rinnovamento della vita e darle senso»; K. Novotný, Storicità e alterità, in D. Jervolino (a cura di), L’eredità filosofica di Jan Patočka, cit., p. 128. 34 Cfr. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., pp. 217-232. 35 A partire da Le parole e le cose e dall’Archeologia del sapere, Foucault utilizza il termine “positività” per alludere all’a priori storico che costituisce le condizioni di emergenza di un certo campo epistemologico. Quando la prospettiva archeologica s’incontra con quella genealogica, l’attenzione di Foucault si concentra sulle positività come nesso sapere-potere, indagando i fattori multipli e le relazioni differenziate che hanno prodotto certi effetti di conoscenza e l’instaurarsi di certi meccanismi coercitivi. Nello scritto Illuminismo e critica assistiamo alla loro riformulazione in chiave critica: «Queste positività non sono degli insiemi autoevidenti […]. Quel che per l’appunto occorre far emergere per comprendere ciò che le ha rese accettabili, è il fatto che queste positività non si giustificano di per sé, non costituiscono un a priori, non sono contenute in alcuna anteriorità. Individuare le condizioni di accettabilità di un sistema e seguire le linee di rottura che caratterizzano il suo emergere: ecco due operazioni complementari»; M. Foucault, Qu’est-ce que la critique ? Critique et Aufklärung, trad. it. a cura di P. Napoli, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 56. 36 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., p. 231. 33


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abbia perso il proprio diritto di cittadinanza. Essa è stata rimossa e bandita dagli imperativi performativi della tecnica, dagli slogan che promettono la pace organizzando la guerra, dall’ingiunzione al divertimento che sprofonda nella noia: in breve, dalle forze del Giorno. Come è noto, Patočka, nei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, individua due punti di vista che tra loro si implicano e si contrappongono: il punto di vista del Giorno, del senso meramente accettato e della vita vissuta in vista della nuda sopravvivenza, e il punto di vista della Notte, che inghiotte ogni certezza e precipita l’uomo nella problematicità. Patočka crede che, sebbene il Novecento sia stato il secolo della notte, della guerra e della morte, niente sia valso a mettere in discussione il punto di vista egemonico del Giorno, da lui identificato con i motivi diurni della crescita e del progresso, con gli ideali che eleggono la conservazione della vita a valore supremo incatenando l’uomo alla paura della morte, con le parole d’ordine della pace che hanno spedito al fronte migliaia di uomini, considerando la guerra una parentesi dolorosa ma necessaria alla stabilizzazione del mondo37. Le forze del Giorno, apparentemente luminose e rassicuranti, conducono, per estremo paradosso, alla notte più nera, perché rimuovono dal loro orizzonte il pensiero della morte: essa viene concepita come un meccanico alternarsi di funzioni nel generale progetto di conservazione della vita, come un evento fisiologico calcolabile, quantificabile e controllabile nel rigore asettico delle statistiche. «Non è possibile liberarsi della guerra per colui che non si libera di questa forma di dominio della pace, del giorno e della vita, che rinnega la morte e chiude gli occhi davanti ad essa»38. La coscienza della duplicità, cui gli uomini spirituali ci invitano, è dunque la riscossa del punto di vista della Notte e la riscoperta della prospettiva tragica, quanto feconda, della morte. Pertanto, l’appello al lato notturno, alla non-evidenza della realtà, si rivela un impegno di valore politico, poiché le potenze positive della realtà non tollerano che la vita venga vissuta nella consapevolezza della sua complessità: il lato oscuro e problematico della vita è, per queste potenze, l’intollerabile39. Come scrive Valérie Löwit, Patočka ci mostra che «nella nostra pace regna la guerra, nel senso in cui la paura, la paura della morte, il rifiuto di rischiare la propria vita opponendosi alla logica terrorista e totalitaria fa vivere in una pace falsa»; V. Löwit, L’Europa e le origini del totalitarismo in Arendt e Patočka, in D. Jervolino (a cura di), L’eredità filosofica di Jan Patočka, cit., p. 141. 38 J. Patočka, Saggi eretici di filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. 144. 39 Cfr. J. Patočka, L’homme spirituel et l’intellectuel, cit., p. 256. 37


190 Caterina Croce Ciò che non rientra nei registri contabili delle forze del Giorno è quella coscienza della duplicità che a Patočka sta a cuore sin dai suoi studi sulla filosofia antica. La duplicità data dall’irresolubile compresenza di bene e male, di luci e ombre, di chiarezza e mistero che già i miti antichi avevano saputo cogliere, e che nell’ironia socratica ha trovato un’insuperata forma di espressione40. L’ironia socratica, per Patočka, non è un artificio letterario ma l’esercizio retorico, etico e politico di far convivere le due dimensioni: il dato e l’ignoto, le certezze e il mistero, il bisogno ingenuo di risposte e l’irresolubilità aporetica della domanda. Con l’ironia ogni cosa mostra un doppio fondo, un lato nascosto su cui vale la pena riflettere. Socrate è dunque maestro nel mostrare i due livelli su cui è possibile condurre la vita: il livello rassicurante o ordinario del senso comune e il livello obliquo e perturbante del dubbio su cui si azzarda la sua ricerca. Mosso il primo passo su questo secondo livello, Socrate scopre la problematicità del reale. L’ironia socratica è allora il sorriso che gli adulti rivolgono ai bambini: «Noi sappiamo che ciò che il bambino prende tanto sul serio non è ancora la vera serietà, noi conosciamo i cambiamenti del senso che ai bambini sono ancora ignoti». L’ironia di Socrate «è l’ironia di un adulto più adulto degli adulti»41. Il problema è che l’ironia non può essere compresa da un mondo che ha dimenticato le sue ombre, i suoi doppi fondi, il suo senso evenemenziale e le sue manifestazioni paradossali. Dove non c’è coscienza della duplicità – dove non ci sono doppi sensi – non c’è ironia. E allora, scalzato dalla compostezza algida dell’ideologia del Giorno, lo scherzo non fa ridere. Il riso e la responsabilità Lo scherzo è il titolo di un romanzo che Milan Kundera pubblica in Cecoslovacchia nel 1967 e cui Patočka fa esplicito riferimento nel corso di un breve scritto. Kundera racconta la storia di uno scherzo che non viene 40 In Platone e l’Europa, Patočka sostiene che già i miti antichi – il mito biblico dell’albero della conoscenza, l’epopea di Gilgamesh, la tragedia di Edipo – esprimevano la coscienza di questa dualità fondamentale: essi sapevano render conto in modo magistrale del lato oscuro di ogni motivo diurno. Nel mito si agitano una storia, che racconta della nostra vita diurna condotta nei pressi del bene, e una contro-storia, che ci parla di un mondo notturno, indecifrabile, malvagio. La coscienza mitica insegna che anche nella familiarità del radicamento può fare irruzione l’estraneo, ossia ciò che Patočka, prendendo in prestito un’espressione tedesca, definisce das Unheimliche. Cfr. J. Patočka, Platone e l’Europa, Vita e pensiero, Milano 1997, p. 77. 41 Ivi, p. 405.


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compreso, che non genera il riso, che trascina nel grottesco. Ludvík, il protagonista del romanzo, s’invaghisce di una ragazza particolarmente ligia agli impegni che il Partito comunista impone alla gioventù cèca. Quando Ludvík è sul punto di conquistarla, la ragazza parte per un campo estivo di educazione al comunismo. Contrariato dalla sua lontananza e dalle lettere entusiastiche con cui lei celebra le attività di partito, Ludvík decide di farle uno scherzo. Pur essendo un convinto sostenitore del regime, le invia una cartolina nella quale ridicolizza la lealtà al Partito, dichiara la sua ammirazione per Trotsky e, con enfasi volutamente ironica, afferma che “l’ottimismo è l’oppio dei popoli e lo spirito sano puzza d’imbecillità”. La cartolina finisce nelle mani del responsabile locale della gioventù comunista. Scatta un’inchiesta e il giovane Ludvík non riesce a discolparsi: la commissione che lo giudica non comprende le ragioni dello scherzo. L’umorismo, dichiara la commissione, non è un pensiero costruttivo, ma soltanto una forma di scetticismo distruttivo nei confronti dei saldi principi morali e politici del Partito. È così che lo scherzo si trasforma in un incubo lungo una vita: il giovane è espulso dal Partito e dall’Università, perde gli amici e viene mandato a prestare servizio militare in un battaglione di traditori della Patria. Nel corso degli anni, i suoi tentativi di vendicarsi contro le offese subite, attraverso nuovi e meschini scherzi, si riveleranno vani ed egli si sentirà pervaso da un senso del ridicolo crudele e schiacciante. Come scrive Patočka, assistiamo progressivamente alla «trasformazione in uno scherzo che non sono più io a fare, ma che le cose fanno a me, dandomi così l’aspetto mostruoso di colui che vuole vendicarsi mostruosamente e al quale si mostrano la vanità e l’inutilità della vendetta […]: in tutto ciò sta l’incapacità di catarsi dell’eroe»42. Il romanzo di Kundera ci parla dunque di un mondo che ha estenuato il senso della duplicità sotto il peso monolitico dell’ideologia. E, più in generale, di un mondo che ha annientato l’esultanza catartica del riso perché ha dimenticato l’abisso tragico. Se il senso del comico sgorga dalla coesistenza tragica dei contrasti, nel mondo del razionalismo apollineo non c’è spazio per lo scherzo, non c’è catarsi per l’eroe. Ne L’arte del romanzo, Kundera scrive: «Non c’è pace possibile fra il romanziere e l’agelasta. Non avendo mai udito la risata di Dio, gli agelasti sono convinti che la verità è evidente»43. Ecco che torna il tema dell’eviJ. Patočka, Vakulík a Kundera, frammento conservato presso gli Archiv Jana Patočky di Praga, trad. it. di C. Rocca, Vakulík e Kundera, in M. Carbone et alii, L’Europa dopo l’Europa, l’individuazione anziché l’individuo, Mimesis, Milano 2009, p. 81. 43 M. Kundera, L’art du roman, trad. it. di E. Marchi e A. Ravano, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 2005, p. 220. 42


