Master Neapolis - Yearbook 09

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tanto relazioni di causalità o di condizionamento, di contiguità o di somiglianza possono essere assunte come segni o prove o manifestazioni di continuità; come dall’altro lato possono essere assunte come tali anche relazioni di opposizione o di contrarietà o di contrasto o di lotta, dal momento che neanche tali forme di relazione implicano un taglio netto tra le cose che oppongono, e cioè la mancanza di una relazione qualsiasi»3. Sull’argomento, pensando specificamente all’architettura, Rogers scrive: «considerando la storia come processo, si potrebbe dire che è sempre continuità o sempre crisi a seconda che si vogliano accentuare le permanenze piuttosto che le emergenze [...]: il concetto di continuità implica quello di mutazione nell’ordine di una tradizione. Crisi è la rottura – rivoluzione – cioè il momento di discontinuità dovuto all’influenza di fattori nuovi (non reperibili nei momenti precedenti se non come contrari a quelli che scaturiscono, per opposizione, dall’impellente esigenza di novità sostanziali)»4. Tra le concezioni più recenti è da segnalare quella di Giuseppe Galasso. Chiedendosi con quale criterio il ricercatore seleziona le cause per spiegare un evento storico, Galasso risponde: «col criterio della creatività, originalità, innovazione di ogni presente rispetto ad ogni passato. Ogni azione si inserisce sul passato e ne è temporalmente la continuazione; ma è anche una rottura del passato [...], una frattura nella catena di ciò che accade. Ed è questa frattura ciò che differenzia il presente dal passato, l’ignoto a cui si approda dal noto, la scelta che non è solo la selezione delle alternative in gioco, ma è, insieme, modificazione di quelle alternative nell’atto stesso della selezione, e – con ciò – l’illuminazione, a rivelazione del senso ultimo che le alternative in gioco vengono ad assumere. Nell’atto di scegliere le alternative vengono trascese»5. A questa convincente interpretazione del binomio continuo/discontinuo della storia, lo stesso autore fa seguire una smentita di un vecchio e popolare luogo comune: «dato il carattere creativo del presente, ne consegue che l’antica definizione di storia come magistra vitae non ha motivo di essere. Per quante cose possa insegnare il passato, il presente aggiunge ad esse sempre qualcosa di nuovo, di imprevedibile dallo stesso passato, e da questa novità risulta condizionato e diversamente conformato non solo il corso ul-

teriore delle cose, bensì il passato stesso»6. Dall’ermeneutica ricaviamo significative indicazioni sull’importanza della dimensione del presente nella storiografia. Ci riferiamo al rapporto fra lo storico e i fatti, secondo l’assunto per cui chi interpreta viene modificato dallo stesso oggetto dell’interpretazione. Questo importante fenomeno alla base di tutta la conoscenza, è stato rilevato da Gadamer a partire dal campo artistico: «nell’esperienza dell’arte vediamo attuarsi un’esperienza che modifica realmente colui che la fa»7. Quale che siano i pareri dei filosofi, è comunque certo che, nel nostro campo, l’architettura del recupero è più affine all’idea della continuità, della stratificazione, mentre quella dell’innovazione è più pertinente alla discontinuità, ogni nuova fabbrica comportando evidentemente un cambiamento dell’ambiente. Riassumendo, siamo partiti dal dato inconfutabile che l’Italia possiede il più ingente patrimonio di beni culturali tra i quali un posto primario è quello dell’architettura e dell’ambiente. Questo dato di fatto potrebbe suggerire che la ‘cultura del recupero’ debba prevalere su quella dello sviluppo. Ma questo, da noi, è altresì inconcepibile senza le modificazioni del nuovo. Anche molti altri paesi europei hanno un vasto patrimonio storico-artistico da tutelare, tuttavia in essi – per molteplici cause che vanno dallo sviluppo economico-industriale al retaggio delle avanguardie, all’influenza americana, all’ideologia quantitativo-efficientistica, ecc. prevale la ‘cultura dell’innovazione’, come più volte ricordato. Abbiamo in varie occasioni dimostrato che il recupero modernamente inteso non solo è compatibile con l’innovazione, ma in molti casi le due linee si possono coordinare se non addirittura identificare. Ove la ‘forza delle cose’, vale a dire il valore-interesse economico-finanziario lo consenta, il contributo italiano all’architettura europea non può che fondarsi sulla storia, più esattamente sulla sua interpretazione storiografica, fino a concepire che la storiografia è assimilabile alla progettazione. 1

S. De Martini, L’architettura piccola, in «Op. cit.», n. 115, 2002]. 2 V. Gregotti, Il problema dell’identità dell’architettura europea e la sua crisi, in «Rassegna» n. 76, 1998]. 3 N. Abbagnano, voce «Continuo» del Dizionario di filosofia, Torino 1964, p. 64]. 4 E. N. Rogers, Continuità o crisi?, in Esperienza dell’architettura, Torino 1958, pp. 203-204. 5 G. Galasso, Filosofia e storiografia, in Filosofia, Torino 1995, vol. II, p.431. 6 Ivi, p.432. 7 H.G. Gadamer, Verità e metodo, Milano 1983, p. 131.

The experience of the 2009-2010 Master’s course has confirmed my previously held conviction regarding all historic centres and that of Naples in particular. While it is true that any large city with ancient traditions faces the problem of protecting its existing heritage and simultaneously that of constructing a new one, these problems are especially complex for Italy; in particular, when it comes to working in the oldest part of the city of Naples, these problems have an even greater priority than others. What is so distinctive about the Italian situation? Firstly, the wealth of our artistic and historical heritage, its high quality and other factors that contribute to determining the specifically Italian spirit of Italian architecture. The first of these factors is the rather small size of our buildings. Our towers are not inhabited; they mainly have a religious and symbolic character: the skyline of Italian cities is marked by domes and bell-towers rather than by tall public and private buildings. A young colleague has noted: “no one fails to notice, especially on their return from the United States, but even from Paris or Berlin, that there is a considerable change of scale between these foreign cities and our minute Italian cities, just as it did not escape the attention of Josef Hoffmann during his visit to Italy in 1896; he was attracted not so much by the classical sights of the Grand Tour as the anonymous spontaneous architecture he described as ‘harmonious and complete’ and which he portrayed in his drawings as an aggregation of simple and, above all, small-scale volumes. Goethe, too, in his Travels in Italy (1786-1788) had noticed the characteristically small size of our monuments: the ‘teatro Olimpico’ in Vicenza, “is a theatre based on the ancient model but smaller in proportion and indescribably beautiful; Palladio’s Rotonda is wonderfully proportioned [...] but for the holidaying needs of a cultivated family it would barely be sufficient”1. The second characteristic feature of Italian architecture is that each building is ‘contextualised’ and sometimes even completely integrated within its context: this is the case, for example, for Pienza, Urbino, Ferrara, piazza del Campidoglio, piazza degli Uffizi, piazza di S. Maria della Pace, piazza S. Ignazio, etc. Moreover, the works of Italian architecture are mainly linked not just to a specific place but to another artefact: a road alignment, the shape of a piazza or the view between one building and another; the representation-configuration of the perspective derives from the need to portray a context: Brunelleschi’s Tavoletta (view) of piazza della Signoria. However, the confirmation of the contextualism of Italian architecture – the incontrovertible evidence of the possibility of the coexisten31


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