Giornale_delle_Giudicarie_novembre2020

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Parlando giudicariese

NOVEMBRE 2020

Senza trasformarla in un parcogiochi

Ripopolare tempestivamente la montagna Parlando con riferimento alle Giudicarie, è più che assodato che i sempre verdi pendii montani - carichi di boschi, di prati e di selve - non sono altro che il grandioso e ricco patrimonio lasciatoci in eredità dagli Avi che, per secoli e secoli, e di generazione in generazione, vi sono vissuti col loro bestiame e con la loro vigilante ed alacre presenza, nonché con tanta fatica ed abnegazione. Vivere in montagna non è facile; per di più nei secoli passati quando mancavano strade adeguate e mezzi di trasporto, e ci si trovava quasi fuori dal mondo e del tutto privi di mezzi di comunicazione anche dal punto di vista dei mass-media. Lo studioso Annibale Salsa - sempre presente in Giudicarie e legatissimo al nostro territorio, ed al quale ci si deve sentire quanto mai riconoscenti -, con la sua suadente parola continua a ripeterlo: l’economia di montagna non va considerata come l’economia che si vive in pianura dove si sono insediate le grandi città con stabilimenti e industrie ad alta valenza produttiva e con i conseguenti guadagni che sostanziano le basi economiche del mondo moderno. Egli sostiene che necessita una tempestiva, precisa ed adeguata intraprendenza per predisporre una legislazione europea riservata all’assetto di una montagna “abitata” perpetuamente (cioè tutto l’anno e continuata nel tempo) da gente che vi trovi il proprio sostentamento quotidiano. Può essere un esempio di riferimento il secolare “Maso chiuso” in Alto Adige che è rimasto intatto nella sua istituzione giuridicamente riconosciuta e debitamente difesa e sostenuta, affinché la persistente presenza di quelle lodevoli ed operose fattorie montane assicurino - attraverso la costante presenza operosa dell’uomo - l’essenzialità di una vegetazione coltivata a regola d’arte. Così la montagna resta montagna viva nella sua essenzialità ed a disposizione sia di chi vi trova sia la propria sussistenza familiare, sia dando modo all’intera società di poterne fruire e godere nell’equilibrio del Creato, che rimane a disposizione di tutti. Quando ero più giovane ed

di Mario Antolini Musón Non so mi stia inoltrando su un terreno già arato e, magari, con considerazioni fuori luogo; tuttavia mi permetto di evidenziare quanto mi sembra di percepire attraverso l’impressione che della montagna si chiacchiera troppo, senza riuscire a mettere mano aiutavo gli studenti universitari a stendere delle tesi di laurea sul “Maso chiuso”, dentro di me stavo illudendomi sulla possibilità che anche in Trentino potesse essere istituita la difesa delle “cà da mónt”: i tipici appezzamenti privati di mezza montagna, caratterizzati dalle inconfondibili ed essenziali pertinenze, ossia l’edificio murario coperto di “scàndole” (con la stalla per le mucche, il “quadro del fén” ed il “casinòt” dove cucinare e consumare i pasti), poi il “bàit del làt” (piccolo edificio con acqua per la conservazione del latte), più l’indispensabile appezzamento coltivato a il prato e tenuto alla perfezione grazie al letame a disposizione anno per anno, con l’aggiunta di una modesta porzione di bosco (“gaç”) per la raccolta della “fóia” (strame per le mucche). Quest’insieme di immancabili elementi (tutti ancora inspiegabilmente “proprietà private” inserite nella proprietà collettiva) costituivano la tradizionale e secolare presenza delle “cà da mónt” che facevano sì che gli allevatori (i “vachèr”) permanessero in montagna dalla primavera all’autunno, assicurando la cura e la manutenzione della montagna sotto tutti gli aspetti possibili. Questa situazione, protratta per secoli, ha fatto sì che la montagna fosse “abitata”, per cui la montagna era montagna, ed era mantenuta montagna da vivere, cosicché tutta la popolazione del paese alternava la propria esistenza fra le giornate in paese e le giornate in montagna (sàl mónt) facendo sì che tutta l’estensione montana risentisse della presenza di uomini e di donne di tutte le età, e fin da piccoli si cresceva con “él mónt entà ’l cò” (con la montagna in testa e nel cuore). Era davvero un “vivere la montagna” ed un “far vivere la montagna”. Il mio sogno o illusione, purtroppo, si è dileguato dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’allevamento bovino è stato abbandonato e le “cà da

mónt” sono state trasformate con le “cà sàl mónt”, ossia in vere e proprie ville di abitazione per trascorrervi brevi periodi di vacanza o di divertimento, abbandonando l’interesse per la montagna, che è rimasta abbandonata a se stessa con tutte le deleterie conseguenze che si hanno sotto gli occhi in questi ultimi decenni, con boschi non più curati, sentieri trascurati, e prati invasi dai cespugli, dal bosco che prende piede, e dalle piantagioni perfino finanziate con contributi. Una montagna che si sta distruggendo come montagna da vivere e da godere nella sua identità e completezza secondo made Natura. Con una certa qual mia soddisfazione, proprio in questi ultimi anni si nota un certo interesse al recupero delle malghe e degli alti pascoli montani mediante un modesto allevamento bovino che riporta periodicamente un cero numero di persone a frequentare la montagna, ma non si è ancora raggiunta la piena valorizzazione della montagna in se stessa con boschi e con selve “coltivati e coltivate” e mantenuti e mantenute in ordine ed a regola d’arte, e come ambiente da vivere nel suo essenziale potenziale insito da madre Natura. I sentieri e le carrarecce tradizionali sono state trasformate in strade asfaltate che lasciano correre i mezzi di trasporto che inquinano e danneggiano la sacralità dell’ambiente, rompendo il sacro silenzio della montagna; mentre, invece, la montagna andrebbe vissuta e non sfruttata e danneggiata.