192 Caterina Croce denza, la fede cieca in una verità lucida e senza resti. Compito dell’uomo spirituale, per Patočka, è proprio quello di mettere gli uomini dinnanzi alla non-evidenza della realtà. Un compito non solo estetico – far sorgere il romanzo e con esso il mondo della vita che la nostra ragione tecnica ha obliato44 – ma anche politico: la non-evidenza è coscienza della duplicità che è a sua volta appello alla responsabilità. Perché? Perché Patočka è convinto che la responsabilità sia quel movimento che addomestica, senza mai poterla sedare, la lotta tra i contrari: tra il dominio del razionale e lo sfogo orgiastico, tra la linea armonica dell’autocontrollo e la riscossa sensuale degli istinti. Nella sua genealogia della storia europea come storia della responsabilità, Patočka spiega che il demonico – la sfera dionisiaca delle pulsioni – va messo in rapporto alla responsabilità senza pretendere, tuttavia, di liquidarlo e abolirlo. Un rapporto, dunque, non di rimozione, ma di reciproca tensione. Un rapporto che potremmo leggere servendoci della categoria patočkiana di polemos: una contesa “sapiente e veggente” che al tempo stesso separa e congiunge. La responsabilità tratteggiata da Patočka è dunque una responsabilità polemica che apre al rischio e all’imprevedibile. La responsabilità è airesis45: scelta, preferenza, decisione sullo sfondo di un indecidibile. La meccanica impersonale del potere Ma cosa vede Patočka attorno a sé? Patočka, ricordiamolo, vive a Praga negli anni del regime sovietico, gli anni che Václav Havel ha definito nei termini di una grande “débâcle éthique”. Patočka, guardandosi attorno, Mi sembra significativo segnalare il fatto che sia in Patočka sia in Kundera si trovi espressa la tesi secondo cui il romanzo europeo ha rappresentato la vera forma di esplorazione del mondo della vita: se la filosofia, nella sua tensione positivista e obiettivizzante, ha disertato la prospetticità finita e contingente del mondo, è stato il romanzo a riconoscere in essa una nuova forma di saggezza. Com’è noto, questa tesi apre L’arte del romanzo di Kundera. Meno noto è il fatto che anche Patočka elabori una simile riflessione nel testo Il problema dello scrittore. È lecito pensare, ma i rapporti tra i due autori meriterebbero di essere meglio indagati, che il giovane Kundera, prima di lasciare la Cecoslovacchia, abbia partecipato alle lezioni di Patočka. Cfr. J. Patočka, Il senso dell’oggi in Cecoslovacchia, Lampugnani Nigri, Milano 1970. 45 L’eterogeneità che intravediamo qui tra l’esercizio della responsabilità e la sua tematizzazione teorica, ovvero dottrinale, non è anche ciò che vota la responsabilità all’eresia? All’airesis come scelta, elezione, preferenza, inclinazione, partito preso, cioè decisione? Cfr. J. Derrida, Donner la mort, trad. it. di L. Berta, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2003, p. 63. 44


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assiste allo sfibramento della responsabilità, alla perdita di sé nella meccanica impersonale del potere, alla rinuncia alla propria autonomia nella sottomissione al rigore formale dell’ideologia. Václav Bìlohradský, nel testo Il mondo della vita: un problema politico, parla a questo proposito di una deriva nell’impersonalità46 che fa tutt’uno con la tesi sull’innocenza del potere. A dispetto dei vizi e delle imperfezioni che affliggono i punti di vista personali, il potere obbedisce all’intransigenza irreprensibile della ragione impersonale: il suo operato si rivela incolpevole giacché non fa che obbedire, per dirla con Arendt, alla logica coercitiva dell’idea47. In questo senso, potremmo dire che Patočka si impegna in una genealogia della ragione impersonale, volta alla resurrezione dell’esperienza vissuta, alla rivendicazione della parzialità e della finitezza di ogni nostra prospettiva, alla difesa dell’irripetibilità di ogni sguardo sul mondo. Nel breve saggio L’ideologia e la vita nell’idea, Patočka rimprovera all’ideologia l’impersonalità di una presa che manovra l’uomo solo dall’esterno, laddove l’idea, al contrario, deve essere incarnata, vissuta, iscritta nella propria storia personale. Non far propria l’idea, ma farsi sé in essa: è questo Il ragionamento di Bělohradský mi sembra convincente solo se cerchiamo di capire quale valore assuma il tema dell’impersonale nel quadro della riflessione patočkiana. La mia impressione, infatti, è che la critica di Patočka non sia rivolta al piano dell’impersonale quale trama della vita che eccede e precede le individuazioni identitarie, quanto alla spersonalizzazione che favorisce il livellamento e l’omologazione del sentire comune. Un pensiero dell’impersonale, inteso come sforzo di pensare oltre e malgrado il lessico soggettivista che ancora influenza la nostra pratica di pensiero, non è assente in Patočka, basti pensare al suo sforzo di costruire una fenomenologia asoggettiva che stabilisca la priorità dell’orizzonte del mondo e della struttura anonima dell’apparire rispetto ai diritti del soggetto trascendentale. L’obiettivo polemico di Patočka, a mio avviso, non è tanto l’impersonale inteso come piano che attraversa, fende e ricontratta le determinazioni identitarie, alimentando un processo di individuazione che spinge la persona fuori i suoi confini escludenti; quanto piuttosto l’ideologia che agisce come macro-soggettività, come una macro-persona che mette al bando le differenze e appiattisce l’alter sotto la legge uniformante dell’ipse. Cfr. V. Bělohradský, Il mondo della vita: un problema politico. L’eredità europea nel dissenso e in Charta 77, Jaca Book, Milano 1981. 47 «Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea. La sua materia è la storia, a cui l’“idea” è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”. Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua “idea”»; H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, trad. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p. 642. 46


194 Caterina Croce l’esempio di Socrate e ciò che Patočka identifica come uno dei portati più preziosi della cura dell’anima. Sempre in questo scritto, Patočka afferma che l’idea dell’uomo è l’idea della libertà. In tal senso, potremmo dire che la vita nell’idea è il modo in cui ciascuno incarna l’idea di libertà e in essa si fa sé. Diversamente dal “falso collettivismo”48 dell’ideologia, che guarda al singolo come a un ingranaggio dell’azione collettiva, la vita nell’idea pensa alla vita comunitaria come a quell’orizzonte in cui i diversi modi di divenire la propria libertà si incontrano e si alimentano, determinando i termini del reciproco riconoscimento. È questo il senso della riscoperta patočkiana della cura dell’anima e il punto in cui le riflessioni di Patočka entrano in risonanza con le ricerche foucaultiane sulla cura di sé. Secondo Patočka, infatti, aver cura della propria anima significa aver cura del movimento dell’esistenza che ci espone al mondo e ci costituisce come singolarità solo nel perpetuo scambio che intratteniamo con esso. La cura dell’anima non è la cura di un soggetto chiuso su stesso o di una qualche reliquia metafisica capace di farci accedere a una salvezza ultraterrena, ma di un co-movimento in cui ciascuno, oserei dire, diviene per l’altro occasione di confrontarsi con la non-evidenza della realtà. L’anima e il movimento dell’esistenza Già nelle lezioni su Socrate del 194749 emerge chiaramente l’accento posto da Patočka sulla dimensione relazionale che connota la pratica epimeletica. Essa avviene nel dialogo, nel confronto, nel susseguirsi di domande e risposte che, spronando i due soggetti ad abbandonare il guscio protettivo delle proprie convinzioni, rende possibile una nuova conoscenza di sé. La scoperta di sé sembra possibile nella comunanza con l’altro da sé, nella condivisione della problematicità, nell’impegno reciproco a demistificare i falsi miti e a sostenersi l’un l’altro nella ricerca del senso. Va sottolineato, allora, che per Patočka la scoperta della propria interiorità avviene esponendo se stessi alla via critica del dialogo e della compartecipazione. Patočka parla del “faux collectivisme” che «regarde l’individu comme un simple organe de l’action collective»; J. Patočka, L’idéologie et la vie dans l’idée, in Liberté et sacrifice, cit., p. 44. 49 J. Patočka, Sókratés. Přednášky z antické filosofie, trad. it. di M. Cajthaml, Socrate. Lezioni di filosofia antica, Bompiani, Milano 2003. 48


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Patočka propone queste considerazioni in un ciclo di lezioni dedicato alla storia della filosofia antica: per problematizzarne il senso e intravederne l’originalità, qui solo abbozzata, tali considerazioni andrebbero reinterpretate alla luce degli studi che il filosofo conduce sul campo asoggettivo dell’apparire e delle sue ricerche sui movimenti dell’esistenza umana. Si rivela utile, dunque, accostare la nozione di psyché al tema dell’asoggettività, cui il filosofo perviene per via fenomenologica. Infatti, le ricerche sul campo asoggettivo dell’apparire, quale “struttura universale dell’apparizione” non “riducibile all’apparente in quanto tale nella sua singolarità”, contribuiscono a un recupero del concetto di anima in chiave non ancora psicologica ed egologica. Pertanto, quando si riflette sull’appello patočkiano alla cura dell’anima, occorre tener presente la distinzione operata dal filosofo tra anima e soggetto, con la conseguente valorizzazione del concetto di anima, oltre e malgrado la centralità moderna – e ancora husserliana – del cogito. L’anima è per Patočka il movimento originario di schiusura, la tensione primigenia a entrare in rapporto con il mondo come totalità. Essa apre alla totalità perché è l’istanza del thaumazein, del perturbamento stupito che inaugura la ricerca del senso. La ricerca di senso che l’anima intraprende non è però riconducibile al progetto di conoscenza del soggetto contemporaneo, giacché la psyché non è fuori, ai margini o al di sopra del mondo,ma è parte integrante di esso. Irrimediabilmente implicata nell’apparire intramondano, l’anima è un movimento immanente al mondo: «L’âme comme les autres choses fait partie du monde, tandis que le sujet – à partir de Descartes – est quelque chose qui se met à part et s’oppose à tout le reste»50. La psyché greca, secondo Patočka, si distingue dalla successiva caratterizzazione sostanzialistica e personalistica dell’anima – caratterizzazione che darà luogo alla nozione moderna di soggetto – «nella misura in cui le manca la soggettività propria. Dal punto di vista greco e antico generale, la psyché è neutra rispetto ai pronomi personali»51. Tali considerazioni appaiono più chiare se le rapportiamo agli studi patočkiani sul movimento dell’esistenza. Per Patočka la questione dell’esistenza, ereditata dalla svolta ontologica della filosofia di Heidegger, va pensata come correlazione tra uomo e mondo in una dimensione relazionale e prasseologica. Per dar conto della natura e-statica dell’esistenza, occorre accennare alla nozione di movimento, nozione che si rivela centrale J. Patočka, Séminaire sur l’ère de la technique, in Liberté et sacrifice, p. 292. J. Patočka, Fenomenologia del corpo proprio, in Che cos’è la fenomenologia?, Centro Studi Canpostrini, Verona 2009, p. 156. 50 51


