Ciardullo, Michele De Marco

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Giovanni Sapia

Ciardullo (Michele de Marco)

Alfredo Mangone Editore


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avvErTEnza le notevoli incertezze di molte forme grafiche, determinate dai vari scriventi delle opere di Ciardullo e aggravate da trascrizioni poco attente e da refusi tipografici, mi hanno consigliato di operare opportuni interventi sui testi dialettali riportati in questo libro. a tal fine mi sono adeguato fondamentalmente alle norme suggerite da luigi accattatis nel Trattatello fonetico-grammaticale premesso al suo Vocabolario del dialetto calabrese (Cosenza, 1898; pellegrini reprint, 1977), che mi sembrano complessivamente ragionevoli e pratiche. pur evitando la pedanteria, ho curato di riportare ad unità e ragionevolezza tutte le forme che nelle fonti corrono incerte o palesemente errate, rispettando, ad esempio, l’uso dell’apostrofo in tutti i casi di elisione e di aferesi (tranne quelli di concomitanza, nei quali ho preferito la fusione dei due segni in uno, a mo’ di crasi) e disciplinando quello della doppia iniziale e degli accenti. per le sillabe toniche ho preferito derogare dalla norma generale, segnando l’accento anche sulle parole piane tutte le volte che mi è parso utile per evitare difficoltà ed equivoci ai meno avvezzi al dialetto. per il suono molle o schiacciato del digramma ch davanti alla vocale i, che l’accattatis rende con la sottolineatura («chianu», ecc.), lo Scerbo con la lettera k («kianu», ecc.) e le fonti ciardulliane per lo più con l’accento circonflesso sulla vocale i («chîanu»), ho scelto l’uso del tilde sulla consonante c («c˜ hianu», ecc.), in analogia alla funzione che esso ha nello spagnolo sulla consonante n. per il digramma sc, risultante dalla sibilante linguale e dalla c palatale, ho rifiutato sia l’uso della sottolineatura adottato dall’accattatis («scutu») sia la soluzione sc-c («sc-cutu»), costante nelle fonti ciardulliane, ma assai più discutibile di quanto sembri, e adottato il segno diacritico ˇ sulla consonante s («sˇcutu»). per le voci del verbo «avire» che comportano la lettera h o l’accento iniziale e che nelle fonti presentano indiscriminatamente le due soluzioni, ho adottato univocamente la seconda. Tra le forme distintive del dialetto casalino, che è quello di Ciardullo, ritengo opportuno segnalare la terminazione in -u della 3a plurale dei verbi, evidente risultato di apocope e segnata dall’accento circonflesso («diciû», «vienû», «farû», «vuolû» per «dicono», «vengono», «fanno», «vogliono», ecc.), e la terminazione in -a- di numerosi sostantivi plurali, relitto di neutro plurale latino. Ho voluto agevolare la lettura ai meno provveduti con un Glossario minimo, nel quale ho compreso le forme, a mio vedere, meno comuni e più lontane dalla lingua.


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inTroduzionE

pErCHE’ Ciardullo


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pErCHé Ciardullo

Ciardullo mi riporta alla fede e ai sogni della giovinezza. Era l’alba dell’italia liberata; saliva dalla punta della Calabria dietro l’esercito straniero, portava il pane, squarciava l’incubo, restituiva l’ala alla parola, apriva anche, e d’impeto, la scena di molti malanni che sono cresciuti con noi. i primi fogli a stampa che apparvero nello ionio cosentino erano il mio e quello di Giuseppe Selvaggi. da Cosenza rispondeva la risorta fioritura giornalistica e Ciardullo tonava e sorrideva dalle pagine di «Calabria democratica». Erano gli anni 1943-1944 ed egli aveva tre volte la nostra età. il periodico, nelle difficoltà delle comunicazioni, raggiungeva ogni tanto la periferia e questo poeta, che tra Giusti e Trilussa scriveva Mementomo e ’U ranunchiu, mi apparve al di fuori della serie da «Travaso» o da varietà: oltre che un’alta coscienza, un rispettabile fatto letterario. l’anno dopo, a Corigliano, ebbi dall’amabilità del dottore arnaldo Clausi Schettini, fine intenditore di cose d’arte non meno che illustre chirurgo, la possibilità di sentirlo. Ciardullo recitava se stesso. Ed io ne conservo quell’immagine un po’ allampanata e miopissima, il volto largo e allora emaciato, tra il disagio e la sofferenza, e quel dire tra il serio e il giocoso, di chi prima diverte se stesso, che faceva la gioia degli amici, e quell’accordata unità del verso, della parola, dell’accento, del gesto, nella quale pareva che la parola e la cosa sorgessero insieme. E ricordo di averlo assunto, con interesse e tenerezza insieme, tra le voci che l'accompagnavano e le sensazioni che mi destò, come un personaggio della storia letteraria, lungo una scia che passa per l’ariosto e il Goldoni, per quel suo disadattamento alla professione di avvocato, a cui preferiva l’attività del poeta e dello scrittore di teatro, per la sua silenziosa sopportazione, senza atteggiamenti eroici, di difficoltà politiche,


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introduzione

per il suo rifugiarsi nell’attività d’insegnamento, per quel passare tra disagi e difficoltà economiche, lui che veniva dall’agiatezza, con rassegnazione serena, confessata nel verso senza reticenze, e perciò per l’essere non al di sopra o al di fuori, ma parte viva del mondo e della gente del suo canto. Quell’immagine doveva ridestarsi alcuni decenni dopo, in una delle manifestazioni culturali dell’università popolare di rossano, da me diretta, nella quale Ciccio de Marco, straordinariamente poeta e dicitore, recitava, accanto alle proprie poesie, il padre Ciardullo: un atto d’amore, ma insieme un fatto d’arte, perché Ciccio, recitando il padre, ne forniva un ritratto in piedi, con gli elementi che gli derivavano dalla consuetudine della vita familiare, dalla conoscenza dei moti dell’animo, dall’insegnamento di vita e d’arte, infine dalla spontanea capacità di canto, in lui tradotta col sangue. Ciccio era già noto alla letteratura per una sua musa malinconica della lontananza e per l’arguzia sorridente e amara donde sono nate le sue commedie e la maschera nuova di rosarbino; avrei scoperto in seguito anche in raffaele, l’ultimo dei figli, poeta dalla vena facile e cultore di un teatro tutto suo, pedagogico e didattico, la continuità delle due direzioni dell’arte paterna. Misteriosi canali della natura. una trasmissione multipla, certamente straordinaria nel capitolo delle affinità, perché gradiente al padre di Ciardullo, vittorio, donnu Crautu Cervino, i cui versi meriterebbero di essere rispolverati e fatti conoscere, e allo zio paterno di lui, pietro, il maestro filosofo, la cui morte il nipote celebrò in un compianto di antico modello, che ha il piglio fascinoso e sospeso di un canto epico. Questo ed altri segni del mio interesse mi valsero il privilegio di essere chiamato a celebrare il poeta nel primo centenario della nascita, una dignità che io sentii profondamente per il luogo di nobile significazione, il salone della provincia di Cosenza, uso a registrare la storia del popolo e perciò emblematicamante deputato a significare nel composito uditorio la provincia, che il poeta ha onorato, anzi la Calabria, ch’egli per più versi ha interpretato e rappresenta, e per il destro, che mi si porgeva, di sottrarre il poeta, a voce piena, alle dimensioni cantabili nelle quali gran parte della opinione comune tradizionalmente l’ha ristretto e alle facili e frammentarie superficialità in cui è ancora, non di rado, assunto nel mondo dei colti. un centenario è un punto fermo nel cammino di un personaggio, nel ricordo, nell’approfondimento, nel giudizio e forse quel primo della


pErCHé Ciardullo

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nascita di Ciardullo trovava la pubblica coscienza ancora non del tutto spoglia da riflessi di passione, legati alla sua molteplice presenza nella vita politica e civile del suo tempo. E tuttavia le testimonianze sull’uomo erano già tali, per numero e qualità, da costituire, se non un ritratto compiuto, una base valida per un profilo e un giudizio. al di là di ogni posizione ideale, confluivano tutte a costruire una figura di galantuomo: una libera coscienza, che della libertà fece bandiera e terreno di vita, un’integrità morale che nessuna necessità o disavventura scalfì, una specchiata lealtà, che lo rese nemico e fustigatore dei girella, dei profittatori e degl’imbonitori del popolo, un generoso disinteresse, che estendeva anche alla sua professione di avvocato, un sorgivo senso della democrazia, che lo piegava a familiare confidenza con tutti, una carica di sofferta umanità, che lo rendeva vicino ai poveri e ai diseredati, una superiore saggezza, che lo disponeva a giovialità e bonomia e lo faceva sorridere delle altrui debolezze quando non offendevano la sua coscienza morale, e, in un atteggiamento apparentemente svagato e distratto, una sempre tesa serietà di osservazione degli uomini e delle cose. a questa interezza io amo ricondurre anche il tono castigato della sua opera, del tutto aliena dallo scurrile e dall’allusivo tanto cari alla musa popolare. anche la pudicizia fu la sua musa. Questo era l’uomo; il poeta attendeva ancora. Ciò che dissi in quella circostanza e forse più la mia palese cura di accordare, com’è consueto al mio naturale disdegno di ogni retorica, l’amore e la misura dovette convincere, se fu lodato a gran voce e se mi fu d’ogni parte avanzata cordiale richiesta di svilupparlo in un’organica monografia, la quale, vedendo oggi la luce, salda, sebbene tardivamente, un debito contratto e tardivamente risponde alle pressanti sollecitazioni dell’affetto di pietro, il maggiore dei de Marco, il quale, purtroppo, non la leggerà. dell’interesse acceso intorno al poeta in quella circostanza resta l’edizione delle opere, nella quale spiace che al pregio autorevole delle prefazioni non risponda un’adeguata cura dei testi, probabile segno della frettolosità che ha governato l’impresa. non pare che dopo d’allora Ciardullo sia stato utilmente rivisitato, mentre si è fatto più vivo, nell’incalzare prepotente della storia, con una letteratura doviziosa, interessante, talora preziosa, il dibattito sui dialetti e sullo scrivere in dialetto, nel quale in più sedi mi sono affacciato anch’io. Questa monografia è pure una forma d’intervento: idea insieme e modello.


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parTE priMa

i Giorni E lE opErE


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CapiTolo i

il dolCE paESE

la conca silana che accoglie il comune di pedace, in provincia di Cosenza, vista da un terrazzo di quell’industre e lindo paese, si slarga come il paesaggio umbro da certe balconate perugine, ma con una tutta sua dovizia e maestà, nella quale gli occhi cercano invano i picchi e gli anfratti della geografia silana, ma colgono gravi gibbosità di animali insieme accovacciati, grandi e dolcissime a un tempo, vellutate e morbide se si finge di toccarle con mano, e in esse ammantati, ammiccanti, trionfali gli sparsi segni dell’uomo e della sua storia: Celico della grande luce di Gioacchino, pietrafitta di Bonaventura zumbini, aprigliano, donde la poesia dialettale calabrese esplose e s’irradiò, i paesi che Ciardullo ha cantato con gaudiosa tenerezza: li paisielli nuostri, tutti quanti, tutti ’ntra le castagne sû conzati! parû pani de zùccaru giganti supra ’nu pannu virde riposati… (’A castagna)

E nel fondo della conca, nella valle del Cardone, in una dimensione tra la bolgia e la culla, perito delle generazioni de Marco. a considerare i connessi destini dei luoghi e degli uomini, certi condizionamenti ambientali in funzione del genio, della filosofia, dell’arte si confermano tutt’altro che retoriche invenzioni. perito, ove Michele de Marco nacque il 17 marzo 1884, doveva essere un punto fermo nel tempo e guardare a Cosenza come a un lontano miraggio, con difficoltà di accesso agli stessi sparsi casali; un punto ancorato a un antico ed elementare corredo di esperienze, di economia, di


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i Giorni E lE opErE

rapporti, di moralità, fermo anche nella vetusta rusticità delle case, nei vicoli precipiti dirompenti a valle: un volto che il risveglio sociale ed economico di mezzo secolo è riuscito a ripulire e a medicare, ma non a cancellare del tutto. a chi scrive di perito antica vien d’obbligo ricordare i versi di vittorio de Marco, che nel parco impressionismo ne forniscono un'immagine fisica e umana veridica, quale si può cogliere, in definitiva, anche attraverso le opere di Ciardullo: peritu è ’nu paisiellu daveru curiusu, va sutt’a ’nu cappiellu, de petre e spine è c˜hîusu. le case parû tane de vurpe e de cunigli; le fìmmine sû rane, ranùnchiuli li figli, l’uèmini, povarielli, de razza tupinari … Ma pue sû bona gente de core e accrianzata1 …

la casa natale del poeta, ora proprietà comune dei figli, è nel paese basso, affacciata col prospetto principale sulla piazzuola e posteriormente sulla valle; rosa esternamente dal tempo, denuncia tuttavia l’agiatezza di una famiglia che ha contato, e difatti il padre di Michele, il poeta vittorio, che, per essere stato adottato da don Michele Cervino e dalla moglie di lui, privi di figli, si ebbe il doppio cognome di de Marco Cervino, trasmesso ai figli, ed ereditò quella parte del massiccio palazzo Cervino, era l’ufficiale postale del paese, titolo, per il tempo e per il luogo, di gran riguardo e corrispettivo di tranquillo benessere. Quasi di faccia, poco più in alto, accanto alla chiesa di San Sebastiano, un giorno cappella della famiglia, era l’antica casa de Marco, allora nelle mani dello

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versi composti e recitati in occasione del matrimonio del fratello Francesco.


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- il dolCE paESE

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zio Francesco, il cavaliere, ora in possesso della famiglia del defunto pietro, il primogenito di Ciardullo. ivi gli eredi conservano ancora un’antica interessante biblioteca, parecchi volumi della quale provengono da quella di Francesco Martire, per due volte sindaco di Cosenza e primo deputato della Calabria, e che dovette avere un suo cospicuo ruolo nella formazione culturale del nipote Michele, beniamino dello zio. don Ciccio era, per la sua personalità e per le relazioni altolocate, un potente; per lui l’umile perito vantò il primo ufficio postale e il primo telefono del comune. «Ha da morire don Ciccio» era perciò la formula sacramentale con cui i pedacesi sfogavano la stizza paesana. l’autorità di don Ciccio non scalzava la miseria dei più. Fonte notevole e tuttavia insufficiente di economia era il gran bosco, ferace di legname e di frutto, ora intristito, nonostante il manto luminoso delle buone stagioni, dal sovvertimento delle consuetudini del lavoro e dai morbi propiziati dall’incuria. intorno al paese e lungo la valle si stendevano, s’inerpicavano, s’incalzavano le piccole proprietà contadine, allora cespite modesto, ma prezioso, oggi in parte in abbandono, ove si alternavano equamente gli ulivi, le vigne e i seminativi, e l’esiguo spazio del casolare si divideva tra la famiglia e gli animali domestici, ricchezza sicura; gli orti si stendevano lungo il Cardone abbondante d’acqua irrigua e di «ruonzi» per il lavoro delle lavandaie. legate per la gran parte le fatiche e le attese alla terra, che regolava le private e pubbliche consuetudini e perfino le stagioni dei matrimoni, la vita si svolgeva grama nel piccolo paese, tra la modesta agiatezza di pochi e i più vasti tratti maligni dell’economia povera: gli stenti, i debiti, la disoccupazione, l’emigrazione selvaggia e con essa le famiglie scomposte e le nuove vicende di piccole e non piccole fortune. un codice persuaso del comportamento e della parola, sedimento dell’esperienza dei secoli, recando impressi in formule elementari il volto e la mente della gente, governava lo scorrere eguale dei giorni, che si accendeva solo nelle grandi ricorrenze religiose con il calore delle tradizioni domestiche e le consuetudini gentili dell’amicizia e dell’ospitalità, dirompeva grasso e chiassoso alle «frittole» e al carnevale, diventava momento aggregativo nella festa di San Sebastiano, patrono del paese, e in quella più vasta e solenne di Sant’ippolito, annuale appuntamento, in quella frazione di Cosenza, della gente dei paesi circonvicini. da quell’antico mondo concluso Michele de Marco traeva il principio dell’amore e del pensiero. le successive esperienze di vita dovevano


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i Giorni E lE opErE

allargare man mano, senza dissolverlo, anzi facendolo pi첫 amato e pi첫 vero, quel dolce paese, al quale egli ricorse sempre, fino alla morte, come a termine di confronto e di rimpianto e senza il quale si rende incomprensibile il mondo della sua arte.


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CapiTolo ii

il TEMpo FEliCE

Trascorse la fanciullezza fra il tepore sereno della casa e le scorribande beate di cui è eco nella sua poesia: Sbrittava la matina de lu liettu e chine, chine me putìa frenare?... ad ottobre castagne ’ntra lu piettu; a maju e giugnu nidi ad abbistare; nun c’era cupa, cervicale o via chi nun avìa zumpatu o nun sapìa... (’A castagna)

Frequentò la scuola elementare del paese, ma prima e accanto ad essa gli fu di guida quella paterna, cioè di un padre galantuomo e poeta, immerso, per la sua stessa funzione, nell’animo della gente, e dovette avere gran peso sulla sua disposizione poetica e sul suo spirito di osservazione dell’uomo e del mondo. E certamente alla scuola paterna attinse il coraggio della libertà e l’amore dell’ideale repubblicano. vittorio, infatti, appartiene a quel grande coro della poesia sociale e politica che interpreta la delusione post-risorgimentale e la protesta contro lo stato unitario e il tradimento del suo re, nel quale i suoi genitori avevano inutilmente sperato imponendogliene il nome. la lezione paterna era corroborata dall’insegnamento dello zio pietro, ridottosi, per la cecità, da avvocato e professore di lettere nel liceo-ginnasio di Cosenza al modesto servizio di maestro elementare nel paese, autore anche lui di un’ampia produzione poetica, in lingua e in dialetto, che sta tra l’alta meditazione sociale e la rappresentazione arguta e bonaria della piccola vita del paese, ed anche lui interprete della


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delusione popolare in una violenta aggressione, espressa con efficace iperbole popolaresca, a napoleone iii, manovratore e braccio di sostegno del re, e al conte di Cavour, tessitore di quella storia: o Carrubardu mio, cchi nne servìu tutta la gapparìa, tuttu l’ardure quannu ’ssi campi campi se currìu cercannu patria, libertate e onure, si pue supra la capu nne carìu ’nu sciuollu de vrigogna e dissonure chi nni lu procuràu ’nu scorpiune cummannatu de do napoleune … E chillu cunigliunu sbrigugnatu de Conte, chi facìa llu dammerinu e quannu avìa de fare lu surdatu de paura s’inchìa lu cularinu e cussì amaramente strafucatu de lu paise nuerru lu restinu foze de chilla cuc˜c˜ hia de carogne bueni a chiamare puerci ccu la vrogna… (’A castagna ’e Ciniellu)

pietro intuì le disposizioni del nipote e le favorì e incoraggiò. per frequentare il ginnasio inferiore Michele fu mandato a Corigliano, il cui istituto era rinomato per serietà di studi e autorità di insegnanti, tra i quali il poeta Francesco Maradei, e teneva annesso un antico collegio, che offriva sicurezza alle famiglie lontane. Ma da Corigliano, a dodici anni, fuggì e dovette esservi riportato a forza. per il ginnasio superiore e il liceo fu scelto il «Telesio» di Cosenza, sede allora la più vicina e di grande prestigio, ove ebbe a maestro d’italiano lo scrittore nicola Misasi e percorse il triennio con merito, come egli stesso attesta in una giocosa memoria pubblicata sull’ «ohè!»: al prim’anno dispensato, dispensato anche al secondo; e (lo dico _ ascolta, o mondo! _ ) il terz’anno l’ho saltato. (Curriculum vitae)1

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«ohè!», a. i, n. 8, 24 marzo 1924.


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- il TEMpo FEliCE

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lì si legò a coetanei che sarebbero stati illustri nella cittadinanza, come Michele Bianchi, che gli restò sempre legato d’affetto nonostante la profonda divergenza di idee politiche e lo salvò dalle purghe e dalle persecuzioni fasciste, e Tommaso Corigliano, suo compagno di banco, poi suo ospite abituale a perito nel periodo della villeggiatura e partecipe della sua passione teatrale. per l’università fu scelta la sede più vicina, napoli, meta di elezione di quasi tutti gli studenti calabresi. Ma egli dovette abbandonare quella sede per un violento diverbio con un professore, al quale rispose, in sede di esame, con una di quelle salacità sue che ferivano, all’occorrenza, più di una spada. Si trasferì ad urbino, sede relativamente piccola, che offriva sicurezza di vita e di studi severi. lì gli avvenne di fare il primo incontro critico col teatro, occupandosi di Giacosa, e lì egli si laureò in legge nel 1907, con una tesi in diritto amministrativo, che ebbe come oggetto il Tribunale delle acque. Sposò, pochi anni dopo la laurea, nel 1911, Maria aloisia Martire, maestra, da lui profondamente amata e dalla quale ebbe sei figli: Carmela, pietro, dora, Francesco, Teresa, liliana. a lei aveva dedicato, prima del matrimonio, queste quartine, che lo rivelano poeta vocato e gentile e sono tra le rare cose che restano nella sua attività poetica di quegli anni: Metti un bacio nel cavo della mano, un bacio ardente, tutto voluttà, soffiaci sopra, spingilo lontano, l’aria cortese me lo porterà. atomo d’oro, stilla di rugiada, raggio di stella il bacio tuo sarà: pei cieli azzurri e tersi avrà la strada, l’etere al suo passaggio s’aprirà. Ed io l’aspetterò nel suo venire come si attende la felicità, volteggerà d’intorno in mille spire, poi sulle labbra mie si poserà2.

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la poesia è contenuta in un libretto anonimo e senza titolo, compilato in occasione delle nozze di Gilda, figlia di raffaele (Tipografia Chiappetta, Cosenza, 1999).


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i Giorni E lE opErE

la sua prima attività di avvocato, alla quale fu avviato da nicola Serra, uno dei principi del foro cosentino, lo rivelò non solo fornito di solida preparazione giuridica, ma di una notevole cultura varia, che gli consentiva di parlare di tutto e con tutti e che, unita alla naturale bontà, lo rendeva a tutti caro. Ma già allora la poesia, il giornalismo, il teatro, suoi segreti tiranni, reclamavano prepotentemente la lor parte. Furono anni di tranquillità economica, allietati dai primi interessi filodrammatici, che vedevano impegnati giovanissimi del luogo e gli stessi familiari del poeta, e dalla consuetudine amicale di accolte e avventure, con le serenate a pietrafitta, rette dal suo mandolino e dalla gran voce canora del capostazione del paese. E fu allora che nacque Ciardullo. il fortunato pseudonimo, che molta parte dell’opinione comune interpreta falsamente come diminutivo della pena e della povertà, era in realtà il popolare soprannome di pasquale de luca, la guardia municipale del paese, che, come tale, era addentro alle segrete cose del Comune, e il poeta lo assunse per dare colore e credibilità alle punzecchiature che indirizzava sulla stampa locale ai rappresentanti dell’amministrazione comunale e lo mantenne in seguito per firmare la gran parte della sua produzione letteraria. Ma dovettero essere anche anni di esercizio della scrittura teatrale, attraverso il quale egli arrivò alla composizione di una commedia in lingua, Morte fuggente3, rappresentata al «politeama» di Cosenza nel 1920, e si preparò all’esplosione dialettale. Quel felice periodo fu rotto bruscamente nel 1921 dalla perdita della moglie adorata, per la quale cadde in prostrazione profonda, acuita dalla responsabilità dell’assistenza dei sei figli, tutti in tenera età. lo si credette impazzito, tanto da farlo sorvegliare a vista. Gli furono di conforto l’affetto dei familiari e degli amici e la cura dello studio apertogli nel 1922 dalla generosità dello zio cavaliere in Cosenza, in un appartamento di via Cafarone, nel rione «le vergini», che raccoglieva il fiore dell’intellettualità cosentina, da pietro Mancini a Tommaso Corigliano, a Tommaso de Matera, ad alberigo Talarico, a Stano amato; poco più in basso, Fausto Gullo e Mario valentino. in quell’appartamento sistemò la famiglia, correndo ogni volta che poteva alla sua perito. Ma quella ferita non si rimarginò.

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«Cronaca di Calabria», 4 luglio 1920; «Fra nicola», 26 luglio 1920; a. Furfaro, Storia del Rendano, Cosenza, 1889, p. 57.


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CapiTolo iii

a CoSEnza

Grande polmone dei suoi casali e di tutti i piccoli centri silani dell’alta valle del Crati, Cosenza era tradizionalmente la valvola di sfogo delle attività agricole di quelle comunità, che si ritrovavano soprattutto nella ricchezza del mercato quotidiano, alimentando a lor volta il movimento commerciale della città, in un antico rapporto di subalternità persuasa e fedele, che riconosceva in essa il referente naturale per tutti i servizi civili, dalla giustizia all’istruzione, al fisco, agli obblighi militari. Ma la sua sfera d’influenza e la sua capacità di richiamo si erano notevolmente allargate nell’immediato dopoguerra per l’apertura della ferrovia Cosenza-paola e la creazione di linee di trasporto automobilistico per i centri principali della Sibaritide. Cosenza viveva intensamente gli anni frenetici e contraddittori del primo dopoguerra e della vigilia fascista. arroccata sul colle pancrazio, la cui sommità conservava i simboli dell’antica tradizione culturale: l’accademia, il teatro «rendano», il liceo «Telesio», scendeva lungo i fianchi fino al Crati e al Busento, i suoi mitici fiumi, ma in ossequio al nuovo piano regolatore cominciava ad allargarsi nella pianura. la città aveva il cuore nella Giostra vecchia, «’a Jurra de ’na vota», col «Gallicchio», il caffè di peppe pranno, gli uffici di libreria di luigi Caputo, la vecchia farmacia di nicola valentini e, più distante, la tipografia di antonio Chiappetta. Era il gran salotto della città, dove si tessevano gli affetti e i rapporti e si faceva la storia. lì passavano, coesistevano, si scontravano i diversi volti della tradizione culturale cosentina e le condizioni sociali e politiche più diverse, dalla borghesia alla vecchia nobiltà, dal liberalismo al marxismo, al radicalismo, al trasformismo, impersonate tutte da nomi di rilievo, che hanno impresso un segno nella storia della città. E là con-


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i Giorni E lE opErE

venivano ad ora solita i notabili, che Ciardullo avrebbe eternati circa trent’anni dopo con bozzetti rapidi ed indimenticabili, preziosi come monografie. a quegli uomini e a quelli della generazione che li seguì egli fu caro per le sue doti di cultura e di rettitudine come per la sua felice disposizione al giornalismo e all’arte, e solo nella loro affettuosa frequentazione egli sedava il tormento e l’irrequietezza col sorriso vivace che traspariva dagli spessi cristalli dei suoi occhiali, come ricorda in una bella pagina luigi rodotà: ... Solo tra gli amici trovavano conforto i suoi nascosti crucci e, nei lieti conversari, portava sempre una nota di particolare giovialità con le sue arguzie e con le sue battute piene di umor gaio. Quella sua irrequietezza si estrinsecava spesso in un atto, in un gesto del tutto particolari, come quando torturava, senza volerlo, qualunque cosa che gli capitava nelle mani: libri, oggetti, ninnoli e tutto quello che si trovava per caso a lui vicino. lo rammento nei lontani ed indimenticabili convegni in casa dell’avvocato Emilio de donato […] quando partecipava, con particolare interesse, alle discussioni di politica o di arte o ai racconti di cose passate. Michele de Marco, che seguiva le conversazioni con grande diletto, non lasciava però il docile ed innocente oggetto che gli era capitato tra le mani: spesso era un ardito galletto di stoffa cui ogni sera _ con una persistenza tutta speciale _ portava via una pinna, altre volte un caratteristico fermacarte che rappresentava un ben pasciuto Turco, che, appena mosso, dondolava monotonamente la testa. E quel povero testone di creta dal collo mobile girava e rigirava continuamente tra le dita irrequiete di Michele. l’avvocato de donato, con quella sua serenità olimpica e senza scomporsi, allontanava piano piano l’oggetto dalle mani di Michele de Marco, ma questi, senza avvedersi, tornava a torturare i malcapitati gingilli. _ Che volete, tormento le bestie e spesso anche le teste di creta _ rispondeva sorridendo; _ è una mia qualità istintiva e naturale codesta1... Quel suo candido senso dell’amicizia, insieme alla semplicità dell’uomo, vive anche nella commossa rievocazione di Carlo nardi: ...l’ho qui, nella memoria fissa e nel cuore, quella serata, che spezzò, frantumò il ghiaccio verso la mia terra (nato non so perché o, forse, per un groviglio

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l. rodotà, Michele De Marco giornalista (Aneddoti), «il Giornale di Calabria», a. 54, n. 1, 10 marzo 1955.


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- a CoSEnza

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di perché) e ho ripreso d’allora, di frequente, la via del ritorno tra quest’ondulare di colli verdi, tra queste chiostre di monti che ho lasciato da tanti anni. dove, come, quando l’avevo conosciuto il commensale accanto, schivo dell’uso dell’italiano, bonario e faceto nell’espressione calabra, che si irruvidiva nell’inconfondibile pronunzia dei casali silani? non l’avevo mai conosciuto ma mi era là daccanto come se la più calda delle amicizie mi avesse avvinto a lui da tanti anni, da sempre. Michele de Marco, giocondo della giocondità d’un’anima semplice e schietta, dissolveva quel mio ghiaccio interiore, già frantumato. il tu s’intrecciava, nel mio discorso, all’affettuoso vocativo «Carruccio», ed io sentivo più che altro, in quell’animo, come il disvelarsi del meglio della nostra gente schietta, espansiva, affettuosa, sincera, rudemente spoglia dell’orpello del convenzionalismo2...

il ritratto si avviva ancor più nell’affettuosa testimonianza di Ciccio, il maggiore dei figli: ... amato veramente da tutti […] per la sua carica umana, per la sua simpatia immediata, per quel suo modo particolare di interessarsi a tutto a a tutti e non per fregola di pettegolezzo o dal di fuori, ma per partecipare il più da vicino alle necessità o alle estroserie del suo prossimo numerosissimo. Egli fu per tutti don Michele. un tipo al quale si doveva voler bene per forza, anche se certe sue proverbiali battute avevano la forza di stroncare un individuo, se le sue trovate erano capaci di mettere alla berlina, e in modo a volte tremendo, le personalità più in vista dell’epoca. Era l’uomo che rientrava a casa con le tasche piene di scatole di fiammiferi, pur non comprandone mai una, ma ficcandosi in tasca le scatole di quelli ai quali aveva chiesto un fiammifero solo per accendersi qualche sigaretta che non aveva mai. Chiunque lo ha conosciuto ha di lui un episodio che ricorda e racconta, perché quei suoi episodi, semplici, scaturiti improvvisamente dalla circostanza o dalla fantasia, lasciavano un’impronta incancellabile per la loro originalità […]. in quel suo mondo si aggirava volentieri sempre, alla ricerca della comparsa da trasformare in personaggio, del personaggio da trasformare in protagonista3…

la sua vocazione teatrale divenne più chiara e notoria nel 1923, quando la compagnia Spadaro-Grasso rappresentò al «politeama», tradotto in siciliano, il suo dramma dialettale Maragrazia, con tutti i consensi autorevoli di pubblico e di critica che quell’avvenimento comportò.

2

C. nardi, Come ho conosciuto Michele De Marco, «il Giornale di Calabria», a. Xiii, n. 2, 18 luglio 1954. 3 C. de Marco, Ciardullo, Cosenza 1973.


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i Giorni E lE opErE

l’eco del successo è registrata dalle cronache del tempo: ... l’opera è stata vivamente applaudita da un pubblico sceltissimo e per abitudine non indulgente, perché essa s’impone sin dal principio per una sicura previsione di effetti e per una cura scrupolosa di ogni dettaglio. non si è avvertito alcun segno di stanchezza malgrado qualche prolissità facilmente emendabile del primo atto, e la sala ha conservato sempre il silenzio di una grande attenzione e di una curiosità sempre crescente fino alla tensione degli animi dinanzi al tragico urto delle più forti passioni umane, e l’epilogo non previsto fu ben compreso nel suo fine altamente morale e nella sua rappresentazione vigorosa ed ardita. l’azione e il dialogo si svolgono con tale naturalezza, che pare di assistere non da un palco ad una rappresentazione teatrale, ma dal balcone di una villa ad un interessante episodio campestre4...

Fu, quella circostanza, anche una prova della sua generosità, perché egli cedette alla compagnia i suoi diritti d’autore. Ma d’allora la sua attività di avvocato divenne sempre più sofferta e svagata. lo ricordano difensore brillante e vigoroso e autore di memorie che per puntualità delle dipinture erano etopee. in anni economicamente meno felici sbalordì tale Biagini, scrivano, che faceva servizio a dimora, dettandogli una comparsa conclusionale difilato e senza una cancellatura, cosa che, oltre a dimostrare l’eccezionale padronanza degli strumenti professionali, salvava la sua preoccupazione di contrarre il tempo, perché lo scrivano si pagava a ore. Ma si ricordano anche la sua incuria e la sua insofferenza: non rispettare le scadenze e talvolta dimenticare gl’impegni, scrivere di getto su una comparsa, in tribunale o ad un tavolino di caffè, un articolo o una poesia, il suo quasi totale disinteresse per il danaro e la sua pressoché irresponsabile generosità, che lo induceva a contentarsi di compensi modesti e non poco a servire gratuitamente. alla penna amica di luigi rodotà si devono anche il seguente gustoso aneddoto e le aggiunte note sulle sue abitudini scrittorie: ...un’altra volta scrisse su di una conclusionale e il tipografo, distratto, compose una parte della comparsa che si trovava sulla stessa cartella e che precedeva l’articolo: un articolo quello... all’acido prussico che metteva in evidenza un fatto cittadino col relativo attacco ad un tizio. Ma sempre a causa del tipografo

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ed (sic), «Mara Grazia» di Michele De Marco al Politeama, «il Giornale di Calabria», 10 ottobre 1923.


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- a CoSEnza

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distratto, l’articolo concludeva così: «piaccia all’on.le Tribunale, disattesa ogni contraria eccezione, deduzione e difesa, che tutte s’impugnano in fatto e in diritto, condannare il convenuto alla demolizione dell’opera, danni, spese, ecc. ecc.». per fortuna, le bozze di stampa furono riviste a tempo a tempo da un collega di redazione, perché Michele de Marco non s’era per nulla accorto dello svarione tipografico! Spesso cambiava la prosa in poesia: strappava le cartelle ove aveva scritto l’articolo, riduceva, come al solito, in pallottoline i ritagli di carta e trasformava l’articolo in versi chiari e sonanti5...

Quello scarso senso della professione e il carattere gioviale, ma irriducibile, non disgiunti forse da una celata invidia delle sue capacità, non gli conciliavano familiarità e collaborazione presso i principi del foro, ed egli fu solo fino alla caduta del fascismo. a chi contemplava la giustizia come un’idea platonica mal si adattava l’imperfetto modello dei tribunali e più si addiceva difenderla e servirla nell’universale, che non era dell’avvocato, ma del giornalista e del poeta. Forse a rendere più convinta quella propensione intervenne la sua stessa integrità morale, quando lo zio Francesco, che ben ne conosceva l’animo, lo pregò, in occasione delle elezioni politiche del 1924, non di appoggiare alcuni potenti amici suoi, ma di disinteressarsene almeno, ed egli invece entrò nella mischia da nemico giurato. perdeva il sostegno del parente, prezioso in quei momenti di vita, ma cominciava a costruire quella statua dell’integrità che, di lì a poco, in pieno fascismo, avrebbe trovato il suo banco di prova e la sua finitura, quando rifiutò l’offerta della direzione di un quotidiano previa iscrizione al partito, o quando rimise nelle mani del prefetto Guerresi, insieme all’amico suo più caro Totonno Chiappetta, anche lui poeta, la commenda decretatagli dall’amico quadrumviro Michele Bianchi, facendogli dire che a lui si addiceva la divisa di palombaro più che quella del commendatore. Quell’atteggiamento non mutò mai durante gli anni del fascismo, come la durezza del suo giudizio. raccontano che ad un milite pedacese del suo stesso cognome e di soprannome Cuculo, che un giorno, stanco delle sue punzecchiature, gli aveva ricordato minacciosamente di essere «un milite scelto», rispondesse: _ allora mi figuro che cosa sono gli altri «curritizzi» !

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l. rodotà, Michele de Marco, cit.


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i Giorni E lE opErE

al di là degli atti di fermezza, per sé sufficienti a disegnare un uomo, Ciardullo affidava alla parola e all’arte la sua battaglia e il suo messaggio. usava con la stessa disinvoltura l’articolo di giornale, vivace, caustico, e la satira poetica, per lo più in lingua, e talora questa circolò sotterranea o del tutto anonima, secondo una non rara consuetudine della letteratura di contestazione e di protesta. Quella che riguarda il rapporto tra l’uomo e il fascismo risulta da due diversi periodi di attività, espressi in tre diversi periodici: l’«ohè!», che egli fondò e diresse e che durò dal febbraio 1924 al gennaio 1925, il «Fra nicola», al quale collaborò nel 1932, ultimo anno di vita di quel periodico, e l’«Excelsior», al quale collaborò più sporadicamente tra il 1930 e il 1933, l’anno della chiusura.


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CapiTolo iv

la STaMpa CoSEnTina nEl vEnTEnnio FaSCiSTa

le vicende dei giornali cosentini del periodo fascista si collocano chiaramente nella grande vicenda storica, riflettendone aspetti e fasi. Gli anni 1919-26, quelli dello scontro delle idee e delle ultime resistenze, ne costituiscono il periodo eroico, tenuti presenti alcuni capisaldi della storia nazionale e cosentina. il fascismo, come partito, nasceva il 1919; il 1922 è l’anno della Marcia su roma; nel 1925 era proclamata la dittatura ed entravano già in vigore i decreti liberticidi sulla stampa. a Cosenza il fascismo divenne una forza significativa solo nel 1921, nel quale anno nasceva anche l’organo ufficiale del partito, «Calabria Fascista»; nel 1923 i ranghi s’infittivano notevolmente per il rilevante fenomeno di trasformismo del ceto politico liberale e della base sociale che lo esprimeva, tanto da costringere il sindaco Mari, ex socialista divenuto liberale ed elevato alla carica con le elezioni amministrative del 1920, a rassegnare le dimissioni; le elezioni politiche del 1924 esprimevano due deputati del listone, Michele Bianchi e Tommaso arnone, anche se la forza dell’opposizione si concretava ancora chiaramente nell’elezione del socialista pietro Mancini. il 1925 è l’anno dei provvedimenti prefettizi di chiusura delle sezioni politiche e di sequestro dei loro organi di stampa. in quell’anno il fascismo cosentino era già consolidato, come si ricava dalle cronache del tempo, che descrivono la celebrazione della fondazione dei Fasci avvenuta il 23 marzo di quell’anno in un teatro «rendano» gremitissimo; il 19 dicembre del 1926 il prefetto Guerresi insediava, a nome del governo, il primo podestà, Tommaso arnone, già commissario prefettizio dal 10 agosto del precedente anno, e il 25 dicembre la nobildonna alba Ghezzi Giordani gettava le basi del Fascio femminile.


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i Giorni E lE opErE

in quel lasso di tempo si consumò l’avventura di alcuni giornali indipendenti di informazione e di varia cultura: «l’informatore» (1920-25), il «Corriere di Cosenza» (1923-24), «il rinnovamento» (1922-23), di alcuni organi di categoria: «l’agricoltura calabrese» (1919-24), «vita Magistrale» (1920-22), e di altri legati alle lotte sociali o apertamente di opposizione: «la parola dei lavoratori» (1920-25), «l’operaio» (1924-25), il foglio di Fausto Gullo, che subì il sequestro, «la parola socialista» (1920-25), che, dopo una breve ma incisiva presenza nelle prime lotte del secolo (19051908), era rinata sotto la direzione di pietro Mancini e con la collaborazione di personalità di alta statura come Mario e annibale Mari. Si spegnevano anche periodici corazzati da più lunga tradizione: «l’unione» (1910-22) e «la parola repubblicana» (1908-23). Gli altri periodici nati negli anni venti stanno tra la scoperta confessione di strumenti del fascismo: «Era nuova» (1924), «nuova italia» (192428), «Calabria Sportiva» (1926-33), «il calabrese» (1926), e l’accorta convivenza: l’«Excelsior», organo del collegio maschile «Manzoni», che durò dal 1929 al 1933. negli anni trenta vivono titoli apertamente di bandiera: «Calabria Fascista», «l’elmetto», «il popolo di Calabria», a cui si aggiunsero nel periodo bellico organi di apposita propaganda, come «all’armi», «l’altoparlante», «l’eco del Crati», «Camicia nera», e sono da rilevare due periodici giuridici: «Temi cosentina» e «Tribuna calabrese», i quali, se da una parte testimoniano le alte tradizioni giuridiche della Calabria e di Cosenza in particolare, dall’altra promanavano da quella classe d’intellettuali che, salvati generosi casi di dirittura, non fu avara di collaborazione e di piaggeria nei riguardi del fascismo e alla caduta di esso avrebbe dato non lodevole prova di trasformismo. i periodici più resistenti furono «Fra nicola», «parola di vita», «Cronaca di Calabria». il primo, che ospitò nel suo ultimo anno, come l’«Excelsior», scritti di Ciardullo, durò, tra la cronaca, la cultura e lo scherzo, dal 1903 al 1932, chiudendo così, quasi come l’«Excelsior», in periodo di maggiore difficoltà di fronte alla più occhiuta vigilanza del partito. il secondo, nato nel 1920 e diretto per molti anni da Eugenio pietramala, diffondeva attraverso gli scritti di lorenzo Cardone e di luigi nicoletti le idee sociali della Chiesa. Quando i due sacerdoti furono confinati rispettivamente a Collepepe e a Galatina, passò sotto la direzione di Eugenio romano, fino al 18 giugno 1940, data della sua soppressione per decreto prefettizio. «Cronaca di Calabria», fondata nel 1895 da luigi


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- la STaMpa CoSEnTina nEl vEnTEnnio FaSCiSTa

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Caputo, rappresenta uno straordinario caso di resistenza. di essa scrive Cesare Minicucci: Mentre i giornali nascevano e morivano a seconda delle vicende partigiane di cui erano espressione e bandiera e si irrigidivano nella piccola lotta localistica la «Cronaca di Calabria» assumeva man mano negli anni una veste e un carattere sempre più generale, in cui ogni problema, ogni polemica, ogni discussione era trasportata al di fuori del pettegolezzo locale e della bega personale, per venire inquadrata in una grande cornice di unità regionale e nazionale1.