all’unica cosa che credo sarebbe possibile fare, ed a cui si stenta a mettere mano per realizzarla: ossia ripopolare la montagna dando sostegno a chi è capace di scegliere di vivervi svolgendo le attività che vi si potrebbero e si dovrebbero fare.

* Se queste considerazioni possono avere una loro possibile e comprensibile validità per la montagna coperta da vegetazione, altrettanto si possono estendere alla parte improduttiva, costituita da rocce e ghiacciai. Coloro che vi si sono insediati per dare modo a uomini e donne di assaporare ragioni di vita inerpicandosi fra sentieri impervi ed assaporando interiormente ciò che il silenzio della montagna sa trasmettere, non vi si sono insediati per fare soldi a palate, ma soltanto con spirito di “servizio” a disponibilità dell’umanità in cerca di un “di più” che la quotidianità non sa dare nel fondovalle e nelle pianure. Non ho mai capito (e non lo comprendo ancora a cent’anni) perché coloro che si rendono disponibili a gestire rifugi ed edifici di conforto ai passi ed in alta quota debbano fare delle gare di appalto a suon di offerte in denaro per ottenerne la gestione. Per conto mio dovrebbe essere il contrario: dovrebbero essere sollecitati con sonanti contributi per il loro coraggio e la loro disponibilità di “rinserrarsi” ad alte quote, fuori e lontani dalla comunità, per mettersi a disposi-

zione nell’offrire conforto a coloro che vi passano o che chiedono qualche giorno di confortevole ospitalità. Mi ricordo le prime gite da ragazzo con la Sat. Ad ogni punto di ristoro (ai “passi” o ai “rifugi”) gli anziani ci obbligavano a sostarvi ed a consumare qualcosa di sostanzioso dicendoci: «Questi posti di ristoro vanno sostenti da chi vi passa, poiché se per caso non ci fossero più noi non potremmo più godere la montagna». Parole entratemi in testa a dieci anni e che ancora risuonano nella mia memoria a cent’anni, e che le sento nel valore della loro essenzialità. Infatti, coloro chi si insediano lassù ad alta quota (malghe, rifugi, piccoli e modesti villaggi di montagna o in qualsiasi altra forma) certamente lo fanno con sacrificio, rendendosi disponibili al prossimo, ragion per cui dovrebbero essere invogliati, aiutati e sorretti a rimanervi, poiché la montagna priva di persone “permanenti” (presenti tutto l’anno) non potrebbe che morire. Proprio ai pionieri ed a coloro che si sono dedicati ai rifugi, ed a qualsiasi altro insediamento montano, va riconosciuto il merito di aver salvaguardato ambienti irripetibili nella loro naturale bellezza, trasmettendo ad un numero innumerevole di persone la passione della montagna e come percorrerla, come saperla vivere e come gustarla. * Ultimamente, in certe località ed in certe zone di alta montagna, si sta “usufruendo” di specifiche località per manifestazioni che hanno il carattere della “temporaneità” e della “stagionali-

tà” (ossia del godi e fuggi, senza la residenza annuale in loco); pertanto iniziative ben lontane dal concetto di “vita in montagna e per la montagna”. Personalmente ho la percezione che si voglia usare la montagna per puro divertimento passeggero che non lascia nulla dietro di sé, così come in pianura si sono trasformati i campi coltivati a grano in “luna park” o in “balère”; ma io penso che si viva del frutto del grano coltivato e raccolto e non già del solo divertimento. Così io penso che stia avvenendo per la montagna. Far vivere la montagna non vuol dire trasformarla in un “parco dei divertimenti”; a mio modesto modo di vedere, questi debbono aver luogo in eventuali spazi a loro riservati che non intacchino la sacralità dei territori, “turbando” (rovinando) ambienti voluti da madre Natura per tutt’altre finalità esistenziali. Sono conscio di aver esposto considerazioni da vecchio barbogio centenario, come sono convinto, ovviamente, che non tutti possano o debbano condividere ciò che penso io e che mi sono permesso di scrivere. Tuttavia, durante il mio secolo di vita ho potuto constatare tante di quelle trasformazioni - e proprio in montagna e in Giudicarie - che stanno incidendo sulle condizioni della odierna quotidianità, apportandovi comodità e benefici economici, ma intaccando e rovinando le caratteristiche umane degli individui e dell’assetto del consorzio umano comunitario. Ciò che penso e mi sono sentito di stendere (di cui sono grato a questa testata di pubblicarlo) è reale e sentito: l’ho letto e riletto e meditato. Grato a chi avrà la bontà e la pazienza di leggerlo e soprattutto confortato da chi condividesse il mio pensiero e le mie riflessioni da vecchio giudicariese.


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