196 Caterina Croce tanto per le riflessioni che Patočka dedica alla filosofia della storia, quanto per le sue ricerche di stampo fenomenologico52. Patočka è alla ricerca di un movimento senza sostrato che dia conto della natura estatica dell’esistenza. Egli muove dalla concezione aristotelica del movimento e ne radicalizza gli esiti53, salvaguardando l’idea secondo cui l’anima è il principio dell’auto-movimento. In quanto dotata di autokunesis, la psyché è l’istanza che presiede all’esteriorizzazione del sé come relazione dinamica al mondo: «L’io […] è lui stesso già da sempre movimento. Forse il movimento originario non è il cambiamento di luogo delle cose, ma piuttosto questo sforzo dinamico che porta l’esistenza fuori da se stessa, che fa che essa sia già sempre fuori di sé, che sia superata in direzione delle cose»54. Se seguiamo Patočka nel suo tentativo di pensare un movimento privo di ousia preliminare, arriviamo a concepire la soggettività come un evento, un accadimento, un prodotto di un movimento mai definitivamente compiuto: di un’atelés energeia il cui processo di attualizzazione resta sempre irrisolto55. Patočka, dunque, nel tentativo di mettere in luce la potenza ontologica e fenomenologica del movimento, sembra affermare il primato del processo sul prodotto, della kunesis sull’ousia, dell’individuazione sull’indiviCome suggerisce Paul Ricœur, si può considerare l’opera patočkiana come un’ellisse fra due punti focali, rappresentati dalla fenomenologia del mondo naturale da una parte, e dalla questione del senso della storia dall’altra. Questi due temi, scrive Ricœur, per quanto apparentemente privi di legame, sono in un rapporto di intima reciprocità, che merita di essere indagato alla luce della nozione di movimento inteso come quel dinamismo sempre in bilico tra potenza ed atto, tra possibilità virtuale e azione compiuta, che caratterizza sia il rapporto corporeo dell’uomo con il mondo che il suo rapporto esistenziale con la storia. Cfr. P. Ricœur, Dalla filosofia del mondo naturale alla filosofia della storia, in D. Jervolino (a cura di), L’eredità filosofica di Jan Patočka, cit. 53 Secondo Patočka, «in Aristotele vi è qualcosa, nel movimento, che si mantiene, che resta immutato, dal momento che il cambiamento è definito in rapporto a una costante – è la stessa foglia che appassisce, lo stesso vestito che si tinge, ecc. Se […] al posto di possibilità che sarebbero la proprietà, l’avere di una qualche cosa identica che in esse si realizza, noi supponiamo piuttosto che questa cosa sia la sua [del movimento] possibilità, che non vi è in esso nulla prima delle possibilità e soggiacente ad esse, che esso vive integralmente attraverso la maniera in cui esso è nelle sue possibilità – noi avremo una radicalizzazione del concetto aristotelico di movimento»; J. Patočka, Papiers Phénménologiques, Millon, Grenoble 1995, p. 107. 54 Ivi, p. 72. In Che cos’è la fenomenologia?, Patočka scrive: «Senza movimento non vi sarebbe nessuna esteriorizzazione del sé. Senza movimento nessun’opera, né poiesis né praxis»; J. Patočka, Che cos’è la fenomenologia?, cit., p. 125. 55 «[L]’être en tant que fin est indissolublement lié au mouvement en tant qu’acte imparfait – atelés energeia»; J. Patočka, Le monde naturel et le mouvement de l’existence humaine, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1988, p. 131. 52


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duato. Mettendo in risonanza le ricerche patočkiane sulla filosofia greca e la sua radicalizzazione del concetto aristotelico di movimento, potremmo arrivare a dire che l’anima è tensione instabile, in-quieta, della vita nella sua potenza dinamica e nello slancio che Patočka, nelle pagine del Socrate, definisce “sovraindividuale”, ma che forse non sarebbe errato designare come “transindividuale”56. In questo senso, ritengo che tra il riconoscimento patočkiano della priorità ontologica del movimento rispetto alla sostanza e l’attenzione rivolta da Foucault ai processi di soggettivazione si possano cogliere interessanti risonanze. Sebbene Patočka rimanga più interessato all’anima come principio di apertura trascendente alla totalità, mentre Foucault si riveli più attento al sé come prodotto di una poiesis immanente, ciò non toglie che entrambi gli autori concentrino la loro riflessione sulla dynamis – nel duplice significato di movimento e di forza57 – che governa la costituzione del “soggetto”. Potremmo dire che tanto per Foucault quanto per Patočka la prospettiva della cura è un modo per alimentare il serbatoio energetico di tale dynamis, per far sì che il potenziale relazionale che essa reca in sé germogli e le individuazioni che produce non si irrigidiscano. Il sé e la soggettivazione In Foucault, l’accento dinamico che caratterizza i processi di costituzione del sé emerge dal rapporto che si istituisce fra i tre assi fondamentali del potere, del sapere e delle soggettivazioni: l’attenzione genealogica di A questo proposito, sarà interessante indagare il modo in cui Patočka rielabora le riflessioni platoniche sulla tripartizione dell’anima. Il filosofo pone infatti l’accento sull’elemento dello thymos come vera forza motrice dell’anima. In epoca platonica, lo thymos è ancora lontano dal divenire un ingrediente dell’anima personale: esso indica ogni aspetto energico ed e-motivamente connotato dell’azione umana, è forza cosmopoietica transindividuale che infonde forza, energia, movimento. 57 In diverse occasioni, Patočka descrive il soggetto nei termini di dynamis, di energeia, di forza veggente e agente. Questa concezione dinamica e per certi versi “polemica” della soggettività avvicina Patočka agli studi foucaultiani sul principio dell’enkrateia che orienta il processo di costituzione del soggetto greco. La nozione di enkrateia non rimanda solo alla sophrosune (alla temperanza), ma implica una tensione conflittuale assente nella virtù della moderazione. Colui che è enkrates, infatti, non ha messo a tacere i propri desideri: semplicemente ne conquista il controllo, intrattenendo una lotta perenne con se stesso. L’enkrateia non è dunque una condizione di pacificazione raggiunta una volta per tutte, ma un equilibrio dinamico che è possibile conservare a patto di un perpetuo confronto tra forze. Cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 68-82. 56


198 Caterina Croce Foucault è volta ad indagare la dinamica che, nei diversi tempi storici, si istituisce tra pratiche di assoggettamento e processi di soggettivazione. Nelle antiche tecnologie del sé, Foucault scorge la possibilità di controbilanciare i propri precedenti studi sulla genealogia del soggetto, articolati maggiormente attorno ai dispositivi di assoggettamento: Poco a poco mi sono reso conto che in tutte le società esiste un altro tipo di tecniche: quelle che permettono agli individui di effettuare, autonomamente, alcune operazioni sui loro corpi, le loro anime, i loro pensieri, le loro condotte, e questo in modo da produrre una trasformazione di noi stessi […]; chiamo queste tecniche le tecniche del sé58.

La cura di sé interessa a Foucault nella misura in cui si offre come l’appiglio ermeneutico per indagare un’epoca in cui la dinamica tra pratiche di assoggettamento e processi di soggettivazione appare sbilanciata a favore del vettore ethopoietico della soggettivazione. Come spiega la generosa lettura di Deleuze, Foucault si interessa ai Greci, perché essi hanno piegato la forza, che tuttavia non cessa di essere forza. L’hanno rapportata a sé. Lungi dall’ignorare l’interiorità, l’individualità, la soggettività, hanno inventato il soggetto, ma come una derivata, come il prodotto di una “soggettivazione”. Hanno scoperto l’“esistenza estetica”, cioè il ripiegamento, il rapporto a sé, la regola facoltativa dell’uomo libero. […] L’idea fondamentale di Foucault è una dimensione della soggettività che deriva dal potere e dal sapere, ma non ne dipende59.

L’idea del soggetto come “derivata”, come prodotto di una “soggettivazione”, ci permette di spiegare le ragioni di quello che molti interpreti hanno definito un ritorno al soggetto60. Occupandosi del “soi” quale correM. Foucault, Sessualità e solitudine, in Archivio Foucault 3, cit., p. 157. G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2002, pp. 134-135. L’idea di una soggettività che deriva dal potere e dal sapere ma non ne dipende sembra rimandare alla definizione che Foucault propone della critica come «l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo»; M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 38. 60 Quando, negli ultimi anni della sua vita, fu chiesto a Foucault come mai avesse cambiato rotta rispetto ai suoi precedenti studi sul potere per un ritorno al soggetto, egli rispose che la questione del soggetto era sempre stata al centro delle sue ricerche. Cfr. M. Foucault, Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, trad. it. di D. Belati, M. Bertani, F. Gori e I. Levrini, La ricerca di Michel Foucault, La casa Usher, Firenze 2010, pp. 208-226. 58 59


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lato dell’arte epimeletica, Foucault non ritorna al soggetto: il suo obiettivo non è quello di edificare una teoria del soggetto, quanto quello di lavorare a una genealogia della de-soggettivazione. Come spiega Rovatti, Foucault continua infatti a parlare di un soggetto da svuotare, da liberare da se stesso, cioè dalla moderna cattura nella gabbia dell’individualità, e, se c’è un messaggio che rivolge ai contemporanei, si tratta dell’invito a una lotta contro il nuovo soggetto-individuo nel quale veniamo identificati dal dispositivo biopolitico della società attuale61.

In altri termini, Foucault arriva ad occuparsi della costruzione del sé perché è giunto a una riformulazione della problematica politica: le lotte e le resistenze attuali non possono più essere lotte contro la dominazione politica, né possono limitarsi a essere lotte contro l’oppressione economica; esse devono essere, prima di tutto, lotte contro gli assoggettamenti identitari. Forme di resistenza, cioè, a quei dispositivi – politici, economici e culturali – che danno forma a un certo tipo di soggetto e lo inchiodano alla sua identità. In questo senso, le souci de soi62 inteso come stilizzazione di sé, come ricerca del proprio modo di vita, come estetica dell’esistenza, si configura come capacità etica di prendere distanza dai processi di assoggettamento che mirano all’identificazione, all’individualizzazione, alla normalizzazione. Ma per prendere distanza dai processi di assoggettamento identitario occorre, prima di tutto, prendere distanza da sé: ecco, infatti, che Foucault parla di “se déprendre de soi-même” in quanto tentativo di coltivare quello scarto differenziale che, non schiacciandoci sulla nostra identità a noi stessi, ci rende disponibili a incontrare l’altro. «I rapporti che dobbiamo intrattenere con noi stessi non sono rapporti d’identità; devono essere piuttosto P.A. Rovatti, Il soggetto che non c’è, in M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano 2008, p. 219. Secondo Rovatti, cura di sé e programma biopolitico andrebbero studiati come le due facce della stessa medaglia, come lo stesso scenario ma illuminato da due punti differenti, giacché Foucault inizia a indagare i meccanismi di assoggettamento a partire dalle stesse soggettività. Si può vedere, infatti, come il tema della resistenza sfumi per ripresentarsi nella forma delle pratiche di soggettivazione, che si rivelano essere il pendant dei dispositivi di potere. Secondo Rovatti, la domanda che con Foucault dovremmo porci è: se partiamo dalla cura di sé e degli altri, se prendiamo in esame le tecniche di stilizzazione del sé, cosa diventano i soggetti, cosa possiamo dire di loro? 62 Le souci de soi (La cura di sé), come noto, è il titolo del terzo volume della Storia della sessualità. Cfr. M. Foucault, Le souci de soi, trad. it. di L. Guarino, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1991. 61