1

C. Minicucci, Giornalismo cosentino, Cosenza, 1936, p.17.


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i Giorni E lE opErE

CapiTolo v

l’«oHè!» (1924-25)

l’«ohè!» di Ciardullo, venuto alla luce il 1° febbraio 1924, operò, pertanto, nel periodo più critico e burrascoso della scalata fascista, cioè nel momento precipite della vita della nazione, quando, accanto all’emergere e premere a fondo di un partito che nelle decisioni politiche, nel comportamento pubblico e parlamentare confessava ogni giorno di più natura e volontà, si svolgeva la storia parallela delle colonne di profittatori che vi s’irreggimentavano, degli opportunismi, delle ipocrisie, delle scalate tortuose, delle titubanze, dei cedimenti di comodo e delle conversioni spontanee: la tragica sceneggiata che accompagnò un partito sull’altare. l’«ohè!» si presentava come ...un foglio candido ed innocente cucito su misura proprio per certa gente candida, candidissima, pura… lontano sia, che coi tempi che corrono circola in ogni via; certa gente modesta, semplice, costumata, che se agisce, se si agita, se parte in gran parata, se protende l’orecchio per dire: «ehi qua, son pronto!», lo fa per questa patria, giammai per tornaconto…

E di costoro si proclamava vessillifero e portavoce: l’illustratore intrepido, il gran portabandiera della pugnace, improvvida, forte, tremenda schiera sorta per nostra gloria, per tregua ai nostri mali sì come i funghi sorgono per le piogge autunnali…

nel sarcasmo della sua giustificazione Ciardullo spezzava una santa


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- l’«ohè!» (1924-25)

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lancia senza metafora contro l’accidia popolare, il fatalismo servile, il rassegnato lasciar correre, responsabile di molti mali: non ti sembra che a furia di lagni e di sospiri, di dir : _ Ma guarda … oh! cielo, Gesù !… quanti raggiri! … _ abbiamo dato il destro a tanti, eh! dico … a tanti pagliacci opportunisti di andare un pezzo avanti e di vedere in auge parecchie nullità buone a giocar di gomito, e basta! ah! non ti va? … non solo, ma son proprio codesti portentosi che pel calcio dell’asino sono sempre famosi (’A chiarificazione)

a illustrare motivi e intenti, Ciardullo corredava il primo numero di alcuni versi popolari, lapidari epifonemi di sapienza antica: vinne lu tiempu di la vinnigna, lu massaru si ’ncutigna. Balanzè, turdumè, mo è quatriglia, allegri, allè! Stuppa mi diesti, stuppa ti filai: tu mi tingisti…, ed io t’anniricai !…

il giornale lanciava apertamente il suo grido «su le vecchie trastole». le quali lo accolsero con ovvia preoccupazione e malevole insinuazioni, che il poeta nel secondo numero registra così: _ Eh! l’ho capita!… è questo, questo e questo! ... _ Eh! lo sappiamo chi glielo fa fare! ... _ Ma è semplice, si vede, è un altro innesto. ... _ Chi lo sa cosa mai vorrà tentare! ... _ imbeccate ed aiuti! …

Ciardullo rideva ed accusava la natura malevola della città:


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Scherzate? San Francesco ch’era un santo, ed un santo assai clemente, solea dire parlando di Cosenza: conca d’oro… ma bocca… hai detto niente!… (Alza la prora)

Così, di numero in numero, sfilavano i voltagabbana, ad uno ad uno, a schiere, a petto a petto con la folla, nei ludi pugilistici, nel gioco vicendevole dell’agguato e dello sgambetto: Son tanti gli amici giostranti che invadono il campo pugnaci!… E che fa? domani verranno alle mani?… vedremo gran lampo di spade… zza zza!… (Alla sanfasò!…)

non c’era, invero, da aspettare molto. la giostra si apriva con le elezioni dello stesso anno, caratterizzate dalla lista unica, il «listone», nel quale cercarono disperatamente posto tutti gli arrivisti, con rabbiosa delusione degli esclusi. la figura dell’escluso è colta nei suoi moti esteriori e nei segreti pensieri: rabbia per aver creduto «in quella pentarchia / truce e ria», essere stato in un baleno «tesserato / lusingato, coglionato», avere sciupato tempo e voce, sempre primo, a cantare «Eia alalà!», lui che non ha visto barriere e remore per la salita: Questo a me, che ogni partito ho tradito senza ambasce e senza tema col pensiero molto fiero per davvero di salire!… ecco il fatto. (Treno di ritorno)

un triste senso di smarrimento e di incredulità fa vacillare la fede nel bottone e nascere la tentazione, che il poeta coglie senza ambage nel miserevole gioco, di liberarsene per altre scelte:


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- l’«ohè!» (1924-25)

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ah, ma adesso che il giochetto gustosetto ho capito al naturale, muto credo… retrocedo, dritto, e incedo nel partito… Quale?… a quale?! (ibidem)

l’esperienza del poeta, immerso com’era in quella società, doveva essere molto amara, se egli, nella rassegna dei candidati, li accomuna tutti nel giudizio di condanna: pigliali dunque in blocco o ad uno ad uno, come ti aggrada scegli in mezzo a tanti, ce ne sono di quelli, salvognuno, famosi per cantare a tutti i canti; al cero e al cerotto, e se credi al cerino che reggono al pennello e sopra e sotto. perciò senza far motto e senza imbarazzarti nella scelta, lavora allo sbaraglio, profilane qualcuno, a gran dettaglio, e potrai sollazzarci e sollazzarti. (Cerchiamo il soggetto)

a conclusione della satira il riso si faceva spietato, con esito invero modesto della poesia, ma con chiarezza di termini da non avere eguali: Tutto è silenzio, il tempo quieto scorre, il cielo è azzurro, il bianco pesco è in fiore. raglia: precoce l’asino è in amore! perché? Ma forse è maggio? il gran fiorito maggio pomposo, turgido, trionfale? no, non è questo: l’asino ha capito che questo tempo è tempo elettorale. (ibidem)

le grandi adunate oceaniche venivano registrate dal cronista poeta. Egli si dichiara inadeguato a così epiche giornate, al numero, alle voci, alle gesta:


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un pigia pigia di grappoli umani, gente che in piedi batteva le mani canzoni fremiti grida fanfare, roba che scrivere penna non può; calca su calca, gente decisa, con la divisa, senza divisa. un vero nuvolo lì di persone con il bottone, senza bottone, una valanga terremotiera, una colluvie c’era lì c’era. (Cronisteggiando)

Ma l’ardire ha buon gioco, non solo per l’efficace quadro della parata, sottolineato dal tono epico di un doppio quinario opportunamente variato, ma anche per l’ingresso aperto nella scena dei corifei dell’ora. in altra satira già citata (Alla sanfasò) il poeta aveva additato, velato dalla metafora, … l’annoso mandrillo famoso che adunca la mano gridando: _ Son qua!…

Qui i personaggi cominciano ad essere indicati nominativamente e la satira ad personam ad essere chiara, attagliandosi a caratteri e circostanze. Quattro potenti del regime, familiari, d’allora in poi, alla satira di Ciardullo: Maurizio Meraviglia, gerarca paolano tra i più in auge, aurelio perna di Mormanno, che ebbe anche l’onore di presiedere l’accademia Cosentina, Tommaso arnone di Celico, deputato, primo podestà di Cosenza e presidente della Cassa di risparmio, Francesco Joele di rossano, senatore e, tra l’altro, commissario dell’Ente Turismo: pariglia doppia, forte e possente, insuperabile, di modo che ben l’appellarono superbamente una pariglia d’assi e di re. (Cronisteggiando)

perna si portava dietro pochi meriti e molto discredito e la parola del poeta nulla gli concede, prendendolo a oggetto insieme e modello:


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- l’«ohè!» (1924-25)

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Ma via, povero perna, perché tanti discrediti?! Sembra che lo perseguiti una iattura eterna! non è poi della gamma politica il più brutto!... perna!… Ma dopo tutto ci ha un nome che è un programma! (Siamo giusti!)

più sotto egli esplicita, giocando a fondo tra personaggio e partito, che perna, «per quel che dà la piazza… è un dio», perché, se non altro, curando i denti, «lì dentro può servire». il gran conto che Maurizio Meraviglia teneva «dell’uomo e del suo gioco», trovandolo sempre pronto, faceva fede, per il poeta, dello strumentalismo senza scrupoli del gerarca paolano, mentre Joele veniva liquidato senza troppa attenzione con una feroce citazione qualunquistica: «quell’altro di rossano». l’attenzione più stizzita andava all’onorevole arnone, per il quale sarebbe nata anche la strofa conclusiva di una lirica ciardulliana in dialetto, poi assorbita in immagini diversamente efficaci, ma anonime. di lui il poeta frustava il clientelismo di fatto e l’ipocrisia verbale, con un colpo senza pietà che si allargava alla parentela: Clientele! lui! lo strano asserto immelensito financo ha sbalordito il suocero, Gaetano, il quale _ e tu lo sai, lettore di talento _ per lo sbalordimento è disadatto assai!… Sta bene! il fu massone, che va da nitti a Fera, che trova la maniera di scalare il listone, può dir quello che vuole, non reca meraviglia!…


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i Giorni E lE opErE

la marca di famiglia è chiara come il sole!… (ibidem)

non paga di questo già troppo eloquente documento, l’aggressione ciardulliana si esprimeva in una contemporanea, violentissima satira in dialetto, Parràu Linardu, della quale si darà conto in apposito capitolo1. Come è facile capire, la sferza di Ciardullo per un uomo che dopo due anni sarebbe stato un buon podestà di Cosenza, meritevole di ricordo per le opere pubbliche che realizzò, era dovuta al suo trasformismo, cioè a una condotta politica e morale del tutto avversa alla dirittura del poeta. l’attenzione si estendeva poi ai compari, i «bifolchi», che univano i loro garriti ai canti degli amici trionfanti, ma con una riserva repressa, uno scontento che si confessava vilmente nelle conversazioni con uomini di diverso ideale politico: parte, forse, la peggiore e la più pericolosa della società, pronta a cogliere il meglio del banchetto e a mutar rotta al primo soffio contrario: Cos’è? adesso mi guardi perplesso? Che dici? vaneggio, farnetico? E no!… no, compare, no; tu l’hai voluto, ci hai tanto goduto finora… e perciò... il Dies irae di là da venire tu vieni a narrarmi?! non sento: perché, ti conosco calzato e vestito! va’… siedi al convito, l’han fatto per te!… (Canti e garriti)

l’aria s’ammorbava di giorno in giorno; cresceva il viver di sospetti e di paure. le prepotenze, i favori, le violenze si facevano sistema e con

1

Cfr. infra, pp. 132 ss.


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esso scemava ogni giorno la capacità della protesta e della difesa, il coraggio della verità. per rendere quella diffusa atmosfera Ciardullo adottava il modulo trilussiano della favola, ma con un tutto nuovo compiacimento narrativo: la favola del re leone che invita gli animali nella reggia, accogliendoli nella sala da pranzo, dove parlava eloquentemente un residuo maleodorante di carne. ingenuo il somaro, che confessò la puzza che sentiva; ingenua la scimmia, che vi sentì «un profumo che incanta». il leone li divorò tutt’e due. Si salvò, come sempre, la volpe con un ragionare sottile: _ Maestà, ve lo giuro, l’ho addosso, mi affligge così un raffreddore potente. vorrei, ma non posso, non sento né puzza né odore. (E parliamo di favole)

Che è, nell’ironia dell’avvertimento, l’amara conclusione del poeta: la volpe fu salva. lettore, potresti a tal punto capire che è lieto chi adesso può dire: _ non sento né puzza né odore. (ibidem)

Ma c’erano ancora i momenti di rabbioso scotimento della pubblica coscienza. Tale fu quello del delitto Matteotti, il 10 giugno di quell’anno, con lo sdegno della nazione e il disorientamento dei neofiti in un giorno particolarmente carico di nubi e di minacce. Ciardullo lo registrò con un pezzo da antologia satirica, che è anche un modulo della sua migliore satira, discendente dal fatto generale ai particolari specifici e alle persone e viceversa, e talora composto della fusione delle due vie in una molteplicità di invenzioni che è documento del fertile e facile ingegno: Ecco, io sono nell’imbarazzo: me lo metto o non me lo metto?… Me lo metto? E se piglia l’andazzo, cosa faccio? Mi comprometto? Me lo tolgo? Sì, quasi quasi, per lo meno sarìa prudente!


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i Giorni E lE opErE

Ma se sfuma e si rompono i vasi? Come resto? Col muso pendente? ora sfoglio la margherita, per vedere cosa risponde, or la piglio tra le mie dita, ora scruto le scienze profonde. dillo tu, gentile fioretto, tu che vedi, piango e mi dolgo. Me lo metto o non me lo metto? Me lo tolgo o non me lo tolgo?… (Me lo metto o non me lo metto?…)

Era assai difficile spegnere l’indignazione, che tuttavia era vanificata dal continuo allargarsi e consolidarsi del potere fascista e dalla condotta malaccorta dei partiti di opposizione, i quali, alla commemorazione di Matteotti, tenuta in parlamento da Filippo Turati il 26 giugno 1924 con un coraggio e una decisione che, se opportunamente messi a frutto, avrebbero mutato forse il corso della storia, iniziarono la politica dell’aventino. la risposta a quel discorso e alla montante protesta furono i decreti sulla stampa del seguente luglio. Cominciò da allora, anche se la loro applicazione non fu istantanea, quel cataclisma dei giornali italiani che dopo il discorso del duce del 3 gennaio 1925, il quale rinfocolava le violenze e le repressioni, sarebbe diventato inarrestabile: per alcuni la paralisi immediata, per altri la morte lenta per asfissia, per tutti una possibilità di vita a prezzo dell’allineamento al regime, come si è visto nella breve nota sulle vicende della stampa cosentina. anche quel terribile fatto, che lo colpiva direttamente, Ciardullo vestì di tagliente ironia, capovolgendo i termini del rapporto e prestando al partito la parte di padrone generoso che ha finora tollerato ed è al limite della pazienza: … è già tutta una stagione che alle case, nei ridotti, senti sempre una canzone: hanno ucciso Matteotti! Sissignore, l’hanno ucciso! è un fattaccio dopo tutto; ormai gode in paradiso, perciò voi prendete il lutto.


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... per eccesso di buon cuore abbiamo anche tollerato che financo, udite, un fiore fosse, via, depositato ... ed abbiamo posto un velo sul corteo degli esaltati, e financo, dio del cielo, sul discorso di Turati; e alla moglie d’intristire abbiam dato ogni licenza (e potevasi impedire per misura di prudenza!) … Fino a che questo groviglio contro il nostro buon piacere? Fino a che questo cipiglio? «usque tandem abutere»? (Usque tandem abutere?)

Ma lo sdegno che sorregge l’ironia prorompe apertamente alla fine, restituendo al lor posto le parti: Forza dunque: oh! che paventi? che il buon popolo a dovere ti dirà mostrando i denti: «usque tandem abutere»? (ibidem)

i decreti non smossero il poeta. Saldamente fermo nel suo programma, espresse nell’ironia irridente la sua volontà di resistenza. Con amabile finzione assume il cipiglio fascista, indossa il bottone, espone nella stanza l’immagine del duce, sostituisce a quella del suo Mazzini il luminare del fascismo, Farinacci, e, a colmo di scherno, si fa un manganello col bastone della scopa, tanto per attestare piena e totale la sua conversione all’idea: è da oggi che io mi sento germogliato dentro il cuore un affare truculento, tutto un lievito, un furore!


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Ho lo sguardo d’ordinanza, vale a dire truce e fosco; e girando per la stanza oggi più non mi conosco. … il passato? Ma il passato oggi più non mi appartiene! l’uomo nuovo è germogliato nel mio petto… e come bene!… oggi appunto, in molle posa troneggiante in piena luce ho piazzato la radiosa dolce immagine del duce; un Mazzini tutto nero ho buttato fra gli stracci e al suo posto ho messo il vero luminare: Farinacci! Ho un bottone, che il più bello non lo trovi in tutt’Europa; mi son fatto un manganello col bastone della scopa… … E così fin da stamane tutto un colpo io mi ritrovo con le idee tranquille e sane, vale a dire un uomo nuovo!… (Crisi personale)

la politica moralizzatrice del Fascismo, ignara delle falle della vita privata di gerarchi e gerarchetti, non disdegnava le manifestazioni di parata, affidandole anche a gesti plateali, come i provvedimenti contro le passeggiatrici, che il questore di Cosenza Sidermayer, un nordico tutto d’un pezzo, interpretò con estremo rigore, bonificando in pochi giorni le strade e le piazze della città. Ciardullo uomo morale non riprovava, ovviamente, il fatto in sé, ma la sua risibile eclatanza di rigore in tante tollerate o volute calamità della vita nazionale. perciò il velo satirico è contenuto e lieve, tingendosi di amabile sorriso. il poeta si finge paladino delle donne perseguitate e implora per esse comprensione e benevo-


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lenza: Signor questore, fatemi il favore, ditemi dunque, cosa avete in testa? Ma non avete rossore? Ma pudore vi resta? voi tremate, perbacco, o non tremate dell’ira furibonda e sovrumana, dell’angoscia sovrana di tanti derelitti che votate all’acerbo dolore atroce eterno? voi che le pene tutte dell’inferno a tanti cuori dolci apparecchiate? pietà, pietà, sostate! Ma cosa avete dunque, un sasso o un cuore, Signor Questore? (Parce et exaudi)

Col tono lieve della satira ben si accorda il compiacimento descrittivo nel rappresentare la visita del cliente: è così dolce stare in sulla porta attendendo! lontano il sordellino ecco si sente! il cuore ardente balza della casta che attende! indi il selciato suona del passo usato! Ella protende la testa sulla strada, e scruta, e spia! Eccolo spunta, occhieggia, si avvicina, entra! chiude!… Ed il resto s’indovina che cosa sia!… (ibidem)

E sempre reggendo l’amabile scherzo, il tono si atteggia, nel finale, a solennità foscoliana: recedi dall’impresa! deh! ti muova a pietà, te lo chiedono tremanti cento tumide bocche amate e amanti! E il folle dio bendato te lo impone. paventa il suo furore: t’inchina al culto del permanganato, signor Questore.


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(ibidem)

l’altra faccia del partito era quella delle cricche, delle greppie, delle ruberie. Qui la satira assume il lessico del prendere e del pappare: pizzicato, pizzicatorio, masticatorio e pappatorio, con il vantaggio davvero saggio, di avere sempre pronto il refettorio (Versi _ per adesso _ tutti liberi)

il poeta sottolineava l’aspetto più ironico e maligno del tristo fenomeno: l’impudenza dei nuovi arrivati, che si sposava alle ruberie, attribuendo ad altri, ingenui e netti, le proprie magagne: chiamando ladri, combriccolanti, assalta greppie e lestofanti quei poveruomini, comici assai, che pur avendo, sì, quant’altri mai potuto rodere senza misura, senza fastidio, senza paura, li vedi semplici, col secco muso filando stupidi sempre ad un fuso, e lieti mostrano netta la mano senza un centesimo siciliano. (ibidem)

il componimento assumeva, secondo il frequente uso esortativo della satira ciardulliana, il titolo Sine timere, semper gaudere!, che nella satira ricorre come un leitmotiv, redatto, come si vede, in un latino strapazzato, non si sa se volutamente, cioè per servizio di rima. Ciardullo, che pareva assorbito dall’orto concluso della sua città, la vedeva specchio della realtà nazionale. lanciando, infatti, l’occhio sugl’infiniti casi di cricche e greppie, gli viene a vista Giacomo acerbo, che in quell’anno era sottosegretario alla presidenza del Consiglio e controllava tutti gl’istituti di credito degli abruzzi e oltre. il personaggio gli richiamava per contrasto Garibaldi, eroe generoso e disinteressato, il quale tuttavia, nel paragone, agli occhi del repubblicano poeta, misurato in satira, risultava perdente. in Garibaldi, cioè, la sua mesta ironia vedeva quanti, come lui, rifiutando la greppia, erano contenti di vivere la loro


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pulita modestia. Garibaldi! Ma infine questo Garibaldi che cosa ha fatto? vi par giusto, vi pare onesto occuparsi di questo matto, che se fece l’italia una, lavorandovi senza posa, diede poscia la sua fortuna ad un altro? Ma vi par cosa? vi par giusto? Son questi i modi? Sei cretino se ti riscaldi a formarla se non la godi. parlo male di Garibaldi. (Parlo male di Garibaldi)

anche gli acerbo cosentini avevano aperto gli occhi, posandoli sulla Cassa di risparmio: personaggi-chiave del fascismo, che tramite loro mirava a controllare gl’istituti di credito. per questo occorreva abolire il limite di età per i concorrenti al posto di direttore. il gioco era chiaro e Ciardullo lo denunziò in due diverse satire, Cecatelle e Presidente, Presidente!, la prima delle quali, invitando certi signori a tenere «l’occhio alla sporta», era scopertamente allusiva nei contenuti: Capelli bianchi; o meglio teste proprio spelate: persone stagionate, è qui il risveglio!… è qui la forza, il gioco per giungere al fastigio! anche il capello grigio è troppo poco. limiti a destra e a manca? Ma l’uomo cinquantino, se, via, non è bambino poco ci manca!…

nell’altra il poeta, rivolgendosi all’allora presidente attilio de Caro,


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suo buon amico, giocava benevolmente con certe sue note manie: i bollori cinegetici, i canini di quel cane, ed i carmi apologetici per cui voi con sforzo inane irrorate gli orizzonti della vita risplendente, vi han fiaccato … a buoni conti. presidente, presidente!… dite a me, ché lo sapete il gran bene che vi voglio, in qual vortice attingete per saltare questo scoglio?

E lo invitava intanto a badare non solo «a quel che il mondo potrà dire», ma soprattutto «al divenire». Tra i mali più nefasti della vita pubblica cosentina, una coorte pressoché ereditaria di funzionari volponi, «stinchi di santi», «animucce gentili e timorate», reggeva gli uffici comunali. Era, invero, un caso non unico, rilevabile anche in altri comuni della provincia e non di quella soltanto, ma i mali contabili del comune cosentino arrivavano a tal rilevanza da turbare la pubblica opinione e persuadere il Governo a mettere il naso nei fatti, designando all’uopo come commissario il prefetto Mori. Tanto chiasso per nulla: il temuto funzionario si rivelò strumento, «menato pel naso a girarello», nelle mani della cricca, sorretta dagl’ingranaggi del partito, l’uomo dei tempi, come Ciardullo scrisse con un orecchio allo storico plutarco, e l’inchiesta finì lì. la parte più viva della relativa satira si appunta alla giustificazione di comodo messa in bocca al personaggio: «io poverino / che ne sapevo mai? Mi son fidato!», oppure: «Errore! oh dio, non cade l’universo!», alla quale il poeta prosaicamente, ma efficacemente, risponde: E ditemi una cosa, a tempo perso: nel pingue ventisette vi sbagliate? la parcella quel giorno voi la guardate! E se di un lieve errore è infetta, quella no, non passa un corno!


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Quella la iperscrutate: e con che ardore!… Quella, s’intende bene, la capite; mentre, per tutto il resto: cui bono? a che sforzarsi? voi dormite e vada all’uscio il manico ed il cesto. (L’uomo di Plutarco)

Se gli arrivismi con le conseguenti abbuffate erano il male più vistoso, un male parallelo balzava meno alla pubblica attenzione, ma era non meno deleterio e parimenti significativo del periodo storico, intervenendo a danno degli stessi provvedimenti con cui la politica fascista si proponeva di sollevare le condizioni del popolo. Era il conservatorismo della nobiltà terriera, nel caso la resistenza a concedere i suoli per la realizzazione delle case popolari previste dalla legge. Ciardullo sposava ovviamente, con i toni a lui soliti, la causa dei poveri, resistendo, come aveva fatto per altro motivo a quelle dello zio Francesco, alle pressioni di politici e amici, tra cui Federico Misasi, a lui caro perché appassionato come lui di teatro e filodrammatico e attore non spregevole. Federico gli chiedeva, come già lo zio, non di mettersi dalla parte dei signori, ma di astenersi almeno dagli attacchi, il che per lui equivaleva a farsi connivente delle lordure politiche. la sua risposta poetica, che richiama nel suo significato quella del parini caduto al passante soccorritore, è contenuta nella satira A Federico Misasi, incitatore a vuoto, nella quale immagina che l’amico lo abbia predestinato come soggetto di un dramma che racconterà la sua triste fine ov’egli persista nella sua condotta; ad evitare il rischio e risparmiare all’amico la fatica teatrale, egli immagina una palinodia, nella quale la finzione salva il rapporto giocoso con l’amico, ma più acri racchiude la rabbia e lo sdegno: le case popolari (tema scabroso e futile) sono una cosa inutile, non valgono i denari che assorbono. pensate sciocchezza, o amici buoni, solo per gli straccioni sariano riservate!… Ma quando mai si è vista


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cosa così cretina? Ecco che si combina a fare l’utopista. i pezzenti!… e per loro si fan tanti schiamazzi !… Ci son tanti palazzi per il nostro decoro… … Bella cosa!… Soccorsi per i pezzenti! oh! certo!… Ma dormano all’aperto senza tanti discorsi!… Così sta bene: io dico soltanto questo ormai!… Che plauso avrò, vedrai mio caro Federico!…

Era il 12 gennaio 1925, quando usciva l’ultimo numero dell’ «ohè!». il periodico aveva tenuto deste per un anno le scarse fiamme della resistenza; lo aveva fatto con la satira politica, lo strumento più affilato della sua battaglia, ma anche con articoli di tono vario e note di cronaca, investendo anche altri campi di pubblico interesse, alternando alla spada lo scherzo arguto e bonario. a coglierne gli spiriti, il tono, lo stile, torna utile rileggerne qualche pagina. Ecco con quale sottile gioco, concluso da una feroce, improvvisa stoccata, dipinge, a proposito della composizione del listone e delle attese, delle mene, delle delusioni che l’accompagnarono, il dispotismo del duce e la supina acquiescenza dei suoi maggiori e minori accoliti: dunque la pentarchia è stata mandata a casa col ben servito. il duce ha detto così: - Cari figliuoli miei, voi avete lavorato come padreterni. ah! che bella cosa avete fatto voi, cari amici della pentarchia! ... Ma guardate un po’ che bella filza di nomi! ... Ed in che bella calligrafia! ... Bravi davvero, bravi! ... adesso però andate con dio, perché io debbo fare un lavoro importante. ah! voi non sapete quello che debbo fare io! Bisogna che trovi i candidati che debbono far parte della lista nazionale! vedete che brutto lavoro, bisogna che io trovi ed elenchi trecentocinquantasei nomi, uno per uno! ... non è facile e non è poco! ... E siccome i cinque sostavano lì con quella faccia attonita che tu, mio buon


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lettore immaginerai senza superlativi sforzi, il duce li guardò con occhio abbastanza severo: - ohè ragazzi, andate, andate: andate che ho da fare ... E la povera pentarchia, guardando mesta le sudate ed inutili carte, rinculò definitivamente. Che scherzo feroce! Qualche cosa di inaudito e di beffardo! Ma come? E allora tutti i maneggi, tutte le avances, tutti i palpiti, tutti, mio dio, tutti i passi perduti, tutti i sogni concepiti accarezzati blanditi per tempo sì lungo, tutte le ombre che affacciatesi diafane e scialbe in un primo tempo avean piano piano preso corpo, tutti i principî in sogno per un momento, come un nugolo di mosche agglomerato su di un pezzo di carne un po’ stantia scappa ed annerisce l’aria al passar più o meno rapido di uno straccio agitato da mano robusta, si son visti sbalzati via, senza aver tempo nemmeno di dire: Gesù salvaci. per noi è un altro paio di maniche! a noi la pentarchia esistente o non esistente non fa proprio né caldo né freddo! E’ partito per roma, chiamato di grande urgenza, e pregato con la tradizionale pietra al petto, l’illustre capo della nostra provincia comm. agostino Guerresi ... e mi pare! Ecco l’uomo che saprà risolvere tutti i nostri destini. Ecco il solo che si metterà subito in contatto direttissimo come un treno col duce, e saprà guidarlo con mano maestra. Eh! non fo per dire, ma il duce questa volta non muoverà foglia senza pigliar lingua da lui; ragione per la quale, dato il tatto, il senno e l’amore sviscerato che il comm. nutre verso di noi, ci collocheremo in primo rango, e buonanotte ai suonatori! il che va ascritto a nostra particolarissima fortuna, ed a vanto superlativo di un funzionario che incarna meravigliosamente il trinomio pirandelliano: l’uomo, la besta e la virtù!2

Ecco come anche nella polemica riesce ad alternare il sorriso allo sdegno e all’amarezza, l’eleganza allo scudiscio. la pagina che segue è la risposta a un detrattore anonimo. Mi debbo occupare di «Sigma». non è piacevole, lo so, occuparsi di uno sconosciuto, ma «Sigma» conosce così bene la mia vita, ha poetato così graziosamente intorno alle mie abitudini, ha informato i lettori di un quotidiano dei miei successi di commediografo con garbo così squisito, con spirito di così buona lega che proprio adesso mi corre imprescindibile l’obbligo di occuparmi un po’ delle cose sue.

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ohè!, Sprazzi e tramonti, «ohè!», a. i, n. 3, 25 febbraio 1924.


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non so chi egli sia, è vero, ma ciò non importa: conoscere un uomo non vuol dire che si debba avere un’esatta nozione dei suoi connotati. Sono le azioni quelle che contano, e pertanto, alla stessa maniera con cui dalle azioni attribuitemi da «Sigma» si desume che io sono il più spregevole dei mascalzoni, il coraggio con cui «Sigma» fruga nella mia miseria fa ritenere essere egli il più perfetto dei gentiluomini. «Sigma», amico mio sconosciuto e giocondo, io posso veder dietro la tua maschera graziosa una precoce vecchiezza che ben riparata dalla trincea dell’anonimo tenta spesso di galvanizzare lo scarno ed anemico braccio di un pezzo patologico, o ancora posso vedere la smorfia grottesca di uno scrivano giornalista che tormenta il novissimo Melzi nell’affannosa ricerca di parole eteroclite; può darsi anche che dietro al tuo breve pseudonimo si nasconda tutta una ringhiante famiglia di spodestati; ciò, ripeto, non ha importanza: io non ti domanderò più il tuo nome, poiché tu hai delle buone ragioni per non palesarlo. Mattacchione di un «Sigma», mio indiavolato biografo, tu indubbiamente dimostri di conoscermi come forse io stesso non mi conosco, e tuttavia non hai detto che una particella di verità. Forse anche per un capolavoro di ironia hai voluto presentarmi ai tuoi lettori in proporzioni ridotte comunque per una mia spiegabile gelosia di criminale tengo a rivendicare interamente oggi il mio buon nome di carogna perfetta. Tu di me offri ai lettori del tuo giornale illustre una copia in diciottesimo, ma il mio cinismo è ben noto e tutti sanno che la mia ferocia è soltanto superata dalla mia scaltrezza. io conosco tutte le insidie e tutti gli agguati ed ordisco piani tenebrosi e vivo una vita inverosimilmente infame. Sono perciò odiato, sfuggito e temuto. la mia considerevole ed invidiata fortuna professionale io la debbo alle mie basse e spregevoli attitudini, che bene suppliscono alla mancanza assoluta di ogni luce d’ingegno; e la mia opera di giornalista è tutta una serie ininterrotta di volgari ricatti. «Sigma», resocontista brioso, tu mi dipingi come uno straccione da quattro soldi quasi io fossi il direttore de «la Bussola» e parli di stoccate e di tornesi come se io avessi avuto rapporti con qualche tormentato imprenditore del porto di paola. Queste sono le briciole che io lascio volentieri al tuo giornale coraggioso ed onesto: le mie imprese hanno proporzioni ben più vaste e con tua sopportazione non «un poco qua e un poco là», ma io mangio molto dappertutto con voracità spaventevole. Satrapo non disdegnerebbe la mia casa, dove in ogni parte è un segno del mio facile guadagno e dove trovano soddisfazione tutti i miei gusti di moderno pervertito. io sono il raffinato, lezioso, agile e locupletato petronio del nostro tempo: questo si vede. intasco ben altro che abbonamenti, ingenuo «Sigma», e se tu veramente conoscessi il programma dell’«ohè...!» sgraneresti gli occhi come davanti al più rotondo degli scrigni.


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Se tu occupassi soltanto il posto di usciere nella redazione del mio giornale, guadagneresti molto di più di quanto non guadagni un qualunque avvocato burocrate, umorista ed hallesista. l’«ohè...» conosce bene la sua strada ed ha i suoi metodi semplici, rapidi e sicuri: il suo fiuto è sorprendente, specialmente durante le battaglie elettorali. ne sa qualcosa l’on. perna che dovette sacrificare addirittura un patrimonio per ottenere che «ohè...» si occupasse di lui. Basterebbe del resto ricordare che il mio giornale è riuscito a sfruttare la ben nota prodigalità dell’on. arnone! perché «ohè...» è un giornale che non ha bisogno di bussola per orientarsi, e sui marmi della tipografia non vi sono clichés di candidati combattuti prima ed osannati poi. in possesso di un mascalzone senza scrupoli il giornale è un’arma formidabile, che adoperata con saggezza può produrre effetti spaventevoli. «Sigma», tu accenni ad imprese sinistre senza bene spiegarle: vorrei pregarti di narrare le mie gesta con abbondanza di particolari e palesando senza reticenza i nomi delle mie vittime: è una gloria di cui mi compiaccio quella che mi deriva dalle mie infamie. «Sigma», mi hai stancato. Mi hai stancato tanto che mi si è spenta la pipa. Hai dovuto interrompere tu, canaglietta, la mia fumata serotina!... Eppure l’ironia, la vera, la malinconica ironia non è, no, nelle mie o nelle tue parole, è nelle cose, è nella vita istessa tante volte amarissima. Bene, riaccendiamo. Tu sai però che se potessi identificarti saprei in una certa maniera accarezzarti il pelo. potremmo tanto divertirci e non vuoi! pompeo pizzini, il proprietario dello straccetto su cui depositi le tue porcherie è troppo povera cosa perché io possa in maniera trasversale procurarmi il godimento di tormentar qualcuno; in realtà io ho una grande pietà per i deboli. Forse sei un debole anche tu, «Sigma», ed in questo caso il tuo nome puoi ben notificarmelo: non ti darò fastidio.3

Ecco infine come anche nello scontro politico la sua innata onestà riesce ad aver ragione dei principi fino a tributare all’avversario, in presenza della verità e del bene comune, riconoscimento e lode. l’articolo si riferisce al quadrunviro Michele Bianchi, che aveva apertamente denunciato le condizioni di miseria del Meridione di contro al benessere del nord. io ho ascoltato il discorso di Michele Bianchi. ne hanno parlato tanti, tutti,

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M.d.M., Siamo amici, no?, «ohè!», a. i, n. 10, 12 aprile 1924.


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del discorso politico di Michele Bianchi, ed io non mi azzardo di legittima conseguenza a metterci lingua; e poi cosa volete? io non sono fatto per certi commenti e per certe considerazioni , specialmente quando queste si compendiano nel nobilissimo esercizio di gridare a squarciagola: «Come è bello, quanto è bello, che cosa magnifica, beata quella mamma che l’ho ha fatto!” E tutto questo protendendo quanto più si può la persona, e tendendo le mani, e sporgendo la testa, quasi per dire: ma guarda dunque, ma guardami dunque, sono io qui che ti lodo , ma non te ne accorgi, e non mi pigli dunque in considerazione?!... no, io ho ascoltato il discorso, e se ne parlo è per dire una cosa che francamente mi ha sbalordito. io ho inteso dire, dire capite? in quel discorso, che noi del mezzogiorno siamo stati come si dice le braccia e quelli del settentrione lo stomaco; che lassù ogni privilegio è stato sempre un dovere, e da noi nix; che non è possibile quella magnifica fusione, quel tutto armonico così voluto, quella fratellanza così sviscerata, se prima non ci mettiamo tutti alla pari, se non ci convinciamo tutti che una fratellanza a piglio tutto e tu lavora non è contemplata nemmeno nel vangelo di nostro Signore Gesù Cristo! Tutte queste cose, è vero, ognuno di noi conosceva e conosceva molto bene: erano un po’ nell’animo di tutti; però, però era vietato dirle, o perlomeno il lavoro tenace ed ufficiale era un lavoro contraddittorio in proposito; una specie di lucido bendaggio, che aveva nella inutile intenzione un fine non perfettamente lodevole. Ecco perché, quando ce lo siamo sentiti dire in forma, perdio, ufficiale, senza reticenze e senza sottintesi, e ce lo siamo sentiti dire da chi si avanza col ruolo di riparatore e con la potenza di poter assolvere egregiamente il suo ruolo; quando abbiamo visto posta, sventolata con chiarezza una cosa che era nell’anima nostra e che ci bruciava e che ci mordeva fortemente, siamo dapprima rimasti un po’ sbalorditi, ma poi, unanimi, spontanei, lieti abbiamo dato con entusiasmo il nostro assenso. Ed ora? Ed ora la questione è posta e non vorremmo che restasse lì, frase ad effetto, priva delle conseguenze che tutti aspettano, che tutti (e dico tutti noi da napoli in giù) vanno chiedendo tenacemente, ascoltati o meno, non è questo che conta, ma che tutti hanno profondamente nell’anima. né, spieghiamoci bene, noi vogliamo fare un viso d’armi per partito preso ai cari fratelli del Settentrione: no, niente affatto. vi pare? vogliamoci bene... e vediamoci spesso!... non diremo noi che vi è una linea di demarcazione precisa; che siamo...(saremmo tentati a dire) conformati in diverso modo: no, non lo vogliamo dire tutto questo. vogliamo dire soltanto: amici, fratelli... ma alla pari!... onori ed oneri per tutti, ma ugualmente ed equamente divisi. E soprattutto niente arie, niente superiorità, niente pose; ché gli eventi tangibili han dimostrato delle verità inconfutabili che debbono fortemente, enormemente pesare sulla bilancia politica e su quella della pubblica opinione. non potevamo quindi noi ascoltare frase più degna e più confacente al nostro spirito, alla nostra dignità, al nostro intelletto, alla nostra fierezza.


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Michele Bianchi, al di sopra di tutta la sua politica contingente, ha sentito fremere il suo spirito di razza, ha pensato davvero alle condizioni della sua terra; ed ha sentito anch’egli quel fremito che agita perennemente il nostro spirito; si è lasciato pigliar la mano dal vivo sentimento che è innato, vivo nell’anima nostra; ed ha parlato con chiarezza, e con precisione. Ed è stata la parte del suo discorso che ha trovato risonanza magnifica, naturale nell’anima nostra.

[...] E noi che amiamo vedere dovunque quella nota di sincerità e di entusiasmo che è dote peculiare del nostro carattere, noi oggi a Michele Bianchi diciamo: grazie! Certi che le dichiarazioni oneste e spontanee, coraggiose e leali, saranno il principio di attuazione di un programma serio, sodo, vitale, e non già le frasi ad effetto sicuro destinate a disperdersi nel grigiore dello spazio, come le scintille, tanto più vivaci quanto meno durature di un rumoroso fuoco di artifizio. non osiamo, non possiamo né dobbiamo, tanto sarebbe cattivo, di questa cosa concepire nemmeno il sospetto.4 ora l’aria si era fatta irrespirabile; il discorso pronunziato dal duce alla Camera il 3 gennaio, instaurando ufficialmente la dittatura, apriva quel clima di repressione e di violenza che a breve avrebbe, fra l’altro, fatto inorridire una seconda volta la coscienza internazionale con l’assassinio di Giovanni amendola. l’applicazione dei decreti sulla stampa riceveva da quel discorso il suo varo ufficiale e non permetteva scampo. Ciardullo chiuse il giornale con la satira Propositi, che nella finzione amara, consueta al suo modo satirico, del consenso e della lode e nella figura della reticenza configurava il più violento e aperto atto d’accusa. Che vuole la stupida coorte lamentosa? di che si lagna? Siete stolidi e bugiardi! Basta invero che uno guardi per lo intorno e può capire che si gode a non finire; che si è lieti, che si è gai, senza affanni, senza guai!

in nessuna società civile è lecito dare del cornuto al cornuto di fatto.

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ohè!, Mezzogiorno e Settentrione, «ohè!», a. i, n. 9, 4 aprile 1924.


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E non è lo stesso affare per ogni altro? non vi pare? dite: il re degli assassini resta sempre… Chi? Cretini!… Chi è che resta? Chi è che parte? Gente stupida e senz’arte!… Ma perbacco, tacerete una volta! oh! che credete, che in italia tutta, o fuori, vi sia un cane che l’ignori? E che il mondo tenga in serbo per saperlo il vostro verbo? E con ciò? Gente infelice, questa cosa non si dice! Ma perché? perché… perché! perché il papa non è re!…

lanciato il dardo intriso così di veleno, il poeta può dirsi pago. d’ora in poi canterà le albe e i tramonti, il cielo e il mare, il canarino ed anche il porco; anche il lusso canterà, zona a lui proibita. E così mi metto a posto nella orgiastica mattana! Come è bello il sol d’agosto per curare la terzana!

abbandonava la scena a testa alta, da vincitore.