200 Caterina Croce rapporti di differenziazione, di creazione, di innovazione. È molto noioso essere sempre gli stessi»63. Il bios e la reinvenzione del comune Ritorniamo, allora, alla frase di Kundera secondo cui non c’è pace possibile fra il romanziere e l’agelasta, poiché «non avendo mai udito la risata di Dio, gli agelasti sono convinti che la verità è evidente»64. Kundera scrive questa frase rammentandosi del proverbio ebraico secondo cui “L’uomo pensa, Dio ride”. Dio ride, spiega Kundera, perché vede l’uomo affannarsi per una verità che gli sfugge. La saggezza del romanzo sboccia da questa consapevolezza: la verità ci sfugge, il consenso unanime è un miraggio, la traiettoria luminosa delle cause è una falsa pista. A Kundera piace pensare che, un giorno, François Rabelais abbia udito la risata di Dio e che dall’eco di quella risata abbia dato vita al romanzo europeo. È proprio Rabelais, infatti, a far riemergere dall’oblio la parola agélaste, colui che non ride, che non ha sense of humor. Georges Minois, nel suo libro Storia del riso e della derisione, spiega per quali ragioni certe correnti del pensiero antico si dichiarassero agelaste e diffidassero del riso: «Colui che ride si dissocia dall’oggetto del suo riso, prende le distanze dall’ordine del mondo invece di integrar visi»65. Il riso avrebbe dunque il potere della distanza: esso apre un varco, un margine di dubbio, una linea di fuga. Colui che ride fa un passo indietro rispetto all’ordine del mondo: «Il politico, il magistrato, la guardia, l’innamorato non riescono a ridere dei valori che difendono»66. Potremmo dire, allora, che l’uomo spirituale è colui che non smette di credere nel potere liberatorio del riso: richiamarsi alla non-evidenza della realtà significa prendere le distanze dall’ordine del mondo e percepire la propria estraneità rispetto ai luoghi comuni. Rabelais, ci racconta Kundera, aveva paura degli agelasti, giacché essi sono convinti che «tutti gli uomini debbano pensare la stessa cosa e che M. Foucault, Michel Foucault, une interview: sexe, pouvoir et la politique de l’identité, in Dits et écrits II, cit., p. 1555. 64 M. Kundera, L’arte del romanzo, cit., p. 220. 65 G. Minois, Histoire du rire et de la dérision, trad. it. di M. Carbone, Storia del riso e della derisione, Edizioni Dedalo, Bari 2004, p. 72. 66 Ibidem. 63


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loro stessi siano esattamente ciò che pensano di essere»67. È per contestare questa certezza monolitica che Patočka si appella alla cura dell’anima: essa è la spinta dinamica che reintroduce una distanza, che immette una differenza, che illumina una prospettiva inattesa. Credo che vada compreso in questi termini il valore etico che Patočka accorda al concetto platonico di chorismos: tratteggiato come ininterrotta tensione oltre il dato e oltre il presente, il chorismos patočkiano annuncia la possibilità dell’uomo di percorrere un margine critico rispetto al regime della semplice presenza. L’esperienza della separazione non segna solo la capacità di indietreggiamento del soggetto rispetto all’oggetto, ma anche del singolo rispetto alle proprie pratiche di vita: è un’esperienza di libertà che consiste nella capacità di distanziarsi da ciò che si fa, da ciò che si pensa e da ciò che si dice per conquistare nuove prospettive. Ecco, allora, perché non credo che sia fuorviante riconoscere in Patočka un interesse per l’orizzonte del bios come piano della vita da sperimentare, qualificare, reinventare. In questo senso, sebbene nel suo ultimo corso al Collège de France Foucault prenda le distanze da Patočka, rintracciando nel filosofo cèco un interesse per la nozione di cura dell’anima estraneo alla sua personale indagine – rivolta piuttosto all’epimeleia heautou (cura di sé) come messa alla prova, problematizzazione e stilizzazione del bios – credo che proprio l’attenzione rivolta al sé come piega della carne del mondo renda prossime le ricerche di Patočka e di Foucault. Quando Patočka connette la prospettiva della cura alla natura estatica e relazionale dell’esistenza, non pensa all’anima soggettivamente connotata, ma alla continua conquista di uno spazio liminare dove ricostruire, sempre di nuovo, «il fronte silenzioso» di coloro «che si compenetrano solo nel comune sconvolgimento della quotidianità»68. Il nesso che la riflessione foucaultiana istituisce con l’orizzonte del bios sembra invece alludere al movimento della vita che, presa nel duplice processo di assoggettamento e soggettivazione, inventa nuove forme di (r)esistenza e sfugge alla legge di predicabilità dualistica che separa la persona dalla non persona, la vita degna di essere vissuta dalla vita sacrificabile, il malato dal sano di mente, l’uomo dall’animale. La cura di sé tratteggiata da Foucault potrebbe essere intesa come cura di quell’eccedenza della vita che si crea un varco nei dispositivi di potere ed escogita stili singolari di resistenza e spazi comuni di libertà. Le souci de soi inteso come creazione di “modi di vita” segna anche l’apertura 67 68

M. Kundera, L’arte del romanzo, cit., p. 220. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, cit., p. 153.


202 Caterina Croce dello spazio comunitario come campo mai semplicemente presupposto né unicamente postposto: l’orizzonte del comune è continuamente ricreato dalla condivisione di stili di esistenza che tagliano in diagonale il piano delle relazioni istituzionalizzate. Lo spazio comune dischiuso dalla cura del bios non è certo quello del “noi” inclusivo ed escludente di chi crede di essere esattamente ciò che pensa di essere, ma quello che sorge dalla condivisione di un “modo di vita”, e cioè dalla «creazione di nuove forme di vita, di rapporti, di amicizie, nella società, nell’arte, nella cultura», cui Foucault allude parlando dell’amicizia come modo di vita e delle pratiche sessuali come occasioni storiche per riaprire virtualità relazionali ed affettive rimaste bloccate. «Un modo di vita», scrive Foucault, «può esser condiviso fra individui d’età, status e attività sociale differenti. Può dar luogo a relazioni intense che non somigliano a nessuna di quelle istituzionalizzate, e mi sembra che un modo di vita possa originare anche una cultura, e un’etica»69. A mio avviso, un simile pensiero non è estraneo all’orizzonte teorico di Patočka. O forse, non è estraneo alla sua esperienza di vita, se pensiamo alla sua attività nell’ambiente dissidente cecoslovacco, alla sua decisione di divenire portavoce di Charta 77, alla sua volontà di aderire al proprio impegno fino alle estreme conseguenze. Abbiamo avviato le nostre riflessioni richiamandoci agli scritti che Foucault ha dedicato al processo di moralizzazione portato avanti dalla dissidenza polacca. Esso, scrive Foucault, permette di mettere in comune, di sperimentare come esperienza condivisa, ciò che fino ad allora era rimasto un sentimento privato, ossia il disprezzo e l’avversione per il regime. È importante, a mio avviso, porre attenzione su questo rapporto tra un’interiorità assediata, bloccata, occupata (en chacun) e il moto espressivo che traduce in parole, testi, discorsi collettivi ciò che fino ad allora non aveva superato la sfera dell’intimità privata. Il processo di moralizzazione coincide dunque con questo movimento di estroflessione per cui si produce, si inventa, si riformula una dimensione del comune. È in questo senso che si produce quel fenomeno duplice per cui Il y a une certaine moralisation de la politique et une politisation de l’existence qui ne se font plus par la référence obligée à une idéologie ou à l’appartenance à un parti, mais qui se font par un contact plus direct des gens avec les événements et avec leurs propres choix d’existence70. 69 70

M. Foucault, De l’amitié comme mode de vie, in Dits et écrits II, cit., p. 984. M. Foucault, L’expérience morale et sociale des Polonais ne peut plus être effacée, cit., p. 1168.


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Cura dell’anima, cura del sé, cura del bios. Le scelte di vita sono il punto di contatto tra l’etica e la politica: dare forma alla propria vita, uno stile alla propria esistenza significa costruirsi come singolarità in divenire, in un rapporto produttivo con gli avvenimenti71. Mi avvio, allora, alla conclusione citando le parole di un allievo di Patočka, Tomáš Halík che, in un’intervista rilasciata in occasione del trentesimo anniversario di Charta 77, ricorda che il filosofo, poco prima di morire, in un pomeriggio di pioggia gli disse: “Sa, la gente che pensa deve pur incontrarsi”. Se riconduciamo questa frase al suo contesto – il periodo di maggior pressione del regime sovietico su Charta 77, a pochi giorni dagli interrogatori che portarono Patočka alla morte – essa dà conto della valenza etica e politica che Patočka riconosceva al pensiero e alla pratica filosofica. La gente che pensa, la gente che non si lascia incantare dagli slogan accattivanti del Giorno e non si lascia intimidire dalle offese del potere, deve potersi incontrare: deve poter pensare insieme. Il pensiero, laddove sia condiviso e partecipato, rappresenta una minaccia per il potere: un’eccedenza che crea uno scarto imprevisto, una linea di fuga possibile. Così, la condivisione di un medesimo spazio di discussione diventa occasione per farsi e riconoscersi comunità. Credo che, se si dovessero portare degli esempi concreti al principio filosofico della solidarietà degli scampati evocato da Patočka – esempi capaci di dare espressione a questo ideale nel tempo ordinario della storia e non nella frattura sismica dell’evento – si potrebbero citare proprio i seminari clandestini, le riunioni private, le collaborazioni sotterranee che Patočka non rinunciò mai a organizzare e alimentare. Lo stesso progetto di Charta 77 sembra nascere dalla volontà di incontrarsi, malgrado posizioni e credi differenti, per ricominciare a pensare insieme. Il manifesto di Charta 77 potrebbe essere preso a modello di quelle comunità spontanee e senza patria che nascono dal senso di reciproca responsabilità: dalla messa in comune di una medesima preoccupazione. E se ricordiamo che la nozione di cura reca in sé l’idea di preoccupazione, potremmo dire che la cura – in quanto turbamento, inquietudine, apprenChe il tentativo di dare forma alla propria vita e uno stile alla propria esistenza possa passare dal gesto di “prendere la parola”, è quanto Foucault sembra suggerire affrontando il tema della parrhesia, soprattutto nella declinazione che tale nozione ha assunto nell’ambito del cinismo. Per un confronto tra Patočka e Foucault a partire dal movimento della verità (Patočka) e dalle pratiche parrhesiastiche di veridizione (Foucault), mi permetto di rimandare al mio scritto Filosofia e politica in Jan Patočka: un’alleanza nel segno di Pólemos, in «Leussein. Rivista di studi umanistici», vol. 5 (2012), n. 1. 71


204 Caterina Croce sione – si rivela un agente “comunitario”. Un incentivo capace di creare dei nessi laddove il potere vorrebbe la dissociazione. Curarsi di sé e della propria anima, provando a pensare insieme. Senza smettere di prestare ascolto, beninteso, all’eco della risata di Dio. Caterina Croce Università degli Studi dell’Insubria/Université Jean Moulin Lyon 3 croce.caterina@gmail.com

. Dissidence and Style of Existence. The Perspective of Care between Jan Patočka and Michel Foucault In The Courage of Truth, Foucault refers to the research on the care of the soul led by the Czech phenomenologist Jan Patočka. Foucault marks a difference between his work, focused on the theme of the bios, and Patočka’s, focused on the theme of the psyché. Nevertheless, it can be argued that the concepts of bios and psyché, albeit different from an ontological point of view, both involve the need for a disobjectifying (Patočka) and a dis-enslaving (Foucault) movement that, freeing life from the seizure of power and knowledge, discovers and invents the dimension of the common. In fact, within Patočka’s a-subjective phenomenology, the psyché does not coincide with the individual soul, but with the ek-static movement of existence. The outlook of care (of the self, the soul, the bios), never disjointed from the critical ethos of dissent and distance, outlines the ethical vectors along which it is possible to rediscover a sense of common action. Keywords: Care of the self, Care of the soul, A-subjective phenomenology, Critical ontology, Dissidence.


Michel Foucault e le immagini.