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CapiTolo vi

dal 1925 alla GuErra

il 1925 fu anche l’anno di un altro grave dolore del poeta: la morte del fratello raffaele. interruppe allora le corse al paese, nel quale ritornava con la famiglia solo per il periodo della villeggiatura estiva. nel 1929 sposò la cognata Gilda, maestra come la defunta sorella, e n’ebbe l’anno dopo l’ultimo dei figli, il settimo, nel quale volle rinnovato il nome del fratello morto. Gli anni dal ’25 al ’30 sono di silenzio, quasi di forzato ritiro. Quel silenzio del guerriero era per sé una forma aperta di protesta e di accusa, ma non fu vuoto di satira politica, che rimase privata e in parte circolò sotterranea e sarebbe stata recuperata alla pubblica lettura in periodo di libertà. Ma fu occupato soprattutto da fantasmi poetici che percorrevano in universale, attraverso il dialetto del popolo, l’animo dell’uomo e la sua storia, dalla composizione di lavori teatrali e dall’ideazione di forme possibili alla sua fame di uomo di teatro. il ritorno di Ciardullo giornalista fu rappresentato da una collaborazione sporadica all’«Excelsior» tra il 1930 e il 1933, e più intensa al «Fra nicola», concentrata nel 1932, anno ultimo del periodico. Quella nuova attività riflette il sonno della nazione, la morsa serrata. la musa del poeta, che aveva aggredito i piccoli e i grandi, «benevola soltanto alla virtù e agli amici della virtù», come di lucilio canta orazio, si faceva malinconica e crepuscolare, si rifugiava, fedele ai propositi, nei temi di evasione, talora coscientemente futili e di maniera, nei quali tuttavia accadeva spesso che attraverso l’amarezza del riso balenasse, lievemente sottesa, la tristizia dei tempi. Era la gioia della primavera, maliosa e malinconica nel velo sottile dell’ironia:


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Che pace! Comunque ti volti e ti giri, la pace tu miri, la pace dovunque… ogni anno ritorna la mia primavera, leggera leggera, di petali adorna; beata, ridente, coi palpiti e il sole; io scrivo parole che sanno di niente… E in magica tregua l’amaro possente, tenace, cocente svanisce, dilegua! per valli e pendici van genti serene! le case son piene di volti felici! (Primavera si avanza)

Era la capacità serenatrice delle parole incrociate: parole incrociate! parole di moda dovunque nel mondo, che tutto l’umano profondo pensiero occupate! voi sole formate il più dotto argomento, porgete il più sodo problema. voi siete il più degno cimento, di tutti i cimenti l’emblema! ... ambasce? E’ sparita ogni ambascia! affanni? ogni affanno è distrutto. più niente ci opprime o ci accascia, perdio si dimentica tutto!… (Parole incrociate)


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Era l’orchestra del bar Gatti, con la chiassosa ressa delle sere di agosto e le punte di colore dello spettacolo: il virtuosismo del maestro, … chillu prufessure matracutu, tuttu capu, catreja e barinettu: pitta ccu ll’arcu, sì, ma a ’nu minutu, pue te chiava de manu a ’n’organettu e lu tocca, lu tocca ’ngalapatu!… fa certe sonatelle l’ammazzatu… (’Ntinna, Tiresa!);

le tre «rinninelle», sulla terza delle quali, la «pacchiarotta milingioca», la regina della «mazzarella», si appunta lo sguardo impertinente del poeta: Si tu la parri, fa nnu risu finu … e te presenta chillu tummarinu!… (S’abbicina);

e la schiera impietrita degli allocchi: Staû ’mpierticati cumu cannilieri ed ogni picca vàttanu le manu, chine suspira, chine va, chi vena… (’Ntinna, Tiresa!)

Scherzi di cronaca leggeri, adatti alla folla, ma tocchi talvolta da una vena di commozione lirica, come avviene quando il poeta, nel frenetico diversivo di agosto, pensa alla mestizia del prossimo settembre: S’abbicina settembre sulu sulu, frisculille se faû le jurnatelle! Settembre bruttu tiempu, àzanu vulu, ’mpìnnanu e si nne vaû le rinninelle. Sciuollu mio ranne, sulu a cce penzare, quantu lacrime ’nzìgnanu a spuntare!… (Settembre)

Era la frenesia dello sport, col pallone al posto d’onore: le figure, i personaggi, le vicende. l’ironia divertita e cordiale li sollevava a miti, con punte di gradevole eroicomicità, giocando coi significati, tra il pallone un


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giorno affortunata prominenza anatomica ed oggi strumento sportivo: oggi il pallone è simbolo, è barriera, è meta, è mezzo, è fine, è scopo, è tutto: è vita palpitante: e vita vera! Ed è quadro magnifico e sovrano il giocatore pronto lì sul campo, con le anche aperte e col pallone in mano. (Il pallone)

o tra il portiere tradizionale guardiano di palazzo e il custode della rete: dite adesso «portiere» e voi vedrete cosa succede! dite un po’ «portiere» e qualche cosa poi me ne direte. a qual prestigio scintillante e raro il portiere salì quando Gisberti parò un rigore, e dove?… a Catanzaro! (Il portiere)

o tra il tifo malattia e quello sportivo … assai più virulento dell’altro e certo più movimentato, che produce un frenetico fermento; che ha preso tutti, giovani e piccini, vecchi, sciancati, ciechi, sordi, tutti e tiene in pugno ormai tutti i destini! (Il tifo)

Fedelmente commentava le speranze, gli insuccessi, le bizze, le cortesie, le insidie di campanile (I cuggini reggitani, S’ammazzatu Catanzaru), o toccava vicende di singoli, come il ritorno di Tommaso Corigliano, dopo l’abbandono, nell’agone sportivo (Esultate!) o la conversione dell’avvocato pietro Serra allo sport calcistico (Asso nostrano), o l’istituzione, da parte di roberto pastore, di una seconda squadra accanto allo «squadrone» del Cosenza (Morgante e Margutte). Talora il titolo stesso sollevava il componimento ad altezze epiche, come La Trinacria che all’ira si è desta, che celebrava i successi delle squa-


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dre calabresi con spunti mitici e verso tirtaico. nella malinconia dell’uomo, costretto a imbrigliare sentimento e parola, la satira, ricacciata, tornava per altre vie, lasciava tribuni e tiranni e cercava in universale il costume dell’uomo e il suo destino. il poeta poteva sorridere di sé, evocando i fantasmi, come Giovenale in un non dissimile periodo della vita di roma, ma erano moderne forme tenere e malinconiche, come la «vispa Teresa», amata con cuore e armonia gozzaniana e tristemente allusiva nel piglio finale: Mia cara fanciulla, che erravi contenta nei prati, ritorna, su, balza dal nulla, fa’ un salto dai tempi passati! vien qui con la nostra giornata, vien qui con il nostro pensiero: sei vecchia? sei forse sciupata? Ma via, non badarci davvero! Su, vieni con noi nella vita, su, vieni, su corri a godere! avanti, la strada è fiorita, fiorita pel nostro piacere! … il roseo, mia cara, si perde, le guance si fanno un po’ gialle, i prati li avrai per il verde, ma lì non acchiappi farfalle!… (La Vispa Teresa)

ovvero lanciava alla luna una canzone dolceamara, alla «luna d’argento finora / ma adesso nemmeno di piombo», che …per lo meno finora è stata fedele compagna, compagna esclusiva, ma ora l’infame con mossa furtiva s’è data con tutti: tradisce l’antico compagno… (Io canto alla luna)


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Questa notturna e rara confessione di Ciardullo, apparentemente senza lacrima, va letta oltre la lettera, con molta attenzione e serietà: …non esce ti giuro, una stilla di stupido pianto da me. non c’è una ragione, non vedo il motivo. io vivo benone con l’estro mio vivo che fa da cucina, che fa da dispensa, che ha fatto da sempre così. Chi in modo diverso ha vissuto, che pensa? non so, non l’indago, sì sì. (ibidem)

o sorrideva dell’intera famiglia giornalistica, costretta tra le molte miserie della cronaca, i personali problemi minuti, l’urgenza interiore di una verità vietata e la necessità di obbligare il lettore a trovare il punto ascoso, il punto tocca e sana che è detto e non è detto; che si nasconde fra le frasi come la luna fra le nubi; punto trascendentale e basilare, perfetto come numero perfetto: tema nascosto, solo riservato al cervello adusato, al gran cervello che, se è scritto nero e poi risulta bianco, ti dice chiaro e franco il giorno dopo: _ il nero è un tropo, un nero metaforico, nero forse per te, per gli occhi tuoi profani e mai per me!… (Malinconie di famiglia)

di tant’altre cose ancora sorrideva: degli studi, della scuola, della


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famiglia, della poesia, degl’ideali; lo faceva attraverso la rampogna d’un Telesio amabilmente grottesco, seduto «modesto sopra un panchettino» in completa assisa di filosofo, con una mano su un dorso di una sedia, la chioma spettinata, la barba «siccome un porcospino», uno sbadiglio in bocca per la fame: _ Tu, disse il grande, ancora corri dietro alle amene farfalle letterarie; tu corri dietro alle diverse e varie regole uggiose dell’uggioso metro; e ti adonti e sbianchisci dal corrivo quando non trovi il se col congiuntivo!… .... Tu ancora ancora ancora al giorno d’oggi osi parlar di dante, di petrarca! d’arte, di poesia, povera barca!… (Sogno stravagante)

E toccava con ironia malinconica, velata appena dal gioco, le amare contraddizioni dei tempi: oggi la gloria è tutta giù nei piedi! Guarda un po’ intorno. ascolta che discorsi corrono per le strade… la scuola? Mi fa ridere! la casa? E taci dunque! la famiglia?… E via!… … E tu che insisti col conte ugolino! peggio per lui che si morì di fame! non era in forma e fu ridotto a strame; Fallì da centrattacco e da terzino. l’arcivescovo, in forma per davvero, lo sconfisse, perdio, per cinque a zero… (ibidem)

altre volte le riflessioni si componevano in favolette di struttura epigrammatica: il cane puro e immacolato che nulla tocca dell’orto del padrone, non essendovi la pianta del formaggio (Il cane); la rana che crepa per volersi fare grossa come il bue (La ranocchia); la donnola e il coniglio che, ricorsi al gatto per dirimere le loro liti, ne vengono divorati ambe-


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due (La donnola, il coniglio ed il gatto), con riferimento a vicenda realmente accaduta nel liceo «Telesio» di Cosenza. E se sorrideva di personaggi da sorriso, lo faceva senza fiele e anche senza rischio: sorrideva più del fatto che degli attori, sollevando talora l’uno e gli altri a dignità epica. Così il ritorno di Tommaso Corigliano nell’agone sportivo viene salutato con memorie omeriche: ... la gioia brilla come una face, come una face a fuoco lavorato, come una face antica, che dal merlo della rocca tricuspide lanciava il balestriere infaticabilmente sul nemico ansimante appo le mura. osanna! ogni pericolo è passato, è tramontata omai l’ira tremenda. il buon commendatore è rinfocato, achille non è più sotto la tenda. E l’antico fervore e il bellico furore e le movenze sue recise e dotte noi rivedremo nelle usate lotte! (Esultate!)

altrove la memoria mitica e leggendaria di varia derivazione (orestepilade, abelardo-Eloisa, romeo-Giulietta, don Chisciotte-Sancio, Eteocle-polinice) si sposa parodicamente a quella zanelliana: persisti, ti avanza per valli e dirupi, aguzza le zanne dei giovani lupi; di gloria il traguardo su, taglia in volata fra un timbro ed un foglio di carta bollata… (Morgante e Margutte)

la satira poteva anche contenersi nello scherzo affettuoso, nel parlare familiare, come quella ad oreste riggio, suo amico ed estimatore, che riempiva colonne di giornale per perorare la causa di beatificazione di isabella Chimenti, con grande meraviglia del poeta, afflitto da ben altri


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pensieri: oreste mio, se ancora ti residua un sentimento blando di pietà; se tu conservi un po’ di umane viscere per questa tormentata umanità, se nel tuo immenso cuore di filosofo pulsa un palpito buono, ancora ancora; se il potente ondeggiare or la poetica tua chioma, che un gran nimbo ancora irrora deve ancor dirci che tu indulgi al povero rottame sperso al mare della vita, oreste mio, «ppe ll’anima de nànnata», con isabella, orsù, falla finita… (Oreste mio)

Ma il documento più significativo di questa direzione della satira ciardulliana è, a mio avviso, la romanza La tomba sul Busento, la quale, per il modello metrico, cioè la quartina in ottonari piani e sdruccioli alternati, e per l’aggraziata conciliazione del tono eroicomico con l’atmosfera di romantica lontananza, può configurarsi come i ludici paralipomeni dell’omonima romanza del platen, nella traduzione del Carducci. la romanza nacque nel 1932, nel rinnovato clima d’interesse per la tomba di alarico, il cui sito la leggenda colloca nel Busento, più o meno alla sua confluenza col Crati. Tre stimati cosentini, il preside Michele Scornajenchi, il professore angelo ippolito e il commendatore Giuseppe Merola, sicuri di aver individuato il posto, iniziarono l’opera di scavo con la collaborazione di una signora francese munita di apposito scandaglio. i lavori, finanziati dal Merola, procedettero per alcun tempo, finché non intervenne a porvi termine bruscamente la bega paesana, rappresentata dall’ingegnere aristide armentano, che deferì all’autorità giudiziaria lo scavo illegale. il poeta, con l’orecchio continuo alla romanza del platen, ricostruisce la vicenda, fondendo la sua innata disposizione comica con gli echi letterari e per tal via recuperando al sorriso personaggi e momenti. il piglio eroicomico accompagna già l’ingresso dei personaggi sulla scena: va il garrir di mille rondini per il ciel tutto un abbaglio,


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nella siepe in fiore un asino guarda, annusa e innalza un raglio. Chi son essi? Cosa vogliono? Qual desir li punge e sprona? vengon fieri quei magnanimi e la fama ancor ne suona…

poi li colloca, trepidi del loro ardire, in una natura maestosa e partecipe: dalle forre quiete sbucano bianche teste di giovenchi; son due fonti gli occhi placidi di Michele Scornajenchi. Egli abbraccia il pio ippolito, gli depone un bacio in fronte sembran lì dante e virgilio sulle rive d’acheronte!

i fastigi danteschi tornano a costruire il grottesco: E di colpo, con fulmineo gesto, in volto tutto rosso, Scornajenchi urla: _ Fermatevi! E si slancia e afferra un osso. Mai Beatrice in velo candido raggiò tanto il suo fedele come pose gli occhi roridi su quell’osso il buon Michele… lo baciò, lo strinse pavido, l’olezzò come una rosa… abbracciollo il pio ippolito e gli disse: _ alma sdegnosa, l’oro è presso e a dovizie; fabbri ardenti, andate giù!_ lo strumento vibra, s’agita, e madama fa: _ Beaucoup! _…

in contemporanea scena il divertito poeta segue l’insidia, costruen-


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do il personaggio e la trama con un sapido gioco delle sequenze e delle stesse parole: Fe’ tre passi, l’apollineo collo stese, altezzò il mento, l’ombra lunga guizzò rapida, ondeggiò sul pavimento! Battè il piede, trinciò l’aria come il mago Solimano, e fu lì precipuo, classico, tutto lui, tutto armentano!… S’internò nel jure còndito (anzi meglio nel condìto), e nei commi più reconditi ficcò gli occhi, pose il dito, perscrutò per chiose ed indici ogni articolo occultato, poi, gigante, immenso, genio, ebbe un lampo: avea trovato! _ ah! _ gridò _ qui sta il malloppio! lo vedrebbe ogni somaro: quando l’oro è nelle latebre non si scava, questo è chiaro!…

la quale cura del particolare comico ritorna più oltre, per il suo apparire sul campo dello sterro insieme a «quattro cerberi»: incedea come leonida nella marcia trionfale, a gran passi, ritto, solido, bello, angelico, fatale.

E torna dante nella rappresentazione della fuga dei quattro, col paragone dei colombi «adunati alla pastura», qui trasformati in uno stuolo di passeri che si dilegua al primo rumore, con l’aggiunta di particolari grotteschi che variano l’episodio: inciampò Michele un attimo, si rialzò, via come un vento,


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per la terra cadde il sigaro che fumava tutto spento; tallonava il pio ippolito e seguiva le sue peste, la francese in pena, in ansia lacerò la stretta veste, e Merola, a balzi cauti, sbalordito dall’imbroglio, con la mano destra trepida si stringeva il portafoglio… E sul campo reso libero da sue gesta di titano restò lì custode, vindice, tutto lui, tutto armentano…

il finale segue da presso quello del platen, ma con tono di sorridente malinconia per le ironie della storia: S’alza intanto e va per l’etere una voce e mesta suona: vecchia mia Cosenza placida, quanto tu, quanto sei buona!

Mentre rimando il cortese lettore alla lettura dell’intero componimento, ne ho registrato parte rilevante come documento del gusto parodico del poeta e spia eloquente di altre caratteristiche della sua satira in lingua. il contemporaneo rientro come uomo di teatro fu determinato da alcune precise circostanze. Erano gli anni in cui il fascismo favoriva la cultura popolare mediante iniziative di teatro, tra le quali la più ragguardevole fu l’istituzione del «Carro di Tespi», una formazione ambulante che portava di città in città a disposizione di tutti opere di grande peso con attori di grido. nato nel luglio del 1929, fu per tre mesi a Cosenza e toccò poi altri centri della provincia, destando la febbre del teatro. Ed era anche il tempo delle filodrammatiche, favorite dal partito mediante i dopolavoro. da quella febbre, che gli covava dentro da molti anni, fu


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tocco Ciardullo, che le trovò sfogo a breve distanza, nello stesso 1929, per un fortunato incontro col maestro osvaldo Minervini, con cui collaborò nello spettacolo universitario «Matricoleide», del quale fu animatore e autore quasi unico, e iniziò contemporaneamente una lunga collaborazione nel campo della canzone popolare, che sarebbe durata fino al 1953. in quello spazio si placava il suo spasimo di attività artistica. l’altra circostanza fu il suo insegnamento di lettere, da supplente, nel collegio-convitto maschile «Manzoni», nel quale studiava il figlio Ciccio e ove si pubblicava quel bollettino mensile «Excelsior» a cui egli collaborò e che, nato nel 1929, nel 1930 divenne bimensile. per quei convittori scrisse una farsa in tre atti, Fratellanza nofriana, con personaggi inevitabilmente tutti maschili. la rappresentazione destò vivo plauso, come risulta da una cronaca di oreste riggio: l’autore ha voluto, con questi tre spigliatissimi momenti drammatici, gettare le basi del nostro teatro dialettale [...] il vernacolo silano, nella rozzezza o meglio nell’asprezza dei suoni delle sue [...] espressioni, elaborato finemente da de Marco, è stato capace di versi armoniosi, scorrevoli, fluidi, di versi veramente drammatici sia per il colorito psicologico come per la suggestiva comicità [...] noi gli auguriamo di vedere presto realizzato il suo sogno d’arte, e cioè la valorizzazione del teatro dialettale calabrese, sogno che è anche l’aspirazione delle nostre anime1…

da quelle felici concomitanze fu sollecitata la sua antica idea di un «Teatro dialettale calabrese», cioè di una sua sistemazione o istituzionalizzazione che lo sottraesse all’episodicità, che assicurasse strumenti e continuità alle rappresentazioni in dialetto. il disegno venne a compimento il 18 giugno 1932 con la rappresentazione, nel «politeama» di Cosenza, di tre opere di Ciardullo: Proemio al teatro dialettale, ’U suonnu de chist’uocchi e Quarant’ottu ’u muortu chi parra, ad opera della filodrammatica «Città di Cosenza», la filodrammatica tipo della provincia, diretta dal dottore alessandro adriano, medico generoso e raccoglitore di letteratura popolare, e creata ed alimentata dalla marchesa adele alimena, che, nell’alveo di un’aristocratica tradizione femminile, aveva fatto delle sue sale una specie di cenacolo artistico. l’eco del successo fu tale che destò, insieme all’interesse, l’orgoglio

1

o. riggio, «Fratellanza nofriana» di Michele De Marco, «Excelsior», a. iv, n. 4, 9 maggio 1931.


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regionale, come risulta dalle seguenti parole di Guido pizzuti: la necessità di un teatro nostro, tipicamente nostro, era risentita da tutti, perché i palcoscenici dovevano periodicamente ospitare compagnie che venivano ad ammannirci tutto quel teatro dialettale che va dalla spavalderia siciliana alla volgarità napoletana2...

il perentorio giudizio, evidentemente dettato dalla passione, ma superficialmente e ingiustamente massivo nei confronti di autori ed opere, è tuttavia documento di uno stato d’animo e della diffusa e cresente coscienza della capacità del calabrese di concorrere anche nel teatro con gli altri dialetti. più interessanti osservazioni, che anticipano aspetti dell’attuale dibattito sulle fortune del teatro calabrese, sono contenute in uno scritto di Clara Falcone: le commedie calabresi in calabrese erano sempre state delle utopie. alcuni commediografi calabresi - Ciardullo per esempio - dovevano ricorrere alla traduzione di esse in siciliano per poterle ascoltare recitate da Musco e Musco e Grasso e Scarpetta e viviani hanno dominato e retto le sorti degli artisti dialettali dell’italia meridionale. di calabresi neanche uno. pure, le due materie prime - scrittori ed attori - non è certo ad un popolo come questo che possono mancare; può mancare - ed è mancata, difatti, fino ad ora - la commercializzazione della loro intelliggenza. [...] ora si comincerà un po’ come nelle fiabe (e non è forse bello, quasi come una fiaba, questo miracoloso sorgere d’un teatro proprio?)3...

la rappresentazione non mancò di destare, nel generale coro di entusiastici consensi, riserve e puntualizzazioni. le riserve più decise, quelle ufficiali del regime, furono espresse da un freddo telegramma del segretario achille Starace, un personaggio, peraltro, culturalmente assai discusso: «avrei preferito si fosse trattato di una recita in lingua punto Starace». Esse riguardavano, cioè, l’inopportunità del dialetto in tutto un coro di teatro professionale e di filodrammatiche che imponeva la dignità dell’idioma nazionale. il fascismo in realtà, con atteggiamento contraddittorio, mentre da una parte estendeva nel campo della lingua la

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G. pizzuti, Il teatro calabrese, «Calabria Fascista», a. X, n. 25, 7 luglio 1932. C. Falcone, Il teatro calabrese, «Excelsior», a. v, n. 28, 17 giugno 1932.


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sua politica di acceso nazionalismo, dall’altra poneva sotto la sua egida i gruppi folcloristici, che rinverdivano o ricreavano i canti regionali, e, nell’ossequio al neoidealismo imperante, adottava nella scuola elementare testi di cultura regionale e di lingua dialettale. del resto, se dobbiamo credere ai resoconti giornalistici, lo stesso quadrumviro calabrese Michele Bianchi aveva incoraggiato l’idea di un teatro calabrese: Egli lo desiderava ardentemente e la sua parola di incitamento affettuoso valse a stimolare le energie più fattive, a porre nella sua giusta luce il fascino del nostro armonioso dialetto, che pur vanta una letteratura popolare delle più ricche e variate4.

perciò la preoccupazione del partito non era per il fatto in sé (l’unità nazionale si era dimostrata, attraverso numerose prove e soprattutto attraverso il comune tributo di sangue nella guerra mondiale, ormai solida e sicura), ma per ogni manifestazione culturale che fosse fuori del suo ambito di ispirazione e di controllo. anche il «Teatro dialettale» vi si dovette ridurre, entrando nel «Gruppo folcloristico di Calabria», facente capo alla predetta filodrammatica «Città di Cosenza». lo scrittore, che «da tempo… s’era quasi sdegnato tratto in disparte…», vedeva nel fatto non un compromesso politico, ma, come gli era già accaduto con la rivista «Matricoleide», l’unica possibilità di far vivere la sua creatura senza nulla cedere della sua integrità morale, tanto più che nel Gruppo folcloristico trovava spazio, come si è detto, anche il suo interesse per la canzone popolare. perciò «Calabria fascista» pubblicava in unico contesto, dopo la presentazione avvenuta qualche giorno prima al Segretario federale di Cosenza, presidente del dopolavoro provinciale, il programma di rappresentazioni della filodrammatica, in lingua, nel quale accanto a nomi di moda, figurava anche quello del cosentino, amico di Ciardullo, Federico Misasi, e il programma del Gruppo folcloristico, costituito interamente dalle seguenti opere di Ciardullo: ’U suonnu de chist’uocchi, Core… patrune sempre, Quarantottu, ’u muortu chi parra, Vie de ’nfiernu, Spiritismo e «altri lavori in programma»5. Come è evidente, Ciardullo aggiungeva ai due lavori già rappresentati tre novità, ed altre ne promet-

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L’affermazione del Teatro calabrese e il successo della prima manifestazione artistica dialettale, «il popolo di roma», 22 giugno 1932. 5 L’attività filodrammatica nell’anno XI, «Calabria Fascista», 3 dicembre 1932.


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teva, già in cantiere, rivelando la sua natura di uomo di teatro e ripetendo anche in questo il Goldoni, quando il successo della riforma l’impegnò nella promessa delle sedici commedie nuove. il «Teatro dialettale calabrese» conobbe altre rappresentazioni in provincia e fuori6, arrivando fino a reggio Calabria, ma la sua convivenza col Gruppo folcloristico non durò che mesi. la filodrammatica «Città di Cosenza», navigando in difficoltà di varia natura, era destinata a disgregarsi nel 1938; d’altra parte è da pensare che il ruolo di subalterna marginalità non si addicesse allo scrittore, che da allora affidò alla filodrammatica «Ciardullo» di pedace, da lui stesso fondata, la rappresentazione delle sue opere, con risonanza fatalmente scarsa. la sua attività teatrale doveva durare fino al 1941, anno in cui un lavoro fu scritto, ’A scala, e un altro, Vie de ’nfiernu, rappresentato dalla sua filodrammatica. Gli anni trenta non furono felici per il poeta, aggravandosi di anno in anno le difficoltà economiche, alle quali erano inadeguati i grami proventi della sua sempre più svagata attività professionale e il modesto stipendio della seconda moglie. per questo la spesa giornaliera, l’usciere, i protesti sono motivi ricorrenti nella sua poesia di quegli anni, come apertamente si leggono nei versi ad oreste riggio: Beato te! Con isabella vagoli nei purissimi cieli sconfinati!… in fondo è bene: lì, credo, non giungono gli uscieri né gli effetti protestati! Beato te! Ma senti: se sul serio questa isabella è ormai posta sul trono, se si sollazza a fare dei miracoli, diglielo che ne faccia uno, ma buono… Quale? amico, ti prego, non sorridere, tu lo sai molto bene, eterno iddio!… diglielo, amico, che lo faccia e subito mi farò santo e penitente anch’io. (Oreste mio!…)

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Cfr., ad es., Il Gruppo folkloristico dialettale a San Demetrio Corone, «Calabria Fascista», a. Xi, n. 13, 9 marzo 1938.


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Quel disagio trova il corrispettivo nel frequente cambiamento di abitazione. di quelle difficoltà, sulle quali il buon don Michele scherzava apertamente e dalle quali è stata arricchita la colorita aneddotica che lo riguarda, erano consapevoli gli amici, che intervennero talvolta in suo aiuto. per loro interessamento ottenne una supplenza di francese nell’istituto industriale, ma la perse l’anno dopo, quando il nuovo provveditore agli Studi, domenico Mauro, vietò ogni incarico d’insegnamento agli sprovvisti di tessera fascista. l’aneddotica vuole che il risentimento del Mauro, assurto a quella carica dal niente, fosse ispirato dal fatto che il buon Michele, suo amico, si era preso la briga di chiamarlo ancora con l’appellativo familiare di Micuzzo. è, ad ogni modo, a lui che il poeta consacrò i finali versi flagellanti della lirica Dispensata: vide se me pò dare turbamientu, mo, l’arrancata de ’nu pellizzune!

a richiesta di un gruppo di amici sportivi, tra i quali Salvatore Martire, fratello di un calciatore del «Cosenza», dettò una corona di quadretti dedicati ai singoli componenti e dirigenti della squadra, con una leggera vena polemica nei confonti del «Catanzaro» e del suo presidente d’allora, Enrico Talamo, detto «il marchese», personaggio rappresentativo e fisicamente imponente, che aveva posto gli occhi sul valoroso portiere del Cosenza: un opuscolo molto appetitoso per gli sportivi, che, stampato col titolo «lupi della Sila» in buon numero di copie del modico prezzo di due lire, fu offerto alla vendita dopo una partita di calcio su un banco solennemente addobbato all’ingresso del campo sportivo. Ma prima che la partita terminasse, piombò sul posto la Milizia fascista, che sequestrò tutto. del libretto, ormai introvabile, Ernesto Corigliano, che afferma di averne custodito per più anni una copia, poi misteriosamente sottrattagli, scrive riferendosi ai personaggi: «una pennellata per uno ed era come se li avesse visti, come se ne avesse da sempre conosciuto le peculiarità tecniche». lo stesso illustre avvocato e giornalista riferisce, tra le cose conservate nella memoria, il seguente gustoso epigramma per l’avvocato roberto Fagiani, con l’hobby calcistico, ritratto in una fotografia tra i «lupacchiotti» del vivaio del «Cosenza»: E robertu ’ntra ’ssa frangia


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ccu ’ssi lupi cca cumpatta, nun cce dorma, nun cce mangia, criju puru ca l’allatta…

il più noto libretto Lupi della Sila, pubblicato dall’editore Barbieri di Cosenza per il campionato 1949-50, con testi di Ciardullo e disegni di Baratta, è tutt’altra cosa, comprendendo, insieme al componimento Sogno stravagante e ad alcuni sonetti in lingua del periodo 1930-33, altri brevi componimenti per lo più in dialetto, relativi alla squadra e ai dirigenti di quel tempo, complessivamente incisivi e piacevoli come epigrammi, anche se non è dato confrontarli con i primi. Ciardullo sentì la ferita e d’allora in poi non volle pubblicare altro fino al 1940, quando don luigi nicoletti lo persuase a pubblicare le sue poesie dialettali in quella prima edizione di Statti tranquillu… nun cce pensare, per la quale dettò egli stesso la prefazione, prima pagina critica della poesia di Ciardullo. Quel libro non fu assoggettato a sequestro sol perché reggeva allora la Questura di Cosenza Cesare Minicucci, uomo probo e colto letterato, amico ed estimatore del poeta. la guerra e le bombe alleate che squarciarono Cosenza nei primi mesi del 1943 trovarono Ciardullo a perito, dove egli aveva trasferito la famiglia nel 1934, nella casa dello zio Francesco defunto, e dove restò fino al 1946.


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- in

democrazia

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CapiTolo vii

in dEMoCrazia

le guide politiche dell’antifascismo tacquero nel corso del conflitto, e Ciardullo con loro. Ma al primo annunzio della libertà egli tornò in campo con l’animo antico, fermamente all’avanguardia, con un’attività giornalistica che doveva resistere fino alla morte. all’immediato indomani dell’8 settembre 1943 i principali partiti antifascisti si riorganizzarono e il 25 dello stesso mese si raccoglievano nel Comitato di liberazione nazionale (C.l.n.): comunisti, socialisti, democristiani, azionisti, liberali, anarchici. preminevano grandi personalità dell’antifascismo già variamente oggetto del rigore persecutorio del regime: pietro Mancini, Fausto Gullo, don luigi nicoletti e un esule dalmata, nino Wodizka, il cui carisma di ex confinato e la cui febbrile attività organizzativa avrebbero fatto del partito d’azione cosentino un partito di massa. Mancini doveva essere, nel successivo novembre, il primo prefetto democratico di Cosenza, di nomina del Comando inglese (aMGoT), ed entrare, nel seguente aprile, come ministro, insieme a Gullo, nel secondo Gabinetto Badoglio, mentre uomini nuovi si affacciavano alla ribalta, facendosi luce sotto l’una o l’altra bandiera. in un baleno la vita sociale si riorganizzava anche al di fuori dei partiti, in compagini nominalmente autonome, ma in gran parte collaterali: la Camera del lavoro come sindacato autonomo dei lavoratori e, al di fuori di essa, la lega dei contadini di don Carlo de Cardona e le aCli, che raccoglievano i lavoratori cattolici, mentre l’azione Cattolica supportava la democrazia Cristiana, organizzando soprattutto le donne, e associazioni di reduci e combattenti premevano con i loro bisogni. Tutta quell’attività di organizzazione e di proselitismo aveva nella stampa uno strumento prezioso. vecchie testate rividero la luce e altre


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ne sorsero; prime, tra quelle dichiaratemente politiche, «democrazia Cristiana», il periodico di don luigi nicoletti (1943), al quale si sarebbe affiancato l’anno dopo «Civiltà Cattolica», diretto da Eugenio romano; «Emancipazione», organo del partito d’azione (1943), diretto da nino Wodzka; «ordine proletario», organo del partito Comunista (1943), diretto da Gennaro Sarcone; «parola Socialista», organo del partito Socialista (1943), diretto da pietro Mancini; «azione liberale» (1944), diretto prima da Francesco Greco e poi da alberto Minutolo; molto più tardi (1948) «l’avvenire sociale», organo del Movimento Sociale, e «Combattente», diretto da luigi Curcio. Tra i periodici indipendenti, dichiaratamente politico-letterari, vanno segnalati per la loro incidenza nella polemica politica, «libertà» (1944), diretto da Eugenio Martorelli, e, assai più tardi (1949), «il Bruzio», diretto da Mario Borretti. Fra le testate di cronaca e varie rivestono particolare interesse, accanto alla vitale «Cronaca di Calabria», «Corriere del Sud» (1945), diretto da Marano, albanese, Fragale, «Corriere di Calabria» (1945), diretto da vito danieli, «Corriere Cosentino», diretto da Francesco Stumpo. Sette anni dopo sarebbe nato «il Corriere della Calabria», diretto da Ernesto Corigliano, alfonso rizzo, oscar principe. anche la satira politica ebbe in quegli anni alcune incisive espressioni: «la vespa» (1945), diretto da raffale Cundari; «’u Ciucciu» (1948), diretto da vincenzo Scavelli. Quel fervore giornalistico percorse anche la provincia, con la nascita di alcuni periodici che al tempo sollevarono gran grido, come «la Fiamma» di Castrovillari, «Sud» di Cassano Jonio, «’u vettu» di rossano, ma ebbero breve vita, perché la loro coraggiosa denuncia dei nuovi mali generati dal dopoguerra e dall’occupazione militare li resero ingiustamente sospetti agli occhi degli alleati. di tutta quella notevole fioritura, della quale sono stati qui segnalati soltanto i titoli maggiormente interferenti con la vita e con l’azione di Ciardullo, il poeta fu all’avanguardia attraverso la direzione di «Calabria democratica» (1943-44), periodico da lui fondato, e la collaborazione a «il Giornale di Calabria» dal 1943 in poi e a «la vespa» nel 1945. Ma la libertà lo vide anche nel ruolo, invero improprio per il suo carattere, di pubblico amministratore: primo sindaco democratico di pedace per nomina del primo prefetto democratico, pietro Mancini, funzione onorifica, che assolse negli anni 1943-44 con un impegno e


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un’energia in lui inaspettati. E’ rimasta memorabile la sua imparzialità come la sua preoccupazione per i più bisognosi; si ricorda con simpatia, come esempio di giustizia e di attenzione per gli umili, tra i suoi primi atti amministrativi, l’inquadramento nei ruoli, come spazzino, del fascista Cuculo, già oggetto dei suoi strali. Scrive di lui rita pisano: Con la sua opera seppe impostare il lavoro duro del dopoguerra, dando ai cittadini pedacesi fiducia e speranza nel domani, ispirando loro ideali di giustizia e di onestà ed educandoli a continuare la sua opera e ad amministrare saggiamente nell’interesse del popolo1.

di lui, assunto man mano a simbolo ed esempio, si dovevano ricordare in altri momenti significativi nella vita democratica, come nel 1945, quando fu invitato a parigi, tra i rappresentanti dell’antifascismo cosentino, al Congresso per la pace. avrebbe potuto, anche per i suoi trascorsi, aver parte alla preda, sedere con gli altri più o meno degni o improvvisati commensali al banchetto dei posti e delle prebende col quale si riorganizzava la vita civile e politica della città. nulla ebbe e nulla chiese. un aneddoto racconta che in un’allegra accolta di sodali e nel momento della massima euforia il medico comunista alberigo Talarico, principale animatore della brigata e amico del poeta, passò a distribuire agli amici presenti posti e ministeri. a cose fatte qualcuno obiettò: _ E a Ciardullo? _ Ciardullo non c’entra _ fu la risposta; _ Ciardullo è poeta e basta. in realtà l’ideale e la poesia continuarono a riempire i suoi giorni anche dopo il fascismo. Si accontentò, per bisogno di campare, di un incarico di lingua francese con frange di altre discipline nell’istituto industriale di Cosenza, che tenne solo dal 1942 al 1949. Fu per lo stimato avvocato un periodo di continua mortificazione (per arrotondare il magro stipendio tenne pure uno spezzone di calligrafia), tra incomprensioni e pettegolezzi dell’ambiente e in realtà con tutte le difficoltà dovute alla sua naturale insofferenza di ogni forma di lavoro regolare e sistematico e perciò degli adempimenti connessi alla funzione. altro beneficio di comune cittadino ebbe dall’amministrazione democratica: una casa in piazza duomo, assegnatagli fra quelle requisite

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r. pisani, Prefazione a Michele De Marco (Ciardullo) di M. lucanto, Cosenza, de rose (senza data).


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per legge e da lui occupata con modalità estrose, le gustose risorse della sua inventiva e della sua amenità, a dispetto e contro ogni resistenza del proprietario barone Campagna, il quale, tuttavia, non tardò a diventare suo amico ed estimatore. in quella casa trasferì la famiglia da perito nel 1946, restandovi fino alla morte. l’attività giornalistica di questo terzo periodo si svolge secondo due direttrici parallele e concomitanti: la sferza satirica delle nuove ironie e contraddizioni della storia, la partecipazione appassionata al dibattito sui più vivi problemi della città, della regione, della nazione. nella rovina della nazione, ancora per oltre metà schiava e vessata, nella città lacerata, smarrita, affamata, nella corsa alla difesa dei bisogni elementari, aperta a tutte le avventure, nel risveglio di tutti gl’istinti, Ciardullo gridava una politica di cooperazione, di disciplina, di unione nazionale2, agitava i piccoli e grandi problemi, dagli eventi bellici alla questione dinastica, alla ricostruzione materiale, all’organizzazione politica, all’economia prostrata, alla disoccupazione, al mercato nero. Quest’ultimo vastissimo malanno è da lui aggredito con articoli che esprimono a pieno la sua mente pedagogica e la sua lungimiranza: …Si è andata formando una vasta categoria di persone, in massima parte, anzi nella quasi totalità operaia e contadina, le quali, guadagnando lautamente con poca fatica… hanno oramai abbandonato ogni loro fruttuosa attività e, tosatori di seconda mano, si sono arruolati nel glorioso esercito che ben potrebbe, cancellando ogni altro stemma, che pure ogni gregario ostenta, ed io dico profana, dipingere un vampiro sulla propria bandiera. Questa gente si abitua al vagabondaggio e non ripiglierà mai la via onesta del lavoro. E questo per noi è un pericolo più grave del disagio economico e delle spasmodiche difficoltà che la nuova gloriosissima impresa va creando. ormai nella coscienza della maggior parte dei nostri lavoratori il mercato nero è entrato come la cosa più semplice, più naturale, più logica, più consentanea, non si ha nessun ritegno di parlarne in pubblico, di confessarlo. Così come dapprima si avviavano al mattino crocchietti di lavoratori per recarsi al lavoro usato, così oggi si avviano alla stessa maniera, sparpagliandosi nelle località più diverse per intercettar merce, pagandola s’intende al prezzo del solito mercato, e rivendendola s’intende a prezzi più esasperati. E si va perdendo così la coscienza del lavoro onesto e si va via via acquistando una certa sfrontatezza nel confessare la propria immoralità, un certo orgoglio per le nuove attitudini acquistate; ed intanto il lavoro costruttivo e fecondo riceve un colpo

2

M.d.M., Le solite prefiche, «Calabria democratica», a. ii, n. 3, 22 gennaio 1944.


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deleterio, e nessuno si accorge che questo problema di indole economica va diventando un problema sociale. E vorremmo proprio, quasi non bastasse la catastrofe economica, che anche, anzi specialmente, da questo punto di vista fosse guardato; perché il disagio economico può darci una tortura temporanea, ma quando avremo creato dei vagabondi, i quali non torneranno più a lavorare, abituati al lauto guadagno con poca fatica, avremo delle conseguenze gravi e, vorremmo che tutti lo comprendessero, assolutamente insanabili3.

del suo realismo politico, radicato in un profondo senso di amor patrio, fa fede la sua condotta rispetto alla questione istituzionale. il 28 e il 29 gennaio 1944 si svolse il congresso di Bari, in cui rappresentanti di tutti i partiti, nei quali brillavano uomini di grande prestigio, come Benedetto Croce, Carlo Sforza, alberto Cianca, Giulio rodinò, arangio ruiz, deliberarono la costituzione di una Giunta esecutiva permanente che predisponesse la convocazione dell’assemblea costituente, chiedendo l’immediata abdicazione del re, «responsabile delle sciagure del paese». Ciardullo partecipò a quel Congresso, al quale la Calabria fu presente, tra l’altro, con un applauditissimo telegramma di nicola Serra, che mosse il suo orgoglio di uomo libero e di calabrese, e commentò quelle deliberazioni in un fermo articolo, nel quale, ricordata la responsabilità del re nell’avvento del fascismo e tutti gli altri mali della nazione fino all’alleanza col Führer e alla guerra, gli rimproverava di non aver saputo compiere quel gesto che Carlo alberto ebbe il decoro di compiere dopo novara, di pretendere, anzi, in un messaggio alla nazione, che essa si stringesse intorno a lui, che gli uomini migliori si rendessero responsabili di «cingere la sua persona del loro prestigio, salvarlo con la loro grandezza» e d’impedire così, per sua colpa, la formazione di un Governo libero ed efficiente4. Eppure, di fronte ai pericoli presenti, il vecchio repubblicano invitava tutti a rinviare a tempo maturo la questione istituzionale e stringersi insieme per collaborare a sanare le ferite della patria: non è consentito in questa grave ora, a chiunque possa contribuire con l’opera della mano o dell’intelletto, di estraniarsi. i colpevoli, i responsabili, coloro o colui che dovrebbero sentire il peso della responsabilità, l’obbrobrio di uno spergiuro, il rimorso di aver trascinato l’italia sull’orlo di un abisso senza fondo oggi

3

Ciardullo, Mercato nero, «Calabria democratica», a. ii, n. 3, 22 gennaio 1944. Ciardullo, Il bicchiere della staffa, «Calabria democratica», a. ii, n. 5, 5 febbraio 1944. 4


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non sanno avere la responsabilità di un gesto. Questo però non autorizza né rende minore la colpa di coloro che, potendo contribuire comunque a salvare il nostro salvabile, si chiudono in una puntigliosa inoperosità e restano con le mani conserte negando la luce del loro intelletto, l’autorità del loro nome, la forza del loro braccio alla patria che grida al pericolo mortale…, le mani conserte in attesa di eventi fatali! ricordino oggi questi uomini che il puro e legalissimo aventino ha aperto le porte al fascismo5…

E rincarava, contro gli spettatori malevoli, contro i mormoratori di mestiere, contro i denigratori aperti o sotterranei: …omuncoli votati alla critica sottovoce, alla calunnia, al discredito. per la natura malvagia, ma anche per sfogo di un rancore, per una vendetta da compiere senza pericolo. invertebrati pericolosi, tendenti sempre a sostituire l’ombra al sole»6.

il succedersi dei fatti gli diede ragione. Mentre i partiti del Comitato di liberazione nazionale erano divisi circa i problemi politici nei confronti del governo «legittimo» di Brindisi, giungeva nell’italia meridionale dalla russia, nel marzo, palmiro Togliatti, il quale inaugurò, con la cosiddetta svolta di Salerno, un nuovo corso della politica comunista, che si esplicò nel compromesso del 12 aprile: i comunisti si dichiaravano disposti a collaborare con la Monarchia; si sarebbe creato un governo di unità nazionale che conducesse a fondo la lotta contro i Tedeschi e, a guerra finita, una Costituente per la decisione della questione istituzionale; il re s’impegnava, da parte sua, a cedere i propri poteri al principe ereditario, nominandolo luogotenente del regno, appena roma fosse stata liberata. nasceva così il nuovo governo, presieduto da Badoglio: esso avrebbe avuto vita fino a giugno 1944, cioè fino alla liberazione di roma. l’umile giornalista aveva col suo cuore anticipato i tempi. Quell’assennatezza appassionata non poteva non suscitare malintesi e polemiche, fino all’accusa di voltafaccia e di fascismo, che circolava nella scuola contagiando «le due autorità più rappresentative: il preside e il Bidello». Ciardullo respingeva le accuse con l’argomento del suo limpido passato e ricordando agl’immemori e agl’irriducibili che dall’irrigidimen-

5 6

M.d.M., I polli, «Calabria democratica», a. ii, n. 10, 11 marzo 1944. M.d.M., Gnomi, «Calabria democratica», a. ii, n. 6, 26 febbraio 1944.