Tre contributi per un’archeologia del figurativo Marco Malandra

Le immagini hanno ricoperto un ruolo molteplice e trasversale lungo

tutta la produzione intellettuale di Michel Foucault. In questo articolo intendo soffermarmi su una serie di scritti poco noti nel panorama italiano, dedicati agli artisti Paul Rebeyrolle, Gérard Fromanger e Duane Michals, per mostrare quanto le immagini siano state uno strumento nel quale Foucault ha riposto la propria fiducia, dialogando con esse e utilizzandole a seconda delle diverse finalità di ricerca. Piuttosto che analizzare le immagini come qualcosa su cui Foucault ha rigorosamente riflettuto, si propone qui di considerarle dei fedeli interlocutori con i quali il filosofo francese ha pensato, senza mai smettere di interagirvi e di provare piacere nel farlo. Paul Rebeyrolle: il potere panoptico e la forza di fuggire Paul Rebeyrolle (1926-2005)1 è un pittore francese la cui opera ha attirato l’attenzione di diverse personalità di spicco della cultura d’oltralpe negli anni Settanta – tra le quali Sartre e Foucault, che ne hanno recensito i dipinti sulla rivista «Derrière le Miroir»2. Nel 1973, l’artista ha esposto una serie di dieci tele intitolandola semplicemente Chiens. Ciascuna tela mostra un cane rinchiuso in cattività, raffigurato in diverse azioni di lotta, sofferenza e sconfitta. La sensazione di soffocante clausura che si prova dinanzi all’animale in gabbia è acuita dall’utilizzo di cavi in lattice o pezzi di legno attaccati sulla tela a costituire la gabbia entro la quale il cane è rinchiuso; l’unica possibilità di intravedere l’esterno è fornita da una minuscola finestra presente in ogni rappresentazione, ma essa assicura solamente una scarsa veduta di quel che accade al di fuori. L’utilizzo promiscuo di pittura e collage determina, nelle tele di Rebeyrolle, una forte Il sito della fondazione che ne custodisce la memoria artistica e personale è consultabile all’indirizzo www.espace-rebeyrolle.com. 2 La rivista ha dedicato cinque numeri monografici all’opera di Rebeyrolle; Jean-Paul Sartre ha scritto la presentazione al numero 187, intitolato Coexistences, mentre Foucault ha presentato le opere contenute nel numero 202, intitolato Les prisonniers. 1

materiali foucaultiani, a. I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 205-221.


206 Marco Malandra sensazione di “impasto visivo”, che appesantisce lo spessore e la ruvidità della tela enfatizzando la sensazione di sofferente fisicità dell’animale recluso. Ora, quando Foucault recensisce, con l’articolo La force de fuir3, tale serie di cani mostrati in gabbia, sofferenti nei loro vani tentativi di fuga, suggerisce l’idea di leggere in queste tele sia un’allegoria del sistema e del potere carcerario – del quale in quegli stessi anni si stava occupando –, sia il riconoscimento di una forza intrinseca nella pittura di Rebeyrolle, capace di creare uno spazio politico nel quale lo spettatore è indotto a porsi questioni che scuotono la sua coscienza. Già dalle primissime righe dell’articolo, infatti, appare chiaro quanto il filosofo francese intenda connotare con forza la sensazione di clausura che vivono gli animali in gabbia, al fine di avvolgervi anche lo spettatore. Siete entrati. Eccovi accerchiati da dieci quadri, che circondano una stanza di cui tutte le finestre sono state accuratamente richiuse. In prigione, anche voi, come i cani che vedete alzarsi e incespicare contro le grate4?

La sensazione di avviluppamento era accresciuta dallo spazio in cui i Chiens di Rebeyrolle erano esposti: in una stanza scura, attaccati ad anonime pareti senza la mediazione di alcuna cornice, essi determinavano un’ambientazione che acuiva la tetra e claustrofobica atmosfera già mostrata dalle dieci tele. Lo spettatore era catturato da queste immagini di prigionia disposte in uno spazio esiguo e, sebbene le immagini che gli si presentavano dinanzi rappresentassero cani e non esseri umani, Foucault evidenzia quanto fosse difficile non immedesimarsi in tale condizione d’imprigionamento, esulando dal particolare soggetto rappresentato e lanciandosi in una riflessione generale sulle carceri. …i Chiens non appartengono a un tempo determinato né a un luogo preciso. Non si tratta delle prigioni della Spagna, della Grecia, dell’Unione Sovietica, del Brasile o di Saigon; si tratta della prigione. Ma la prigione […] è oggi un luogo politico, cioè un luogo in cui nascono e si manifestano delle forze, un luogo in cui si forma della storia, e da cui il tempo sorge5.

Foucault utilizza i cani di Rebeyrolle come spunto di riflessione sulla prigione, al di là di qualsiasi particolarismo che un simile argomento può M. Foucault, La force de fuir, in «Derrière le miroir», n. 202 (1973), pp. 1-8; ora in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 1269-1273. 4 Ivi, p. 1269 (traduzione mia). 5 Ibidem (traduzione mia). 3


Michel Foucault e le immagini 207

presentare; la prigione come potere in grado di agire panopticamente sulla vita degli individui, ma anche come possibilità di interagire nel gioco delle forze al fine di non subirle in maniera totalmente passiva. A tal proposito, secondo Foucault, proprio la serie dei cani dipinti da Rebeyrolle manifesta una forza in grado di sollecitare un movimento di fuga, quasi a lasciare intravedere che a ogni potere – per quanto oppressivo esso sia, come il potere carcerario – corrisponde ontologicamente un’occasione di resistenza: La serie dei quadri, piuttosto che raccontare quel che è successo, trasmette una forza la cui storia può essere raccontata come la scia della sua fuga e della sua libertà. La pittura ha almeno questo in comune con il discorso: quando trasmette una forza che crea della storia, essa è politica6.

Foucault analizza i quadri nel loro svolgersi seriale, vivificando le variazioni che uno stesso tema subisce nello scorrere delle diverse tele. Si realizza così un climax: gli elementi dipinti, che dapprima sono espressione della massima oppressione, sono successivamente attraversati da una potenza narrativa che, di tela in tela, li carica di una forza di fuga liberatrice. Il primo elemento sul quale Foucault si sofferma è la verticalità; egli ci suggerisce come essa sia da intendere «non come una delle dimensioni dello spazio, [ma come] la dimensione del potere»7. Infatti, sia nel mondo delle prigioni, sia nelle gabbie di Rebeyrolle, la verticalità è soprattutto rappresentata da elementi di dominio, dai manganelli che minacciano gli animali, impedendo loro di accucciarsi il giorno o di alzarsi la notte, fino all’impiccagione – che Foucault cita quasi come se volesse indicarla come soglia estrema di contro-potere, con la quale l’individuo si oppone alla rigida verticalità del potere scegliendo proprio l’unica maniera in cui si può «morire in piedi»8. La potenza dei bastoni, nei quadri di Rebeyrolle, è inoltre acuita dall’effettiva materialità del legno, letteralmente incollato alla tela in modo tale che risulti impossibile staccarlo senza danneggiare quest’ultima. Ibidem (traduzione mia). Ivi, p. 1270 (traduzione mia). 8 La verticalità «domina, sorge, minaccia, schiaccia; enorme piramide di edifici, al di sopra e al di sotto; ordini abbaiati dall’alto e dal basso; divieto di coricarti il giorno, di alzarti la notte; in piedi davanti ai guardiani, sull’attenti davanti al direttore; crollato sotto i colpi nelle segrete sotterranee, o legato al letto di contenzione per non aver voluto accucciarti davanti ai secondini; e, finalmente, l’impiccagione leggera, sola uscita per fuggire alla prigionia in lungo e in largo, sola maniera di morire in piedi»; ibidem (traduzione mia). 6 7


208 Marco Malandra Un secondo elemento che fa coppia con l’oppressione determinata dalla verticalità dei manganelli è costituito dalle finestre che, lungi dal rappresentare l’unico mezzo che la pittura possiede per aprirsi al mondo, sono del tutto impotenti a designare qualsivoglia fessura di libertà. Guardate: le finestre sono bianche, finché la reclusione trionfa. Né cielo, né luce: nulla dell’interno si lascia intravedere; niente nemmeno si azzarda a penetrare. Piuttosto che un esterno, si tratta di un puro fuori [dehors], neutro, inaccessibile, senza figura. Questi riquadri bianchi non indicano affatto un cielo e una terra che si potrebbero vedere da lontano, [ma] rimarcano che si è qui e da nessun’altra parte. […] [Le finestre sono il] blasone dell’impotenza nuda9.

Questi, secondo Foucault, gli emblemi di forza oppressiva e potere ai quali i soggetti di Rebeyrolle si trovano soggiogati; tre emblemi – la gabbia, il bastone e le finestre – che spostano il centro focale dei dipinti dall’apparenza estetica agli elementi politici del potere e della lotta tra le forze. I primi dipinti della serie sono tutti caratterizzati da tali elementi: ne La Geôle, le guardie immobili sorreggono dritti i propri bastoni; quando i cani si sollevano contro i carcerieri, i bastoni divengono barre e grate di una gabbia, come in Cachot. A tale potere oppressivo, tuttavia, Foucault contrappone una forza di resistenza che, a suo avviso, si scorge nella serie che Rebeyrolle compone; una forza di fuga che costituisce il complementare rovescio della medaglia del potere carcerario. La prima forma di tale forza liberatrice si coglie nel dipinto intitolato Dedans: un fascio di colore blu illumina la superficie bianca della finestra fino a quel punto impenetrabile e asettica. Ma non è dalla finestra che sgorga tale salvifica luce, bensì da una crepa che fende il muro dall’alto verso il basso, come se venisse squarciato da una grande spada blu. Questa luminosa forza di fuga risignifica gli elementi della rappresentazione: la verticalità, ad esempio, cessa di essere blasone di un potere oppressivo per incarnare, nella lunga crepa sul muro, la speranza della libertà. In secondo luogo, i bastoni verticali attaccati alla tela per esasperare la materialità della gabbia non impediscono ai muri di sgretolarsi, permettendo ai cani di infilare una zampa o il muso attraverso le fessure, nel tentativo di aprirsi un varco. Tale impazienza di libertà dei cani reclusi è commentata da Foucault attraverso un profetico parallelo con gli esseri umani: «Nella lotta degli uomini, nulla di grande è mai passato attraverso le finestre, ma tutto, sempre, attraverso il crollo 9

Ivi, p. 1269 (traduzione mia).


Michel Foucault e le immagini 209

trionfante dei muri»10. Questo climax di ascesa verso la libertà continua ad attraversare la serie delle tele, nelle quali si scorgono cani raggomitolati con i muscoli contratti, pronti a saltare attraverso le aperture verso una superficie blu e infinita: un salto, tanto basta al cane per rovesciare lo scenario e lasciare la parete carceraria dietro di sé. La fuga determina una forza orizzontale che non può essere rappresentata su una tela sola, ma che emerge considerando le tele nel loro insieme, le une accanto alle altre. Si assiste così a una fuga dinamica che culmina nella tela finale, il quadro della totale «trasversalità», una via di mezzo nella quale sono presenti sia la forza scura del passato, sia «gli acquazzoni di colore futuri»; e soprattutto, su tutta la lunghezza della tela, appaiono le tracce della fuga frenetica del cane, le tracce di un’evasione. La pittura di Rebeyrolle è riconosciuta da Foucault come straordinaria occasione di riflessione sui processi di liberazione degli individui in una società di controllo e sorveglianza che presenta connotati panoptici11: Rebeyrolle ha trovato il modo di far passare in un sol gesto la forza di dipingere nella vibrazione della pittura. La forma non è più incaricata nelle sue distorsioni di rappresentare la forza; e quest’ultima non deve più sfigurare la forma per manifestarsi. La stessa forza passa direttamente dal pittore alla tela, e da una tela a quella che segue; dall’abbattimento tremante, poi dal dolore sopportato fino a un fremito di speranza, al balzo, alla fuga senza fine di quel cane che, girandovi attorno, vi ha lasciati soli nella prigione in cui siete ora rinchiusi, storditi dal passaggio di questa forza che è ormai già lontana da voi, e della quale non vedete altro che le tracce – le tracce di chi “si salva”12.

La pittura ricorda incessantemente allo spettatore che lo spettacolo della rappresentazione lo riguarda e lo coinvolge. Per questa ragione, Ivi, p. 1270 (traduzione mia). In un passo di Sorvegliare e punire, Foucault afferma che «la nostra società non è quella dello spettacolo, ma della sorveglianza; sotto la superficie delle immagini, si investono i corpi in profondità; dietro la grande astrazione dello scambio, si persegue l’addestramento minuzioso e concreto delle forze utili; i circuiti della comunicazione sono i supporti di un cumulo e di una centralizzazione del potere; la bella totalità dell’individuo non è amputata, repressa, alterata dal nostro ordine sociale, ma l’individuo vi è accuratamente fabbricato, secondo tutta una tattica di forze e di corpi. Noi siamo assai meno greci di quanto non crediamo. Noi non siamo né sulle gradinate né sulla scena, ma in una macchina panoptica, investiti dai suoi effetti di potere che noi stessi ritrasmettiamo perché ne siamo un ingranaggio». M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975; trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 236 (corsivo mio). 12 M. Foucault, La force de fuir, cit., pp. 1272-1273 (traduzione mia). 10 11


210 Marco Malandra i Chiens di Rebeyrolle, secondo Foucault, non possono non indurre gli spettatori a immedesimarsi nella condizione di lotta contro le gabbie nelle quali i cani sono rinchiusi: lo spazio pittorico diviene così politico, offrendo l’opportunità agli individui di riflettere su un mondo di prigioni tanto artistiche quanto reali. Gérard Fromanger: la frenesia dell’immagine Due anni dopo aver recensito i Chiens di Rebeyrolle, Foucault si occupa nuovamente d’arte e redige un breve articolo dedicato a un altro artista francese: il pittore Gérard Fromanger. Si tratta di un artista contemporaneo poco noto al grande pubblico, le cui opere raramente sono state esposte al di fuori dei confini europei13. Nel 1975, in occasione della retrospettiva Le désir est partout, interamente dedicata al pittore, Foucault arricchisce il catalogo della mostra con un saggio intitolato La peinture photogénique14, nel quale presenta l’opera di Fromanger. L’esame di questo scritto permette di sincronizzare le riflessioni sulle immagini e l’impianto generale del pensiero foucaultiano. L’articolo risale al 1975 che, com’è noto, è anche l’anno di pubblicazione di Sorvegliare e punire. Ora, se le posizioni di Foucault sulle immagini furono influenzate dalle altre ricerche che egli stava compiendo, è necessario collocare anche lo scritto su Fromanger – così come abbiamo fatto in precedenza con quello dedicato a Rebeyrolle – nel contesto dell’indagine sul potere che il filosofo francese condusse durante gli anni Settanta. Sulla scorta di queste considerazioni, si può intendere La peinture photogénique come la dichiarazione del punto di vista foucaultiano riguardo al ruolo che le immagini svolgono nella società contemporanea. Questa chiave interpretativa, inoltre, è suggerita e corroborata dall’analisi che Gary Shapiro ha dedicato agli scritti di Foucault sull’arte e le immagini15. In particolare, lo studioso americano invita ad individuare, nell’articolo su Fromanger, il tentativo foucaultiano di presentare l’arte come la possibilità, per il singolo, di riacquisire un’etica di approccio all’immagine in contrasto con un mondo in cui il proliferare pletorico di immagini pubGérard Fromanger è un artista francese, nato il 6 settembre 1939 a JouarsPontchartrain. Attualmente vive e lavora tra Siena e Parigi. L’ultima grande retrospettiva dedicata a Fromanger è stata allestita nel 2005 in Francia, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. 14 M. Foucault, La peinture photogénique, in Le désir est partout. Fromanger, Galerie Jeanne Bucher, Paris 1975, pp. 1-11; ora in Dits et écrits I, cit., pp. 1575-1583. 15 Cfr. G. Shapiro, Archaeologies of Vision. Foucault and Nietzsche on Seeing and Saying, The University of Chicago Press, Chicago–London 2003. 13


Michel Foucault e le immagini 211

blicitarie e bombardanti messaggi visivi svolge una pressione continua sugli individui, spesso senza che questi ultimi abbiano gli strumenti culturali necessari per arginare tale passiva ricezione. Cerchiamo quindi di capire in che modo la riflessione foucaultiana sull’opera di Fromanger si inscriva in questo contesto, e perché l’arte del pittore francese permetta all’individuo di acquisire un’etica dell’immagine in grado di fornirgli elementi critici che lo tutelino dal potere frenetico che si manifesta nella convulsa diffusione delle immagini nella società contemporanea. Uno dei principali caratteri della pittura di Fromanger che ha catturato l’attenzione di Foucault è la tecnica pittorica dell’artista, che può essere definita come un vero e proprio dispositivo. Se, infatti, con questo termine si intende deleuzianamente un groviglio che racchiude in sé disparate ed eterogenee componenti, allora è perfettamente adottabile anche per l’opera di Fromanger, il quale produce immagini mediante un’originale commistione di tecniche di proiezione, fotografia e pittura. Le opere sono realizzate proiettando fotografie in bianco e nero su una tela; i soggetti delle fotografie spesso sono scelti casualmente e immortalano le scene più disparate – da istantanee che ritraggono un banale frammento di una strada francese, fino a ritratti carichi di valenza politica come quelli delle rivolte carcerarie in Cina. In seguito, l’artista dipinge sopra tali immagini proiettate, caricando la scena con colori brillanti. Ne risulta un dipinto dominato da un colore particolare – ad esempio un rosso molto caldo, o un verde cangiante – che trasforma l’immagine in bianco e nero proiettata sulla tela in un vero e proprio acquazzone di colori. In alcune opere, la silhouette nera dell’artista appare, come fosse un’enigmatica ombra, sovrapposta alle immagini. Queste peculiarità della pittura di Fromanger, in particolare l’uso di fotografie proiettate come sfondo, mostrano le sue affinità con grandi esponenti della Pop Art come Andy Warhol, anche se, diversamente da quest’ultimo, il pittore francese non si impegnerà nella produzione seriale delle proprie opere. Foucault inizia il proprio scritto, La peinture photogénique, mettendo immediatamente in risalto il carattere misto della pittura di Fromanger e rigettando, di fatto, qualsiasi semplice e sicura divisione tra l’ambito della fotografia e quello della pittura. Tale distinzione si è affermata, nell’immaginario comune, a partire dalla fine del XIX secolo, quando si è caricata la fotografia di un valore epistemologico in quanto perfetta rappresentazione del reale, mentre la pittura continuava ad essere considerata come espressione della rappresentazione estetica per eccellenza. Lo stesso Ingres, citato da Foucault in apertura del saggio, interpretava la fotografia come una semplice e meccanica serie di operazioni manuali che, per quanto conducesse a un


212 Marco Malandra ottimo risultato, non si poteva ammettere fosse propriamente bella – quasi a suggerire che questo genere di tecnica non trovasse posto nel dominio estetico dell’arte16. Al contrario Foucault, rifiutando il netto iato tra fotografia e pittura, entra in dialogo con le citazioni di Ingres al fine di trovare nuove possibilità nel rapporto fra le due arti; in particolare, egli suggerisce di considerare sia la fotografia sia la pittura come una serie di operazioni manuali, tanto da poterle mettere in comunicazione tra loro, combinandole, alternandole, sovrapponendole, incrociandole o ancora facendo sì che si cancellino ed esaltino l’una con l’altra. Di conseguenza, la pittura di Fromanger incarna alla perfezione queste sfide alla netta distinzione tra dominio fotografico e pittorico; anzi, a detta di Foucault, essa mostra quanto le pratiche fotografiche e pittoriche possano compenetrarsi a fondo, trasformandosi vicendevolmente. Il filosofo francese aggiunge che, fino al 1860-1880, tale capacità di mischiare i generi era totalmente presente nella cultura europea: era il tempo della frenetica circolazione di immagini sempre nuove che non potevano essere ingabbiate in un’unica tecnica: Le immagini, allora, correvano per il mondo sotto identità fallaci. Niente ripugnava loro maggiormente che restare prigioniere, identiche a se stesse, in un quadro, una fotografia, un’incisione, sotto il segno di un autore. Nessun supporto, nessun linguaggio, nessuna sintassi stabile poteva trattenerle: dalla loro nascita, o dalla loro ultima fermata, esse sapevano sempre evadere attraverso nuove tecniche di trasposizione17.

Foucault cerca di mettere in evidenza quanto tale attività creativa e poietica attorno e sulle immagini fosse una pratica comune durante un certo periodo del XIX secolo, tanto da dare origine a una tradizione di generi misti come la fotopittura, la fotominiatura, la fotoincisione e la ceramica fotografica: «ci si divertiva molto con tutte queste piccole procedure che ridevano dell’Arte. Desiderio dell’immagine dappertutto, e in tutti i modi, piacere dell’immagine»18. Un desiderio e un piacere dell’immagine che tuttavia, secondo Foucault, dimostravano anche quanto fosse diffusa la capacità degli individui di interagire con le immagini, di diventare a loro volta Foucault inizia il proprio articolo citando due frasi di Ingres: «Ingres: “Considerando che la fotografia si riassume in una serie di operazioni manuali…”. […] Ingres ancora: “La fotografia è molto bella, ma non bisogna dirlo”». M. Foucault, La peinture photogénique, cit., p. 1575 (traduzione mia, corsivo mio). 17 Ivi, p. 1576 (traduzione mia). 18 Ivi, p. 1578 (traduzione mia). 16


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attori attivi nel vertiginoso e continuo vortice circolatorio delle immagini: un’etica e pratica dell’immagine che Foucault giudica della massima importanza, poiché denota quanto gli individui non subissero passivamente il linguaggio visivo. Di contro, con l’avvento del XX secolo, si assiste a un aumento del tecnicismo nell’arte, che cessa di essere una pratica quotidiana aperta alla libera azione di tutti, divenendo appannaggio esclusivo di professionisti dell’immagine, quali tecnici di laboratorio e commercianti: i primi sviluppano la fotografia, i secondi la consegnano. Nessuno è quindi più in grado di liberare l’immagine dalle maglie professionali nelle quali è imprigionata. Questa situazione, in cui gli individui non sono più in grado di interagire con l’arte, in cui hanno perduto l’abitudine e la pratica attiva di modificare le immagini, inaugurando così la possibilità di esserne semplicemente i fruitori passivi, è talmente biasimata da Foucault che egli pronuncia un monito per la riappropriazione dell’etica e della pratica dell’immagine che si carica di una fortissima valenza politica: …privati della possibilità tecnica di fabbricare delle immagini, costretti all’estetica di un’arte senza immagine, piegati all’obbligo teorico di squalificare le immagini, educati a non leggere le immagini se non come un linguaggio, potevamo essere consegnati, piedi e polsi legati, alla forza di altre immagini – politiche, commerciali – rispetto alle quali eravamo senza potere19.