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to di principio, attuato da uomini di grande statura morale, ebbe vita il fascismo: E’ per questo che possiamo avere il coraggio di dire il nostro pensiero e di guardare con serenità le condizioni di questa sciagurata nostra patria e dire alto che oggi, più che mai, essa ha bisogno dell’aiuto e del sacrificio di tutti i suoi figli. nell’anno di disgrazia millenovecentodiciannove abbiamo assistito ad uno spettacolo simile a quello che vorrebbero, pochi per fortuna, si verificasse ancora oggi… Si iniziò una corsa sfrenata a tutti gli eccessi, un irrigidirsi nei principi più dannosi, una corsa verso lo scompiglio, in contrasto ed in lite su tutti i punti meno che uno: quello di ostacolare la regolarità, l’ordine, la possibilità nel funzionamento delle leggi dello Stato. Si giocava al giuoco di rovesciar ministeri, di impedire che si formasse un governo che potesse tutelare l’ordine della nazione…, era la corsa al disordine. Gli uomini di Stato nei consigli dei ministri prima di dare una risposta correvano al telefono per chiedere l’imbeccata al loro capo partito, le masse perdevano la fiducia in ogni necessaria disciplina e si abbandonavano a stupidi eccessi che sgretolavano la nazione. E da questo caotismo (sic), da questa ridda pazzesca seppe trarre profitto un uomo astuto… Quel che accadde lo sa ognuno; siamo precipitati di vergogna in vergogna… oggi noi viviamo l’ultima scena, la più tremenda delle scene… E’ bello dilaniarci tra noi in puntigliosi partiti, trattando questioni future di assestamento o di supremazia e trascurando quello che prima di tutto bisogna fare: diventar liberi, diventare nazione, diventare noi?… il popolo italiano sceglierà dopo, liberamente, la forma di governo preferita. avevamo pensato di sceglierla subito, e forse sarebbe stato prematuro; non ci è stato consentito. in ogni modo dobbiamo badare a vincere oggi, a vincere la guerra che dovrà redimere il mondo dalla barbarie tedesca: è nostro dovere collaborare a questa vittoria. dar segni che valiamo qualche cosa. affrettare la vittoria anche per nostro mezzo. assentandoci, respingendo la collaborazione con le opere dell’intelletto e soprattutto con le opere del braccio noi annulleremo la nostra dignità e ci troveremo, domani, di fronte allo spettacolo di un’italia distrutta materialmente e moralmente e sentir decidere del nostro avvenire politico in condizioni ben più svantaggiose di quelle del 25 luglio»7.

la polemica implicava interi gruppi e qualche giornale, come «Emancipazione», organo degli azionisti, la cui intransigenza politica si rivelava soprattutto nell’atteggiamento antimonarchico e nella questione dell’epurazione degli ex fascisti, «giungendo più volte persino a compilare dalle colonne dell’«Emancipazione» dei veri e propri «j’accuse» contro i peggiori individui del passato regime». nella divergenza delle

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Ciardullo, La pelle dell’orso, «Calabria democratica», a. ii, n. 12, 25 marzo 1944.


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idee, Ciardullo implicava nella polemica anche qualche amico a lui caro, come Eugenio Martorelli, che godeva della sua come della stima generale, ma confondeva nelle sue riserve, al dire di Ciardullo, anche fatti e persone. a lui precisava, dopo aver respinto sospetti e chiarito malintesi: la questione dinastica non può in questo momento additare agl’italiani la via dell’assenteismo, oggi che la patria è in pericolo mortale…; oggi uno dev’essere l’ansito di tutti gl’italiani degni: salvare la patria. Ecco la ragione per cui noi sappiamo avere il coraggio di dominare tutto ciò che è la nostra concezione o nostro puntiglio e pigliamo una posizione il cui significato tu, amico Martorelli e i tuoi amici, in buona fede o di proposito, volete fraintendere8.

idee e sentimenti dovevano trovare chiara conferma nella campagna per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, quando egli impegnò tutto se stesso in favore della repubblica con gli scritti e con la parola e perfino tallonando tenacemente per le vie e le piazze di Cosenza il tribuno principale della Monarchia, che era il marchese roberto Falcone lucifero. per altra via, quella del verso, la polemica si accendeva del riso ciardulliano e colpiva singoli e gruppi. la memore riflessione del poeta riproponeva ai dimentichi e agl’ignari l’immagine triste di un’età non del tutto ancora sepolta, anzi ancora folleggiante in buona metà dello Stato, e lo faceva con la favola, che più popolarmente ammaestra e persuade: quella del ranocchio diventato padrone del pantano e distrutto dalla sua stessa albagia. la mano pittorica cura con lo stesso amore i tratti del tiranno e la prona impotenza del popolo: ... Ed ognunu li cuosti le parava ppe ’nu scuntientu malu muzzicune, e quantu picca picca lle guardava se jettavano tutti ’mpecurune, e a d’ogne cosa ciota che dicìa quantu grirate e cchi prejzzerìa! ... E se cridìu patrunu de lu munnu e tutti li ranunc˜hi e primu e pue

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Ciardullo, Vasi a Samo, «Calabria democratica», a. ii, n. 13, 1° aprile 1944.


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eranu cumu chilli de lu funnu de lu pantanu: li ranunc˜hi sue!… Ed escìu fore e ’mpalettàu ’nu vulu grirannu - passa llà, cce sugn’io sulu! E fice la caduta de Fetonte ca le scille ud’avìa manca de cira! E a la prima jumare senza ponte, alla prima ’ntruzzata gira e gira, se rumpìa vrazze e gambe arrassusìa!… la capu no, ca capu nun n’avia! E mo tutti li viecchi rannunc˜hielli de lu viecchiu pantanu (li scunc˜hiuti!) ’nsiemi ccu lli cumpagni grancitielli haû capitu duv’eranu caduti, e de chi serpa se sû liberati! Ma, dicìtime a mie: mo sû ’mparati? (’U ranunchîu)

il pessimismo connesso all’interrogativo veniva altrove ribadito contrapponendo alle sbandierate certezze dei giornalisti politici l’incredulità popolare: Solo il popolo, cui è dato un presente così duro si domanda se il futuro può redimere il passato. (Il passato e il futuro)

Tutti i segni della nuova storia davano, a giudizio del poeta, dolorosa risposta: infuriava, come vent’anni prima, l’agitata canea, si scannavano a vicenda i pezzenti redivivi; sulla fame disperata dei più, sullo sfacelo civile, amministrativo, politico, la corsa ai posti, alle prebende, la scalata al potere. accanto alle vittime vere, i Girella e i Tartuffe di sempre, vergini tutti o impegnati a farsi una verginità: i più scalmanati del fascismo, che ora proclamavano alla commissione defascistizzatrice di essercisi trovati per forza o per necessità; i predicatori dell’amor patrio, che alla chiamata alle armi avevano risposto con espedienti subdoli, restando indisturbati («’mbardati e ’mpinnac˜c˜hiati») ai loro posti di dominio. il poeta li seguiva con lo sdegno e col disprezzo: parû cani, e cumu a cani,


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tutti diciû: passa llà!… priestu llà… passa llà… duve sû juti chilli stivaluni, le fimmmine ccu tantu de galluni, ccu ll’aquila alla capu a spassià, grirannu ppe lle vie come spirdate: _ Ed eja ed eja ed eja ed alalà…! duvi sû juti chilli scritti ardite, chilli ceroni de ssi mura mura? Si cci nne resta ’ncunu ppe sventura l’omu chi passa, guarda e llà ppe llà fa ’na risata o fa… vue me capite, e doppu guarda, sputa e ssi nne va. (Passa llà)

l’anima della città respingeva sdegnosamente nostalgie e ritorni: non vuole Girella, Tartufi non vuole, la vecchia patacca, giurateci, fu... (Travetto, Travetto)

Ma uomini e fatti riproponevano immagini antiche, inutilmente logore, con antichi rischi: Torna il metodo passato, sì, ritorna, eccome! in moda; torna qualche tollerato a giocare assai di coda. Torna in porto anche la barca quando è bene manovrata; torna al piccolo gerarca la tronfiaggine passata. Torna il vecchio arrembaggista ad affliggere il prefetto; torna conto al già fascista di abbaiar che fu costretto… (Torna)


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il nuovo apostolo si presentava con la veste d’agnello, che avrebbe ceduto negli anni - era la lucida previsione del poeta - a quella della prepotenza e dell’albagia, e col saio francescano, che avrebbe ceduto al lustro delle opime prebende. la satira riguardava un vasto fenomeno, ma il poeta l’appuntava più direttamente a quelli che contrabbandavano il vangelo come merce di conquista, e per essi ai più noti e vigili, facilmente identificabili nella cronaca del tempo, ai quali prestava melati sermoni da pulpito: io sono innanzi a voi, dolci fratelli, al cospetto di dio che tutto vede; di cenere ho cosparsi i miei capelli, ho indosso il sacco, il duro legno al piede, perché, perché la francescana assisa è stata e ognor sarà la mia divisa. … io ci ho la lingua dolce e voi le mani use al lavoro sì, ma irrobustite, perciò, fratelli miei, quando domani le sette trombe squilleranno unite, voi scenderete in piazza e con ardore io pregherò per voi tanto il Signore. (Parla il nuovo apostolo)

il torrente delle devote parole sfocia in un messaggio aperto: Ma ricordate sempre il nome mio! andate, amici, vi accompagni iddio. (ibidem)

un momento poetico non fortunato, per il suo facilismo, per i suoi luoghi comuni, non senza qualche eccesso di equivoco gusto, insolito alla misura del poeta: Fasti non chieggio, al gramo viver mio la fede pura, schietta darà pace… e mi potranno dar solo diletto le monachine quando vanno al letto. (ibidem)


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Era, come si comprende, il pericolo democristiano la principale preoccupazione del repubblicano poeta, che antivedeva la supremazia di quel partito, il quale con una politica accorta, aprendo alla borghesia imprenditoriale, difendendo i ceti impiegatizi, affiancandosi ai piccoli proprietari terrieri, promettendo sgravi fiscali e la conservazione del patrimonio edilizio e stradale, avrebbe raggiunto nelle elezioni del 1946 la maggioranza assoluta. perciò l’atteggiamento di Ciardullo veniva censurato dall’organo della democrazia cristiana: nel C.l.n. i partiti litigano e non c’è mai, diciamo mai l’unanimità. anzi si è costituito il tripartito (comunisti, socialisti e azionisti) divenuto col repubblicano amico Ciardullo quadripartito… nel comitato provinciale si fa blocco contro la d.C.9.

Scontata questa reale aggressione, la polemica implicava la gazzarra universale: avanti popolo… da quando Marx lanciò fatidico quel grande grido tutti ti vogliono, tutti ti cercano, tutti si ammazzano per farti un nido… dio! come t’amano come ti adorano, come ti cantano… Gesù che lagna!… (Popolo po’)

E giù, nominativamente, le mene e le moine di colori e bandiere: partiti d’ordine e di disordine e di mezz’ordine, scivè scivè…

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il ficcanaso, Si può?, «democrazia Cristiana», a. iv, n. 2, 19 gennaio 1946.


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Scusa, se esistono, se si dimenano, se si convellono, non è per te?… il rosso t’agita, il bianco t’incita con l’aspersorio e il tricolore grattando l’adipe stemmato e rancido erutta lugubre e per te muore. (ibidem)

la ridente, ma apertamente stizzita rassegna risveglia l’immagine ossessiva della vigilia fascista, che si compone nell’amaro della metafora conclusiva: Ed è il terribile che tu ci credi! E intanto spiegala… Sale chi t’agita, tu resti immobile nel punto dove… però consolati ché nella smorfia popolo piccolo fa diciannove!... (ibidem)

dai partiti ai tribuni: il poeta li vede affannarsi in un terribile gioco, gonfi come le rane, «dal successo incredibile abbagliati», presi dai «più strani e terribili appetiti», impietosi nel duello per il successo: ognuno punta al gioco il suo passato (gran poca cosa!), cede ogni albagia al vile compromesso: un pugilato,


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un arrembaggio! Che malinconia! (Le rane)

E proietta l’immagine dei ludi pugilistici della scalata fascista, ai quali sull’ «ohè!» aveva dato volto e nome, in quella dei nuovi belligeranti, emblematicamente indicati in due tra i più noti e pugnaci, nino Wodizka, segretario del partito di azione, esule dalmata, dal passato di perseguitato fascista, e ubaldo Montalto, tribuno sindacale comunista. in realtà il significato della lotta andava molto più in là che le persone. Era l’anima inquieta della Sinistra, che, pur compatta nei fini e nella lotta agli avversari comuni, discordava, e talora fieramente, sui modi e sulle vie. l’episodio che ispirò la satira di Ciardullo viene così ricostruito: Con la stipula dell’accordo sindacale tripartito (p.C.i., p.S.i., d.C.) _ il cosidetto patto di roma del giugno 1944 _ la C.d.l. di Cosenza ruppe il vincolo associativo con la C.G.l. rossa, sostituendo ad esso un analogo vincolo con la C.G.i.l. unitaria, derivata dal citato accordo verticistico di roma. Sullo sfondo del contrasto di carattere nazionale, venne a deteriorarsi anche il clima interno al sindacato cosentino. Si giunse, così, ad una acerrima competizione fra la tendenza sindacale azionista, appoggiata dagli anarchici e da alcuni gruppi socialisti «autonomisti», e quella comunista, sostenuta dalla gran parte della tendenza sindacale socialista. Tale scontro veniva poi a concretarsi nelle figure di Wodizka e di Montalto. la battaglia politica risolutiva fu posta per la fine di giugno 1944 [....] i comunisti, che ricandidarono ubaldo Montalto, misero in atto un lavoro di proselitismo con ben pochi precedenti sino ad allora. i risultati di questo massiccio impegno della macchina organizzativa e propagandistica comunista non si fecero attendere: ubaldo Montalto vinse le elezioni10....

Ciardullo non ignorava questi giochi politici ma, conoscitore com’era di uomini e di fatti, li vedeva connessi a individuali interessi e appetiti, rappresentati dai due personaggi citati, e ad essi dirige i suoi strali, sollevandoli ambedue a protagonisti eroicomici, il primo col basco calato «sull’eburnea fronte» e il dente d’oro terribilmente corrusco, il secondo fiero siccome il conte di Culagna, pugnace e invitto come Sacripante! Tribuno eccelso, ardente come mai,

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F. Mazza, N. Wodizka e il Partito d’Azione a Cosenza, «periferia», a. v, n. 13, gennaioaprile 1982.


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Marat, Turati, Ferri, che ne fai? (Spettacoli)

Già compagni ed amici, si fronteggiano come «due cani mordenti». per quale posta, si chiede il poeta, «si è frantumata la fraternità?». E risponde il mondo è sempre quello: e ci scommetto che tanti illusi ancor non han capito: il giuoco del santissimo sgambetto è sempre, o amici, il giuoco preferito; e per una minestra, ed anche dura, fu venduta la primogenitura. (ibidem)

il gioco politico si svolgeva, dando ragione ai suoi timori, in senso non gradito al repubblicano poeta. Egli lo registrava attraverso gli esiti sempre più convincenti delle competizioni elettorali e le formule dei governi e delle pubbliche amministrazioni e nel 1950, in pieno assetto del partito democristiano al governo, aveva motivo di scrivere: Canto fermo! Ho gran paura che si ascolti da parecchio, e con gran disinvoltura oggi bussi ad ogni orecchio. per cui, amico, tira via, se lo scherzo durerà, finiremo in sagrestia nella gran totalità. (Mementomo)

la sua stizza riguardava direttamente il partito, nel quale il gruppo dirigente diventava una sempre più potente oligarchia, tenendo nelle mani gli affari dell’intera provincia, a cominciare dalla Cassa di risparmio di Calabria e lucania11, ma l’attenzione era per gli uomini in

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per notizie particolari, cfr. F. Cozzetto, La Calabria dopo il Fascismo, in Storia del Mezzogiorno, vol. Xv, parte ii, portici, 1990, pp. 391-92.


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genere. E registrava ancora lo sconsiderato arrembaggio, il rifiuto di ogni esame di coscienza, il tramestio degli esclusi dalle greppie politiche. E’ soprendente e significativo, per coloro che leggono a distanza, come anche qui particolari e satira riportino all’«ohè!»: per cui qualche non entrato non di propria volontà si fa il martire bollato della nuova libertà. E lo trovi sempre avanti candidato ad ogni posto, contendendo a tutti quanti tanto il fumo che l’arrosto… (ibidem)

Era anche il momento di una delle grandi impennate di Ciardullo, quando il riso riconosce la sua insufficienza e cede allo sdegno dell’uomo e al flagello del poeta: Ma fra i salmi dell’uffizio, disse il Giusti, c’è il Dies Irae ed il giorno del giudizio presto o tardi ha da venire. un giudizio che soltanto questo popolo darà! Memento homo, Cristo santo, che quel giorno arriverà. (ibidem)

Talora la riflessione lasciava i singoli e i gruppi e guardava al gioco politico come a momento eterno dell’animo, a forma universale della vita; allora il poeta prendeva il sopravvento o almeno contendeva fortemente col pensiero e nascevano analisi sottili e quadri ampi e solenni: il viver da granchi, saltando indenni fossi e dirupi (Li granchi); l’eterna sfida tra i marinai e il pesce, tra gl’insidiatori consapevoli e accorti e le eterne inconsapevoli vittime, tra i politici e il popolo (Marinari), componimenti che ben figurano per dignità nel corpo delle migliori creazioni in dialetto e che in quella sede saranno esaminati. Tra le scaramucce polemiche che la sua indomita coerenza gli procurò


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con alcuni dei suoi stessi amici va registrata quella con l’ingegnere raffaele Cundari, geniale direttore del settimanale satirico «la vespa», uno dei fogli più freschi e vivi della prima Cosenza democratica, sul quale egli, come si è detto, aveva collaborato nel 1945. Qualcuno sospetta «che l’amico raffaele abbia iniziato ad arte lo sfottoncino per tirare Ciardullo in una simpatica polemica»12.Comunque sia, il componimento, benché di modesta levatura, è un campione dell’autoironia di Ciardullo, il quale gioca, dandole per proprie e scontate, con le malignazioni che l’accompagnano, offrendole al contendente come motivi di satira intelligente ed efficace al posto di quella «da femminetta» da lui usata: Ciardullo sferza gli altri, ma non si guarda allo specchio; Ciardullo ha smesso la «vecchia sua montura», legandosi ai papaveri; le trovate di Ciardullo sono ormai logore e trite. Fino alla completa dissacrazione: Sfida invitto assalti ed ire, si proclama il puro, il casto! Ma se gli offri cento lire?… non tocchiamo questo tasto!… (E ancora Momo)

la polemica politica non distraeva la sua attenzione dai problemi sociali e amministrativi più impellenti e dalle opere concrete per il progresso della città. E’ documentata in varia forma la generosa campagna a favore dell’istituto industriale, che egli condusse per anni, proclamandone in più articoli13, di fronte a minacce di soppressione, la necessità di sopravvivenza, difendendone reiteratamente il preside ingiustamente accusato, celebrando in versi di gioiosa ilarità la deliberazione provinciale di costruzione del nuovo edificio (Pane o pice?). per converso l’occhio sorprendeva altri mali annosi: le ruberie e gli abusi di singoli e di gruppi, che il clima di libertà moltiplicava e faceva crescere in ardire. di quella selva di malanni il popolo era tristemente consapevole e l’aveva ritratta con l’arguzia satirica sorgiva, sostenuta da un lessico robusto e tagliente, in una cantilena di endecasillabi a rima

12

introduzione alla satira E ancora Momo, in Ciardullo, La Satira, a cura di a. piromalli, MidE, lorica, 1984, p. 152. 13 «il Giornale di Calabria», a. XXXiii, n. 11, 26 gennaio 1946; a. Xiv n. 12, 10 dicembre 1946; a. Xviii, n. 12, 10 dicembre 1950.


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alternata, quasi uno strambotto caudato, che è stato assunto nell’edizione MidE a mo’ di epigrafe introduttiva al volume della Satira ciardulliana, anche perché impressa, nei versi finali, della vicenda personale del poeta: Mo chi n’àû guastatu la muntagna ’u calavrise ’un troppu aze la grigna; de se fare brigante si nne spagna pecchi à perdutu la tana lupigna. però mo alla città sta la cuccagna: Cce trovi l’ursu, ’u lupu e lla signa; mo si te truovi ’ntra la gran cuccagna t’accatti l’uortu, ’a casa e lla vigna, ma si sî fore de la gran cuccagna càvuci e muzzicuni alla muligna.

la strofa si riferisce chiaramente al gran bosco della Sila, sventrato, già sin da alcuni decenni prima della guerra, da strade e insediamenti e divenuto inospitale al brigante calabrese, ristretto così alla città. la quale, è la conclusione, lo rinserra sotto spoglie di animali selvatici vari, più o meno feroci, famelici tutti e afferrati tutti alla greppia, in barba ai semplici e onesti, vituperati e pezzenti, che son fuori della «gran cuccagna». a quei malanni cittadini la coscienza offesa del poeta aveva guardato sempre, come si è visto nella reiterata sferza alle cricche della Cassa di risparmio, ma è notevole anche il suo coraggioso atto di accusa, affidato ad una stornellata popolaresca, contro una cricca impiegatizia del comune di Cosenza, non diversa, nel giudizio del poeta, da quella che egli aveva flagellato durante i primi anni del fascismo: Juru addurusu, ’a gurpa, bene mio, tena la tana, e lu sùrice affrittu lu pertusu! Mentre c’allu Cumune, fattu finu, li marpiuni nuostri, spierti veri, s’àû fattu, gioia mia, ’nu magazzinu… (Stornellata nucente)

l’accusa è seguita da un severo monito al sindaco, allora adolfo Quintieri: Sìnnicu mio,


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attientu ch’è venuta l’ura tua e scumparisci quant’è veru dio. Cchi peccatune! S’è d’accussì, me’, piglia ’nu curtiellu, taglia ccu manu ferma. è ’nu bubbune. (ibidem)

E’, infine, da ricordare il contributo di entusiamo e di opere che egli diede all’istituzione del Circolo di cultura, il quale rappresentò uno dei momenti più nobili di Cosenza post-bellica e fu inaugurato il 18 dicembre 1947 nel salone della provincia con le memorabili strofe del componimento Cumu vinne e cumu jiu, che analizzeremo a suo tempo14. E’ stato detto, e da qualcuno non senza una punta di malignità, che la satira di Ciardullo demorde con gli anni. a considerare l’ultimo decennio di vita, questo può essere vero sotto l’aspetto della frequenza, non della forza, che abbiamo ritrovato sorprendentemente fresca fino agli ultimi documenti su riportati. E’ piuttosto da dire che lo stesso saggio realismo che aveva governato il suo repubblicanesimo impronta negli ultimi anni di vita il suo atteggiamento nei confronti dello svolgersi della storia calabrese. provvedimenti come la Cassa del Mezzogiorno e l’Ente Sila gli apparivano, con tutti i loro limiti e le loro manifeste contraddizioni, come l’inizio di un fausto corso della regione, la bandiera della sua parte più triste, il popolo operaio e contadino, ed egli accompagnò quegl’istituti nella loro azione con alcuni componimenti pubblicati sul periodico «orizzonti Silani», organo ufficiale dell’Ente Sila: poesia consapevolmente didascalica, nella quale si risolvevano anche gli elementi di satira sociale (Frevaru, Simina ca ricuegli, ’E sale ’e l’Ente Sila). Ciardullo, ad onta della sua lucida fede, non era una mente politica e la sua visione della questione calabrese era lontana dalla complessa problematica che animava in quegli anni il dibattito intellettuale sulla questione meridionale, che vedeva contrapposti sui temi d’industria e agricoltura personalità di area laica, quali rodolfo Morando e Manlio rossi doria, e di area cattolica, quali pasquale Saraceno ed Ezio vanoni. Egli riconduceva, come il padre vittorio, le sventure della regione al tradimento della Monarchia Sabauda dopo la formazione dello Stato unitario

14

v. infra, pp. 166-70.


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e alla politica di conquista e di sfruttamento delle regioni settentrionali a spese del Meridione, che purtroppo affiorava anche attraverso i nuovi provvedimenti con remore, interessi, appetiti. Già all’indomani immediato della liberazione egli aveva tonato contro un certo professor poni, il quale dalle colonne di «Emancipazione» aveva rivendicato ai settentrionali un «diritto di primogenitura» e, fraintendendo volutamente alcuni giudizi di pasquale villari, regalato ai calabresi la qualifica di retrogradi e di barbari, non risparmiando i migliori; già allora aveva chiamato la Calabria a costruire con le proprie forze il suo riscatto15. Quello sdegno e quella fierezza tornano ora rinvigoriti, a dispetto del corpo sofferente e sfatto, nell’aprile 1953, a pochi mesi di distanza dalla morte, in un’ultima falcata, che mutua, insieme ai sentimenti e alle idee, anche il titolo del componimento paterno Calavrisi, jettati la sarma: Calavrisi, jettati la sarma, finarmente, ca l’ura è venuta, e llu fuocu sbambati de l’arma, ca vidimu s’ancunu lu stuta!…

il poeta di Cosenza, che aveva onorato con la parola e con l’opera la città, diventava, se pur ve n’era ancora bisogno, il poeta della Calabria. del resto la sua fama aveva varcato da tempo i confini regionali e quel titolo gli era stato ufficialmente riconosciuto prima a Sanremo, dove la sua raccolta Statte tranquillu … nun cce pensare!… era stata premiata nel concorso nazionale di poesia dialettale, poi a Cattolica, dove analogo riconoscimento gli era stato tributato da una giuria della quale facevano parte, tra gli altri, luigi russo, Salvatore Quasimodo, Eduardo de Filippo. perciò, quando il 10 marzo 1954 si sparse la notizia della sua morte, la città fu travolta da un’ondata di pianto, che decretò all’estinto l’apoteosi. Tutta Cosenza seguì la bara del suo poeta. l’elogio fu tenuto dagli avvocati Filippo Mannelli amantea e Francesco d’ippolito, presidente dell’ordine. un monumento bronzeo gli fu eretto in piazza XXv aprile a cura di un comitato attraverso offerte volontarie. opera dello scultore

15 Michele de Marco, Le solite prefiche, «Calabria democratica», a. ii, n. 13, 22 gennaio 1944


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catanzarese rito, sta su massiccio ceppo lapideo trasportato dalla Sila per interessamento del geometra Fausto Tencioni e reca la semplice epigrafe: a Michele de Marco «Ciardullo» i Cosentini.

rimasto per un anno coperto da un drappo nero, fu scoperto di notte da una brigata di buontemponi, i quali vi apposero, in tono con l’arguta amabilità del personaggio, un cartello con la scritta: Cusenti’ , v’àju fricatu, ca mi sugnu scumbegliatu.

intervenne allora l’inaugurazione ufficiale, col discorso del sindaco di Cosenza Mario Stancati. resta segno dell’affettuoso compianto l’omaggio del «Giornale di Calabria», resogli ben due volte attraverso autorevoli testimonianze: una prima volta a due mesi dalla morte16, una seconda nel primo anniversario con un numero speciale17. ad esso concorsero amici e studiosi, componendo il primo ritratto del poeta, il primo approccio critico all’uomo e all’opera. in quel tributo collettivo c’era la voce di un discepolo poeta, peppino valentini, in una gentile tradizione antica di canto per la morte del poeta o amico, che trova radici negli ellenisti dell’epigramma. nella città vedova del suo poeta valentini cantava così: .

16

Ricordando Michele De Marco,«il Giornale di Calabria», a. liii, n. 2, 18 maggio 1954. il ricordo comprende: o. Minervini, L’artefice dei canti popolari calabresi; S. Martire, Maestro del folklore; o. Mazzotta, Poeta avvocato; F. vaccaro, Poeta libero; l. rodotà, Poeta sentimentale; C. nardi, Come ho conosciuto Michele De Marco; p. valentino, A Ciardullo (poesia). 17 Primo anniversario della morte di Michele De Marco, «il Giornale di Calabria», numero speciale a cura del comitato per le onoranze a Michele de Marco, a. 54, n. 1, 10 marzo 1955. il numero accoglie i seguenti contributi: F. Gullo, La poesia di Michele De Marco; S. pancaro, Ciardullo; l. nicoletti, La sua sincerità; G. rubino, Ancora con noi; F. vaccaro, Nel Circolo di Cultura; l. rodotà, Michele De Marco giornalista (Aneddoti); o. Mazzotta, Poeta civile: l’educatore; l. Cava, L’avvocato; o. Minervini, Il mio ricordo di Michele De Marco; M. valentini, Omaggio dell’amico; a. adriano, Il teatro di Ciardullo.


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oje para ’na caggiula (’u spurtielli spalancatu) ch’è vacante, affritta e sula ca l’aciellu l’è vulatu! Cumu quannu, ’ncannaccatu a ’nu suonu de viulinu lu stai a sèntere, viatu, e te scuordi lu destinu e ccu l’uocchi chiusi, ’mpiettu sienti scìnnare ’nu mele, pue … sta citu … e lu dispiettu a la vucca para fele, accussì n’è capitatu a nua, pòvari scunchiuti: lu canariu s’è ammutatu e li canti sû frunuti.

il poeta riposa nel piccolo cimitero della sua pedace. la città ne ha onorato la memoria anche con l’intitolazione di una Scuola Media, la provincia con l’intitolazione di una bretella da Cosenza a Borgo partenope; altri comuni della provincia lo ricordano nel nome di vie e di scuole. il gesto più significativo è stato compiuto dalla città di roma, che ha intitolato tre vie del Quartiere latino rispettivamente a pane, Butera, de Marco Ciardullo, fondendo l’omaggio onorifico con un competente giudizio di valore. la casa natale del poeta, in perito, reca sulla facciata principale una lapide posta a cura del sindaco di Cosenza Mario Stancati, con la seguente epigrafe dettata da Fausto Gullo: in QuESTa CaSa naCQuE il 17 Marzo 1884 MiCHElE dE MarCo Qui SEMprE CHE nE EBBE la poSSiBiliTà EGli aMò poi diMorarE E dalla raCColTa E SEMpliCE viTa dEl piCColo BorGo naTalE Cui Fu SEMprE avvinTo il Suo parTECipE aniMo SEppE TrarrE Con GEnialE iMMEdiaTEzza TanTi E CoSì SuGGESTivi MoTivi pEr la Sua alTa iSpirazionE poETiCa. addì 30 aprilE 1967


parTE SEConda

la poESia


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CapiTolo i

Tra linGua E dialETTo

i passi con i quali abbiamo accompagnato la vita e l’attività politica di Ciardullo mi sembrano abbastanza eloquenti per un sereno giudizio sulla sua poesia in lingua e in particolare su quella satirica. a voler cercare un termine di paragone, la satira di Ciardullo in lingua fa pensare al Giusti; la sua esperienza satirica, pur passando attraverso illustri modelli, anche assai distanti tra loro, con lui si completa e parecchi segni diretti e indiretti attestano questa consapevolezza nello stesso poeta: la corrispondente e agile ricchezza e varietà dei metri, certi moduli in particolare, certi toni dell’indignatio, certe macchiette, certe impalcature delle immagini, qualche titolo e anche l’ambiente limitato e provinciale, ma Ciardullo ha una più solida coscienza morale e viceversa una minore preoccupazione linguistica e complessivamente un minor impegno letterario, anche per il fatto che egli scriveva ordinariamente di getto. il mondo di quella satira è il suo dispetto, l’anticiardullo, al quale il poeta guarda col sorriso forzato, lo sdegno aperto, il sarcasmo, talora anche l’invettiva, scoprendone il volto senza infingimenti e senza pietà. persone e fatti, atmosfere e stati d’animo ne balzano attraverso una pennellata o colori diffusi e con essi, chiarissimi, i motivi che la destano e la sorreggono. Essa appartiene, perciò, esemplarmente al costume politico e morale e, come tale, ha un’importanza storica e pedagogica che qui si vuol rilevare e che non può sfuggire a chi abbia seguito con attenzione la breve carrellata che mi è riuscito di farne. Ma al di là di questa dimensione, pur collocandosi al di fuori e al di sopra di molta parte della satira politica italiana del secondo ottocento e del primo novecento, giornalistica e non, per una sua propria, inconfondibile carica di piacevolez-


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la poesia

za e di genialità, essa non riesce quasi mai a decantare la passione, a sollevarsi al di là della pungente mordacità, del bozzetto giocoso, del medaglione caricaturale, dello scherzo piacevole e arguto e di un abile artificio metrico. né va al di là l’altra produzione sua in lingua, quella dell’apparente disimpegno e dell’evasione, nella quale la satira è sottesa e che si risolve per lo più in un lirismo facile e di scuola, anche se di piacevole lettura. la stessa romanza La tomba sul Busento, alla quale, per la forte presenza di alcuni elementi distintivi, ho dato rilievo nella produzione di quel periodo, non esce dai confini di un amabile gioco. il miglior Ciardullo va cercato nell’opera dialettale, dico in quella parte dell’opera dialettale, ed è la maggiore, nella quale il poeta, dimessi cruccio e sdegno, si trova solo col cuore e con la memoria e ne attinge i fantasmi disinteressati e il libero canto, ovvero, rappresentando gli altri, vi si immerge cordialmente, recuperando al compatimento e alla simpatia debolezze, miserie, ironie del nostro vivere quotidiano e guardando gli uomini e gli eventi come forme della vita e della bellezza, quasi sottratte al tempo e allo spazio. E’ il mondo della sua simpatia: la famiglia, l’amicizia, il popolo, il paese, intesa per popolo non solo la gente povera, alla quale soprattutto è rivolto il cuore del poeta, ma quella semplice e comune, distante dal potere e dal privilegio, più gravata dai problemi quotidiani e perciò più consapevole di ansie e di sconfitte. Quando gli avviene di esprimere quel mondo e di assicurargli lo strumento linguistico che gli è connaturato, cioè il dialetto, Ciardullo raggiunge, nel senso desanctisiano, la sua «forma». per tal via anche la satira politica in dialetto si eleva su quella in lingua, entrando tanto più, come si vedrà, nella luce della poesia quanto più quel mondo vi è riflesso e dominante. or prima che siffatta realizzazione si colga, come cercherò di fare, dall’analisi dell’opera, può essere utilmente rilevata dal confronto di due componimenti che il poeta scrisse, con diverso strumento linguistico, su una medesima materia: il natale. il componimento in lingua si muove tra lo scherzo leggero e le note bonariamente satiriche di cronaca sociale e politica, stemperando l’atmosfera festiva di dolcezza e di nostalgia nella rappresentazione delle ristrettezze dei tempi, delle difficoltà economiche e familiari, dei prezzi alle stelle, nella triste considerazione della pace non tornata col natale e della crescente protervia politica in contrasto col disagio economico: Cosenza, terra di erbaggi famosi,


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un tempo... adesso di erbaggi è un po’ priva! Cambia di flora, dai campi ubertosi scarsa e caruccia la rapa ci arriva. però in complesso, vuoi destri o sinistri, se non dà rapa, produce ministri!...

Canzone paesana, fredduccia di sentimento e di mordente satirico: una poesia che appartiene al luogo e al tempo e resta lì. il componimento in dialetto, che pure si muove in dimensioni poetiche piuttosto modeste, sul terreno dello scherzo discorsivo e affettuoso, lontano dalla mistica esaltazione o dalla drammatica luce di precedenti modelli, immerge subito nell’atmosfera della casa, che gli conferisce il carattere unitario: il fratello tornato, le usanze avite, la tavola imbandita, il tutto detto a prezzo di una partecipazione intenerita dello stesso lessico, che entra come personaggio nell’atmosfera e accarezza le immagini e moltiplica i diminuitivi affettuosi: ’na cosa oje desideru: la casicella mia! la tavulilla queta, lu fuocu granne granne; tutta la famigliella ricota [...] le furnacelle tutte ’nserciziu, appiccicate: Se faû le nove cose stasira! preparate le furcine cchiù belle, la tuvaglia cchiù fina, la buttiglia cchiù vecchia de tutta la cantina. E’ natale! Se lassa la tavula parata, lu fuocu ccu lu cippu, ccu l’asca appiccicata, lu pane santu supra la tavula pp’agùru, li frutti, lu turrunu e le nucille...

la rappresentazione del mistero, parca e riverente, entra a far parte di quell’atmosfera di dolcezza familiare, con la Madonna revocata alla sua interezza umana di donna e di madre: la Madonna s’affriggia! ’na lacrima le vena ’mpunta all’uocchi, se ferma, pue c˜hianu, c˜hianu, c˜hianu, riga tutta la faccia, la va supra nna manu, e a chillu pizzu, duve chilla lacrima cara, sboccia, luce ’na stella; se vota a la merare la Madonnella Santa! pue guarda lu Bambinu chi rira, e si lu conza ’ngattatu ’ntra lu sinu.


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la poesia

Siamo di fronte ad alcuni dei nuclei lirici e morali della poesia di Ciardullo: il focolare come nido di affetti e di valori, i momenti aggregativi nei quali i rapporti si cementano, i sentimenti si rinsaldano, le tradizioni si esaltano, la povertà ha un’illusoria quiete; e accanto a queste luci del cuore e della memoria, il perdurante senso delle ironie sociali, delle sperequazioni, delle ingiustizie, emblematicamente calato nel richiamo all’opulenza dei Barracco: E abbasta chi staû còmmari Barracca e llu massaru, nue ca crepamu è chiacchiera, lu munnu è sempre ’mparu.

Ma la stessa rappresentazione delle proprie ristrettezze economiche in contrasto con l’altrui smodato benessere, che è componente diffusa e stizzita del componimento in lingua, qui viene condotta senza acredine e quasi assorbita nell’atmosfera di affettuosa conciliazione della ricorrenza e perciò, nulla perdendo della sua forza di denunzia, risulta poeticamente più efficace: l’ova ti le regalanu, li frutti vaû ppe ’nterra; vi’, te cali e le cuogli! vidi ’nu serra serra ’ntra li cafè; renzelli, chill’anima pietusa, duna li dorci gratis! daveru, ccu la scusa de ’ssu Santu natale, casce casce lle manna: Cumu? nun cce vo’ crìdere? E tu va’ l’addimmanna!... li durci suli? Tuttu!... li pisci a ’na ciutia, trasi ccu dui centesimi ’ntra ’na salumaria! li vruòccoli l’ai puru a ’na lira lu mazzu... Già illu mo i dinari se chiamû cchi nne fazzu! Tu nun l’arrivi a frùnere, ài voglia ca nne sciupi; nne sû chîne le case, nne sû chîni li grupi! nun tròvanu cchiù postu, nun tròvanu riciettu, mo le banche te preganu ccu lla petra a llu piettu. E, si va de ’ssu passu, minutu ppe minutu, fruna ca puru pàtrimma se trova dinarutu!

Simpatia del poeta per la materia del suo canto, ma anche miracolo della parola, che la segue con cordiale docilità, carica dell’esperienza dei secoli.


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CapiTolo ii

linEa dElla parola poETiCa CalaBrESE dallE oriGini a Ciardullo

la poesia in dialetto calabrese vera e propria, cioè calabrese di lingua e di spiriti, appare nel Seicento. prima d’allora non si tratta, nei pochi documenti superstiti, di un dialetto preciso, ma di un organismo composito, che, se non è proprio una koiné calabro-sicula, come vorrebbe oronzo parlangeli, abbonda di patine forestiere, con tendenza alla nobilitazione toscaneggiante. in tal veste si presentano, per citare i due documenti di maggior peso letterario, una Carta rossanese, contenente due componimenti di antonio roda, arcivescovo di rossano (1434-42), cacciato dalla sua sede, com’egli dice, per calunnie nemiche, e un Lamento per la morte di don Enrico d’Aragona, opera forse del cosentino ioanne Maurello (1479), che chiama, nell’àmbito di una tradizione nobilitata da Sordello di Goito, tutta la Calabria al pianto e al lutto. ambedue i componimenti, tuttavia, attestano che il dialetto è già ritenuto degno di esprimere alti argomenti, in figure metriche di consacrata dignità. nel Seicento la poesia in dialetto non è solo una nascita, ma un’esplosione, una rottura, della quale tanto più s’intende il significato, se si pensa che essa s’identifica con quel focolaio d’aprigliano il cui caposcuola, domenico piro (aprigliano, 1671-1758), noto come duonnu pantu1 e indicato come l’estrema licenziosità della poesia calabrese, è sacerdote, come lo sono due suoi compagni di poesia e parenti: ignazio e Giuseppe donato. nel secolo in cui la disgregazione sociale, la sopraf-

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non entro nel merito della questione dell’identità di pantu, se cioè lo pseudonimo corrisponda a domenico piro o, come alcuni ritengono, a Giuseppe donato. Chi voglia averne conto può consultare, fra l’altro, G.F. abate, I gapulieri, Cosenza 1998.