Come visto in precedenza a proposito dell’opera di Rebeyrolle, anche in questo caso l’indagine e l’interesse di Foucault per le immagini sono focalizzati su particolari dinamiche di potere; ancora una volta, le immagini sono portatrici di una carica politica in grado di agire sugli individui, sono espressione di un determinato potere; è quindi necessario che gli individui siano in grado di adottare pratiche di contro-potere visuale che permettano loro di agire sulle immagini, piuttosto che subirle. Foucault, infatti, si chiede come sia possibile apprendere nuovamente che le immagini spesso devono essere decifrate, rigirate e, a volte, addirittura fabbricate: Come ritrovare il gioco di un tempo? Come reimparare non solo a decifrare o rigirare le immagini che ci vengono imposte, ma a fabbricarne di tutti i tipi? Non solo a fare altri film o fotografie migliori, non solo a ritrovare il figurativo nella pittura, ma a mettere le immagini in circolazione, a farle transitare, a travestirle, a deformarle, a scaldarle con il rosso, a ghiacciarle, a moltiplicarle20? 19 20

Ibidem (traduzione mia). Ibidem (traduzione mia).


214 Marco Malandra La capacita di giocare liberamente con e sulle immagini, contribuendo alla loro circolazione frenetica, è il contro-potere che Foucault riconosce nella pittura di Fromanger, la quale si determina come spazio politico in grado di coinvolgere lo spettatore facendolo riflettere sulle necessità di un’etica e di un’educazione all’immagine. Secondo Foucault, infatti, Fromanger colpisce per la sua capacità di volatilizzare le immagini, decontestualizzandole e risignificandole. Ad esempio, nella serie in cui ritrae una rivolta nella prigione di Toul, che cos’è veramente rappresentato? Il gesto di gettare una serie di macchie multicolore sulla fotografia – come se fossero coriandoli carnevaleschi – carica la scena di tutt’altra emozione rispetto alla dura realtà della rivolta carceraria. Come anche Shapiro ha osservato, sembra che Foucault, nel suo saggio, rintracci nell’opera di Fromanger la capacità di risignificare immagini il cui contenuto è abitualmente codificato in maniera univoca: nel mondo delle immagini istantanee, questi uomini sul tetto sono semplicemente soggetti pericolosi, criminali rinchiusi che si ribellano contro la loro condizione; la loro presenza sul tetto è un atto di disperazione che suggerisce immediatamente l’assenza di significato della loro impresa. Foucault, particolarmente sensibile alle rivolte carcerarie e personalmente impegnato, tra il 1971 e il 1972, nell’esperienza del Groupe d’information sur les prisons (G.I.P.), propone invece di considerare l’atto di protesta come una rivendicazione in grado di allargare la possibilità di azione politica, lo spazio politico dei detenuti. Possibilità che i coriandoli colorati della pittura di Fromanger adornano come fosse una vera e propria festa, rovesciando completamente il significato dell’immagine iniziale. Si crea quindi una tensione politica tra l’immagine e lo spettatore, il quale non può non interrogarsi sull’apparenza festiva della ribellione, chiedendosi per quale ragione il pittore abbia effettuato tali operazioni sulla tela. Dunque, agire creativamente sulle immagini significa, per Foucault, aprire la possibilità che queste ultime non siano catturate in significati sempre uguali e codificati: riappropriarsi della capacità di modificare le immagini permette all’individuo di esercitare la propria libertà. In questo contesto, la pittura di Fromanger è l’esempio di come le immagini non vengano catturate, ma fatte circolare liberamente: I quadri di Fromanger non catturano le immagini; non le fissano; le fanno passare. Essi le conducono, le attirano, aprono loro dei passaggi, accorciano loro le strade, permettono loro di bruciare le tappe e le lanciano ai quattro venti. La serie fotografia-diapositiva-proiezione-pittura, presente in ciascun quadro, ha la funzione di assicurare il transito di un’immagine. Ogni quadro è un passaggio; un’istantanea che, invece di essere prelevata dalla fotografia sul movimento della


Michel Foucault e le immagini 215 cosa, anima, concentra e intensifica il movimento dell’immagine attraverso i suoi supporti successivi21.

Foucault chiama «transumanza autonoma»22 questa continua iterazione e circolazione delle immagini: come le mandrie da allevamento si muovono attraverso diversi pascoli nel corso delle stagioni, così la migrazione autonoma delle immagini assume i caratteri di una ricerca nomade, nella quale gli individui che si avvicinano alla pittura di Fromanger sono chiamati a riscoprire il piacere di manipolare, modificare, interagire e variare le immagini. Una simile attività permette loro di inaugurare uno spazio politico di reazione e resistenza contro le forme usuali di immagine che circolano nella società contemporanea. Il soggetto diviene così un saccheggiatore o un contrabbandiere in grado di produrre e trasformare in immagini rivoluzionarie persino gli anonimi e standardizzati cartelloni pubblicitari che invadono le strade. E proprio le strade dipinte – ma forse sarebbe meglio dire create – da Fromanger sono un ulteriore esempio di come la sua pittura sia in grado di risignificare un soggetto rappresentato: quel luogo che d’abitudine è pensato totalmente attraversato dai segni della convenzione e del potere pubblicitario, diviene nella pittura di Fromanger qualcosa di completamente altro. Non più una strada in particolare, ma un universale cammino per i continenti in grado di portare fino al cuore della Cina o dell’Africa. Duane Michals e La cura di sé Foucault scrive il proprio ultimo contributo sull’arte e le immagini recensendo, in un denso articolo, alcune opere di Duane Michals, in occasione dell’esposizione La pensée, l’émotion23. L’analisi di questo articolo permette di rintracciare una linea di continuità con gli altri testi che Foucault stava redigendo in quel periodo. In particolare, lo scritto su Michals presenta una notevole consonanza con il progetto di un’“estetica dell’esistenza” che emergerà dalle pagine del secondo e terzo volume della Storia della sessualità, Ivi, p. 1581 (traduzione mia). Ivi, p. 1582. 23 M. Foucault, La pensée, l’émotion, in D. Michals, Photographies de 1958 à 1982, Musée d’Art moderne de la ville de Paris, Paris 1982, pp. III-VII; ora in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1062-1069. Duane Michals è un fotografo statunitense, nato nel 1932 a McKessport (Pennsylvania). 21 22


216 Marco Malandra pubblicati pochi mesi prima della morte di Foucault. Tuttavia, prima di analizzare quale legame possa esserci tra lo scritto La pensée, l’émotion e gli obiettivi dell’ultima grande impresa intellettuale foucaultiana, concentriamoci sulle caratteristiche che, nella fotografia di Michals, hanno suscitato l’interesse del filosofo francese. Come nel saggio su Fromanger, anche lo scritto su Michals denota la curiosità foucaultiana per i risultati che le innovative forme di espressione artistica hanno raggiunto combinando fotografia e pittura. Ancora una volta, Foucault richiama il paradigma secondo il quale la fotografia ricoprirebbe il ruolo di fedele restitutrice della realtà, mentre alla pittura sarebbe riservata la possibilità di estendersi fino ai limiti dell’immaginazione e dell’astrazione. Per sottolineare la distanza che separa tale cristallizzazione archetipica del rapporto tra le due arti e la tecnica di Michals, Foucault cita in apertura del saggio una frase del fotografo che rende l’idea della sua totale inversione di tendenza rispetto alla tradizione: «Le persone credono alla realtà delle fotografie ma non alla realtà dei dipinti. Questo è un grande vantaggio per i fotografi. Il problema è che anche i fotografi credono alla realtà delle fotografie»24.

L’immaginario comune, dove anche i fotografi credono ciecamente alla fotografia, è inteso da Michals come qualcosa di vizioso e illusorio, e Foucault non manca di evidenziare come nell’opera del fotografo sia possibile rintracciare una critica verso tale precisa etica dello sguardo che rende l’occhio fotografico qualcosa di assolutamente neutro e sicuro. Afferrare il reale, cogliere sul fatto, catturare il movimento, far vedere, per Duane Michals, è la trappola della fotografia: un falso dovere, un desiderio maldestro, un’illusione su se stessa. «I libri di fotografia hanno spesso dei titoli come: “L’occhio del fotografo”, o “Lo sguardo di Machin-Chose”, o “Far vedere”, come se i fotografi non avessero che occhi, e nulla nella testa»25.

Piuttosto che assoggettare la fotografia ai comandamenti di un’idea di sguardo imperiosa e impeccabile, riducendo così il fotografo a essere «solo occhio»26, in Michals è presente un lungo lavoro finalizzato a distaccarsi da tale ristretta etica dello sguardo, per cercare di annullare la funzione esclusivamente oculare della fotografia. Di conseguenza, l’opera di Michals roIvi, p. 1063 (traduzione mia). Ivi, p. 1065 (traduzione mia, corsivo mio). 26 Ibidem. 24 25


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vescia il rapporto epistemologico tra pittura e fotografia, fornendo anche a quest’ultima la possibilità di far entrare nel proprio campo rappresentativo elementi della vita umana convenzionalmente irrappresentabili. Non è casuale, infatti, la citazione che Foucault riprende da Michals: «Tutto è materia per la fotografia, soprattutto le cose difficili della nostra vita: l’ansia, i grandi dolori dell’infanzia, il desiderio, gli incubi. Le cose che non si possono vedere sono le più cariche di senso»27. Per accentuare il gesto artistico di Michals, Foucault rimarca nel proprio articolo come la soglia tra pittura e fotografia sia più volte oltrepassata dall’artista; le sue fotografie, lungi dal rappresentare la realtà nei suoi termini canonici, segnano un’apertura verso la dimensione spirituale, evocando evanescenti e pressoché invisibili oggetti, quasi a lasciar intendere che la macchina fotografica sia riuscita ad immortalare uno spirito, un’aura o un ectoplasma. In altri casi, lo spettatore non è in grado di distinguere, nelle fotografie di Michals, quel che tradizionalmente è reale da quello che non lo è come, ad esempio, nel Ritratto di Roy Headwell che Foucault descrive mediante un’abile ékphrasis: Un giovane uomo, Roy Headwell, è seduto, tutto contro un tavolo; lentamente, ha piegato la testa; ha finito per posarla [sul tavolo]. Si è appena addormentato, tenera scultura. Questa è la fotografia. Un po’ più lontano, sul medesimo tavolo, a metà tra i capelli biondi dell’addormentato e il nostro sguardo, ci sono dei biscotti accuratamente modellati: dei bordi, degli angoli, varie facce luminose […]: ecco, è in quelle figure insensatamente reali che si concentra tutta la parte dipinta della fotografia. Provate voi a capire se quei biscotti sono il messaggio del sognatore, o l’indubitabile oggetto della nostra percezione28.