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la poesia

fazione politica, il controllo della cultura toccano in Calabria il loro vertice, questa poesia assume un duplice significato: quello del ripudio dell’autoritarismo, del dogmatismo, della tradizione mistica e accademica, il quale interpreta l’anima più vera del Seicento, cioè il lievito romantico, ribelle e innovatore; quello della lotta del popolo contro i poteri a cui soggiace: della politica, della ricchezza, della stessa Chiesa. le vie attraverso le quali essa si esprime sono quelle connaturate all’animo del popolo: lo scherzo, il gioco, la polemica, la satira, ed esse alimenteranno prevalentemente per ben tre secoli le forme della poesia dialettale calabrese. Si spiega così l’emergere dell’onda colorita e spumeggiante, gaiamente sfrenata, dell’erotico; si spiega anche lo scadere del codice della religiosità, lungo una scala che va dal sorriso bonario, ma sottilmente corrosivo, all’oscenità di qualche estremo attribuito a duonnu pantu. accanto a questi, che sono gli aspetti più eclatanti della poesia dialettale del Seicento, vanno considerati per lo meno due filoni di grande serietà per l’importanza che hanno avuto nello sviluppo della poesia dialettale. il primo, che si sarebbe puntualmente e prontamente risvegliato nei momenti cruciali della vita della regione, è quello della poesia sociale, inaugurata gagliardamente da Flavio Cimino col poemetto Lu ricattu de Scigliano (1636), al quale si affiancavano, nello scorcio del secolo, La dies irae, la dies illa di Gerolamo Scalzo, di Motta Santa lucia, e, con eguale ira e sdegno, Lu sbarru de le foreste (1697) del compaesano prete antonio Marasco per la vittoria del popolo contro il feudatario del luogo. il secondo è rappresentato dalla poesia dotta, nella forma della traduzione, inaugurata, secondo le nostre conoscenze, da Carlo Cosentino (aprigliano, 1671-1758) con La Gerusalemme liberata e continuata nei secoli successivi con virgilio, orazio, i Salmi biblici e soprattutto La Divina Commedia, per canti o per cantiche, fino alla traduzione integrale condotta a fine ottocento da Francesco Scervini (acri, 1847-1925). anche se quelle traduzioni possono denotare «una soggezione culturale, un riconoscimento di attività subalterna dal punto di vista intellettuale e creativo»2, sono indice del progressivo cammino percorso dalla parola poetica dialettale e dell’orgogliosa consapevolezza, nei poeti, della sua capacità e dignità anche di fronte agli argomenti di maggior impegno quali la

2

a. piromalli, Storia della letteratura calabrese, i, Cosenza 1998, p. 141.


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filosofia, la scienza, la teologia. Siffatta consapevolezza è vivissima nei poeti di aprigliano e si traduce in una ricerca sottile, in uno scavo profondo di affinamento linguistico, condotto per tutte le possibili vie, soprattutto negli strati più umili del popolo, ov’era più possibile raccogliere elementi lessicali e stilistici capaci di arricchire il vocabolario poetico. in tal senso i poeti di aprigliano costituiscono una vera e propria scuola, che conferisce consapevolmente un primo assetto alla lingua poetica calabrese. la capacità espressiva del dialetto è tanto presente, d’allora in poi, ai poeti, da diventare teoria, questione della lingua e trova il suo manifesto tra la fine del Settecento e il principio dell’ottocento, in pieno trionfo del purismo, in un poeta colto, il canonico Giovanni Conia (Galatro, 1752-1839), il quale in una contesa tra l’italiano e il dialetto condotta a base di ragioni e risolta a favore del secondo, fa dire da questo alla lingua: Tu mini mu3 mi ’mbrogghi, mi scardi frasi e frosi ed eu dicu li cosi - e non paroli.

una rivendicazione di serietà e di concretezza ovviamente discutibile nei suoi termini perentori, ma fondata sulla forza espressiva dei maggiori poeti e tale, perciò, da meritare di essere assunta tra i principali motivi di riflessione nell’odierno dibattito sulla scelta del dialetto in poesia. Conia, autore di poesie giocose e religiose, riduce il gioco nei termini del castigato, con un sorriso brioso e malinconico insieme, emblematicamente riconoscibile nella Canzone faceta, narrazione di un viaggio avventuroso a dorso di un asino di «cient’anni / e sfilettatu e stortu / ed orbu e mienzu mortu». la religione non è in lui mistero o dramma, ma alimenta certezza di fede, in rappresentazioni ingenue, ravvivate da elementi di popolare comicità. nella loro complessiva mediocrità si stacca, per sincerità di ispirazione e originalità di espressione, una Cantata di Natale, che esprime in una sorta di mistica esaltazione, tradotta nel quinario folgorante, la gioia dell’evento:

3

deposito greco derivante dalla fusione delle particelle negative μη ′ e ou (latine ne e ~ = cerchi di, fai di non) con risultanza affermativa finale. perciò: mini mu mi ’mbrog~ghi tutto per imbrogliarmi.


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la poesia

vog˜ g˜ hiu mu4 abballu, chi pretenditi? nun mi teniti, largu di cca!...

dopo Conia la poesia religiosa in dialetto, nei suoi vari atteggiamenti (se si prescinde dalle anonime espressioni popolari ricche di luci) non esce di mediocrità e solo a mezzo il secolo trova un momento di fulgore in due «rumanze» di vincenzo padula, S. Francesco di Paola, narrazione tenera e sorridente della vita del Santo, e La Notte di Natale, che racconta popolarmente, nell’ottonario confidenzialmente narrativo, il mistero e poi scioglie con più alto metro, quello della strofa saffica, una ninna nanna ove le gentili invenzioni dell’affetto materno si venano d’improvvisi lampi di drammaticità: ’a sienti tu’ ntr’u vuoscu chissa vucia? nun è lu vientu, no, chi si cci ’mpucia; è la cierza chi grida: _ ’u lignu miu cruci è di diu!

per converso il filone argutamente dissacratorio, di natura colto e popolare insieme, vive nell’opera di Giuseppe donato (Gimigliano, 18111871), il quale nel poemetto La rivoluzione celeste aggredisce lo stesso paradiso, demolendo troni, sfaldando aureole e contrapponendo al dio biblico e alla beatitudine dantesca una società del paradiso afflitta da inquietudini e da mali. nel filone licenzioso duonnupantiano s’immette, invece, con più nutrita coscienza storica e letteraria, vincenzo ammirà (Monteleone, 1821-1898), fresco e brioso dipintore di tipi e vicende, con alcuni poemetti che la critica accosta alla scrittura di duonnu pantu non solo per il tono, ma per la valenza satirica e polemica, esplosiva nel clima di corruzione e d’ipocrisia del regime borbonico. nel resto della sua produzione, che si mantiene sul genere umoristico e giocoso, si segnala il componimento ’A pippa, un vero e proprio momento della parola poetica dialet-

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voglio ballare. Cfr. nota precedente.


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tale, la quale, nella fusione della memoria nostalgica e del giocoso e malinconico sorriso, apre, come ha ben notato il Galati, il capitolo, che oggi è il più pregnante, della lirica pura. Ma la componente più seria e impegnata, inavvertita o sotterranea ai suoi tempi per ovvi motivi e fatta oggetto di studio e di adeguata intelligenza in questo secondo novecento, è quella sociale. Sgorgata, come si è detto, da una delle vene più robuste del Seicento, essa colora i momenti cruciali della storia della regione. il fermento rivoluzionario illuministico si esprime nel Te Deum dei Calabresi, scritto nel 1787 da Gian lorenzo Cardone (Bella di lucania 1743-1813), musicato poi da paisiello e cantato in coro dai patrioti del 1799 in segno di protesta contro l’oppressione borbonica, un robusto documento di pensiero e di parola, che illumina a sangue violenze, prepotenze, ingiustizie: chi si merita ’na funi terra, focu, lambe e truonu tu ’ngrannisci e tu pirduni, granni deu, pecchì sî bonu; po’ tant’omini nurati chi tu stissu l’hai criati li manteni affritti e strutti. viva deu di Sabautti...

le delusioni conseguenti alla unificazione, la fame, la disoccupazione, l’emigrazione, il fiscalismo, le sopraffazioni, il dolore degli umili trovano voce nei versi di antonio Martino (Galatro, 1818-84) e di Bruno pelaggi (Serra San Bruno, 1837-1912). Tra inutili attese, disperate proteste, indifferenza di governanti, promesse mancate, l’interlocutore dei miseri e dei disperati è diventato dio stesso, non il dio amore, ma il dio biblico, giustiziere e punitore, ed è a lui che s’indirizza la protesta, che si chiede la punizione e la vendetta. Così Martino, sacerdote liberale, scrive il Pater noster dei liberali calabresi e la Preghiera del calabrese al Padre Eterno, risolvendo le condizioni di miseria e di dolore in poderose metafore («da la furca passammu a lu palu», «lu pani cu li gralimi ammogghiamu»). E pelaggi, lo scalpellino Mastro Bruno, unendo nella medesima condanna «li prièviti, l’avaru e lu guviernu», coinvolge il Signore in una soluzione spiccia e manesca:


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la poesia

priestu, mina li mani; vidi cumu hai mu5 fai. .... nun vidi ca ’ndi fannu moriri a pocu a pocu? Tu ti mintisti lluocu e stai mu6 guardi?....

Ma pelaggi sfida anche il trono, gridando al re la sua protesta: di supra a ’sta muntagna ti jettu ’na gridata, sièntila ’ssa gridata ed ejia priestu!...

Fino a quella metafora corposa e tragica della fame: la fami ccu’ lla pala si pigghjia e ccu’ lla zappa.

accenti come questi fanno invidia alla poesia in lingua. Ma questo popolano incolto compie un altro balzo, immettendosi inconsapevolmente, con superiore dettato, accanto ad ammirà, sul terreno della lirica pura, con un parallelo canto alla luna, dolce e malinconico, che arieggia in più momenti il Canto notturno di leopardi. il che, se fa fede della fortuna, non ancora adeguatamente studiata, del leopardi in Calabria, conferma d’altra parte, nel dialetto, quella coscienza di dignità e capacità di contendere fortemente espressa dal Conia. intorno a Michele de Marco s’infittisce progressivamente il corredo tradizionale dei toni e delle forme. il capitolo della poesia sociale, nel quale entrano meritatamente, come si è detto, il padre vittorio e lo zio pietro, alimentato dai grandi avvenimenti del secolo, dalle nuove istanze e da precise posizioni e battaglie ideali, corre tra l’aperta rivolta della parola e la dolorosa contemplazione degli stenti e della povertà, che in Salvatore Filocamo (Siderno Superiore, 1902-1984) ridesta echi pelaggiani:

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Come hai da fare. Cfr. nota 3. Stai a guardare. Cfr. nota 3.


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E vui, Signuri, chi tuttu viditi pecchì ’sti cosi storti cumportati? ddui sunn’i cosi: o vui nun ci siti o puru vui d’i ricchi vi spagnati!

la parola satirica s’irrobustisce e si dilata, flagellando concrete situazioni storiche e marcati atteggiamenti umani, come fa, elevandosi nella nutrita schiera dei cantori del genere, nicola Giunta (reggio Calabria 1895-1968), che or dipinge la corsa umana al male e alla guerra: Ma ’nta stu’ mundu avvampa ’na furnaci, e ’u mali ’i ll’omu è ’na caddara ’i pici cu stuta ’u fuocu e ccu l’adduma ’mbeci, perciò sta vita nostra va a schipeci,

ora i mali propri della sua città: Chistu è ’u paisi undi si perdi tuttu, a undi i fissa sunnu megghiu ’e tia, ’u paisi ’i m’incrisciu e mi ’ndi futtu e ogni cosa esti fissarìa.

Ma il verso del Giunta assurge anche a dignità di poema sacro, in quel San Francesco di Paola, misto di lingua e di dialetto, in cui il Santo pellegrino flagella dantescamente i mali della Chiesa. anche il genere narrativo-giocoso continua, come polla sempre fresca, per varie vie, arricchendosi di nuove invenzioni, come il Jugale di antonio Chiappetta (Cosenza 1876-1942). Ma complessivamente il secolo trova nella lirica la sua vera direzione poetica, che significa in un certo senso un allargamento degli ambiti dialettali. non è nei limiti del mio intento entrare nella lussureggiante fioritura della prima metà del secolo e i pochi nomi dianzi sfuggiti alla penna sono entrati di prepotenza nella necessaria esemplificazione di spiriti e forme. dirò soltanto che Michele de Marco si trova accanto, nell’agone poetico, due grandi lirici, Michele pane (decollatura, 1876-Chicago 1953) e vittorio Butera (Conflenti, 1877-1955). pane vive mezzo secolo di emigrazione in america e lì scrive e pubblica; la sua è, perciò, poesia della memoria: amori giovanili, volti intensi e gentili di donne, persone e momenti del paese e la sua storia di miseria e di dolore; alto su tutti i


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la poesia

ricordi, simbolo onnicomprensivo e motivo unitario, il reventino nevoso. poesia dell’evocazione nostalgica, priva di ogni affettazione e di ogni atteggiamento di letterarietà e viceversa alimentata da una interiore musicalità e da un dialetto fresco ed uguale. anche la lirica del Butera vive nel segno della memoria, ma lo fa senza effusione alcuna, in un linguaggio asciutto, in immagini tutte cose, corrispettive della sua natura mentale riflessiva ed esatta, da ingegnere quale fu. Tale disposizione meditativa lo piegò alla favola, che è il suo maggiore distintivo e per la quale la parola poetica dialettale si arricchisce di un nuovo genere, contendendo con i migliori favolisti d’italia. de Marco raccoglie l’eredità migliore, per generi e qualità, della poesia dialettale calabrese e l’innova alla luce di una personalità straordinaria e originalissima di uomo e di poeta; può pertanto, a mio avviso, legittimamente entrare a costituire, con pane e Butera, la triade esemplare del primo mezzo secolo.


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CapiTolo iii

il poETa al Suo liBro

in un’edizione delle poesie di Ciardullo è lecito e legittimo premettere, indipendentemente dalla data di composizione, la lirica Dispensata, il commiato del poeta al suo libro. E non soltanto perché è logicamente motivata nell’economia dell’opera, alla maniera del sonetto introduttivo del Canzoniere petrarchesco, ma perché contiene i motivi e la storia della sua poesia, che poi si identificano con quelli della sua vita, e le due direzioni in cui essa si svolge: quella lirica e quella satirico-giocosa. i versi che lo hanno accompagnato nelle gioie e nelle pene, che a lui venivano soli e non chiamati, per i quali nulla mazzata me putìa c˜hicare, ed àmu cumpurtatu ogne turmientu ed avimu zumpatu ogne vallune,

lo lasciano come figli indocili, si portano di lui i segreti e la malinconia: me para ca nun siti c˜c˜ hiù li mie.

Malinconia di poeta, che richiama ad orazio: vertumnun Janunmque, liber, spectare, videris, scilicet ut prostes Sosiorum pumice mundus. odisti claves et grata sigilla pudico, paucis ostendi gemis et communia laudas, non ita nutritus... 1 (Satire, i, 20, 1-5) 1

«Mi pare che tu guardi verso Giano e vertumno, libro mio. Capisco: hai voglia d’essere esposto liscio della pomice dei Sosî; non sopporti più le chiavi e i sigilli graditi al pudico; ti dispiace quell’essere mostrato a pochi e cerchi i luoghi pubblici. Eppure non ti avevo cresciuto così ...».


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la poesia

Ed è suggestiva, pur nella diversità dei termini, questa corrispondenza di sentimenti e questa confessione di paterna malinconia. «non così ti avevo cresciuto», scrive orazio. E Ciardullo: «’nu patre chi... criscia ’nu figliu». Malinconia del poeta romano, che credeva finita, insieme al libro, anche la sua poesia; malinconia del poeta calabrese, che costruì la sua vita sulle ragioni del cuore e parve spesso, per questo, strano e svanito: E’ ’na ciutìa, lu sacciu, è ’na ciutìa, ma de ’ssa capu nostra a menza festa si nne cacciati la cilamparia, mi lu sapiti dire cchi cce resta? Ciutìa! Tutte ciutie sû chille cose duve se misˇca ’ssu pesta de core, chi va trovannu pàmpine de rose e nun se menna mai ’nzin’a chi more.

la seconda direzione di questa Dispensata rinvia all’atmosfera di sognante nostalgia di Davanti a San Guido, nella quale spunta di colpo l’unghia del poeta, la sassata, col «manzonismo degli stenterelli», ovvero a quella di romantico abbandono di Idillio maremmano, che alla maniera della Dispensata si conclude con una inattesa, e per questo più fredda, stoccata: che perseguir con frottole rimate i vigliacchi d’italia e Trissottino,

che par di risentire nel finale ciardulliano: vide si me pò dare turbamientu mo, l’arrancata de ’nu pellizzune!...

Ma non a caso si scomodano orazio e Carducci: si vuol insistere sull’origine colta, anche se perfettamente assorbita, di tutta l’opera letteraria di Ciardullo.


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CapiTolo iv

TrE SiGlE

Tali possono considerarsi i tre componimenti più noti del poeta: C˜ hiac˜c˜ hiarìa, Povariellu, Statti tranquillu, per la loro comune capacità di rendere il senso di tutta l’opera, tanto che l’ultimo di essi diede il titolo alla prima raccolta di versi, nel 1940. pensieri e sentimenti che li nutrono appartengono ai cardini dell’amara filosofia del poeta e si risolvono in motti, che fanno insieme titolo e ritornello, e in forti immagini, che sono lirica e rappresentazione ad un tempo. il primo, C˜ hiac˜c˜ hiarìa, definisce in tre quadri lapidari e in sé conclusi, come tavole di sapienza antica, legate in un trittico di icastica fattura, l’ingannatore abituale, il blanditore facile e infido, personaggio ovunque presente e soprattutto nel mondo della politica, e difatti nacque come satira ad personam, intesa ad un ben noto uomo politico largo di promesse mai mantenute. il personaggio era costruito già nelle prime due strofe attraverso metafore di prezioso realismo paesano: Si lu ciucciu scontricatu vida l’irtu e pullitrìa, nun cce stare ’ncannaccatu, c˜hiac˜c˜ hiarìa. Si la gatta ’e sia vicenza va sˇcamannu ppe lla via ca fa vutu d’astinenza, c˜hiac˜c˜ hiarìa.

la terza, che lo descriveva in senso proprio, si spogliò in seguito del riferimento personale e divenne malinconica riflessione sulla condizione


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la poesia

umana, conferendo a tutto il componimento maggiore unità e più ampio respiro: Si la sorta spaturnata, chi t’ha misu alla stranìa, vene e dice ch’è cangiata, c˜hiac˜c˜ hiarìa.

le immagini vivono soprattutto per la capacità espressiva di alcuni lessemi: «scamannu», «scuntricatu», «’ncannaccatu» e nel forte contrasto della condizione dello «scuntricatu» con quel verbo «pullitrìa» che, intensamente frequentativo del vigore e della contentezza, costruisce la contraria immagine dell’asino dell’abate Conia. Povariellu è una poesia che più si legge meno si consuma, inducendo ad affermare che l’assenso spontaneo a questo componimento, che gioca sulle infinite capacità di una parola, variata dal tono e dall’atteggiamento del parlante, è segno della penetrazione del poeta nella pubblica coscienza, non solo come mondo della filosofia e della simpatia, ma anche come mondo della parola. Strumento in potere di tutti, la parola «povariellu» soccorre chi si trova «’mpappiciatu», chi non arriva a «’nghiermitare» un discorso «ammartinutu»; non compromette, salva sempre: s’un te giova, nun te nocia; ppe la porta e la finestra illa trasa ed è prisente; petrusinu ogni minestra, chi nun custa propriu nente.

Casi esemplari sono attinti alla vita di paese: il disgraziato «accacchiatu ppe llu cuollu», il «cucugnizzu» che passa per grande ingegno, l’amico che ti chiede cosa che custodisci gelosamente, l’innamorato che si aggira nella pioggia dirotta sotto le finestre della bella, l’impiegato che si degna appena di ascoltarti, il fortunato ereditiere di uno zio «scattatu» in america, il lavoratore caduto dalla cima di un pino, il padre di famiglia che ha finalmente terminato di preparare corredo e dote della figlia, la ragazza abbandonata dopo lungo fidanzamento tra lo scorno del paese. Sempre la parola soccorre chi parla o chi ascolta ed esprime, di


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volta in volta, la compassione, la simpatia, il dileggio, la rabbia, l’invidia, il compiacimento, talora più sentimenti insieme e non raramente un generico modo di partecipazione o una pura voce di disimpegno. nel dispiegarsi della filosofia la poesia gioca, come nel precedente componimento e come più si vedrà nel successivo, a schizzare tipi, a costruire bozzetti, come l’innamorato timido passulune passulune ccu la faccia a mammamia,

o l’impiegato sussiegoso chi te guarda stralunatu ccu ’nu labis alla manu, assettatu fore gapu ccu ’nu mussu fattu tantu, e si muòtica la capu, tu cci l’ài de paraguantu; e nun sacciu cchi te vene, e te sienti ’ntra le stacce e ogne tantu fa: _ va bene _ e ’un te guarda mancu ’nfacce...

nel variopinto scenario anche il folclore fa la sua parte, con l’usanza della consegna, da parte dei genitori della sposa, nel giorno delle nozze, del corredo insieme alla dote, in denaro sonante, recata in un cesto ornato e infiorato: ’u curreru preparatu e lla dota allu cistiellu.

Gli esempi si integrano a vicenda, ma una superiore unità avvolge la vasta rassegna ed è il sentimento della compassione, che tutti revoca nel comune doloroso destino attraverso le conclusive gelide metafore: Quannu vena chill’amica ch’è de tutti la patruna e tranquilla nun se ’ntrica de putenza e de fortuna;


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quannu scappa la tagliola chi ppe tutti è preparata, quannu dici: _ addio, viola, ca la fera è già sconcata _, quannu spara la bacchetta ppe chill’urtima partuta, ’na parola t’arricetta: _ povariellu! _ Ed è frunuta.

anche Statti tranquillu entra nel corredo nominalistico della miseria umana, attraverso un’esemplare analisi delle dicotomie sociali, qui stabilite nelle due vaste e varie categorie del bisogno e del potere, nelle loro varie espressioni: da una parte la fame, la malattia, i debiti, l’ignoranza e con essi quanti malanni fondano la dipendenza dell’uomo dall’uomo, dall’altra la ricchezza, l’istruzione, il titolo, il potere politico-amministrativo. alla richiesta, alla supplica, alla disperazione dell’una la risposta dell’altra è frequentemente una spiccia e ingannevole forma di assicurazione: «Statti tranquillu, nun cce pensare!», la quale, se non è nociva nell’intento, contiene un’egoistica difesa della propria tranquillità. la trasfigurazione del pensiero si affida a tre sole immagini: il povero e affamato davanti al ricco, il debitore davanti all’avvocato, il malato davanti al medico, ma il realismo schietto ne moltiplica il significato, creando, talora col sussidio dell’ironia e dell’iperbole, immagini forti: il perseguitato dalla sorte va «sbattiennu cumu ’na trotta», il morente «si la cannìa», la medicina è una «gargarotta» qualunque, l’affanno in terra è «vampa de ’nfiernu», la scarnita gabbia toracica è una «gradiglia», la febbre «cavallìa», il morente sta ’ntra lu liettu giallu, sbiliencu e s’è conzatu chi l’acciomu rimpettu ad illu para ’nu jencu.

una poderosa sintesi pittorica. il gusto scenico realizza, anche in forza del dialogo, bozzetti compiuti, come questo della visita medica, nel quale analisi psicologica e rappresentazione esterna gareggiano e si compongono: vena lu miedicu, trasa, s’assetta, doppu lu tasta cumu cumbene, ’na gargarotta pue l’arrizetta


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e carmu carmu dice: _ va bene! _ _va bene? E allura, _ fa la famiglia _ cchi è ssa freve chi cavallìa? Se cuntû l’ossa, me ’cchi gradiglia, tuttu lu jurnu fa ’n’agonia; parreme chiaru, se pò sarvare? _ _ Statti tranquillu, nun cce pensare! _

poi il poeta raccoglie gli esiti e il senso delle vicende descritte: il pianto dei vinti, la tranquilla pace dei vincitori dell’ora, ma il sorriso melanconico cede, di verso in verso, all’ira e allo sdegno, che esplodono aperti nei versi finali: pue lu scunc˜hiutu more o se stanca e lu malatu si la cannìa; l’autru, ccu causa sicura e franca, resta a derittu ’mmienzu ’na via. Sì, ma lu mièdicu, ma l’avucatu, ma l’autru granne, granne segnure, restano sempre, fore peccatu gente de stima, gente d’onure!... Gente chi sempre sa navicare.... _ Statti tranquillu... nun cce pensare! _ .


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CapiTolo v

i poEMETTi liriCi

due poemetti, ’A castagna e Jennaru, l’uno e l’altro in sestine di endecasillabi, sono ampiamente rappresentativi dei caratteri della lirica ciardulliana. ’A castagna ha una struttura meditata e ben composta, risultando di parti ben delimitabili, ma non giustapposte, anzi nascenti l’una dall’altra per spontaneo invito e prestito della fantasia. Si apre col canto del quieto ottobre, del quale mese il poeta rende l’atmosfera incerta e vaga: Mise d’ottobre, misiciellu quietu, li jurni mienzi chiari e mienzi scuri! Fa friddu o non fa friddu? è ’nu secretu! Se vaû trovannu l’assulic˜c˜hiaturi. l’erba vascia la capu, ed alla bona, ogne vallune, ’ntra ssu mise, sona.

l’attenzione si volge ai colori e alle forme di vita: le greggi che scendono dai monti, il tino colmo, gli ultimi pampini rosseggianti, il fico pronto per le varie acconciature («palluni», «jette», «crucettelle») e, nel tutto, il trionfo della castagna nelle sue varietà: ’nzigna la castagnella prumentìa, lu primu rizziciellu apre la vucca. ... pue, c˜hianu c˜hianu, dunû tutti quanti, mussi, cucchiari, riggiole, gallanti.

Canto della povertà e del lavoro, nella descrizione della fatica e della


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poemetti lirici

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gioia della raccolta, donde emerge un esterno che non è soltanto un piccolo gioiello pittorico, ma un dépliant amoroso della conca del poeta: Spunta lu sule e t’azi la matina, te lavi l’uocchi e rapi la finestra e tu vide de virde ’na curtina chi ppe tuttu lu munte se sbalestra! E virde è la vallata tutta quanta, e la jumara, queta queta, canta.

lo sguardo del poeta scopre nel verde i paesi, i casali cosentini; l’amore del luogo li abbraccia tutti insieme in cordiale solidarietà, li rende, con bella similitudine, bianchi emergenti monumenti: li paisielli nuostri, tutti quanti, tutti ’ntra le castagne sû conzati! parû pani de zùccaru giganti supra ’nu pannu virde riposati...

la memoria georgico-bucolica suggerisce dovizia d’immagini: le piche «s’adòvano» tra i rami, il pastore si ricava lo zufolo da un «tac˜c˜ hiu peraluru», le «fragulic˜c˜ hie» anticipano i frutti autunnali, mentre il castagno nutre la foglia e il riccio, fino alla gloria del frutto, al suo donarsi generoso: «rusella», «filaru», «pistilluzzu». la gioia del povero arma la mano del poeta, con la sassata al ricco, che quella gioia non conosce, anzi disdegna in nome di una civiltà raffinata, che è nemica della natura e inganna se stessa anche con la pompa della parola: è gran cosa ppe nue povera gente, lu riccu, lu signure, nun cce tira; la degusta allu spissu, veramente, ’ntra la vitrina e la paga ’na lira... è ’na castagna e mancu de le bone..., però è ’ncartata e se chiama marrone!...

nasce dal contrasto il canto del focolare, col ceppo, la famiglia raccolta e la varia gioia dell’umile frutto: E llà, ’na vampa, ’ntra lu focularu, e la famiglia ’ntuornu tutta quanta; lu cippu frija e piglia paru paru,


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la poesia

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la vampa bella joculìa e canta, ed ogneduno ch’à pigliatu luocu spizza castagne e jetta ’ntra lu fuocu.

il poeta indugia commosso su quest’interno di pace: appeso alla «camarra», il «quadaruottu… quacquaria ppe la vallonata»; il padre attizza, la madre infila «tortigliuni», e scoppi di castagne, giochi («a casti») e vocio di bimbi. E da quella luce di fiamma emergono, con piglio petrarchesco, le ricordanze: la fanciullezza felice, le lunghe avventurose arrampicate, la madre che «à piersu l’uocchi a cùsere sciguni», la sorte avversa e il rassegnato dolore: Quantu tiempu de tannu ch’è passatu e ’un àju vistu c˜c˜ hiù ’nu jurnu chiaru... lu destinu ccu mie si cc’è spassatu, m’ha subbernatu ccu tuossicu amaru; m’ha sterratu la jemma e llu pitignu... si cc’è misu all’ammazzu, e ccu ’nu ’mpignu!...

Quando Ciardullo scrive questi versi, ha maturato gran tratto di vita, ha conosciuto in crescendo le delusioni, i disagi, i dolori, la morte. il sentimento con cui egli rivive le sue vicende non è la protesta, il grido, l’accusa, ma la malinconica coscienza di una lotta perduta, di una forza più grande, che trattiene la parola dal tenerume sentimentale e tuttavia la compone, nonostante vibranti colori («perrupatu», «vrusciatu», «discienzu», «tuossicu», «truonu»), in un tono di dominante dolcezza, che si spegne in questa sorta di epigrafe: nun cce pensamu c˜c˜ hiù, nun sia ppe dittu, alla pampina mia chissu era scrittu!...

ove la metafora della foglia, «’a pampina», attinta al vocabolario naturalistico del popolo, è più forte del «libro» dei colti. il medesimo tono pervade anche le strofe conclusive, con i voti accorati di un ritorno al mondo fanciullo: aneliti del cuore «povariellu», che non sono pastorellerie e arcadia, ma bisogno di quiete («n’ura d’abbientu»), come il desiderio di solitudine («le genti luntane tutte quante») non è disdegno o rinunzia, ma lirica denunzia di un mondo assediato dai mali e polemica affermazione di bontà e di giustizia. il poemetto, nella sua ricchezza di elementi concettuali e stilistici, si


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caratterizza anche, e lo si è visto attraverso sia pur poche note, come documento della poesia del paesaggio e dell’intimità familiare, che sono tra le componenti più vive dell’opera di Ciardullo. a petto della ricchezza tematica di ’A castagna, il poemetto Jennaru resta su una corda sola, ma il poeta ne deriva una melodia varia. Qui egli ha esteso il tema folclorico della religione degli animali domestici di maggiore utilità, aggiungendo a quelli tradizionali della poesia popolare, l’asino e la gallina, il porco, l’altro antico signore delle case povere, il qual recupero folclorico non è meno importante della creazione poetica. l’asino era conclamato nella omonima diffusissima canzone popolare, che trova il suo momento più espressivo nella confessione, da parte dell’autore, che la morte della moglie non gli ha recato sì vivo dolore come quella della bestia. la gallina era stata fatta oggetto di un epicedio liriconarrativo, pur esso anonimo, nel quale alla storia della vecchia che perde la sua gallina e trova «li pinni e la carne mangiata» segue un compianto costruito sull’iperbole, che eleva l’umile bestia a rango di ricchezza e nobiltà: Si la gallina mia volìa vìnniri, ’a principissa mi dava lu statu. de ova e pullicini chi facìa iu nni tenìi ’mprantiedi ’na citati. ’nu juornu mi morìu ’nu pulicinu, cci fici cincucientu suppressati; ’u cori lu mannài alla rigina, ’u ficatiellu allu mastru juratu, ’i stintinielli a tutti li vicini, cci fici ricriari l’affamati1.

il maiale era stato elevato a dignità dalla poesia in latino, in un poemetto, Sypolis («la città dei maiali»), come l’autore, niccolò perrone (Mormanno, 1819 - napoli, 1888) chiama la sua Mormanno, e collocato in gloria, con un distico epigrafico, al centro della casa: Susque domi potior, coniux venit inde secunda, 1

il componimento è leggibile in gran parte in l. accattatis, Vocabolario del dialetto calabrese, cit., alla voce «satura»; in altra versione (dialetto di nicastro) è riportato da r. lombardi Satriani in Canti popolari calabresi, vol. iii, napoli 1932, pp. 314-15.


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virque, cubans, medius inter utrumque iacet!2

Ma la poesia in dialetto non l’aveva ancora degnato di tanto. Ciardullo l’eleva a religione, collocandolo al centro della casa. l’ingresso del poemetto è coloritamente ambientale: fuori, freddo e tramontana; nella povera casa, un buon letto, un fuoco «sˇcattiente e joculanu», una pignata chi «vulla a ’nu spicune», un fiasco da baciare «allu spissu» e pane di buon grano: ligna de cerza e pane de carusa, viata chilla casa duve s’usa!

Ma il gran dono di gennaio è il porco, ... gioia, ricchizza d’ogne casa, grannizza vera, pumpusia frunuta!

il poeta si tuffa con sì acceso gusto nella festa, si abbandona ad una sì gioiosa e minuta e compiaciuta descrizione dei modi e delle forme del conciarlo e dell’assaporarlo, che la poesia gioca col gusto e il lessico, come al solito, la segue docile, prestandole immagini e colori, tenerezza e malinconia. una nomenclatura precisa e giocosa sottolinea i sapori: «filiettu», «frittole», «fragagliella» («duve te cali cali te recrii!»). Ma ecco con quale raffinata sottigliezza, aggraziata, al solito, dal diminutivo, il poeta segue le scelte, le caratteristiche, le qualità: ’a frittulilla è grassa! E cce ’nsapuri! Ccu llu curijellu ti cce fai la vucca! Ccu lle palette e ccu lli vattituri chiuri le chiavi e ’ncasi la pirucca! pue la ’ntecuzza ccu lla ’nzalatella!... Cchi bàrsamu chi sû, cchi cosa bella!

E nel mezzo di questo trionfo della gola e degli occhi spunta, come nel precedente poemetto, la frecciata, la rivalsa del povero, che consente al poeta di schizzare rapidissimamente macchiette e caricature, con lo strumento di lessemi intensamente allusivi e l’ausilio del bilinguismo,

2

«in casa viene prima il porco, seconda la moglie, e il marito, quando si corica, sta tra l’uno e l’altra». Gli scritti di perrone sono stati , raccolti e pubblicati per cura del tipografo Michele de rubertis (n. perrone, Scritti vari, napoli 1882-86).


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che serve a caricare i tratti ridevoli dell’aristocratico sdegnato: E dire ca cce sû ssi munni munni certi scangierri, o dio, ’nsignurinati, surc˜hiati, ’mbrillicati, filiunni, chi storciû l’uocchi e farû li stuffati: _ Cibo pac˜c˜ hiano, oh, dio, per carità, come si mangia, via, come si fa!

l’aggancio sintattico iniziale e tutto l’andamento discorsivo rinviano a orazio, a quel luogo della Satira dello scontento umano in cui egli rappresenta la resistenza e le obiezioni di molti al suo consiglio di moderazione: at bona pars hominum, decepta cupidine falsa, - nil satis est - inquit...3 (i, 1, 62 e segg.)

E c’è rispondenza nelle due repliche, anche se quella di orazio è sprezzantemente spiccia: Quid facias illi! Jubeas miserum esse,4

mentre quella di Ciardullo si effonde nei termini e nei modi del dileggio: ah! Chi ve vuolû fare alli jimbielli, malanova v’accuc˜ c˜ hi, mienzi spiti! Cche vi pranzate voi? latte d’aggielli?! E già, ppe chissu siti culuriti, fore maluocchiu, cumu la jinostra!... Cibo pac˜ c˜ hiano? ih! Malanova vostra!

Qui la cultura popolare fa capolino con ben quattro numeri del corredo di imprecazioni e scongiuri, perfettamente assorbiti, si noti, nella personalità dello stile, e insieme con l’arguzia irridente, che fa il verso al linguaggio colto. a parte il piglio oraziano, è notevole come lo sdegno sia riscattato dalla gioia e dalla grazia oltre che dal già sottolineato lessico dell’imper-

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«Eppure buona parte degli uomini, ingannata da falso piacere, dice: -niente è sufficiente ...- ». «Che cosa gli vai a fare? lascialo alla sua miseria!».


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tinenza. Ma, dicevo, anche malinconia: malinconia del povero poeta, al quale non è concesso neppure quello che è concesso al contadino e al pastore: io, povaromu, ancora mignu vientu. lu purcelluzzu mio ciglia alla rina. E ’ntra lu core ’nu scunsulamientu me sientu e sbattû stomacu e stentina...

la satira sociale qui investe lo stesso poeta. il tema non è nuovo e rinvia, ad esempio, ad ipponatte5, a Cecco angiolieri6, con enorme distanza sul piano dell’umanità e su quello della poesia, perché, ove la loro umanità povera e bizzarra si afferra al lamento, all’irrisione e alla furia, Ciardullo poeta si distacca dalla sua stessa rassegnazione e ne fa malinconico oggetto di canto: a vue lu cuntu! è voce perrupata... Ma nun fa nente, cantu ’a serenata.

due poemetti, dunque, di notevole valore, i quali per la ricchezza e la varietà degli elementi che li caratterizzano, per quanto l’analisi ha fornito, appartengono non solo alla poesia, ma anche, e intensamente, al lessico e al folclore.

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Cfr., ad esempio, le violente doglianze contro pluto, dio della ricchezza, e contro Mercurio, dio dei ladri. 6 Cfr., tra l’altro, il sonetto Tre cose solamente m’ènno’in grado.


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CapiTolo vi

lE «SToriE»

la novellistica poetica, corrispondente alle «storie» raccontate dai grandi ai piccoli a scopo di ammaestramento, non è rara nella produzione dialettale e trova il suo capolavoro nel componimento La notte di Natale di vincenzo padula, che della «storia» ha l’esordio: E ’na vota, e mo v’a cuntu ’e dicembri era ’na sira.

e la chiusa: Ed iu, bellu cotraru […] e iesullu mi dezi ’na curuna.

Ciardullo ha scritto sullo stesso modulo due componimenti: Cumpari e ’A pignata. il primo entra nella narrazione senza premesse, ma ha alcune movenze interne caratteristiche del narrare popolare, come queste : .... Ma , vota paggina!... Cumpari Carru... .... E Micu? Micu, paccunïatu... .... vinne iennaru, vinne. la vota.... .... Sputa ca ’ndùmina.vinne lu juovi.... .... piglia va’ ’ndumina mo cchi pensava!... .... aviti vistu ’nu ficu granne ....


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la poesia

e la chiusa perfettamente in carattere: Sacciu ssa storia si v’è piaciuta . Si fici ’nciàmpicu, si fici sgarru, via perdunàtime, tantu è frunuta ...

il secondo presenta nette la premessa: Si ve stati ’ngnilla attientu io ve cuntu ’na passata ....,

e la chiusa: E chiudiennu: ohi quatrarielli, si ve cuntû cose ciote, ’nciarmi, ’ncanti, farfarielli, rotacini, girivote, ve stia ’mmente la passata de la povera pignata!...

e altre movenze interne del tipo già rilevato: «Foze sciuollu?.... Foze cosa?», «Bum! è rutta la pignata!». ambedue hanno del narrato popolare la cura del particolare minuto, quello che più riesce a catturare l’attenzione degli ascoltatori, a determinare l’atmosfera sospesa, a prolungare l’attesa. ambedue usano la sestina, la strofa della narrazione, degli argomenti leggeri, scherzosi, ma la diversa dimensione del verso, il doppio quinario, più solenne e romantico, nel primo, e l’ottonario, più comune e andante, nel secondo, testimonia, pur nella medesima finalità dell’ammaestramento, la diversa dimensione delle due «storie» sul piano poetico e nella coscienza stessa del poeta. Cumpari è la storia d’una falsa amicizia, di quelle che luccicano nella prosperità e si tradiscono nel bisogno. Carru e Micu sono compari per la pelle, eguali in tutto, come fatti «’ntra ’na pallera», «pignata e manicu, pasta e majilla», «jemme de miennula, vôi de nu carru». non un contrasto, uno screzio; non c’è cosa che l’uno goda, le trote pescate fresche, le ricotte «vergini» della Sila, le prime ciliegie, le prime fragole maturate «’ntra lu stravientu», l’insalata nuova dell’orto, senza farne parte all’altro. non c’è segreto dell’uno per l’altro, non c’è cosa importante che uno fac-


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«storie»

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cia senza consultare l’altro. nel momento, poi, dell’uccisione del maiale parte dall’uno per l’altro un ricchissimo «ratu»: Quannu ammazzavanu partìa ’nu ratu chi, foraffàscinu, nun se potìa: filiettu, ficatu, panza, salatu, medulla, mièvuza; ’na zumpunia! Fragaglie, ruòsuli, costa, prisuttu, tuttu alla libera, ve dicu tuttu.

Micu proclama spesso che per il compare si sarebbe cavato il sangue: mai visto sotto il sole un accordo simile, «’nu Sangiuvanni cchiù ammartinatu». Ma in un’annata «strèuza» «Carru patìu ’na ’ncutta»: qualche affare gli va male, i covoni si bruciano, le bestie muoiono di malattia, la ricca casa precipita. Gli amici, «gente de core», commentano la disgrazia a furia di «povariellu»! Micu si sbraccia a proclamare il suo dolore, ma si tiene al largo. la vigliaccheria ipocrita, anzi, cerca giustificazione nella considerazione della maldestra condotta dell’altro: povaru Carru, cchi rotalupu!... mi nn’escia l’anima! sciuollu, cchi vulu! Ma ... lingua tènete... ’ntra lu perrupu, nun sia ppe critica, cc’è jutu sulu!... ’Ss’urtimi tiempi, segnure dio, vue cchi sapiti? lu sacciu io!...

Ed è una viltà insidiosa, perché indica pubblicamente in lui un rischio di compromesso e di rovina anche per chi gli si accosta: Ma cchi cce fazzu? li cuosti sani si vo’ mantènere gira de fore!... Ca si t’arrìsichi ’ntra chillu scuru, nun cce vò zìngaru ... te sturci puru !...

E se lo incontra, lamenta disagi, mostra le tasche vuote e via per la sua strada. Con la miseria, il porcile di Carru è vuoto; Micu invece ha allevato tri purcelluzzi chi benedica parìanu ciucci, pinti e criati.


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la poesia

E sia Minichella, la moglie di Carru, si consola al pensiero che ci sarà almeno il solito «ratu». Giunge il mattino del grande evento, che il narratore descrive con piglio epico, fornendo uno dei suoi straordinari momenti di cultura folclorica: Mièrcuri quinnici, ’mprima matina: jurnata fridda, jurnata chiara! Cchi granne fuocu ’ntra la cucina ppe fare vùllere chilla quadara! ogne persuna ’nfaccenniava: tutti ’nserciziu!... Micu ammazzava!...

Minichella sente la prima «granne grirata” e sveglia il marito. il loro dialogo, che oppone l’ingenua speranza alla sofferta esperienza, registrato nei penetrali della casa, fa documento sottile di umanità, ma anche pezzo di bravura, ove il poeta è tutt’uno con l’uomo di teatro: _ Senta cchi sguilli! _ Già. _ nne levamu? _ picchì? - ppe ... propriu, l’ura è avanzata! _ Carru’, ’sti journi nun spachiamu... accuordi? _ io? Sempre, sacciu si dicu... basta c’accorda cumpari Micu... _ Cchi? _ nente, dìcia. _ domani è juovi; àju accuc˜ c˜ hiatu nove ovicella... cce sî arrivatu?... _ Si nun te muovi ... _ dumani cc’escia ’na purpettella..., carne de puorcu, bella adacciata... _ Miniche’, sènteme, fa’ ’na frittata

E difatti passano le ore, il «ratu» non arriva, non arriva neppure l’invito per le «frittole» del sabato. arriva, invece, sulle lacrime di sia Minichella la lieta notizia: le castagne sono state vendute; la Compagnia d’assicurazione paga il danno del grano; un debitore insolvente paga il suo debito. Cumpari Carru «rimprosperàu»: torna in casa l’abbondanza, il porcile si ripopola di quattro «rivuoti», uno dei quali, il più promettente e grande divoratore, si merita il nome prezioso di Curallo. il più contento della ripresa è, «se ’ntenna», Micu, che si sbraccia a gridare ai quattro venti: _ Cumpari Carru! duv’era scrittu? chillu là è ’n’uomine veru, derittu.


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n’àutru cce fuossi tuttu appillatu, ma no Carrucciu, Segnure dio! Chillu è ’na pinna, ’nu ’ngalapatu! ne tena sienzi! lu sacciu io!...

E una mattina, d’improvviso, rieccolo a casa del compare, a sbracciarsi in complimenti e profferte di stima; riecco, quando ammazza il maiale, il «ratu» antico. lo reca la serva, per l’occasione adeguatamente «’mpipirinata». E qui un altro saggio di poesia-teatro: _ Tuppitù. _ Trase, gioia. _ don Micu, me’, v’à mannatu n’arrusticiellu! _ Buonu venutu cumpari amicu... no!...nun lu spùnere cca ssu cistiellu! àje pacienza, gioia, ursulilla, _ vieni! _ E lla porta ppe ’na scalilla...

fino alla «vota», e là «muorsu ppe muorsu», «fella ppe fella», getta quella carne ai porci. «’ncilampicata» la serva, come «ciota» Menichella, sdegnato Franciscuzzo, il figlio: _ E mera, e guarda, cchi sacrileggiu! Carne alli puorci? Grazia de dio, pecchì ssu sciuollu, pecchì ssu sfreggiu?

E Carru spiega: _ va’, sî cilàmpicu, sî ciarciagallu! Chillu, parrìnuta, stima a Curallo! pecchì cced’illu, stannu à mannatu tutta sta robba, lu miu cumpari! Curallo accetta, tuttu ’nfiammatu, Curallo ’ntennere sa chissi affari! Jamu, ursulilla, chissa è la sporta : va’, figlia, sbrigate, va’ cci la porta!

la conclusione assolve, col trionfo del buono, l’intento pedagogico connesso al modulo della narrazione popolare. Questa è la storia, fatta di malinconia, di rabbia, di tenerezza. il com-


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la poesia

ponimento, del quale fu fatta rilevare al poeta dall’amico Fausto Gullo una certa insistenza narrativa, fa proprio leva su questo canto diffuso per esercitare la sua forza, perché è veramente la grande prova del cammino compiuto dal poeta nella conoscenza dell’uomo e della sua capacità di seguire e sciogliere una vicenda esteriormente semplice, ma aggrovigliata nei moti interiori. la favola di Micu, che tradisce il legame sacro quando arriva la «zinzulusa», e di Carru, che aspetta l’altra «votata» per rifarsi, ha certamente appigli precisi in storie comuni, dell’esperienza del poeta, e anche il senso di una storia di sempre e allegorie particolari connesse alla principale, e forse anche l’amaro di vicende sofferte, congettura avvalorata dall’accenno che il poeta fa alle sue personali condizioni di bisogno: e chine scriva mo ‘ssi Cumpari cuomu, disgrazia! cuomu lu sari!...

e viceversa dalla dedica del componimento, in un’aperta affermazione ideale, all’amico del cuore: «a Totonno Chiappetta ispiratore, il più vero e maggiore cumpari Carru che io abbia visto filosoficamente circolare». Ma voi vi scordate l’allegoria e non vedete neppure lo spiacevole della storia, intenti come siete alla favola bella, a questo contastorie che snoda gli eventi secondo un procedere quasi obbligato, tanto la natura li porta così, e li attinge quasi da lontananze, da favole eterne. Se si volessero scegliere, oltre le spigolature già tentate, dei fulcri psicologici e lirici, si potrebbe seguire la reciproca gara di cortesie tra i due compari, così minuta e fine nelle premesse, nello svolgimento, direi nell’acconciatura, e ci si accorge anche che quel «distratto» del poeta, senza abbandonare i suoi personaggi, si è tuttavia concesso un cantuccio suo, una parentesi lirica di beato godimento della natura: Quannu ad aprile, prumintiella, de surcu a surcu, mo cca mo llari se ’mbrocculava la ’nzalatella, la prima troppa ppe llu cumpari, cogliuta tenera, ’mprima matina, granzilliannu ppe ll’acquatina.

Ed ecco al suo culmine il dramma di Menichella, che non è quello della povertà, ma dell’umiliazione per lo sgarro, e perciò tra dolore e rabbia, che la parola e l’immagine in concorrenza rendono appieno, scolpi-


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te soprattutto da due epiteti che in sapiente chiasmo aprono e chiudono la strofa: _ puorcu, brigante! no ppe llu ratu, _ sugliuzziava sia Minichella _ ma ppe llu trattu! Ti nn’à mangiatu ropa a ssa tavula! Com’era bella!.... nne facie squìcciuli! Me parìe n’uorcu... e nue: _ Te, onùrane! _ Brigante! puorcu!

nelle brevi, ma intense dimensioni in cui il poeta l’ha collocato, questo personaggio si riscatta dal suo ruolo secondario e balza di prepotenza, per i risvolti che ne rappresenta, per la funzione che vi esercita, al centro della storia. per i due protagonisti il poeta non risparmia colori, volendo contemporaneamente rappresentare due mondi morali contrapposti, capaci di catturare nel giusto verso la simpatia o la condanna del lettore, e insieme due persone vive. un criterio di scelta dei momenti dell’anima di Micu, fra tutti quelli che egli vi coglie in atteggiamenti, schivate, finzioni, falsa pietà, e della saggia fortezza di Carru potrebbe suggerire queste sestine, ove giocano nelle parole, nei gesti, nel portamento dell’uno la finzione e la viltà, nel moto del labbro dell’altro la fede del giusto e un mondo chiaro e coerente di pensieri: _ Cumpa’, se passû certi mumienti... nun te po’ fare mancu la spisa! âmu perduti li sentimienti... avimu ’ncuollu cani de prisa! Me’, àju tri nìchili! simu vulluti. Cumpa’, permìtteme. Tanti saluti! _ E canniava lu granne marru! si la squagliava, pue, tisu tisu! restava sulu cumpari Carru... facìa tranquillu ’nu pizzu a risu; ’nu labbriciellu se muzzicava... piglia e va’ ’ndumina mo cchi pensava!

Situazione di petto a petto, che il poeta accentua col lessico: «canniava», «tisu tisu», «labbriciellu», «pizzu a risu», e che riprende nel secondo tempo della vicenda con un eguale gioco del sentimento e del linguaggio:


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E ’na matina, cumu si nente, Carru lu vitte dintra la casa: _ Cumpa’, vurpignu!... la mala gente mo pò crepare!... la vuce è spasa! Foze ’nu suonnu... Jìu de carrera! Cumpa’, e salùtame! Sempre bannera! _ Grazie, Cumpari, lu sacciu buonu ca tieni ’n’animu, ’n’animu granne; tieni ’nu core quantu ’nu truonu, de tie se parra sse banne banne; e stamatina chi sî trasutu ssa casa luce: buonuvenutu!

altri strumenti fornisce al poeta il suo mondo di cultura. una spia rilevante è nella similitudine, di antica e varia scuola per la sua fattura, ma di immagini del mondo contadino, nella quale egli assomiglia Carru, col suo cadere e col suo risorgere, a un fico gigante, che un vento maligno spezza, stendendo a terra tronco e cime e che pare morto del tutto, ma a primavera de sutta terra, duve c’è sempre lu raricune, chi quannu èd illu, mai nun se sterra, tutt’a ’na vota fa ’nu jettune; pue ’n’àutru e ’nn’àutru ti nn’affaloppa, e forte e nìvura criscia e s’attroppa.

altrove emerge ad un’analisi attenta la memoria letteraria nella rappresentazione della sventura, la «zinzulusa» del popolo, col suo carico di mali e la sua capacità e di espansione e di crescita: Ma quannu ’nzigna la zinzulusa nun trova requie si nun t’arriva! Mo ccu ’na storia mo ccu ’na scusa te lazzarìadi la carne viva; e cumu l’èrrama trova la via ppe te distruggere, Madonna mia! è ’n’umbra nìvura chi t’accumpagna, dio ti nne libberi, duve vai vai! Cumu la pìvula ’ntra la campagna


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la sienti c˜ hiangere ... duv’è nun sai!... E’ ’na disgrazia, ’na jettatura, ’na serpa nìvura chi te ’mpastura! E llu scunc˜ hîutu chi piglia ’mpinnu ti lu fa sprèjere pilu su pilu! ˜ c˜ hiù va c˜ c˜ hiù ’ntruòppica, c˜ c˜ hiù sta c˜ c˜ hiù scinna, C nulla ne ’ng˜ hièrmita, mai ’nfiglia filu.

Evidente come la memoria corra dal classico al contemporaneo, dalla virgiliana descrizione della Fama all’opera lirica rossiniana, con l’eco dell’aria La calunnia, che si fa più precisa nell’attacco della terza strofa. Ma la memoria è perfettamente assorbita nel linguaggio originale e creativo, tutto dettato da immagini naturalistiche («pìvula», «campagna», «serpa», «’ntruòppica», «’nghièrmita») e da un costante vocabolario della sventura, quasi autobiografico («lazzarìadi», «èrrama», «umbra», «chîàngere», scunchîutu», «sprèjere»); e la si registra solo per fedeltà alla vena del discorso che vado conducendo sulla memoria colta nella poesia di Ciardullo. Questo componimento dovette essere particolarmente caro all’autore, se egli, a testimonianza dei figli, lo scrisse direttamente, mentre per solito dettava ad altri. difatti i brevi richiami che ho usato attestano quanto se ne sia compiaciuto e con quale sottile gioco abbia accarezzato i suoi personaggi, realizzando momenti e caratteri assimilabili alle migliori creazione del suo teatro. ’A Pignata, se nella forma è «storia», è anche il poema eroicomico degl’idola, delle superstizioni, delle paure, delle viltà, che scava con strumenti sottili nel fondo delle umane miserie, facendo intervenire ancora il porco, uno dei grandi protagonisti della poesia di Ciardullo, a sciogliere con un’azione da tregenda il segreto precluso agli uomini ignoranti. nella «vòta» di una ricca casa giace abbandonata da tempo una pentola, verniciata all’esterno, con la bocca chiusa da sette sigilli, ornati di tre pistole e due fucili, e la scritta: «dintra cca cc’è ’nu secretu; dintra cca cc’è ’nu pripuostu. Chine caccia quietu quietu li sigilli de ‘ssu puostu, à de avire fermu core, ca sinnò cce aggranca e more!»...


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la poesia

più volte il padrone, la padrona, i figli, nella speranza del tesoro, hanno avuto la tentazione di romperla, ma la paura ha vinto; lo ha tentato anche la povera serva, ma la «pannula», levata in aria per il colpo, le è rimasta in mano. dal gran concorso di visitatori s’era fatta ’nu simburcu chilla povera pignata! amminazzi a mille e a cientu, ma alli fatti sulu vientu!

Ed ecco, la sera di un venerdì, giorno canonico del mercato, il padrone reca da Cosenza un porcello, ’nu rivuotu cignariellu ccu ’na pilatura janca: smunnulatu, pannariellu, ccu lla cura a manu manca, ’na bellizza, sularinu,

e ne mostra e ne loda i garretti, che bene promettono per la crescita e per la provvista dell’annata. Ma ciò dicendo, lo tocca inavvertitamente con la piccola frusta che ha in mano. Qual terremoto! chillu puorcu se ’ncurilla, ’ngrigna, zumpa, arruzza, scasa e se ’nzacca ’ntra la casa!...

dall’entrata all’anticamera, alla camera da pranzo, alla camera da letto, travolge tutto quello in cui s’intoppa; nella cucina rovescia la pentola che bolle, poi con un salto «se ’nzacca ’ntra lu vagliu». Tutta la famiglia appresso: salta il muretto di cinta, sbaraglia il pollame, poi con improvvisa inversione «se ’nzacca ’ntra la vòta»; si «’mbroglia» con un secchio, con un vecchio cassettone; ancora un salto incomposto: «bum! è rutta la pignata...» Tutti esterrefatti, tremebunne, senza jatu, facce a terra latu a latu;

invocazioni alla vergine e ai Santi; ed ecco un colpo improvviso ed una voce:


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_ Stati citu, siti muorti. Signu patre Franfilliccu, chi la notte giru l’uorti e a le case pue me ficcu; ’nzin’a mo fui carceratu, mo m’aviti liberatu; e v’abbrancu mo, e ve piscu e ve ragu a lli perfunni...

Momenti di terrore: ancora minacce di là, di qua invocazioni e scongiuri; poi un altro colpo «allu poveru casciune» e una risata di Franciscu il garzone: è lui l’autore dello scherzo. Stupore e stizza dei presenti e qualche non gentile frizzata della moglie all’indirizzo del colpevole marito. la pentola si è fatta a tre pezzi: vuota. E pped anni ed anni ed anni chilla povera pignata avia datu tanti affanni, grisa sempre e rispettata: e pecchì? lu dittu canta: c’a pagura fa novanta.

Tra le superstiziose fonti della paura umana il poeta ricorda i fantasmi, il malocchio, le magie e simili insanità, per dire che sû ciotìe de mente storta chi nun capû de ’na porta.

E questa è la morale della storia, in tutta armonia con la mente pedagogica di Ciardullo, che qui si vuol esercitare nei riguardi dell’uomo singolo e del popolo tutto, indicando nella paura l’origine di tanti condizionamenti che giovano, semmai, solo a chi ha interesse di diffonderla e tenerla viva. la storia si muove con grazia e brio nel genere della beffa, caro al poeta, che vi ha costruito anche le due farse che di lui ci sono rimaste: Fratellanza nofriana e Quarantottu ’u muortu chi parra. la poesia, viva nella descrizione dei vari tentativi di aggredire la pentola, trova il culmine in quella delle gesta del porco, delle quali la parola rende, col piglio eroico


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la poesia

e con un climax continuato, il frenetico complicarsi, l’atmosfera di trambusto e di terrore ossessivo. Ma Ciardullo vuole anche conciliare con lo scherzo la memoria colta, il che fa nel paragone dell’esterrefatta famiglia con le rane atterrite dalla caduta del Travicello nel pantano. il re, nel Giusti «cascato da dio», viene così tradotto: cumu quannu lu supranu arringàu ppe re de Bullu ’nu tijillu allu pantanu;

e ove Giusti scrive: al sommo dell’acque rimase bel bello il re Travicello,

Ciardullo traduce: lu tijillu soru soru nachïava,

mentre alla paternalistica esortazione lasciate il reame, o bestie che siete, a un re di legname

sostituisce una considerazione parentetica, che traduce nello scherzo una nota di alto rilievo politico: veru re _ viatu ad illu _ facìa fare e ’un pipitava.

donde appare anche quanto il dialetto, ma dico il dialetto di Ciardullo, può esaltare il pensiero e il personaggio. il limite del componimento è nella insistenza moraleggiante, che introduce nella stessa morale codificata della favola elementi allotri, del tutto avventizi: io alle mamme chi alli fili


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dicû: _ Me’, lu mammarutu! _, le rumpèra tri verpili alle coste ogne minutu, le striglièra ccu l’ordiche ca ’un sû mamme, sû nimiche!

il che, parlando direttamente alle madri, benché assai brutto, potrebbe non guastare troppo, ma detto ai figli, ai quali lo scherzo è dedicato in epigrafe («passarella ppe criature») e ai quali il poeta si rivolge direttamente («oi quatrarielli») proprio in questo luogo del componimento, torna per lo meno improprio e stonato, chiamando ulteriormente e direttamente in causa la mancanza di revisione e la facilità di scrittura.


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CapiTolo vii

la SaTira poliTiCa

la satira politica in dialetto conta non molti documenti, ma tutti, in varia misura, validi come pietra di paragone con quella in lingua. di ben maggiore rilevanza artistica sono le due satire scritte in periodo fascista, Allu ruonzu de Muscelle e L’attentatu, nelle quali, per la novità della rappresentazione e il movimento del dialogo, la satira si fa teatro. la prima, che data 1922, ha come destinatario il giornalista fascista nel suo linguaggio sboccato e violento. la seconda, scritta nel 1924, dopo l’attentato a Mussolini, fu pubblicata dopo la caduta del fascismo. nell’una e nell’altra i protagonisti veri, quelli ai quali vanno gli occhi e il cuore del poeta, sono le donne del paese, che commentano i fatti o danno motivo alla sua riflessione e che egli muove in una pittura compiuta di caratteri e di ambienti, sicché i destinatari della satira diventano soltanto pretesti e strumenti della pittura e si realizzano due intenti insieme: quello della satira e quello della poesia. nella prima, Allu ruonzu de Muscelle, il bozzetto, straordinariamente movimentato, sta tra un prologo scenico e il commento del poeta. lo scenario è la valle del Cardone con una delle tante pozze d’acqua («ruonzi») frequentate dalle lavandaie. lì la natura pettegola, mordace, attaccabrighe delle donne ne manca una ad ogni istante: Strica, sbatte e sapunìa tutta quanta la jurnata; mo sû tutte n’armunìa, mo se faû ’na ’ncarpinata.

Così, un giorno le parole volano grosse, con minacce di vie di fatto,


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- la satira politica

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tra Filumena de Sˇcamune e Concetta Mazzicune per una «zeppula ammasˇcante», cioè una battuta ad effetto lanciata dalla seconda. nella zuffa verbale il lessico gergale gioca a gara, le figure germogliano spontanee («cupellune», «t’à’ pigliatu l’ammarrune», «ti nn’abbutti d’ammollare», «malanova chi te vinne», «magaruna», «vo’ vulare senza pinne....»), finché la parola accusa la sua insufficienza e cede al gesto, improprio e sconcio, ma d’insostituibile eloquenza e magnifico sul piano dell’azione scenica e su quello del bozzetto scultorio: _ vi’ ca sfierru, e nun me tena mancu Cristu Crucifissu! Ma ccu tie non me cummena. Magaru’, parra ccu chissu. E faciennu ’na girata le votàu ’na malanova!

Se la satira non fosse ricca degli elementi già rilevati, questo tratto scenico, sottolineato dall’impertinente stupore del poeta («’na malanova!»), sarebbe sufficiente documento delle sintesi descrittive e pittoriche di Ciardullo. Ma lo stupore si accompagna ad improvvisi lampi di memoria. Quelle parole le ha sentite, quel gesto l’ha visto altre volte. dove? l’àju ’ntisa ’ssa proposta: cumu chissa, tale e quale. duve? Già... ch’è la risposta chi è stampata allu giurnale.

il linguaggio, cioè, della lavandaia, assomiglia, per il poeta, a quello del giornalista dell’ultim’ora, di volgare violenza. i due sembrano fatti a «’nu tuornu», «a ’na pallera», ma la triste storia ha voluto l’una lavandaia, l’altro giornalista. nel paragone l’una, sboccata ma senza malizia, si eleva, nella considerazione del poeta, al di sopra dell’altro, colto e maligno, e il giudizio, nei suoi termini pittorici, accomuna, con gradevolissimo effetto, la condanna e il disprezzo: no... no... no... nun me cumbena… nun me quatra ... nun me sona! povarella Filumena, maleparra, sì, ma è bona!


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la poesia

la satira L’attentatu, scritta per il secondo attentato a Mussolini messo in opera il 7 aprile 1926 dall’irlandese violet Gibson, rimasta sotterranea fino al secondo dopoguerra, è un dialogo che, per l’interna dinamica e la forza espressiva della parola non ha bisogno di contorni scenografici né di commento. Si svolge tra due donne del popolo, Matalena e luisella, ed è costruito tutto sulle sfumature dell’ignoranza, del pettegolezzo, della stizza, della paura, condite dell’esperienza culturale delle due donne, con un realismo degli strumenti e della rappresentazione, con una mobilità dei sentimenti dell’animo, degli atteggiamenti esteriori e della parola che, mentre compongono una quotidiana scena di paese, realizzano anche un’atmosfera storica, col complessivo risultato di un’opera che ha bisogno solamente degli attori per farsi teatro. Tre sono i fulcri concettuali e poetici del componimento. il primo è la reazione popolare di fronte all’attentato di Bologna al duce: un’interpretazione d’istinto, in cui la delusione e la rabbia si fondono con la saccenteria arguta. infatti, dopo un riconoscimento di merito per la Gibson, l’autrice dell’attentato, sottolineato dalla parola risolutrice ciardulliana «povariella!», il discorso si fa benevolmente e godibilmente critico nei confronti della dinamica del fatto, quasi una condanna della mano che ha fallito e che, decisa una volta l’impresa, avrebbe avuto bisogno di maggior lucidità e determinazione nell’esecuzione: puru si..., ma dicu, cac˜c˜hiu, nun te chiudere le porte, nun lu fare mai ’nu ’nquac˜c˜hiu, cce sî misa a vita e a morte e ppe dio, va’ lu stennic˜c˜hia... Si ’un sî certa, ti nn’astieni, cci l’appuzi ’ntra ’na ric˜c˜hia, ca pue vidi si lu teni...

la stizza è alimentata dal ripetersi dei fallimenti e di una fortuna tutta dall’altra parte, fatti efficacemente evidenziati, l’uno e l’altro, dalla forte eloquenza delle metafore: - Sente a mie, tu cchi nne dici: zannabona tantu spiertu e se trova chill’amici


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- la satira politica

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chi lu siervû allu liciertu...1 e chiss’àutra spara ... e nente!...2 e lu cera d’ammazzatu ’ngrassa e ’ntruglia ppe ’ntramente...

Con non minore efficacia, ma più fitti e incalzanti strumenti viene composto il secondo fulcro, un ritratto della nazione, povera, asservita, dominata dal furto, dalla violenza, dalla tracotanza, fatta segno dell’attenzione, della preoccupazione, della pietà esterna: _ E’ ’na ’ngrise, gioia mia... Chilla à vistu ’ssu paise a ’sse manu bonusia... tintu, affrittu, dissossatu, ’ncastagnatu, povariellu, e llu populu cunzatu cumu carne allu tiniellu, e ’ss’avanzi de galera pestiare a dui baffulli... ccu tant’autri malacera veri viermi de cuculli...

«Tintu», «affrittu», «dissossatu», «’ncastagnatu», «povariellu»: momenti del lessico, sintesi culturali e storiche, trasfigurazioni pittoriche di lunghi e complicati tormenti della vita fisica della nazione e della vita dello spirito. due trasposizioni del linguaggio di grande effetto: l’una nella pura metafora, «pestiare a due baffulli», l’altra nella figura della comparazione, «cumu carne allu tiniellu,» ma l’una e l’altra trovate naturalmente, come compagne di strada, nel mondo dell’esperienza quotidiana. il che tocca

1

Tito zanaboni progettò, con altri, tra il 17 e il 24 luglio 1924, un attentato che non fu eseguito perché sconsigliato dagli elementi più moderati o per altro non chiaro motivo. Cfr. r. de Felice, Mussolini, Einaudi, 1965-1995 vol. ii, tomo i, p. 635, e nota 1 (cfr. bibliografia). Ciardullo propende evidentemente per la versione del tradimento. 2 l’irlandese violet Gibson, il 7 aprile 1926, sparò a Mussolini, ferendolo al naso. all’episodio è ispirato il recente romanzo di l. Trevisan, Il naso di Mussolini, Milano 1996.


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anche a poeti colti in lingua. Toccò a un principe poeta, il Magnifico lorenzo, il quale induceva il rustico amatore a lodare di «nenciozza», la nencia da Barberino, i denti bianchi come del cavallo. Ma qui sono i piani diversi, della poetica e insieme della poesia: l’aristocratico principe gioca col personaggio e ne fa uno strumento d’arte, un oggetto trattato con signorile e condiscendente simpatia; Ciardullo si prende per mano il suo personaggio e percorre con lui non solo il cammino poetico, ma anche il cammino umano. il terzo fulcro della satira restringe l’osservazione all’interno del piccolo paese, ove i grandi fenomeni politico-sociali, se arrivano, sono da una parte deformati dalla lente popolare, dall’altra acquistano evidenza determinandosi in persone e fatti direttamente e universalmente più controllabili. un argomento dimostrativo del clima di violenza e di paura instaurato anche nei piccoli paesi è il breve ma compiuto bozzetto dei nuovi dominatori: Chi bellizza a ssu paise, quattru o cinque speranzuni chi nun valû ’nu turnise mo sû fatti li patruni... ccu llu cimice alla giacca, ccu lla ric˜c˜hia ad ogne porta... E àmu ’e sòffrere ssu smaccu? luvise’, nun se cumporta!

Ma si veda a quali colori di marca, attinti al quotidiano contadino, sia affidata la rappresentazione del sovvertimento sociale e morale: Mina càvuci ogni ciucciu... c’è la nive a menzagustu... ogne cavulu è cappucciu;

e come lo stesso corredo intervenga a definire la dittatura, giocando anche sulla parola: Sciuollu mio... nn’à misu ’ncruce... ’mbastu, vriglia e postulena... e lu chiamunu lu duce... ma cchi duce, cancarena!


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- la satira politica

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Esempio dimostrativo sono indicati gli abusi e i privilegi che governano l’assegnazione delle terre della Sila, il quale argomento ricorre nella narrazione di luisella. Canniella, una popolana di nessun conto, e perciò la «’mpac˜c˜hiata», un orecchio pericoloso del partito, «’mpuntunata» nella piazzetta del paese, a colloquio con una sua pari, tronfia della sua posizione di privilegio, che le consente di scegliere a suo piacimento gli appezzamenti da seminare a petto di altri dannati a terreni sterili, ha lanciato mezze frasi, messaggi provocatori («ammisˇcante», «bottiannu»). la mobilità del dialogo rende e sottolinea l’atmosfera psicologica: di contro all’insofferenza che spesso trabocca e si fa, nelle parole di luisella, aperta protesta: ’ngloria ’e dio cchi pracidanza, nun cce mori de nervinu?...

ecco, in quella della più prudente Matalena, il diffuso senso di sospetto e di paura: Statte citu, nun gridare, chi te vegna ’na pipita! .... l’à’ capita o ’un l’à’ capita ch’aû la ric˜c˜hia a ogni spuntune?

Fino all’avvicinarsi improvviso dello stesso personaggio, che smorza loro sulle labbra la parola, dando vita a un’azione scenica all’interno dell’azione principale: ... Citu, attic˜c˜hia, vena!... ’a vi’ ca s’abbicina? Mera me’... tena la ric˜c˜hia alla vera serpentina.

al di sopra di tutti i sentimenti resta la tormentata pazienza dell’attesa. due volte no, ce ne sarà una terza: vota e gira, gira e vota... alle tria c’è mastru ’ndria,

che è il compaesano fornitore delle casse funebri, in popolare e arguta


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la poesia

metonimia. in tutto un lessico dell’immaginifico popolare che regge questo capolavoro della poesia satirica, dialettale e non solo dialettale, e in tutta un’azione drammatica continuata e densa appare superfluo sceverare altri elementi oltre quelli rilevati per esigenza del discorso. Ma non si resiste alla tentazione di sottolineare altre metafore come « ’ncrosˇca» e «se gustìa», detto per il felice stato del duce pur dopo il pericolo corso, «quannu mai tristu rigagnu... cadìa de ’ncinu» per la buona fortuna dei cattivi soggetti, quel plurale di terza persona «cunc˜hiû», detto dei peccati, cioè dei nodi che vengono al pettine, e quel concretissimo geografico «ne mannû a male / allu passu de Finita», per le condizioni di estrema miseria in cui il popolo è stato ridotto. un pezzo, insisto, da antologia. due satire, di assai diverso tono, accompagnano i primi passi della vita democratica: ’U ranunchiu e Passa llà, già menzionate nella trattazione di quel periodo attraverso squarci significativi. della prima, tutta una sorvegliatissima metafora della tirannide in velo di fiaba, ribadisco, in sede di analisi, come la fantasia del poeta curi con lo stesso amore tutti i tratti del tiranno e la prona impotenza del popolo. dell’uno ecco lo strapotere: patrune abbuttu, sulu e catapanu, S’avìa misu, perdio, lu munnu ’nc˜hianu;

e la violenza: Si ’un voglia la Madonna ’ncun’ amico ppe mala sorte sua s’azava tantu, peju si se misˇcava a ’ncunu ’ntricu, o de la forza sua se dava vantu, lu ranùnchiulu gruosso l’arrullava e ’ntra ’nu creddu ti lu subbissava;

l’albagia: e se cridìu patrune de lu munnu .... ed escìu fore e ’mpalettàu ’nu vulu gridannu: - passallà, cce sugnu io sulu!;

e la caduta miseranda:


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- la satira politica

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e fice la caduta de Fetonte ca le scille ’ud’avìa manca de cira!

per il secondo aspetto ecco il bisogno: ed ognuno li cuosti lle parava ppe ’nu scuntientu malu muzzicune;

la paura: e quantu picca picca lle guardava se jettavanu tutti ’mpecurune; l’esaltazione collettiva: e d’ogne cosa ciota chi dicìa quantu grirate e cchi prejzzarìa!

Eppure si ha l’impressione che un senso di compassione percorra la satira, per il tiranno caduto e per il popolo liberato, avvertibile anche nella conclusione: ma dicìtimme a mia: mo sû ’mparati?

della quale, nell’amaro pessimismo, assorbe il tono parenetico e retorico. la seconda satira, Passa llà, che investe il fascista caduto nella sua paura della defascistizzazione in corso, assume dall’interno del popolo i sentimenti e la parola che li esprime. la parola accompagna la rabbia degli abituati a pappare: ’ssu pìnnulu l’è ’mpintu propriu cca...,

la viltà dei falsi predicatori di amor patrio: e si la cartolina pue venìa ppe sbaglio a ’ncunu russu cingulatu, vedìa tuttu lu munnu rivotatu: ’a patria se scordava là ppe là, e spuntava ’na guappa malatia cumu ’nu fungiu... e llu ’nc˜hiovava cca,


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e la triste commedia delle «mascarate», degli «stivaluni», delle «fimmine ccu tantu de galluni», degli «scritti ardite», dei «ceroni de ’ssi mura mura». le contrapposte immagini sono quelle del disgusto popolare: e lu schifu - ppe diu! - t’arriva cca,

del voltafaccia vergognoso: ’u cimice è finitu alla munnizza.

il gesto, che qui fa parte del linguaggio poetico, sta tra la sprezzante reazione della patria sdegnata: e propriu chilla patria - ohi cchi bellizza! s’è risbigliata, bella e llà ppe llà, s’è presentata, ’mmanu avia ’na scupa e la fetenzeria sprejuta è già,

e l’appropriata sconcezza della reazione del passante di fronte a qualche segno ancor visibile del caduto regime: l’omo chi passa guarda e llà ppe llà fa ’na risata o fa... vue me capite, e doppu guarda, sputa e ssi nne va.

poi parola e gesto s’integrano in quel bozzetto dello sprezzo che dà titolo alla satira: Mo sû cani e comu a cani, tutti diciû - passa llà! pristu llà! passa llà!...

E’ la satira più terribile di Ciardullo, una prova della poesia dello sprezzo, che ha, nell’immagine e nella parola, la sua lontana radice in quel crudo realismo di cui dante è stato più volte maestro. le altre due più rilevanti satire, Li granchi e Marinari, scritte rispettivamente nel 1950 e nel 1951, in regime democratico consolidato, sono costruite sulla metafora continuata, che presta al poeta immagini dell’esperienza popolare di larga efficacia per rappresentare tristi aspetti per-


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duranti di bruttura politica, quelli cioè dell’inganno, del raggiro, del furto, della violenza, ma mostrano, nel loro piglio universale, un tono più pacato, un contemplare più sereno e malinconico, dai quali il male presente, che ne è l’oggetto proprio, riceve maggior forza di verità. la prima, Li granchi, di minor impegno poetico, ma di eloquente denunzia, utilizza la metafora dei cani, dei lupi, dei granchi. in una società dominata da cani attaccati all’osso, da lupi nati per mangiare rubando, rischia forte chi pensa di superare ostacoli, di saltar fossi per farla agli uni e agli altri. Ma se tu sei granchio, chi strisci stuortu e te juochi de cura,

levi l’osso ai cani, salti altro che fossi, come i tempi dimostrano, sol che si guardino in faccia i porci attaccati ai truogoli: nun cce credi? Tu, oje? E sî cecatu. Guarda li scifi cannaruti e franchi... e diciamìlu chine s’è conzatu! Tiempu de granchi già, tiempu de granchi.

la seconda satira, Marinari, che, come è stato detto, fu premiata al concorso di poesia dialettale di Cattolica, è, nel suo significato, complementare della prima, ma con un respiro più largo e un più attento costrutto. i soggetti sono i marinai e il pesce; fuori di metafora, i politici e il popolo. Quelli fanno il loro mestiere, usando il medesimo strumento, la rete, da barche diverse, ognuno con una sua bandiera, «conzatu ’mparu», tutt’intenti alla preda e indifferenti alla bellezza del mare. alla bellizza, cosa vacante, sû cecatuni, cririte a mie... ppe ’na piscata bella, abbunnante tutte lle ddèranu sse ciotarìe.

E il pesce, che dalla rete si lascia attrarre per finire in padella, continua insensibile la sua via: e la fressura, duve te truovi, poveru pisciu, nun t’à ’mparatu; s’a tie te gridanu: _ Quannu te muovi?_ tu, dintra l’uogliu, guardi stonatu.


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la poesia

la metafora si accende per corrispondere all’immagine dell’ostinazione popolare: lu fuocu sutta sbamba c˜c˜hiù forte, li ligna àrdanu già pari pari... ma tu sî pisciu finu alla morte; ma tu te cuoci, ma nun te ’mpari!

Ma se il mare grande, bello, generoso, si rabbuffa d’improvviso, osserva il poeta, non vale forza e accortezza di marinaro: Ma si ’na vota cce caccia mente, se fa ’ngrugnatu! Cchi cosa è chissa? Si mova ’n’unna cumu si nente, ccu ’n’unna sula, ti lle subbissa...

Siamo di fronte ad uno di quei momenti nei quali l’amarezza contenuta rompe gli argini e, più forte della pur presente seduzione della poesia dell’immenso, che molto conferisce al valore della satira, trabocca in ira e sdegno: gli stessi toni che concludono la satira in lingua Popolo Po’, scritta circa trent’anni prima, in altra atmosfera politica, e che, ritornando tali e quali in tempi assai diversi, quelli della riacquistata libertà, si rivelano assai eloquenti e in certo senso presaghi. la fervida attenzione del poeta alla vita sociopolitica, che si traduceva naturalmente nel verso, dovette comportare, oltre i componimenti noti, fin qui analizzati, tutta una produzione satirica minore, fortunosamente appuntata o del tutto oralmente improvvisata e tradotta e perciò quasi tutta dispersa. Circolano, invece, noti a pochi e inediti, alcuni documenti di satira ad personam, da ascrivere, per la nudità del linguaggio, al filone impietoso della satira paesana, sebbene conditi dell’abituale tocco di piacevolezza e di estro e di genialità. Tale il componimento Parràu Linardu!, al quale si è già fatto cenno3 e nel quale il fascista onorevole arnone, già per altro verso oggetto degli strali del poeta, viene messo alla berlina con una violenza epodica che sin dal titolo irridente, un’antonomasia usata dal

3

v. infra, p. 38.


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- la satira politica

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popolo a svilire con un colpo solo un parlante sgradito, percorre in tono vario la scala del dileggio. il titolo va riferito alla notizia, apparsa sulla stampa e volata di bocca in bocca, della prima sortita oratoria del nuovo rappresentante politico, e il primo fulcro della lunga satira lo giustifica sollevando il fatto di cronaca a dignità eroicomica: Tumasinu è sberginatu... à parratu Tumasinu! ohi, madonna, cch’ammazzatu! gioia mia cchi pipirinu! à sparatu ’ssa cunissa, nn’àû parratu li giurnali. Cusenti’, pìgliate chissa: vi’ cchi cacciû li casali! Mo cchi sienti ’ntra ’ssi juorni alle case, alle funtane, alle rolle, ’ntra li furni, ’ntra le sgogne, ’ntra le tane: ’nu ciò-ciò, ’nu parramientu, ’n’allegria, ’nu prejarizzu, nun c’è pace, nun c’è abbientu, cc’è lu fuocu ad ogne pizzu: tinni, strusci de martielli, patennuostri, vemmarie, quatrarelle e quatrarielli vaû zumpannu ppe lle vie; e ’na nova, chilla nova, cumu ’n’unna de campana, cumu vientu chi se mova ’ntra le frunne, e ’nc˜hiana, ’nc˜hiana, ìnc˜ hia l’aria tutta quanta, curra e va cumu ’nu ruollu e lu lecu chi l’agguanta la trumbìa de cuollu a cuollu!...


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la poesia

più oltre la caricatura si fa più pungente e divertita: Sini, gioia, ppe derittu, quietu quietu, sattu sattu, nn’à’ de dire cumu à’ dittu, nn’à’ de fare cumu à’ fattu, ccu lle mosse, ccu lla voca de la vuce! e nue sentimu cumu tannu. E allura poca, Tumasi’, simu o nun simu?... E cchi festa chillu juornu, Tumasi’, tu viderai!... San Franciscu? ’ntra ’nu furnu se ’nzaccassi! Cchi nne fai?

infine la parola si spoglia di ogni pur lieve velo retorico e mira, fredda come lama di pugnale, al fine, con l’invito esplicito a non ripetere l’impresa e non aggiungere altri danni a quelli, già numerosi, che affliggono la città: Tumasi’, cunta dinari, passa tiempu sbrisceratu; Tumasi’, sbriga l’affari, ca ppe chissu sî tagliatu; ’nc˜ hiana, scinna sempre scale de finanza e prefettura, fa’ cchi vue, mìntete l’ale, mo cce vò, ’nzin’a chi dura; cangia e scangia de partitu, fa’ la canna ogne pitazzu, ma, ppe ll’arma, statti citu, Tumasi’, sî esciutu pazzu?...

Questa satira, che anche nelle ampie parti non riportate è tutta una girandola di feroci invenzioni caricaturali e non dà requie al personaggio e involge nel dileggio anche i familiari e i sostenitori più stretti e fedeli, se scade fatalmente sul piano della poesia, resta esemplare documento delle dimensioni della parola ciardulliana in momenti di più costringente e men contenuta passione.


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CapiTolo viii

lE EpiSTolE

diamo questo nome a due componimenti: L’oru miu e Primavera non solo perché della lettera hanno il destinatario e la formula codificata del saluto, ma anche perché, alla maniera delle Epistole oraziane, attraverso il velo lieve del sorriso toccano verità amare, che le accomunano alle Satire. la prima è diretta all’avvocato Giuseppe d’Epiro, presidente del Sindacato forense di Cosenza, il quale, in un momento di crociata fascista, aveva sollecitato con cartoline personali tutti gli avvocati del foro ad offrire, come gli altri cittadini, oro alla patria. nella colorita risposta del poeta c’è prima la meraviglia e l’incredulità: io chi guardu la posta sˇcantatizzu, pecchì cce truovu sempre ’na bussata, àju lettu tri vote lu ’nderizzu tantu paria ’na cosa scumbinata!

poi il ricorso a un raffinato dizionario della povertà: solo dalla spiga intuisce il colore dell’oro; le sue scarpe non hanno «mancu tacce»; a capovolgerlo, non ne cade «’nu sordu papalinu». infine i suggerimenti della cultura folclorica, che accordano nella medesima quartina la sapienza del proverbio e la conferma della concreta esperienza: de quannu ’u munnu è munnu, santu diu, sucu de petra nun inc˜ hìu rigagnu... Quannu sî piombu, fraticiellu mio,


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la poesia

n’àje voglia ca bussa lu cumpagnu.

Siamo di fronte ad un esempio più effuso di quel sorridere di sé che abbiamo visto improntare altri componimenti e che vedremo far capolino anche nell’altra epistola: segno più aperto di quella saggezza e di quella capacità di superiore osservazione della vita che sono componenti di fondo della condizione del poeta satirico. la pagina vale peraltro a ribadire l’aspetto del poeta colto. altra volta esso ci ha riportato ad esempi assai distanti fra loro, ipponatte e Cecco; qui potrebbe senza arbitrarietà riportarci a quel Caronte lucianeo, il quale a Mercurio, che pretende il nolo, mostra ciardullianamente la scarsella vuota1, o all’aria scapigliata di quel carme di Catullo a Fabullo, con l’invito all’amico di portare con sé tutto per la cena, perché la scarsella del poeta è solo piena di ragnatele2. E la memoria catulliana non è affatto fantasia, se nel teatro di Ciardullo si coglie anche quella degli epitalami3. acquista rilievo, all’interno del tessuto amabilmente scherzoso del componimento, una sferzata senza ambage, che colpisce direttamente i nuovi arricchiti del fascismo e, con la ricchezza, la loro gretta ingenerosità: Bussa, bussati a certe cascitelle chi faû parole e riestû sempre chiuse... a certe cascitelle nove aggiunte, chi mo sû c˜ hine propriu ’nzippellate... Chille ti l’àû de dare a junte a junte senza sgrizzare, franche, sbriscerate...

la quale frustata allinea il componimento alle satire politiche. la seconda epistola, Primavera, è indirizzata al professore achille Siragusa, insegnante di chimica nel liceo classico di Cosenza, unito al poeta nell’amore per la poesia in dialetto. Qui la filosofia dell’uomo scrive la sua più amara proposizione: l’uomo nasce cattivo e lo è più di tutti gli altri animali.