In quest’opera, dove pittura e fotografia si sovrappongono, Foucault riconosce una vera e propria risata indirizzata verso i canoni della fotografia iperrealista; una risata che allarga le possibilità della rappresentazione giocando sulla sottile linea che separa sogno e percezione. Come ha evidenziato Shapiro in Archaeologies of Vision, Michals ha qui realizzato qualcosa di simile a quanto avveniva nel pensiero epicureo, dove le visioni e i sogni non erano semplicemente collocati nella mente degli individui, ma avevano una vera e propria sostanzialità derivata dagli dèi e, pertanto, potevano essere perfettamente rappresentati. Il secondo carattere tipico della tecnica di Michals che Foucault pone in rilievo è la capacità dell’artista di decontestualizzare il soggetto rappresentato. In particolare, Foucault riconosce alcuni «procedimenti magrittia27 28

Ivi, p. 1063 (traduzione mia). Ivi, pp. 1063-1064 (traduzione mia).


218 Marco Malandra ni»29 con i quali l’artista crea una forte tensione tra il titolo dell’opera, o altre iscrizioni che sovente vi inserisce, e quanto è effettivamente percepibile nella fotografia, come nel caso di This Photograph Is My Proof: la fotografia rappresenta una giovane donna che abbraccia un uomo di schiena, appoggiando teneramente la propria testa su una scapola del compagno. Tutto lascia presagire che si tratti di un placido ritratto di una coppia felice se non che, nella parte inferiore della fotografia, è riportata a mano una scritta che recita: «Questa fotografia è la mia prova. Lei c’era quel pomeriggio, quando le cose andavano ancora bene tra noi, e lei mi abbracciava, ed eravamo così felici. È successo, mi ha amato. Controlla, guarda tu stesso!»30. Lo spettatore è quindi indotto a riguardare la scena, scovando nell’espressione enigmatica della donna i presagi di quello che succederà in futuro alla coppia e stravolgendo, di conseguenza, l’interpretazione iniziale dell’opera. Ciò su cui si sofferma Foucault, tuttavia, non riguarda l’ermeneutica del significato suggerito da queste parole; il gesto artistico di Michals è decisivo nella misura in cui problematizza quel che appare nella fotografia, in quanto le parole a margine sono state poste proprio per disorientare, evitando di lasciar intendere in maniera esplicita il legame con il soggetto rappresentato. Gli spettatori sono di conseguenza coinvolti in questo indeciso rimando tra testo e immagini che li costringe a svolgere un’attività costruttiva che, come già visto in Rebeyrolle e Fromanger, li fa interrogare sullo statuto delle immagini, intese non come qualcosa di fisso da subire acriticamente, ma piuttosto come qualcosa di effimero esposto all’invisibile brezza del mutamento. Riassumendo, si può affermare che, secondo Foucault, anche l’arte di Michals è in grado di esercitare un potere che apre una breccia politica tale da coinvolgere lo spettatore-fruitore delle immagini: in particolare, nel mondo contemporaneo dove sempre più energie sono consacrate alla scientifica documentazione fotografica e le immagini sono codificate secondo dettami convenzionali, l’opera di Michals ricorda agli individui la necessità di un’arte che sappia costruire immagini disorientanti e problematiche, talvolta persino abitate da ombre e fantasmi. Ora, dopo aver delineato i caratteri dell’opera di Michals che maggiormente hanno attirato la curiosità foucaultiana, possiamo rivolgere l’at«Duane Michals ha incontrato Magritte e l’ha adorato. Si trovano nella sua opera molti procedimenti “magrittiani” – cioè esattamente opposti a quelli di Bacon: consistono, in effetti, nel lucidare, nel rifinire una forma fino al suo più alto punto di realizzazione, poi nello svuotarla di tutta la realtà e nel sottrarla dal suo campo di visibilità familiare tramite degli effetti di contesto». Ivi, p. 1066 (traduzione mia). 30 Cfr. G. Shapiro, Archaeologies of Vision, cit., p. 381 (traduzione mia). 29


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tenzione sugli spunti che il saggio sul fotografo statunitense offre come possibili legami tra la produzione dell’artista e le ultime speculazioni del filosofo francese, in particolare per ciò che riguarda la nozione di “estetica dell’esistenza”. Come preliminare punto d’indagine in tale direzione, è utile porre in risalto il fatto che Foucault lasci trasparire nell’articolo su Michals una sorta di attrazione per il carattere sperimentale della sua arte: le sue fotografie lo attirano come esperimenti ed esperienze fatte dall’autore ma che, senza che se ne capisca chiaramente il motivo, scivolano verso lo spettatore suscitando in lui un’eterogenea gamma sensoriale di piaceri, inquietudini, sensazioni che sono già state vissute o che si presume possano esserlo in futuro, lasciando di conseguenza lo spettatore nella condizione liminare in cui non sa se quelle sensazioni sono propriamente sue o se le deve all’esperienza e alla capacità artistica di Duane Michals31. Del resto, il fotografo stesso è consapevole di questa peculiarità della propria produzione artistica, e definisce se stesso come il «proprio regalo allo spettatore»32, in grado cioè di donare coscientemente, tramite la propria arte, qualcosa di sé agli altri. Si può cogliere, nell’interesse di Foucault per questa particolarità dell’artista di essere uno sperimentatore, un legame con quanto il filosofo francese stava approfondendo in quegli stessi anni riguardo alla nozione di “estetica dell’esistenza”. Come noto, una buona parte degli sforzi intellettuali dell’ultimo Foucault si sono concentrati sulle possibilità degli individui di costituirsi come interpreti liberi della propria soggettività. Infatti, sebbene il tema della storia dei differenti modi di soggettivazione degli esseri umani sia stato da sempre il sostrato ultimo della ricerca foucaultiana – come dichiarato da Foucault stesso nel saggio posto a conclusione della monografia di Dreyfus e Rabinow33 –, nei corsi al Collège de France dei primi anni Ottanta l’attenzione di Foucault si concentra soprattutto su come i singoli possano rifiutare una determi«[Le foto di Duane Michals] mi attirano come esperienze. Esperienze fatte solo da lui; ma che, non saprei dire come mai, scivolano verso di me – e, penso, verso chiunque le guardi –, suscitando piaceri, inquietudini, maniere di vedere, sensazioni che ho già avuto o che sento di dover provare un giorno, e di cui mi domando sempre se sue o mie, sapendo comunque che le devo a Duane Michals». M. Foucault, La pensée, l’émotion, cit., p. 1063 (traduzione mia, corsivo mio). 32 A tal proposito, Foucault cita una frase in cui Michals afferma: «Je suis mon cadeau pour vous» (ibidem). 33 Cfr. H.L. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago, 1983; trad. it. di M. Bertani, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989; nuova edizione La casa Usher, Firenze 2010, pp. 279-287, qui p. 279. 31


220 Marco Malandra nata tipologia di individuazione che è loro imposta da poteri con i quali devono costantemente relazionarsi, a vantaggio di pratiche di libertà volte alla creazione e modificazione autonoma della propria soggettività. Di qui l’interesse per le cosiddette “pratiche del sé”, attraverso le quali l’individuo agisce su se stesso per smarcarsi dai processi di individuazione che generalmente lo determinano. Ora, senza esplicitare qui tutte le diverse tradizioni analizzate da Foucault nella sua ricerca di «pratiche rivolte alla cura di sé», riassumiamo il concetto citandolo direttamente: La pratica di sé deve permettere di disfarsi di tutte le cattive abitudini, di tutte le false opinioni che si possono ricevere dalla folla, o dai cattivi maestri, ma anche dai genitori o dall’ambiente circostante. “Disapprendere” (de-discere) è uno dei compiti importanti della cultura di sé34.

Disapprendere diviene la necessaria pratica decostruttiva per liberarsi dalle abitudini con le quali la cultura – nel senso più esteso del termine – ha plasmato nel tempo gli individui. Le pratiche del sé sono pertanto un esercizio meticoloso di sé su sé con il quale l’individuo si prende cura di se stesso, ricercando le regole finalizzate all’edificazione della propria persona, esattamente come se stesse costituendo un’opera d’arte. Ora, se trasliamo questo laborioso esercizio di sé su sé sul piano dell’arte, ne deriva una definizione dell’arte stessa come paziente lavoro di trasfigurazione dell’artista su se medesimo; un’arte, cioè, in grado di testimoniare gli esperimenti dell’artista finalizzati alla creazione del proprio sé – il che, di conseguenza, può comportare l’istituzione di uno spazio di comunicabilità tra l’artista e gli spettatori, i quali, nel momento in cui fruiscono di un’opera d’arte, si trovano investiti e problematizzati dalle stesse esperienze che percepiscono. In questo senso, è possibile comprendere l’interesse che Foucault ha dimostrato per la produzione artistica di Michals: il fotografo, nelle sue opere, si manifesta agli spettatori proprio come un “regalo”, donato a testimonianza di quel preciso atteggiamento di sperimentazione sulla propria soggettività che egli ha compito. In un denso e sentito passo di un’intervista concessa a Duccio Trombadori nel 197835, Foucault aveva già dimostrato di condividere e fare propria questa prospettiva sperimentale di ricerca, descrivendo il proprio lavoro intellettuale come azione speM. Foucault, L’herméneutique du sujet, in Annuaire du Collège de France, 82° année, Histoire des systèmes de pensée, année 1981-1982, Paris 1982, pp. 395-406; ora in Dits et écrits II, cit., pp. 1172-1184, qui p. 1176; trad. it. di A. Pandolfi e A. Serra, L’ermeneutica del soggetto, in M. Foucault, I corsi al Collège de France. I Resumés, Feltrinelli, Milano 1999, p. 110. 35 Cfr. M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, in Dits et écrits II, cit., pp. 860-914. 34


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rimentale e plasmatrice della soggettività. Per questo motivo, e allo stesso modo, si può stabilire un legame con l’esperienza di Michals: l’artista esprime il proprio cammino sperimentale allo spettatore mediante le proprie opere d’arte, permettendo di conseguenza che anche altri individui ne diventino partecipi, tanto da rendere loro impossibile discernere al primo istante di riflessione e con nettezza se l’emozione suscitata dalle fotografie di Michals sia dovuta alla sua capacità artistica o provenga da loro stessi. In conclusione, si può affermare che Foucault considera Duane Michals come l’esempio di un artista che ha saputo fare, grazie alla propria arte, un meticoloso lavoro su di sé e sui propri limiti, in contrasto con tutte le linee di condotta standardizzanti tipiche della società moderna: una testimonianza di quell’ossimorico «travaglio paziente che dà forma all’impazienza della libertà»36 che – si spera – sarà in grado di creare “uno strappo nel cielo di carta” della scenografia degli individui normalizzati, affinché imparino a divenire soggetti di se stessi. Marco Malandra Università degli Studi di Milano mallaxiv@gmail.com

. Michel Foucault and Images. Three contributions to an Archaeology of Figurative In this article I examine the role that images play in Foucault’s works of the 70s and 80s, thus showing that such a theme does not come to an end in the 60s. I analyse in particular three essays devoted to the artists Paul Rebeyrolle, Gérard Fromanger and Duane Michals, and I find in them several lines of continuity with Foucault’s analyses of power relations and the corresponding possibilities to resist (Rebeyrolle, Fromanger), and with the concepts of “care of the self ” and of “aesthetic of existence” (Michals). Keywords: Foucault, Images, Art, Power, Resistance, Aesthetic of existence, Care of the self.

M. Foucault, What is Enlightenment?, in Dits et écrits II, cit., p. 1397; trad. it. di S. Loriga, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 232. 36


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