1 2 3

luciano, Dialoghi dei morti, dialogo tra Caronte e Mercurio. Catullo, Liber, Xiii. v. Vampate, atto iii, scena iv.


viii

- le

epistole

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la qualità del destinatario e la gravità del tema spiegano l’evidente disciplina a cui il poeta ha assoggettato questo componimento e che governa la sua architettura, fatta di due membri complementari, che racchiudono l’idea-tema, e la stessa metrica, una elaborata sestina di ottonari, con rima incrociata, inframmezzata da un distico a rima baciata, un sistema complesso, assai più impegnato delle modeste quartine a rima alternata del precedente componimento. il primo dei due membri contiene una descrizione della primavera in chiave ironica, con la gioia delle rondini e dei fiori che fuga assilli e bisogni, con le rose che rendono gradita anche la visita dell’esattore: vide mo si po’ pensare … s’è vacante la cannizza, s’ài mangiatu o ’un à’ mangiatu... … alcuni quadri d’ambiente intervengono a completare l’immagine di bellezza: Comu canta la jumara! Comu arrama la quadara … arrassata a ’na rassella riposata e ’mbucchisutta! …

in questa festa dell’amore il protagonista è l’uomo, che per natura è «’nu santu cristianu», pronto a farsi scannare per l’altro. Ma qui don achille ride e si liscia «lu muscune». rida quanto vuole: egli sa di lepri e di ghiri, di bestie «niche e grosse», di sali e di cristalli, «pecchì c˜hiova, pecchì arrumba», ma «’ntra ’u core, l’ominellu4» non lo conosce. Ed ecco l’amara verità: tutti gli animali lottano solo per mangiare; neppure la vipera assale, se non toccata; solo l’uomo fa il male per niente. ppe bisuognu, no ppe spreggiu fa la lutta ogne animale, ppe lla tinta cannarozza!...

4

Esempio di vezzeggiativo peggiorativo.


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la poesia

Mintatilu ’ntra la crozza ca «lu male ppe llu male» de unu sulu è privileggiu!

perciò ben fa don achille a dirsi pubblicamente «de le bestie prufessore». E qui il poeta, che sente di avere scantonato, torna alla sua primavera, ai fiori, all’usciere ed alla sacchetta, saldando forte il tema centrale con amabili invenzioni di effusa liricità, che ne sottolineano, per contrasto, il peso amaro.


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CapiTolo iX

la poESia paTrioTTiCa E CivilE

il sentimento della patria, sempre vivo nel poeta, come dimostra il suo continuo ricorrere nella produzione giornalistica, come fondamento di ogni altro sentimento civile e politico, è specifico motivo dell’ode Vintiquattru Maju, composta nel periodo del suo insegnamento nel collegio Manzoni per una delle abituali recite dei convittori: un componimento che sul piano poetico si presta a forti riserve, ma che contribuisce a definire, indirettamente, l’intera natura della poesia ciardulliana in dialetto secondo i termini che ne ho proposto. l’apertura s’ispira al descrittivismo naturalistico comune ad altri componimenti di ampio respiro: qui è il mese delle rose e della vergine Maria. poi il componimento si snoda secondo topoi consacrati. il primo riguarda la condizione delle terre irredente, con l’odio al tedesco e il grido di liberazione, il quale, volendosi esprimere in similitudine, dista mille luci dalla forza espressiva della similitudine ciardulliana, sfiorando il grottesco: Cumu la nive ch’escia de lu niru de la muntagna, e arruòzzula, e ’na vutta si fa, chi tuttu sciolla e tuttu scasa, chillu griru ’ntronàu de casa a casa!

le giovani reclute sottratte al lavoro e alle famiglie, spedite al macello, qui partono liete, salutate dall’entusiasmo popolare. il grottesco tocca anche lo scenario della guerra: i giovani italiani affrontano le cannonate «cuntienti, forti, valorusi, bielli»; il nemico, accovacciato come iena, «mussi e jinuocchi», getta «a botti l’abbìli, l’àcidu, lu fele», e «russi facìa l’uocchi», «zirrichiava i denti», «resta pitterratu» e si consegna


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la poesia

implorando pietà. Tornano alla memoria luoghi ed eroi: Subesio, San Michele, il vecchio lavazzari, Enrico Toti, Cesare Battisti e con essi i calabresi Forte, Settino, Cusmano, tutti morti di morte gloriosa, e gli altri a cento e a mille, i figli santi de ’sta santa terra, ’nfocati, arsi, sbattuti e pue reddutti piezzi de c˜ hiatru, ’ntra lu serra serra ed all’assarti brutti, brutti assai, a postu sempre! ’na vrigogna mai.

retorica e sforzo vanno a braccetto ancora più oltre e si risolvono in altra bolsa similitudine: lu nemicu spreìu precisamente cumu la jusca alla ventulïata...,

poi nell’oleografia di Garibaldi e Mazzini, che fuoriescono dalle loro tombe, avanzano in nembi di luce fino a quella del Milite ignoto e su di essa spandono rose, che sbocciano dalle loro mani, infine nell’invito a piegare le ginocchia e ad elevare l’inno al soldato italiano. in definitiva la commozione del poeta non convince e lo sforzo caratterizza tutto il componimento, sostenuto dalla ridondanza dell’esortativo, dall’iperbole elevata, piuttosto banalmente, a sistema, dal ricorso abbondante all’esclamativo. non si vorrebbe insistere nell’analisi, ma lo si fa nel necessario, al solo scopo di ribadire il risultato conseguente al tradimento della forma. E’ come se la parola stesse fuori dalla sua naturale dimora. Tutt’altro esito ha l’ode civile Calavrisi, jettati la sarma, della quale ho in altro luogo indicato le radici remote e l’occasione. Si tratta di un vero e proprio canto tirtaico e risorgimentale, che, se non ha il piglio religioso di certi canti del Manzoni, ne richiama alcuni fulcri e alcune movenze1, mentre per la passione che lo percorre e per l’indignazione, detta tra l’ironia e la violenza, è assimilabile a qualche Fantasia del Berchet2. Tre sono i motivi conduttori. uno è la condizione di miseria e quasi

1 2

v. a. Manzoni, Marzo 1821. v. G. Berchet, Il giuramento di Pontida.


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- la poesia patriottica e

civile

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di schiavitù della regione in rapporto ai colonizzatori nordici, i «giorgianisi» della voce popolare. l’oppressione è «sarma» e gli oppressi, con perfetta rispondenza, «sumari de ’mbaste e capizza»; con altra immagine la condizione di miseria e di apparente stupidità è detta di «turdi, uocchi chiusi» e la regione, in sintonia, «terra di santa ciotìa». il secondo è la rappresentazione, ed è qui che l’amarezza si veste di flagellante ironia, dello strapotere nordico, della cricca sostenuta, secondo un modello ideale instauratosi già dai primi tempi dell’unificazione, dalla connivenza governativa: pecchì tena la manu alla pasta lu cuvernu lu fa gallïare,

resa sicura dalla forza della ricchezza: ma daveru ca lu giargianise ch’à tre sordi se crira ’nu diu!

una ricchezza insidiosa come di cani «acquattati alle porte», usa ad affondare l’unghia in ogni luogo, pronta ad aggredire anche l’aria («puru l’aria la vòrranu tutta»), incoraggiata in questo dal bisogno e dall’apparente cecità della gente: a nue turdi, pezzienti, uocchi chiusi, ’ntra ’ssa terra de santa ciotìa... sû calati sanguette, piatusi, a nne dare ’na luce, ’na via...

il terzo motivo, rettore del canto, è il grido della riscossa. in esso confluiscono da una parte la rampogna per la dimenticanza della propria gloriosa origine: E cchi fò? nni l’avimu scordatu da cchi guappu pitignu nascimu? E mo simu reddutti a ’nu statu chi ’un so chine nne zampa lu primu!,

dall’altra la coscienza di un peccato d’origine, d’un male interno e lontano, e il commosso invito a rompere le discordie, i localismi, le glorie, certi «’nciarmi ch’attizzanu forte», e l’invito a stringersi insieme dall’uno


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la poesia

all’altro capo della regione, indicata, ancora con eco manzoniana, con sineddochi e antonomasie geografiche: la Sila, il reventino, l’aspromonte. il grido, sostenuto da lessemi forti e sanguigni («fuocu», «sbampa», «cucente», «’mpignu», «affannu»), si condensa in due versi, che, aprendo e chiudendo il canto, gli conferiscono anche una meditata e composta architettura: Calavrisi, jettati la sarma, finarmente, ca l’ura è venuta.

la ricorrente eco di modelli, che si rileva per scrupolo di analisi, non pesa sulla genuinità, sì cordialmente è assorbita, come la passione, che si accende nei vari elementi dello stile, centra alcuni nodi dolorosi, per cui l’ode resta nella coscienza storica e non ha perduto, alla luce dei fatti, una sua parte di scottante attualità. appartengono alla tarda maturità due documenti di poesia gnomica: Frevaru e Sìmina ca ricuogli, nati dal clima sociale della ricostruzione e dall’animo pedagogico del poeta, vieppiù sollecitato dalle responsabilità civili a lui affidate. nell’uno e nell’altro ricorrono non poco vivacemente e gradevolmente i toni più rappresentativi della sua poesia, ma l’esigenza parenetica, sottesa o manifesta in squarci di aperta oratoria, ne insidia, seppure in misura diversa, l’efficacia e l’unità. Frevaru regge la sua parte migliore sul descrittivo caro al poeta, contrapponendo, tra lo scherzo, l’ironia, la malinconia, quel mese, «’nu misiciellu almenu senza stenti» per le mascherate («lu pagliacciu de tutti li misi») e le abbuffate di carnevale («mangiare carne e maccarruni assai»), a Quaresima trista e avara, rappresentata secondo i tradizionali modelli popolari: Quaraìsima! Fazzu quarantena, me spac˜ c˜ hiu ccu ’na sarda e tri carduni; la «Mussistorta» a regula me tena, è la fata, se sa, de li dijuni, ca de male patienze nn’à ’na sporta. Se dice ca nun lassa foglie all’orta.

il poeta osserva che, come Carnevale non è per tutti («Carnelevari fò


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- la poesia patriottica e

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de li cuntienti»), così Quaresima vale soltanto per i diseredati («lu sbienturatu se mangia le foglie / li fortunati maccarruni e abbutti!»), ma apre il cuore alla speranza, annunziando tempi nuovi: Ma mo ppe vue se cònzanu li vienti, ppe vue, ppe vue, s’allargano le pene, ca s’è ’mbiata e curre chista rota chi lu destinu vuostru cangia e sbota.

l’educatore pensoso ricorda, aprendo con mano leggera, ma sapiente, complessi capitoli sociali, che alla base del nuovo corso va posto il contributo personale di opera e di volontà, che dal lavoro nasce la pace, e ispira a questi sentimenti una perorazione intrisa di tenerezza, la quale, se corre male sul piano della poesia, vive per il significato storico e sociale: paisanielli mie, fatigaturi, nun sentiti cchiù largu lu respiru? appriessu de li stenti e li suduri esce lu sule biellu, ’ngiru ’ngiru. Forza, paisani mie! nun ve stancati. Gira la rota... e già simu arrivati.

anche Simina ca ricuogli apre la porta a diversi problemi, allora già ferventi, ma complicatisi negli anni: lavoro, disoccupazione, emigrazione, politica statale. il fatto specifico è la riforma agraria con alcuni suoi aspetti pratici: il dissodamento delle terre silane e la distribuzione gratuita della semente da parte dello Stato tramite i Consorzi agrari. le idee e le esperienze del poeta sono calate in un bozzetto di vita paesana, s’intende del suo paesello contadino, che ha il carattere mimico di certe scene di fondo del suo teatro. Sulla soglia della povera casa marito e moglie preparano gli arnesi per la mietitura. pasquale lima la falce «gappa ma storta»: Ccu ’na limicella tagliarula appizzuta li dienti stortiati; ’na picca d’uogliu e luce sula sula pecchì gregne e gregnulle nn’à tagliatu.

Francischella, della quale il poeta riporta con arguta simpatia il soprannome («’ntisa s’entenne bene all’ammucciuna / Cucuzzalonga») ha


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la poesia

tratto da un incavo del camino i ditali di canna già usati da pasquale l’anno prima per salvaguardare le dita e li pulizza ccu ’nu zinzulinu e strica e strica e strica acchì vo’ tu! pensa Cucuzzalonga, stamatina, ca canne stannu ’un ci nne sunu c˜c˜hiù!

passa un giovane fannullone, che ha rifiutato la semente in distribuzione, preferendo bighellonare, e si prende, nel bonario colloquio che s’instaura, il rimbrotto e il dileggio, come la cicala della favola: Ma tu ’e ssa gente vulìe la minnitta? E moni, si vò diu, màcini vizza.

E con altra immagine popolare: riposa ’a sˇchinu e malipata ’a panza.

E qui la scena è viva e piacevole, ma Ciardullo è stretto dalle sue riflessioni sociologiche (il popolo ha aperto gli occhi; ci sono ancora i ciechi, ma a poco a poco tutti capiscono il bene e il male) ed ha il torto di metterle, così spoglie come sono, in bocca alla donna, che conclude manieratamente il suo fervorino: ppe st’annu, linardu’, joca a ssu jocu Te’ li cannielli! avanti tu, pasquale!

i due componimenti sono, in definitiva, molto importanti nel processo ideale e politico di Ciardullo. di questo progressivo prevalere del pensiero e della riflessione amara sulla fantasia e sul gioco troveremo contemporanea eco nel suo teatro. nel 1956 il Ministro dell’agricoltura, amintore Fanfani, volle che in ogni comune del comprensorio della riforma agraria fossero allestite le sale sociali che, in realtà, furono Sezioni della democrazia Cristiana camuffate da luoghi di incontro e di ricreazione per gli assegnatari delle terre espropriate. Ciardullo scrisse per l’avvenimento, a richiesta dei funzionari dell’Ente e improvvisandola in loro presenza, l’ode ’E sale ’e l’Ente Sila, che fu pubblicata, come si è detto, su «orizzonti silani», un perio-


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- la poesia patriottica e

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dico edito dall’Ente. il tono è parenetico, come nei due precedenti componimenti dei quali riecheggia, in tono minore, anche alcune forme. del primo, infatti, rivolgendosi direttamente ai contadini beneficiari, ripete, senza averne la passione epica, gli accenti di riscossa, ispirati al contrasto tra la precedente condizione di soggezione e le nuove speranze: Mo cce vò! nue li ciucci de fatiga, sfruttati bene bene e disprezzati; nue senza avire mai casa e putiga e l’âtri, mo cce vò, privileggiati. l’âtri trattati a carne e maccarruni e nue scuntienti, ortiche ccu carduni. Cchi biellu jocariellu ch’era armatu e nue, chi lu sapìamu, citu e muti. Càvuci... ’ncuollu a nue disgraziati e all’âtri carizzi ccu lli ’mbuti! Quatra’, ppe nue e ppe vue, si nn’aiutati, ’ssi gappi jocarielli sû passati.

del secondo ha il tono fraterno, che tuttavia dista dall’affettuosa tenerezza di quello: io parru a vue amici disgraziati, e mo cce vò, ve parru comu a frati,

e la fede presaga dei tempi nuovi: Ca sû successi certi arrumbuluni chi ’un si li sonnava mancu Cristu. ancora è la vigilia, ca alla festa, amici mie, viditi cchi timpesta.

a voler guardare in fondo, è dato cogliere anche toni e forme di XXIV Maju, come in questa retorica sestina: pecchì vue, sulu vue, siti li figli veri e veraci de ssa terra nostra chi fino a mo, cunsigli e pu’ cunsigli, era riddutta comu la jinostra, gialla de culuritu, chi nascìa sulu a terra jettata alla spurìa.


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Quest’ode, in definitiva, di ben tredici sestine, composta a braccio in pochissimo tempo, documenta eloquentemente, da una parte, la facilità di scrittura di Ciardullo e dall’altra aiuta a spiegare, nelle immagini e nei toni esemplati e nel connesso vocabolario, privo del mordente ciardulliano e convenzionale, certe fatali conseguenze di facilità e di retorica, che dovettero presumibilmente improntare altre sue scritture occasionali, nate spesso su richiesta e andate perdute.


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CapiTolo X

Mondo paESE

oltre i grandi affreschi che traducono la filosofia dell’uomo il poeta offre piccoli quadri della vita di ogni giorno, di differente valore poetico, ma egualmente interessanti per quello di documento psicologico, storico, ambientale e qualcuno dei quali supera in significato le modeste dimensioni del paese. Sciabarru, un breve componimento in sestine, narra senza parole di commento una storia di dolore rassegnato, una condizione dello spirito del popolo che secoli di soggezione morale, politica, economica hanno generato e cresciuto e nella quale concorrono e si confondono elementi della ananke greca e della provvidenza cristiana. la favola di Sciabarru, che si conficca una cannuccia in un occhio e ringrazia iddio perché gliel’ha mandata a una e non a due punte, non è nuova nella tradizione popolare e nella poesia, ma è nuovissima nei suoi elementi pittorici e nel piglio tragico che il poeta le conferisce. Tre sono le sestine e ciascuna contiene una scena, un momento in sé concluso. la prima descrive la caduta con un’intensa coloristica dei termini morfologici: ’nu scuoppu bruttu! E fravicàu ccu ’n’uocchiu a ’na cannuzza masˇca de finuocchiu.

la seconda è poeticamente la più intensa, perché esprime in moti e in parole la consapevolezza del male, l’abitudine al dolore, la capacità di contemplarlo come evento naturale e quasi non proprio. Sciabarru è giallo in volto, ma estrae d’un colpo la canna, che si era conficcata precisa ’ntra lu centru de la palla


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la poesia

chi già sbracava tutta spappulata,

e freddamente considera la sua sventura, rivestendola di tragica ironia: _ Fore maluocchiu, _ disse _ a ’ssu minutu o fazzu sbagliu o l’uocchiu si nn’è jutu.

la terza è la risoluzione naturale e filosofica della vicenda: il rimedio topico, fornito dal «muccaturu» e dall’acqua «suriente», e il ringraziamento a dio, la cui terribile tragicità è nella condizione, espressa dall’aggettivo «carmu», con cui Sciabarru lo pronunzia: pue disse carmu: _ ’ngrolia tua, Segnure, chi m’à’ volutu bene veramente e m’à’ mannatu ’ssa cannuzza bella fatta surtantu a palu e no a furcella.

Questo piccolo componimento, nel quale la saggezza popolare ha echi biblici, nella perfetta rispondenza di immagini tutte naturalistiche con un lessico scalpellato in profondo, è di quelli che più eloquentemente documentano la «forma» ciardulliana. Za Rosa è un sonetto a rima liberamente composita, nel quale è ritratto un aspetto deteriore e non raro della società dei poveri: l’arte di arrangiarsi a spese altrui. la donnetta attira in casa propria, con la voce e una manciata di molliche di pane, una gallina sperduta e poi raccoglie le briciole per poterle riusare in un’altra eventuale e analoga operazione. l’argomento, che per sé non desterebbe più che il malinconico sorriso, acquista sapore dagli elementi pittorici e dalle note sociali e psicologiche. vi concorrono anzitutto le maschere esterne: la donna «sbentrugliata», la gallina «straniata», e con le «pinne bagnate e senza cura», e i rapidi tocchi della scena: ’nu curi curi, ’na mullica spasa, la gallina trasìu dintra la casa.

Ma l’azione si sostiene di alcuni sottili elementi di comicità, fornita dalla psicologia primitiva della protagonista, la quale cerca di coonestare a se stessa la sua condotta, prima con una sorpresa operazione di riconoscimento:


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disse cummari rosa: _ Bonusia! chissa gallina è la gallina mia!,

poi con la sembianza di una prova diretta: vì’, povarella, cumu sa la via!

E si sdoppia, a conclusione della gustosa sceneggiata, tra il pensato e il detto: _ ppe nun si le mangiare le furmiche... _ disse, e penzàu ’za rosa, ch’era fina: _ Chi sa passassi ’ncun’àutra gallina!

in Vi’ certe vote Ciardullo marchia il fenomeno degli imboscati di guerra. un 24 maggio Saveru de Capizza, che ha fatto la guerra da imboscato, rimprovera a Franciscu de picu, che l’ha fatta combattendo e riportandone un braccio «mienzu musciu», di non rispettare il giorno festivo e lo fa col gergo sussiegoso della «pellizzuneria» («oggi è lo giorno dell’entrata in guerra!»). la reazione, dignitosa, ma sprezzante, compone i due grandi mali dei deboli, l’ignoranza: io cchi nne sacciu, io tiegnu l’uocchi chiusi!

e la rassegnazione: tu chi sî guappu vate alla cantina; io zappu, cussì vò lu patreternu...

lo sguardo del poeta si leva ovviamente a più alta e dolente significazione che quella dell’ambito paesano, dal quale tuttavia i termini della contraddizione escono esaltati. più ampio degli altri e più complesso di suggerimenti umani e sociali è il componimento Patrunu e sutta. il titolo è dato dall’omonimo gioco, così detto per il fatto che, stabilito il quantitativo di vino (o di altra bevanda) posto in gioco, chi ne diventa, a sorte, «patrunu», può disporne a volontà, ma subordinatamente alla volontà del «sutta». ne nasce una


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la poesia

sorta di gioco politico, con i suoi momenti di intelligenza, di astuzia, di resistenza, di alleanza («’ncriccare») i cui termini estremi sono l’assoluto diniego del «sutta» alle proposte del «patrunu» («o libera o viva») e la determinazione di questo, per non cedere, di bere il tutto. nella prima delle tre parti in cui il componimento è diviso uno sfaccendato del paese elenca con i loro sapidi soprannomi le persone che ha lasciato all’asciutto («all’umbra»), compreso il «sutta», che aveva «’ncriccatu» e «se muttettiava», intendendo condizionarlo: e tu resta ’ncriccatu, io mi lu ’ncugnu!

la seconda parte è l’elogio del far niente, anzi di un nuovo genere di fatica: il giorno con gli amici, la notte crapula e serenate: ohi, tu, viola chi te chiami zappa, tu nun sî nata ppe gapare a mie! io te scugnu, te ligu, e si me ’ncappa, te vinnu ppe lle spise le vie vie!...

l’ironia reca aperta la riprovazione del poeta, ma con essa anche la denunzia di un triste fenomeno sociale, quello della disoccupazione, che trovava solo nell’emigrazione costretta la sua disperata medicina. è proprio l’emigrazione, con una delle sue conseguenze più vistose, cioè la condotta delle donne sole, il motivo conduttore della terza parte. la vedova bianca, che nella canzone ’U maritu mericano scrive al marito mentre il cugino la titilla, qui riceve la lettera coi dollari e con la raccomandazione di stare allegra, alla quale obbedisce: Tena vinticinqu’anni ed è sulilla, lu mazzicuognu, benerica, è togu... sbrinca, assanguata... duce de curilla... cce vò, Signure mio, cce vò ’nu sfogu, e nue scuntienti nne sacrificamu!...

il marito americano fornisce colore al racconto del guappo anche con il comico delle sue contaminazioni linguistiche, ma, cosa più notevole, gli fornisce il crudo senso delle contraddizioni: Cc’è chine zappa e sta dentra la lasca ed a Cicacu ed a lu Guasciantuonu!


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nue, bonavita e comu casca casca!...

Tirate le somme, il significato di tutto il componimento va molto al di là dell’impertinenza del dettato; il velo dell’ironia lo avvolge tutto ed il sorriso che si esercita sulle apparenze ridevoli dei fatti è assai men forte della sottesa sofferenza. Sul piano poetico l’elemento caratterizzante e unitario è la perfetta identificazione del poeta col personaggio, cioè con il sentire, con l’atteggiarsi, con la parola, la quale vive chiaramente nei passi riportati, ma anche nel resto si attaglia a quel mondo e a quel gergo («sbrisuratu», «nettapaletta», «squicciulu», «fòsparu», «ficatu frittu», «sbrisceratu», «pistola miu» ), ricorrendo anche alle deformazioni nobilitanti («guarda beno», «li miei bracci», «amati beno», ecc.) perfettamente in tono. ne deriva una notevole pagina di carattere e di ambiente, ricca di elementi di folclore, nei quali entra due volte l’apporto della poesia popolare, prima per il brindisi: Guappu pitignu mio, guappu pitignu, ccu llu suchillu tue li mali attagni, sia benedittu chine te spitigna, chine te puta e de surfa te bagna!...,

poi per il congedo: Canta lu gallu e scuòtula le pinne, la bona sira a tutti e jamuninne. S’àju sbagliatu e vue me perdunati, ve vïa patruni de tricientu stati.


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CapiTolo Xi

il CanTorE di CoSEnza

nell’anno 1947 un gruppo d’intellettuali, tra i quali lo stesso poeta, diede vita a un circolo di cultura. l’evento, che rappresentò un momento significativo nella Cosenza culturale dell’immediato dopoguerra, fu celebrato da Ciardullo con il componimento Cumu vinne… e cumu jiu…, il quale, letto il 18 dicembre di quell’anno nel salone della provincia e pubblicato poi a cura dello stesso Circolo, viene di solito considerato non più che un geniale e amabile gioco, tanto da trovarsi collocato, nell’edizione ufficiale delle opere, a mo’ di appendice nel volume La Satira, mentre, a mio avviso, ha una notevole importanza non solo sul piano storico, cosa da tutti riconosciuta per le luci che proietta su cose e persone del tempo e della Cosenza del primo dopoguerra, ma non meno su quello della poesia. i motivi sono diversi. il primo si riporta al dipintore di quadri, di ritratti, di caratteri, che si realizzano non solo con tratti effusi come ne abbiamo incontrati abbondantemente nell’analisi finora condotta, ma spesso, con altrettanta efficacia, attraverso una pennellata, un tocco, una sfumatura, come in questo componimento, nel quale la materia semplice e poderosa è spesso un gesto, un’abitudine, un intercalare o un diverso motto. Ci troviamo, inoltre, di fronte a un eloquente documento della poesia della memoria, il risveglio di trascorse immagini da una descrizione del presente, un procedere di nobile ascendenza, che abbiamo osservato già nel poemetto ’A castagna e che qui si snoda in tono di contenuta commozione. un altro e non trascurabile motivo è nell’ordito stesso del componimento, meditato dal poeta al di là del suo solito e architettonicamente composto come nei momenti di massima attenzione. nella prima parte, che risolve espressamente il titolo, il poeta narra,


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servendosi spesso di strumenti a lui familiari, come l’ironia affettuosa e l’iperbole sorridente o altre godibilissime metafore, il come e il dove della bell’impresa («chissu gappu rotacinu»): le accolte dei protagonisti in un minuscolo locale («’nu pigliagallina») di Francesco Chiappetta, in un palazzo «a due scalille / fatte propriu a cartapune», il lampo dell’idea, senza avire alla sacchetta ’nu centesimu cecatu, senza pùrvera e scupetta, senza carta e comitatu,

le iniziali difficoltà e perplessità e gl’inutili funambolismi e le lagnanze («li c˜hianti») del cassiere: senza avire la farina quale pane se pò fare? ccu ’ssa cascia nostra c˜hina cchi me avìa de amministrare?,

infine l’incoraggiamento dei più autorevoli della comitiva e il felice approdo: ed allura tutti quanti, gira, vota e stolachìa, se stujàvano li c˜ hianti e la cosa se facìa.

le figure e le parti dei protagonisti emergono rapide e chiare: Francesco Chiappetta, l’ideatore instancabile, figlio del poeta antonio: Cicciu chi tutte le ’mprese rigumìa jornu e notte murmugnese murmugnese e le duna tutte cotte,

l’avvocato nicola Serra, colto e autorevole, «’nu magu, ’nu gigante», luigi rodotà, pure lui giornalista e poeta, che per questa impresa ha passato «’e vicenne de lu linu», impegnato in «cunti supra cunti / de bilanci sempre a zeru», l’avvocato Francesco d’andrea, repubblicano, stimato universalmente, anche dagl’imperanti alleati, per la sua moderazione:


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Cicciu zuccaru e cannella, Cicciu e ’ndria l’apparature, chi a ogni cosa brutta o bella à la pezza, ed a culure!,

l’avvocato Francesco vaccaro, poi deputato democristiano, anche lui oggetto di larga estimazione, chi alle pene ed alli guai sempre à dittu «c’è reparu»…,

il pediatra umanista Mario Misasi, presidente dell’accademia Cosentina, chi è jettune de ’nu pinu chi Cusenze ’un scorda mai,

con chiaro riferimento al padre nicola, romanziere, il poeta Giuseppe Carrieri, lodato autore di sonetti, «lu poeta veramente», sempre tisu e sempre a postu ccu lu pichescinu giallu,

Giuseppe picciotto, «picciottiellu ’u cavalieri», con le sue funzioni di cassiere, sorridente sempre, «cascia c˜hina o sbacantata», ludovico Mari, «siccu siccu, giuviniellu anticu anticu», sempre pronto a rammentare i danni della sigaretta, e peppino Baratta, impiegato ferroviario e valente caricaturista, che «venìa sempre a nne sturciare». la seconda parte, che è la centrale e per la quale soprattutto il componimento vive, si apre con la consolante sorpresa della numerosa inattesa frequenza delle prime riunioni («le prime fressurate»), che riporta la mente del poeta ad altro luogo e ad altro tempo, alla «Giostra vecchia», «’a Jurra de ’na vota», cuore di Cosenza antica, e alle figure rappresentative e indimenticabili che la frequentavano abitualmente. Emergono limpidamente dal fondo degli anni i luoghi e i volti amati: il «Gallicchio», «sentinella alli cunfini», quattro vecchi sulla porta, «lu senatu», e la folla vociante: gente ’mpiedi, all’assettata, alla porta, allu bancune, vacabunna, affaccennata, allu centru, a ’nu spicune,


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e peppe pranno, il gestore d’allora, che s’affacciava «e facìa: Gisù Gisù!»; la vecchia farmacia con i soliti frequentatori di primo piano e don nicola valentini che se scurdava lu bancune ppe arric˜ c˜ hiare alle parole de le solite persune;

accanto, la «Cronaca di Calabria» con luigi Caputo, il suo direttore, «allu scalune». una folla di personaggi li accompagna; tra quelli su cui il tocco del poeta indugia oltre il nome, alfonso Cardamone «ccu la vucca mele e manna», ugo Trocino, «chiantatu / ccu llu mantu a pipistrellu», Storino «’mprilliccatu», il medico don Ciccio valentini, che «tutti avimu veneratu», Gaetano patti, il segretario comunale, «zu Gatanu», Tommaso Corigliano, deputato, chi «a ’na vota n’è vulatu», uso a ripetere che «Cusenza de lu munnu / è la prima … e cce cridìa», don adolfo Mirabelli «luongu e finu», «’nu tijillu», l’avvocato e illustre rappresentante socialista Battista Mancini, «ccu llu puorcu allu palillu», roberto Cardamone detto «pietro passaguai», «tuostu cchiù de ’nu siccune», vincenzo valentini «ccu la facce bella e chiara», Mario Mari, «’na culonna», Saverio Gallo, «’nu galluzzu bargigliutu», caricaturista valente, il quale «ccu ’nu lapissi pizzutu / nne cunzava a tutti quanti», Cristofaro poeta estroso, «biellu tra li bielli», che «ad ognunu chi vidìa / cce facìa li versicielli», roberto Cardamone con la voce squillante e il suo «francamente!», antonio Chiappetta, il fraterno amico di Ciardullo, «Totuonnu mio, a ’n’angulu arrollatu», don Emilio de donato, «lu Cuvernu, assettatu ccu lla pippa», luigi Fera, «don luigi nuostru», protagonista politico sempre «alla manu», che nell’ammirazione del poeta «luce cumu ’na spera». Molti altri nomi s’affacciano senza note di colore. a chi, come il poeta, soffriva intensamente le contraddizioni dolorose del secondo dopoguerra, quella memoria si spoglia dei visibili e non visibili affanni che furono già oggetto della sua satira e preludio alla dittatura fascista; quel «riposato e così onesto / viver di cittadini» gli si dipinge coi colori dell’idillio, come a dante la Firenze della cerchia antica e chiaramente idilliche sono le immagini conclusive: … la gente chi tranquilla fore queta passïava, e la musica alla villa ogni festa chi sonava.


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Ma il senso della realtà ritorna, con la speranza consolata dalle memorie stesse, e ispira la terza parte del componimento, che, riannodandosi alla prima e sigillando l’armonica architettura, vede nella folla presente la continuità della storia e la città sempre fresca di energie e di risorse: … de ’ssa porta quanta gente cca nn’arriva!… no, Cusenze nun è morta, no, Cusenze ancora è viva.


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CapiTolo Xii

Ciardullo E la poESia popolarE

un orecchio, ed anche assai attento, alla poesia di popolo Ciardullo l’ebbe sempre, come dimostra, fra l’altro, la sua ricorrenza nella produzione teatrale, ed era anche naturale in chi era, come lui, immerso nell’anima e nella cultura del popolo, ma divenne specifico interesse di studioso e di poeta quand’egli incontrò, come si è detto, il maestro osvaldo Minervini, che anton Giulio Bragaglia, direttore dell’accademia di arte drammatica di roma, chiamò «il custode melodico delle Calabrie», intendendo definire la sua appassionata opera di ricercatore di musica popolare e di compositore di musiche per il popolo. l’occasione si offrì nel 1930, quando egli, in tutta una fioritura di filodrammatiche che si ebbe nella provincia di Cosenza, favorita attraverso i dopolavoro della politica culturale del fascismo, fu animatore dello spettacolo universitario «Matricoleide», collaborando col maestro e assicurandosi così, senza nulla cedere della sua integrità intellettuale, l’unico possibile spazio alla sua febbre di attività artistica. Fu la medesima circostanza nella quale gli si affacciò l’idea, come pure si è detto, di un teatro dialettale. Minervini, borghese, ornato del titolo di conte, che gli derivò dal suo matrimonio con una contessa inglese, ma aristocratico vero nel carattere e nelle maniere, insegnante di musica presso l’istituto Magistrale «lucrezia della valle» di Cosenza, univa alla sua primaria attività di affermato autore di musica leggera e da camera una fede convinta nel valore culturale della musica e dei canti popolari. da uno dei suoi scritti più noti si rilevano i motivi ispiratori del suo interesse: ....Quando ascolto un filo di melodia semplice e bella che sgorga e si diffonde da un canto popolare, un’armonizzazione spontanea data da un controcanto che spesso segue le regole di contrappunto senza averle mai conosciute, io provo una


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la poesia

mortificazione profonda e penso quanta arte sgorghi dall’anima collettiva del popolo e come ogni arte manierata e voluta ceda e si rimpiccolisca al confronto. Eppure questo patrimonio di bellezza rischia di disperdersi, soffocato da un andazzo non sentito, rischia di tramontare senza ricordo, perché come tutte le cose che sgorgano dal popolo e che sono portate a noi da generazione in generazione dalla viva voce del popolo stesso non hanno una registrazione e una biblioteca, minacciano di disperdersi senza lasciare traccia…1

pensieri e sentimenti non diversi esprimeva Michele de Marco in un contemporaneo articolo: ....nelle diverse regioni dell’italia settentrionale c’è, diremo, una ripresa della diffusione e della ricerca dei canti popolari, i quali, a dire il vero, se ne togli quelli della regione veneta, non hanno una propria veste caratteristica, ma risultano curati da autori e rispondenti a regole di contrappunto musicale le quali non ne guastano la bellezza, ma svisano un po’ quello schietto carattere popolare e quella sincerità d’ispirazione che le canzoni espresse dal popolo debbono racchiudere. in ogni modo è una grande valorizzazione e un’impresa veramente bella. E via via scendendo noi sentiamo trasmessi e diffusi i canti abruzzesi, romani, pugliesi e sempre quelle meravigliose e melodiche canzoni napoletane che hanno formato, formano e formeranno sempre la delizia di tutti gli spettatori. Ma arrivati a napoli, né mai si è saputo il perché, si salta a piè pari in Sicilia, annullando completamente questa nostra povera Calabria, la quale ha pure tante bellezze... perché?...2

l’abitazione di Minervini, villa Minerva, rappresentò nella Cosenza degli anni ’40-’60 un coagulo dell’aristocrazia intellettuale, uno dei principali salotti colti della città ed ivi nacque e si consolidò dalla cordiale consuetudine e dal comune sentire dei due artisti un programma di lavoro che comprendeva come attività fondamentale il recupero e la trascrizione musicale-testuale dei canti popolari e come attività di sviluppo la creazione di canti che si rifacessero con naturalezza ai modi espressivi e musicali di quelli. la collaborazione, nell’uno e nell’altro senso, durò quasi venticinque anni, interrotti dal periodo bellico e portò, oltre che ad una notevole raccolta di canti popolari in senso proprio, rilevati sul campo da essi personalmente o a mezzo di gruppi folcloristici, alla crea-

1 2

o. Minervini, I canti popolari e l’ ENAL, «la Sila», a. ii, n. 13, gennaio-marzo 1948. M. de Marco, I nostri canti popolari, «la Sila», a. i, n. 4-5, luglio-agosto 1947.


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e la poesia popolare

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zione, sul loro modello, di numerosi altri, che vanno da Serenata sˇcattarusa del 1930 agli ultimi composti nel 1953: ’U pecuraru, ’A mugliera d’u ’mericanu, ’U suonnu cannarutu. Tra l’una e l’altra data furono composti in ordine: Fiaba della mammola, ’Na serenata, Sciatori in Sila, Guappu pitignu, Quannu te ’nzuri, ’Ntiempu de l’uva, Settengienise, L’amure secutatu, Vate canzuna mia, Questa fiera, Canzone sˇcattarusa, Cu e cucurucù, Mara Tiresa, C˜ hiac˜c˜hiariamu, Stornelli della Sila, La canzone della Sila. l’elenco non comprende, ovviamente, le trascrizioni, come Calavrisella, ’A strina, e le celebrazioni, come Nasci la rosa. ...i due lavoravano insieme allegramente. de Marco era portato spesso a rincorrere un doppo senso, una battuta, un’ironia, un’idea. una volta che Minervini riportava il poeta alla concentrazione, i risultati del loro lavoro creativo erano ottimi.3

per l’esecuzione fu costituito, a simiglianza dei Gruppi di altre regioni folcloristicamente impegnate, il Gruppo della Sila, che nella sede provinciale dell’Enal, in via adige, destò, con le sue quotidiane esercitazioni in costume, un’atmosfera di fervore romantico. Ma eseguire e portare in pubblico era poco: occorrevano ampi canali di trasmissione, come in altre regioni. Così, nell’ottobre del 1950, la rubrica della rai «il microfono è vostro» cura alcune registrazioni e trasmissioni; all’interesse della rai consegue quello dell’editoria musicale e dell’industria discografica, nel quale concorrono, nel quadro di un preciso programma, le Case «la Fonica», «Cetra», «Columbia». Fu quella molteplice opera a imporre per la prima volta la canzone calabrese all’attenzione nazionale e a fomentare non solo nella provincia di Cosenza, ma nella Calabria tutta l’interesse per il folclore, con la nascita, in momenti successivi, di Gruppi, la maggior parte dei quali, tuttavia, destinati a scendere per la china del dilettantismo, dello spettacolare, dell’interessato, diventando strumenti piazzaioli, non cultura. i testi di Ciardullo musicati sono stati, pertanto, portati in giro dai vari Gruppi come espressioni genuine della canzone calabrese e indifferenziandosi, poiché circolano anonimi, senza il conforto della ricono-

3

Testimonianza di valeria pucilli, collaboratrice di Minervini, in a. Furfaro, Musica e poesia in Calabria: il connubio artistico fra Minervini e Ciardullo, «periferia», a. iX, n. 27, settembre-dicembre 1986, p. 22.


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la poesia

sciuta paternità, con i canti del popolo. Ma è proprio in questo il segno della popolarità, essendo unanime criterio che «la vita di un tema folklorico in quanto tale comincia solo dal momento in cui è stato accolto da una data comunità»4 e perciò quello che una comunità fa proprio è, nel senso proprio, popolare. restano fuori di musica alcuni componimenti poeticamente tra i più notevoli: ’U cumpari mericano, Canzunella queta queta, Serenata a Margheritina, Majìa. Tutta questa produzione di Ciardullo presenta due aspetti, perfettamente fusi: da una parte un’aderenza compiuta al mondo del popolo, realizzata attraverso le immagini, il linguaggio, lo stile, dall’altra la sottesa, ma costante patina del colto, il cui segno più evidente è l’impalcatura metrica, che va spesso oltre i moduli popolari, giocando a suo agio con i metri tradizionali della canzone e della ballata, arricchendoli anche, ed è perciò costruita con perizia di scuola, che, se all’ascolto superficiale riporta a di Giacomo, in realtà ha l’orecchio attento a secoli di lirica. Solo qualche componimento sfugge a questo duplice, ma unitario carattere, indulgendo al facile e comune. la gioia della vendemmia e dell’uva matura è espressa tra rigogliose immagini rinascimentali, intenerite dall’uso insistente di diminutivi («coccitiellu», «ricioppiellu», «giuvanella»), e altre giaiamente giocose: E màngiate st’uvicella ch’è ’nu bàrsamu fatatu! pue famme muzzicare duve tu cce ài muzzicatu!... (Guappu pitignu)

altrove grazia gentile e pudica impertinenza, tra efficaci pennellate di ambiente e di carattere, segnano la distanza in un genere, da duonnu pantu in poi, naturalmente scivoloso: l’àju toccata ccu ’na paglicella arrieti de ’na ric˜c˜hia. illa è sˇcantata; pue m’à guardatu tutta assonnatella,

4

p. Bogatyrëv - r. Jakobson, Il folclore come forma di creazione autonoma, in «rivista quadrimestrale di cultura e critica letteraria», a.. i, fasc. iii, giugno 1967, p. 224.


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à cuotu ’n’uvicella e mi l’à data... (’Ntiempu de l’uva)

il diminutivo torna nell’idillio d’amore, in un contorno di natura dolcemente trionfale, ad aggraziare la metafora dei colombi con memoria pascoliana: «Clu clù, clu clù, clu clù lu palumbiella fa, lu palumbiella va... staû pizzu e pizzu! … E sî tu la palumbiella: ssu mussillu tuo fatatu, ssa vuccuzza tutta bella ’mbucca a mie... sempre... cussì. (Canzunella queta queta).

la serenata d’amore si sostanzia degli elementi tradizionali idillico-naturalistici («luna janca», «torrente che rùccula quieto»), arricchiti da echi degiacomiani: E riesti ppe ’na picca ’ntantaviglia e nun te para no ch’io cantu fore; ma, ’ncantesimu nuovu e meraviglia, para ca sî ccu mie core ’ntra core...,

ma si svolge anche in impennate grintose, tutte ciardulliane: Fatte curaggiu, è l’ùrtimu scalune: à de finire, bella, à de finire!... (’Na serenata)

ricorrono anche, elevati dall’arte, gli elementi tradizionali della serenata di disprezzo, che marchiano la donna infedele e leggera, col cuore dato a fette a chiunque «cumu ’nu milune», (Serenata sˇcattarusa), o dipingono i difetti fisici della donna: Tieni un occhio stortarello ed un artro cilestrino, un peduzzo pipernino come un’anca di sofà, (ibidem)


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fino al godibilissimo grottesco, accentuato da un bilinguismo deformato ed epicizzante: Mi è cascuta sulla mano una guccia fridda a casu, non è lacrima, è lu nasu, chi gelatu piange già. (Serenata a Margheritina)

immagini codificate della donna vogliosa e dei familiari all’erta sono rinnovellate dal ricorso allo stornello classico, nel quale si risolve la sentenziosità popolare: Juru ’e vellutu, ccu ’na donna ’mpignusa e assai ’nfocata mancu Santu Martinu ci à potutu. (L’amure secutatu)

lo stornello, viceversa, perde la sua veste classica in una gioconda tarantella, nella quale è risolto in distici di ottonari a rima baciata per cantare le virtù della Sila (Stornelli della Sila). non manca la giocosa impertinenza della cronaca paesana, che è una delle vene più pregnanti della poesia di popolo e i cui aspetti più invitanti erano in quei tempi rappresentati dagli episodi di vedovanza bianca dovuti all’emigrazione. Ciardullo, che nelle opere teatrali li guarda con altro interesse, cioè con mente storica e filosofica, qui ne coglie la faccia esterna, quella che desta il sorriso ammiccante, sollevandola tuttavia a gradevoli dipinture, come questa di rusinella che scrive al marito mentre alle spalle il cugino la tenta: _ Ciccari’, soru... me ’nzirru... _ oi, me zìllichi... chi sbirru! _ Caru sposu, io cca suspiru... _ no finìsciala... ca griru... _ Bruttu birbante... _ leja ’ssa litterella, Ferdinante... (Lu cumpari mericanu)

il documento più rappresentativo di tutta la non piccola produzione mi sembra un componimento non musicato, Majìa, che per il mondo delle immagini (fattura, erba muraria, componenti magici, numero, ecc.)


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sta nella sfera del popolare, ma per la loro perfetta fusione con l’ordito metrico se ne distacca, elevando il popolare a superiore dignità. il componimento consiste di due strofe, armonicamente correnti tra endecasillabi e settenari, e di un ritornello che s’adatta a lievi variazioni di termini per farsi parte della storia, assumendo così carattere lirico-narrativo. la passione è detta con la forza del lessico e della metafora: Ma cch’àju ’e fare si l’àju ’ssu sbiersu: si m’à ’nc˜ hiovatu, cchi cce puozzu fare? Tiegnu ’nu piernu misu de traviersu ’ntra la capu e sta sempre a lavurare;

donde l’appassionata preghiera e la risposta fraterna e saggia: Juru d’erva de vientu, assulatu e siccagnu ’ntra ’nu muru, canta ppe ssu scuntientu poveru core mio siccagnu puru! E moviennu le frunne, lu juru senza adduru quietu quietu respunne: _ Gioia mia, cuntèntate si puorti l’ossa sane! nun vidi ca t’à fattu ’na majìa: ossa de muortu, medulla de cane e tri petruzze de ’na crucivia! _

nella seconda strofa la magia si accende nella superstizione materna: un voto a Santa liberata, e nel rincalzo, triste e freddo, dell’erba: Cchi vutu e vutu, cchi me va’ girannu! T’à de sciùglire chine t’à ligatu ...

ne nasce, nella variazione del ritornello, un senso di rassegnata e oscura impotenza, quasi il riconoscimento di un legame religioso e di una intangibile fatalità che completa il significato antropologico del canto: lu core mio respunne: - oi vita mia, cuntentate si puorti l’ossa sane, ca ti l’à fatta a morte la majìa.

Questo componimento è da considerarsi, a mio avviso, un piccolo gioiello della poesia popolareggiante.


parTE TErza

il TEaTro


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CapiTolo i

proFilo dEl TEaTro dialETTalE CalaBrESE dallE oriGini a Ciardullo

il teatro dialettale calabrese annovera alle sue origini rudimentali forme di drammatizzazione, di natura rituale e paraliturgica (maggiolate, zingaresche, pastorali, contrasti, sacre rappresentazioni) comuni ad altre regioni d’italia e non tutte estinte, ma qualcuna viva nelle sue propaggini, come i «vattienti» di vari paesi della provincia di Cosenza o di nocera Terinese in provincia di Catanzaro e gli «uffizianti» di Bova. di memoria arcaica alcune, relativamente recenti altre, improntate o meno dalle dominazioni straniere o dalla circolazione biologica (si pensi, per esempio, agli scambi e agl’imprestiti dell’atellana nel suo passaggio attraverso l’Etruria, l’umbria, la Magna Grecia, ovvero ai depositi delle rappresentazioni fliaciche e della hilarotragoedia), il loro interesse storico e antropologico le ha rese degne di studio da parte del d’ancona1 e di attenzione da parte di paolo Toschi2. per quanto riguarda le prime manifestazioni di dignità letteraria, esse iniziano, alla luce delle nostre attuali conoscenze, con una commedia in tre atti nel dialetto di Castrovillari, Organtino3, di tale Cesare Quintana (m. Castrovillari 1646), cappellano di S. Maria del Castello di quella cittadina, rappresentata nella piazza antistante la chiesa di S. Girolamo durante il carnevale del 1635 e venuta alla luce in questi ultimi anni per merito di Giulio palange. il dialetto, dunque, alla stregua degli elementi cronologici in nostro possesse, esplode maturo attraverso il teatro prima ancora che attraverso la doviziosa messe della poesia di aprigliano, essendo

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a. d’ancona, Origini del teatro in Italia, 2 voll., Firenze 1877; Torino 1894; roma 1966. p. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1955. v. in particolare le pp. 459, 507. C. Quintana, Organtino (farsa dialettale 1635), a cura di G. palange, Castrovillari 1990


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la prima manifestazione di questa, il poemetto Lu ricattu de Scigliano di Flavio Cimino, del 1636, cioè posteriore di un anno alla rappresentazione di Organtino, come giustamente sottolinea Giulio palange4. l’opera del Quintana, catalogata come «favola pastorale» da un ignoto archivista, evidentemente digiuno di generi letterari e presumibilmente fuorviato dalla condizione sociale dei protagonisti, massari e pastori, e dall’ambiente rusticano dell’azione, si rivela di notevole importanza non solo nella storia del teatro dialettale, ma anche in quella culturale della regione. Si potrà, infatti, disquisire sulla origine forestiera di quel tipo di commedia, ricondurla alla commedia rusticana e ai suoi pregressi; si tratta, comunque, per la consapevolezza dello sviluppo scenico, per l’attenzione al taglio psicologico dei personaggi, per il linguaggio commisurato ai momenti e alle persone, per la controllata valenza satirica, di un frutto maturo, al di fuori degli schemi usuali del teatro popolare. Maturo, e tuttavia in ritardo di più di un secolo sul teatro dialettale di altre regioni d’italia, che si elabora parallelamente a quello in lingua e con esso interagendo, tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento nella sua interezza di fisionomia, cioè come opera, come attori, come struttura. Ma c’è di più: mentre altrove, nei secoli seguenti, il teatro dialettale sviluppa variamente strumenti, modi e temi, la Calabria si chiude per tre secoli esatti, dopo Organtino, nella farsa di Carnevale, con rare eccezioni, non valide a far norma o costume: tre lunghi secoli per passare dalla piazza al palcoscenico, dall’occasione rituale alla libertà del tempo, dal dilettante e dall’improvvisato all’attore, dal chiuso schema del paese al teatro-pensiero, confronto, realtà di vita. a dare il senso di questo, che è solo uno dei ritardi della regione, può riuscire utile una riflessione sul teatro delle regioni italiane di più chiara rappresentatività tra Quattro e Cinquecento. Ferace di opere, di attori, di rappresentazioni è, in quel lasso di tempo, la zona padano-veneta, con i «mariazi», con le «rime villanesche» del Cavassico, che entrano nella gran varietà della satira al villano, con le prime grandi compagnie, da quella della Calza a quella di angelo Beolco, il ruzante, e di andrea Calmo, autori-attori ambedue, precursori della commedia dell’arte, col favore della corte, che incentiva l’interesse popolare offrendo spettacoli pubblici, i quali si alternano a quelli presso fami-

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G. palange, Storia del teatro dialettale calabrese, Cosenza 1989, p. 9.


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glie patrizie, mentre sorgono i primi teatri stabili. in Toscana una complessa tradizione, di antiche radici e strettamente ancorata alle espressioni della vita politica e civile, alimenta il sorgere delle prime compagnie, delle corporazioni e confraternite di attori, dei primi palcoscenici in piazza per spettacoli gratuiti, delle prime forme di regia, dà vita alla farsa carnevalesca e forma d’arte alla sacra rappresentazione, concelebra le feste religiose e profane con ricercate forme spettacolari, dai «Trionfi» alle rappresentazioni miste, ai quadri viventi. la fiorentina compagnia della Cazzuola gareggia in spettacoli popolari con la senese dei rozzi, che rappresenta nel gergo del contado farse e commedie «rusticali». una vita teatrale fervida, una partecipazione popolare intensa e attiva, la presenza continua e partecipe della corte. nella Campania, antica madre della fabula atellana, nascono le «farse cavaiole»; la tradizione dell’attore, ininterrotta dai tempi di nevio, si rinsalda non solo per il suo confrontarsi con una popolazione vocata naturalmente alla scena, ma anche per il favore della corte; l’interesse di alfonso d’aragona per le feste teatrali è ereditato dai suoi successori, come dimostrano le farse scritte da letterati illustri: iacopo Sannazaro, Giosuè Capasso, Serafino aquilano, antonio riccio, pier antonio Caracciolo. la Sicilia porta a compimento un secolare e mai interrotto processo, che aveva implicato nell’interesse tutte le classi sociali, determinando nel tempo una trasfusione quasi naturale dalla classicità al teatro popolare: da Frinico ateniese, che vi fu a fine del vi secolo e vi morì, da Eschilo, che vi fece rappresentare I Persiani e Le Etnee, da Epicarmo, elaboratore della farsa fliacica, dal mimo e dagl’idilli amebei di Teocrito al contrasto e al teatro popolare dell’epica eroica. il favore della corte sveva alimenta quell’animo teatrale e con esso la tradizione dell’attore: mimi, istrioni, giullari, vastasi; il Quattrocento presenta un «maestro di rappresentazioni»; il Cinquecento tramanda documenti non solo tragici, ma anche comici in dialetto siciliano. Questo teatro, due secoli dopo, avrebbe raggiunto il suo scopo di recitare davanti ai «signori» e poi davanti al re e gradatamente conquistato la penisola. l’excursus esemplare e necessariamente rapsodico consente alcune deduzioni fondamentali: che la fortuna del teatro dialettale poggia sullo spessore e sulla continuità della tradizione, che questa investe contemporaneamente le strutture, gli autori, gli attori, fa i conti con la storia politica ed è sostenuta dalla coscienza popolare, dalla vivacità della vita di popolo, dalla forza e comunicatività di una lingua e dalla sua capacità


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di raccogliere ed esprimere l’anima della regione. difatti nel secolo scorso le «lingue» veneta, napoletana, toscana erano i tre idiomi riconosciuti ufficialmente e hanno conservato nel tempo la loro suggestiva autorità grazie alla facoltà di accesso che offrono ad ascoltatori di altre regioni. la quale ultima condizione è valida anche per il dialetto siciliano, così aperto ad ogni comprensione da costituire quasi una lingua comune. in Calabria la tradizione teatrale magno-greca, alleata, in dignità, di quella di Sicilia, anche per illustri nomi di comici, da alesside a ibico, si interrompe con la decadenza medievale, con la distruzione di templi e pubblici edifici. alla Calabria moderna non è mancata, sulla scia della classicità, una letteratura teatrale di tipo umanistico e aristocratico, di cui furon colme le accademie, ma le sue condizioni storiche furono le meno idonee alla nascita e alla conservazione di un suo proprio teatro, all’acquisto di esperienze, alla formazione dell’attore, al suggerimento di scritture che fossero oltre l’impegno della rappresentazione paesana. Si pensi al suo perenne stato di alienazione, di servaggio, di lotta per i bisogni elementari, alla disgregazione territoriale e alla corrispettiva disgregazione linguistica, che impedirono la formazione di un centro unificatore e orientatore e viceversa conciliarono sempre più l’isolamento municipale, alla mancanza di corti e di libere organizzazioni ispiratrici, al controllo della Chiesa sulla cultura, che arrivò persino a interdire le sacre rappresentazioni, perché, nei loro modi, scandalose e oltraggiose, all’isolamento degli intellettuali illuminati in una cultura chiusa alle novità, alleata del benessere e del potere, arroccata al pregiudizio e alla pedanteria. Storia e tradizione hanno, quindi, congiurato e contro l’opera e contro l’attore e contro la struttura, determinando condizioni di sbarramento a rompere e sovvertire le quali occorrevano nuove e prepotenti forze della storia. Così il teatro dialettale carnevalesco appare, per i tempi, una assai rispettabile cosa e certo il possibile fiore. Sotto il titolo di «farse di carnevale» si comprende tutto il complesso materiale che la ricerca è riuscita a salvare, dai contrasti alle farsette, alle farse vere e proprie, d’autore o anonime, sulle quali occorre avvertire che «anonimo» non s’identifica con «popolare» e che molte farse anonime rivelano, nelle strutture e nei contenuti, la mano consapevole e colta. E però gran parte della problematica che investe questo complesso materiale attiene, come per la poesia, ai rapporti tra popolare e colto, alle ascendenze e alle discendenze, alla circolazione e agl’imprestiti.


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il comune denominatore di «carnevalesche» è inteso all’occasione della rappresentazione e perciò vi convergono sia le farse classiche, caratterizzate da Carnevale e Quaresima e dal loro codificato corteo, sia quelle costruite su personaggi diversi, reattivi istituzionalizzati, le une e le altre, di tutte le tensioni accumulate, di tutte le compressioni sociali, politiche, morali e orgiasticamente celebrati, in una tacita congiura di tolleranza e di permissività. le farse s’inserivano in tutto un contesto drammatico, nel senso originario di azione, quale era il carnevale con le sue maschere, i suoi diavoli, i cortei buffoneschi, i funerali, le sceneggiate, le parate, in una corale coincidenza di recita e vita. ne erano elementi caratterizzanti il mascheramento grottesco degli attori, un linguaggio corposo, allusivo, licenzioso, ovviamente dirompente in una cultura compressa e intransigente, la carica buffonesca della recitazione, l’assunzione dei ruoli femminili da parte dei maschi, l’aggressione satirica tanto più corrosiva in quanto risolta nel grottesco, un non raro intervento della musica, di canti e controcanti, frequenti elementi di bilinguismo e non rari di plurilinguismo, atti a caratterizzare in un senso o nell’altro i personaggi, fino alla seriosità del latino. Questi ultimi elementi, che si riportano alla commedia regolare del Cinquecento e a quella dell’arte, mentre confermano la vitalità della circolazione, più forte di ogni barriera, depongono già per la dignità formale. Se ad essi si aggiungono la frequente validità della rappresentazione realistica e dello scavo psicologico, la dignità della struttura metrica, affidata all’ottava siciliana, all’endecasillabo con la rima al mezzo, propria delle farse cavaiole, talora alla quartina di ottonari secondo il gusto dell’opera buffa e della canzonetta scherzosa, talora anche a un compromesso di strofe e di versi, si conclude che la farsa carnevalesca, se riduce il teatro nei termini del comico e non calca il palcoscenico, è, nonostante la marginalizzazione che ne operano i ricercatori di fine ottocento, una cosa molto seria nella storia del teatro dialettale. anche il problema della scena e degli attori, nella sua soluzione casalinga, ha una sua significativa valenza: quella era naturalmente la piazza o, comunque, un idoneo spazio all’aperto, ma le testimonianze parlano anche di locali chiusi, per lo più un frantoio, rudimentali immagini di teatro, ove, a dire del lumini5, si giungeva a pagare fino a due soldi nei posti distinti, col

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a. lumini, Le farse di Carnevale in Calabria e in Sicilia, nicastro 1988, rist. Forni, Sala Bolognese, 1977, p. 143.


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diritto di tenere in capo «’u coppuluni» o «’u cervuni» e di fumare la pipa; per questi si parla di tradizioni familiari del recitare, che assicuravano alla farsa le sue persone e consentivano, più o meno occasionalmente, la costituzione, spontanea o guidata, di gruppi di recitanti, antesignani delle filodrammatiche locali. Ed una loro eloquente serietà hanno gli elementi di polemica sociale che si fanno frequentemente strada attraverso lo scherzo, perché toccano, anche se risolti nella grassa compiacenza del ridere, problemi secolari della mentalità e del costume. Carnevale che muore per l’abbuffata è, comunque lo si giri, la fame atavica e la sua filosofia è quella del povero, materiale, concreta. nella omonima farsa, che è considerata giustamente il capolavoro del genere, l’autore roglianese vincenzo Gallo, detto «’u chitarraru» (1811-1865), gli fa dire in punto di morte, indifferente ai suoi malanni: vurrìa ’n’ugna de suzu; ’nu ristoru, armenu, si po’ moru, moru abbuttu.

E Costantino iaccini di Celico (1817-1897) in Lu testamentu ’e Carnilivari gli fa ribadire vittoriosamente: Chine more ’mbriacatu more sempre ’ngloriusu.

E subito dopo instaura l’altra parte della filosofia: una consolatoria, messa in bocca al prete che somministra il viatico al morente; una formula sacramentale nuova, nel cui giocoso sarcasmo suona la sacralità di un dolente coro antico: pàrtite de ’ssu munnu pezzentune, Cannalevare, e vate alla cuccagna, e mangiatillu llà ’nu sazizzune, ca si llà mangi, nullu si nne lagne; ca si cca mangi ’n’ugnilla assai, lassi tutti li figli ’nta li guai!

Carnevale è perciò una condizione storica, e Quaresima, sempre vittoriosa nonostante il pianto greco, che in qualche farsa tocca livelli d’arte, è l’oppressione in veste di moralità, la fame, l’austerità, la penitenza imposta come virtù. Ci vorrà un tardo epigono della farsa, dei primi decenni del novecento, Giovanni Sinatora (Borgia, 1877-1937), per strap-


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parle le unghie affilate (Quarajìsima castigata), ma per far ciò gli amici di Carnevale si servono dell’aiuto di mastro Bruno pelaggi, il poeta maniscalco delle Serre. Ma con Sinatora la storia è ad una svolta e la farsa la registra con eloquenti segnali, tra i quali, nel ricorso a mastro Bruno, la coscienza della funzione civile della letteratura. al di là dei personaggi tipo, la farsa carnevalesca convoca tutte le condizioni sociali del paese. Sembrerebbero, a prima vista, destinatarie dello scherzo quelle più elevate per censo o per cultura, e perciò l’antipopolo per eccellenza: il medico, lo speziale, l’avvocato, il massaro, l’uomo di scienza, il capitano, il giudice, il notaio, il prete, condizioni alleate nella ricchezza, nella saccenteria, nella boria, nella corruzione, nell’ignoranza, nella coscienza dell’impunità. la satira contro siffatta parte sociale è condotta a sangue e ferocemente sollevata, talvolta, a superiore dignità di dettato. nella farsa di Gallo, ad esempio, don antonio, medico luminare, dice a vrogna, il farmacista, timoroso di aver provocato, sbagliando farmaco, il malanno di Carnevale: Tu fai la cera janca? nun tremare, de nullu te spagnare... Ars fallendi, impune interficiendi...

«arte di sbagliare, d’uccidere senza rischio»: due membri sintattici per una onnicomprensiva aggressione al potere del privilegio. Ma in realtà la satira investe anche il paese minore e nessuna delle condizioni civili n’esce indenne: commercianti e bottegai gareggiano nell’imbroglio, magari e zingare campano sull’ignoranza e sulla credulità; mogli disponibili, giovinette compresse e vogliose, vecchie affamate, impertinenti, maltrattate, indifese compongono uno spaccato sapido ed eloquente della condizione femminile. non è raro che il paese si elevi a mondo e veli metafore perenni: nella farsa nicastrese Su Rubinu il capitano, che è anche giudice, si rifiuta di giudicare Carnevale ladro se il derubato non lo paga prima a dovere; in una farsa anonima di Serra San Bruno Carnevale sindaco, dopo aver deciso di combattere la corruzione dilagante, si lascia convincere, per le mani di un servitore, da un omaggio di vino e di filetto, col risultato di maledire, alla fine, quei doni, che gli peseranno d’ora in poi sulla coscienza e gl’impediranno di fare giustizia. a sentirlo oggi, quasi quasi fa tenerezza, ma è proprio in questa eredità di confronto e di giudizio la serietà della


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farsa, che solleva il succoso episodio paesano a capitolo di costume. nella farsa di Giuseppe aiello, di Bisignano, porsia, moglie di Carnevale, ad evitare guai alla figlia, contesa tra pagliaccio e don rimizio, proporre ai due, ad evitar bisticci, di trovare un compromesso: Chistu ghèssiri non poti, ch’è brigogna certamenti: vi cercati d’aggiustari ccu llu buonu ’mpaciamenti.

la soluzione è proposta da pagliaccio ed accettata dall’altra parte: iu m’affiru e pu’ facimu Tu lu juornu er iu la notti.

l’autore, si badi, è un sacerdote, e la satira, mentre suona denunzia della morale esteriore ed ipocrita, aiuta validamente a leggere nel suo complesso la farsa dialettale calabrese e a riconoscerne più di quanto comunemente si faccia importanza e valore. uscendo dalla quale, si vuole parlare di un posto della Calabria nella commedia dell’arte, coincidente, prevalentemente, con la maschera di Giangurgolo. Ma il fatto che qualche commedia sia ambientata in Calabria non significa che sia stata scritta da calabresi o rappresentata in Calabria, né la vaga notizia di un «Horatio il calabrese», raccoglitore di soggetti, autorizza a pensare in tal senso. la Calabria non ha, con la commedia dell’arte, se non le naturali parentele che nascono nei fatti culturali a dispetto di ogni barriera. Già la commedia del Cinquecento (si pensi al Gelli, al della porta), mediando fra tradizione classica e tradizione realistica e locale, costruisce personaggi al limite del grottesco e del paradosso, insistendo sull’uso ludico della lingua ... le inserzioni dialettali in commedia entrano, come l’articolata mappa delle immissioni di lingue straniere diverse, nell’ambito di un edonismo formale apportatore di comicità e di giochi verbali che investono sia la sfera del significante sia quella del significato6.

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T. Cirillo, Meridionali in commedia, in «annali dell’istituto universitario orientale, Sez. romanza», XXXv,2, napoli, pp. 457 e 459.


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nella commedia dell’arte il plurilinguismo viene ordinato a marcare la carica buffonesca dei tipi e la Calabria le presta il proprio dialetto e il proprio tipo, che è Giangurgolo. Questo non è teatro calabrese, ma il tributo non glorioso pagato dalla Calabria alla commedia dell’arte. Giangurgolo codifica in commedia, qualunque parte interpreti, anche quella nobile del capitano, l’opinione esterna che ha sempre tormentato la Calabria: il calabrese goffo, balordo, barbaro, segnato dalla povertà, dalla fame e dal bisogno di sesso, schernito e beffato, plebeo e furfante; una parodia costruita su dolorose verità d’indigenza e di arretratezza, ma appunto perché parodia, fatta di verità dilatate, che il tempo e la storia non sono riusciti a cancellare, ma i cui residui la regione si sente addosso in momenti di maggiore frizione della vita sociale. degne, invece, di rilievo sono giustamente ritenute le farse di Morano, delle quali il padula ha tramandato, purtroppo tradotti in lingua, alcuni frammenti molto sapidi, costruiti con scaltrezza scenica tutt’altro che popolare e ricchi di spunti antropologici, caratteri tutti che ne fanno rimpiangere la perdita7. recitate durante la raccolta delle castagne, si riconducevano, per le situazioni e per il linguaggio, all’oscenità liberatoria carnevalesca, ma l’ambiente e il particolare momento stagionale mi sembrano denunziare più remoti legami, di memoria fescennina. assai più significativo sul piano storico e su quello culturale, come un primo uscire di tradizione, elemento di diversità e di concorrenza in pieno dominio della farsa carnevalesca, espressione di genio popolare e di una più moderna comicità, è un caso di teatro natalizio, «’u prisebbiu chi ssi mòtica». Sorto in Catanzaro nel 1793, esso rappresenta un originalissimo esempio, che tra religiosità, estro, satira, riso compone un frutto sapido e irripetibile. un fantasioso scenario aggrega il gran palazzo di Erode al palazzo feudale di Catanzaro, la grotta di Betlemme a case, porte, chiese, monasteri, carceri della città, e l’attraversa un mondo variopinto e inesauribile di cronaca cittadina, tradotto nei pupazzi «moticati» da abili mani e animati da voci esperte, che improvvisano,

7 v. padula, La Calabria prima e dopo l’Unità d’Italia, a cura di a. Marinari, Bari, 1977, 373.

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tagliano, aggiungono in base a criteri di opportunità, a parametri di accettazione e di successo. il fenomeno, benché germogliante in un determinato contesto cittadino e in una precisa tradizione di cultura8, e perciò d’interesse limitato, s’impone per più aspetti come fatto teatrale in sé: la rappresentazione passa stabilmente dalla piazza al chiuso, sia pure un interno dimesso, con spettatori paganti, un rudimento di platea, un ricco e sofisticato meccanismo scenico, configurando un primitivo nucleo di teatro; solleva lo scherzo dalla tradizione carnevalesca ad una dimensione insieme narrativa, giornalistica, satirica, polemica; allarga l’esperienza regionale a quelle più late e vetuste di napoli e Sicilia e, se anche non riesce a liberare l’immagine del teatro dal cardine del comico e del farsesco, rappresenta un più avanzato e libero strumento della voce popolare rispetto alla tradizione cavalleresca. perciò durò con ininterrotta fortuna fino al natale del 1907, quando naufragò tra difficoltà varie e nuove risposte ad esigenze della società e della cultura9. il realismo naturalistico del rinascimento si rinnova eclatantemente tra ottocento e novecento, contrassegnando le principali espressioni della cultura e tra queste il teatro. E’, da una parte, la resistenza del dialetto al clima di avversione politica ad ogni forma di regionalismo, interiore al processo di unificazione, dall’altra trova le sue sollecitazioni nell’attenzione del positivismo per i fatti sociali, nell’approfondimento degli studi sociali, nell’interesse della scienza per le classi popolari emergenti e conseguentemente per il patrimonio di cultura popolare, nel connesso approfondirsi e ampliarsi degli studi demologici, che nel 1877 produsse Le origini del teatro italiano10 del d’ancona ed ebbe il suo più ampio documento nei venticinque volumi della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane11 del pitrè. perciò in quel teatro popolare, che pur nella diversità di luoghi e degli scrittori, ha alcune note comuni, che attin-

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G. palange (Storia del teatro dialettale calabrese, Cosenza 1989, p. 99) parla di «tradizioni tendenzialmente laiche», «gusto tutto catanzarese per la macchietta», «inclinazione tutta catanzarese a liquidare con una battuta fulminante, un’espressione sarcastica qualunque situazione, evento, personaggio», «piacere tutto catanzarese di ritrovarsi, ad ogni livello sociale, nel dialetto». 9 per maggiore informazione, v. tutto l’attento capitolo di G. palange in Storia del teatro dialettale calabrese, cit., pp. 95-100. 10 a. d’ancona, Origini, cit. 11 G. pitrè, Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, 25 voll., palermo - Torino, 1870-1913.


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gono in comuni radici dell’animo popolare, concorre la gran parte delle regioni italiane, ma la più incisiva presenza e la maggiore fortuna vanno ascritte a quelle di più antica tradizione ed esperienza, quelle cioè che sono state protagoniste, nei termini poc’anzi accennati, del suo ingresso nella storia: la Toscana con augusto novelli e Ferdinando paolieri; napoli con la sensibilità malinconica di Salvatore di Giacomo e la straordinaria varietà di temi di roberto Bracco, Ferdinando russo, Ernesto Murolo, che avrà il magnifico continuatore in Salvatore viviani; la Sicilia con la ricchezza drammatica di luigi Capuana e la sfavillante comicità di nino Martoglio, avvalorata dal talento interpretativo di angelo Musco. Giova ricordare che lo stesso pirandello fu tocco da quel risveglio: quello che collaborò col Martoglio, quello di testi dialettali illustri, come Liolà e Lumìe di Sicilia. la Calabria è ancora estranea a sì diffuso fervore. né valgono a deporre in contrario senso due notevoli documenti: ’U sona sona e ’U prisebbiu cchi ssi mòtica, apparsi anonimi a Catanzaro tra il 1870 e il 1873 e attribuiti dal lumini a un vincenzo russo, colonnello dei carabinieri a riposo, anzi confermano che il genio e la disposizione non mancavano, ma la mancanza degli strumenti della rappresentazione, palcoscenico e attori, e di una sufficiente coscienza popolare destinataria non li alimentava, se non li dissuadeva del tutto. Ma è proprio quel teatro forestiero a fomentare, componendosi con numerosi altri fattori della vita sociale e civile, il sorgere di un teatro dialettale regolare in Calabria. Tra ottocento e novecento la regione incomincia a scuotersi. Tra i fatti più significativi ai fini della nostra materia vanno annotati un avvio delle opere di bonifica e del potenziamento delle comunicazioni, prima medicina alla disgregazione del territorio, barlumi di coscienza di classe conseguenti alla propaganda politica e al progresso dell’istruzione di base, una certa apertura di mentalità connessa all’allargarsi dei rapporti interregionali, anche per via della coscrizione obbligatoria e dello stesso doloroso flusso migratorio, e

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a rossano, ad es., funzionava fin dal secondo Settecento un Teatro provinciale, unico in Calabria. un’indagine del 1865 evidenziava in Calabria citra tre teatri oltre quello di rossano: paola, Castrovillari, Cosenza. il teatro cosentino, denominato Bancato, era iniziativa di privati cittadini; il più antico teatro “real Ferdinando” era stato abbattuto per disposizione di Ferdinando ii di Borbone nel 1853. l’attuale “rendano”, progettato nel 1857 come “Teatro Massimo”, fu inaugurato solo nel 1909. per altre notizie, cfr. a. Furfaro, Storia del Rendano, cit.


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ad una più diffusa azione degli organi di stampa. non è che a quel tempo i palcoscenici mancassero del tutto in Calabria,12 ma erano presenze rare e di élite, in una coscienza collettiva, nonostante le voci di protesta, dormiente e supina. ora il palcoscenico compare in molti centri; la prosa, la lirica, l’operetta, fatti precedentemente eccezionali, cominciano ad essere di casa, portati da compagnie di grido. nella prosa fanno da signore Sicilia e napoli, coi nomi più conclamati e con fortunate proposte del loro teatro dialettale. Compare intanto il cinema. la consuetudine crea a mano a mano l’assuefazione e l’imitazione; nascono le filodrammatiche; la volontà di scrivere testi s’incontra con i due principali alleati dello scrittore di teatro: il palcoscenico e gli attori. E’, per il teatro dialettale calabrese, la pienezza dei tempi e in tale contesto s’inquadra l’opera di Michele de Marco, della quale la sommaria analisi dei pregressi, fin qui condotta, aiuta a cogliere nella lor propria dimensione la natura e il significato. l’ingresso del teatro dialettale sulla scena, cioè l’inizio di un teatro organico, avviene, come si è visto, in poco più che un decennio. ne abbiamo registrato il prodromo con la rappresentazione, avvenuta nel 1923 nel «Teatro Comunale» di Cosenza ad opera della compagnia Spadaro-Grasso, di due opere tradotte in siciliano, Mara Grazia di Michele de Marco e Aceddu di la verità di napoleone vitale, (Bova, 18831950), con le reazioni che l’avvenimento destò, poi i primi albori, costituiti dalla rappresentazione, avvenuta nel 1930, della farsa Fratellanza nofriana ad opera degli alunni del Ginnasio-convitto di Cosenza e con personaggi inevitabilmente tutti maschili, e la maturazione, cioè il battesimo del «Teatro dialettale calabrese» avvenuto il 13 giugno 1932 nel «politeama» di Cosenza con la rappresentazione di tre opere di de Marco: Proemio al teatro dialettale, ’U suonnu de chist’uocchi, Quarantottu ’u muortu chi parra, e con le polemiche che l’accompagnarono, quindi lo sviluppo attraverso la successiva attività dell’autore. Si rimanda perciò a quel capitolo il cortese lettore. Qui interessa rilevare anzitutto, dell’opera di Ciardullo, il valore di esempio, ricordando che già sullo stesso tema di Mara Grazia, cioè le lacerazioni prodotte dall’emigrazione, Sandro Turco (Castrovillari, 1898-1932) scrisse ’A ricchizza nosta, bozzetto in un atto, che nel 1924, cioè ad un anno appena di distanza dal successo di Mara Grazia, fu rappresentato nel cinema-teatro «vittoria» di Castrovillari dalla filodrammatica «Stabile». prima di entrare nell’analisi delle opere di Ciardullo, vuol dedicarsi


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molta attenzione al contenuto del Proemio, per la luce che diffonde sugli intenti e sui caratteri di tutta l’opera. di esso possediamo solo frammenti, sia pure ampi e significativi, tramandatici da un articolo di riccardo Manfredi13. Spiacevole perdita di un vero e proprio manifesto letterario, perché, se i frammenti residui costituiscono spie ampie e fondamentali, non è arbitrario congetturare che altre significative esso ne offrisse, nelle parti perdute, degl’intenti dell’autore e dei caratteri dell’opera. il primo contiene l’affermazione, lungamente meditata dal poeta e rispondente alla matura attesa della pubblica coscienza, della dignità del dialetto calabrese e della sua capacità di farsi teatro: Si tutte le parrate d’ogni pizzu d’italia purtate e rigirate supra li palcuscenici sû ’na gioia, ’nu juru, pecchì lu calavrisi nun cce à d’èsare puru?

una proposizione letteraria che si riporta alla Contesa di Giovanni Conia e che è insieme una rivendicazione sociale, quella stessa piena affermazione di dignità regionale che è alla base della ricerca dei canti popolari da parte di Ciardullo e della lirica Calavrisi, jettati la sarma e che entra esemplarmente a comporre il quadro della sua calabresità. Segue, in due brani di diseguale lunghezza, a dimostrazione della sua forza e della sua capacità, la trasfigurazione lirica dei contenuti ai quali il dialetto ha dato vita in poesia. il primo, più disteso, riguarda l’amore, i cui palpiti più vivi vengono colti nel genere popolare della serenata: Quannu janca la luna supra chisse campagne fatata sta ’mpernata e ’na chitarra sbatta, senti ’na serenata, ’na vuce... ’n’atra vuce...

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r. Manfredi, Un avvenimento d’arte: il teatro calabrese, <Fra nicola>, a. XXX, n. 9, 25 giugno 1932.


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pue ’n’atra ppe terzinu chi s’aza e va ppe ll’aria ccu ’nu sguillu argentinu, tu riesti ’mpantasatu e dici: «Quant’è bella!» e chiudi l’uocchi e pienzi. vidi ’na finestrella chi s’àpera ’na pocu, ’na singa, escia ’na manu e pue ’na rosa russa chi cada c˜hianu c˜hianu, e la canzuna s’aza tranquilla e la chitarra para ca tena ll’anima, para ca propriu parra...

il secondo consolida la sfera del sentimento d’amore e l’estende a tutte le altre manifestazioni del voler bene: gli affetti familiari, i vincoli di sangue, l’amicizia, la solidarietà, l’ospitalità con le loro implicazioni, affermandone, sotto la veste di rozzezza, la gentilezza, la solidità, la passionalità, la durata: ruzzu è lu core nostru, ruzzu sì, ma sinceru: si dicia «vuogliu bene» è bene, è bene forte, è bene chi pò frùnari, si fruna, ccu lla morte! ’u calavrisu è gente tagliata a ’na manera, chi nun joca de cuda, chi mai nun muta cera.

l’attenzione dell’autore alle espressioni poetiche del dialetto si rivela chiaramente limitata, trascurandone alcune tra le più valide, come quella sociale, la cui valorizzazione, bisogna tuttavia notare, appartiene alla coscienza critica del secondo dopoguerra. la dipintura, peraltro, è affidata a immagini di moda, che dalla musicalità di di Giacomo attingono, a ritroso, quelle vene romantiche ai cui esasperati compiacimenti si guarda oggi come ad una delle cause di tanta permanente codificazione negativa della regione, ma reca i segni dei tempi: i toni del teatro dialettale


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dominante, quello siciliano e quello napoletano, il clima di passione che cinema e musica contribuivano ad accendere. in quell’atmosfera trova posto e spiegazione l’accenno al delitto d’onore come ad un topos del costume sociale e della moda letteraria: E si cca tuocchi o ammacchi ’na cosa delicata, sì, sì, c˜ c˜hiù de ’na vota curra ’na curtellata. nue supra certe cose la penzamu all’antica no comu chini dìcia c˜hiac˜c˜hiere...14

C’è, nel Proemio, la coscienza che i vari sentimenti e i vari aspetti dell’animo calabrese, i piccoli e grandi momenti della sua storia, singolarmente interpretati da secoli di poesia, abbiano finalmente trovato il momento della sintesi, della rappresentazione scenica, l’uomo capace di operarla, uno strumento linguistico unificatore e largamente comunicativo: Tuttu ’stu fuocu nostru, ’sti sentimenti ..., ’st’amuri, ’st’odiu, ’st’anima nostra, chissi turmienti chi nne travagliû l’anima, chi nne vruscia lu core, ’sta passione cucente chi sbampa ed escia fore, tutti, tutti ’ssi spasimi ch’a nue nne faû morire chissa parrata nostra cumu, cumu sa dire!

E c’è anche un’implicita dichiarazione di poetica. Ciardullo, in definitiva, mentre difende, attraverso i tre frammenti, la capacità espressiva del dialetto, propone un teatro di sentimento, soprattutto di quello d’amore, fuori delle complicazioni intellettuali dominanti in tanto teatro in

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ritengo logico trasferire qui questa parola, che nella versione del cronista e nell’edizione MidE fa parte del verso precedente.


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lingua dell’epoca. il quale implicito rifiuto non importa, come una facile lettura dei brani potrebbe indurre a credere, una concessione al teatro del tenero e del languido, che anzi si vedrà quanto quello amoroso di Ciardullo sia problematico e fremente. Che se il tono, cedendo all’entusiasmo, alla moda, ai gusti della platea, si faceva così acceso e carico come si è potuto osservare, ciò era in verità al di là della reale misura dell’opera di Ciardullo, nella quale i drammi umani, compreso il delitto passionale, sono trattati non con l’indulgenza del restante teatro, ma con mentalità critica e dolente. il primo dei frammenti contiene, nell’accenno alla campagna, un chiaro riferimento all’ambiente predominante nella poesia ciardulliana, umile e contadino, che tale resta anche nella grandissima parte del teatro con i suoi spaccati (casolari, borgate e campagna), che fanno da base o da sfondo alle vicende. a quell’ambiente rimandano più profusamente le «finestrelle» e la chitarra che «sbatta» in accordo con la voce che s’interzina, cioè la chitarra «battente», confidente e veicolo per secoli dell’animo contadino, canto e rappresentazione ad un tempo, riconducibile a una rudimentale forma di teatro popolare. Ho accennato a suo tempo all’entusiasmo delle reazioni critiche che, nonostante la nota di dissenso del partito, l’avvenimento destò. Qui noterò soltanto una interessante puntualizzazione di Guido pizzuti, il quale, nel coro quasi concentrato sulla trionfante capacità del dialetto, richiamava alla necessità di una più limitata attenzione a questo aspetto del nuovo teatro, da considerare come «elemento incidentale», e viceversa di una più concentrata attenzione ai contenuti, cui assegnava il ruolo primario, esercitabile «con sapienti introspezioni psicoanalitiche ed attraverso una sapiente concatenazione di quadri di vita paesana anzi strapaesana», di «far conoscere agl’italiani i caratteri più peculiari d’una stirpe forte e generosa, finora bistrattata e dimenticata». perciò rimproverava a Ciardullo le allusioni al coltello vendicatore e invitava ogni eventuale scrittore di teatro a «controllare le proprie esuberanze soggettive... nel rendere i caratteri fondamentali della nostra anima»15. Ma, come si è detto, la moralità di de Marco uomo e scrittore non aveva bisogno di pungoli, nonostante l’infocato proemio, improntato all’entusiasmo dell’impresa, per contenere la sua opera in un preciso

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G. pizzuti, Il teatro calabrese, cit., passim.


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ambito di utilità pedagogica e sociale. di de Marco ci restano sei opere, delle quali quattro drammatiche: ’U suonnu de chist’uocchi, (un atto, in prosa), Vie de ’nfiernu (un atto, in prosa), Vampate (tre atti, in versi), ’A scala (tre atti, in prosa), e due comiche: Quarantottu, ’u muortu chi parra (un atto, in prosa) e Fratellanza nofriana (tre atti, in versi). Come è evidente, quattro sono le opere in prosa, due quelle in versi e queste ultime appartengono agli anni venti, la qual cosa può significare un iniziale ossequio dello scrittore alla tradizione carnevalesca, dalla quale si sarebbe in seguito sganciato per una scrittura più libera. Quanto al numero degli atti, invece, non si può parlare di uno svolgimento cronologico, restando la soluzione tra il modulo veristico, che poneva il limite a due atti, e quello canonico dei tre atti, secondo l’uso, ad esempio, del contemporaneo napoletano raffaele viviani.


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CapiTolo ii

i draMMi dEll’EMiGrazionE Mara Grazia - Vampate - Core patrune sempre

l’argomento mi costringe ad entrare, a titolo di premessa chiarificatrice, in castra aliena, cioè ad invadere quel tanto che è opportuno il terreno specifico dello storico e dell’antropologo. il fenomeno della prima emigrazione, che occupò gli anni dal 1870 al 1930 ed entra per parecchi ed eclatanti aspetti nel teatro di de Marco, fu di così vasta portata da incidere profondamente nel tessuto demografico delle regioni interessate, fino a toccare, a cavallo dei due secoli, il 30% della popolazione calabrese e da modificare tanto le condizioni economiche, sociali e del costume da giustificare la definizione, che ne fu data da F. S. nitti, di vera rivoluzione1. Ci vorrà il secondo dopoguerra per registrare un’altra rivoluzione di così vasta portata, che ne può essere considerata per molta parte il naturale svolgimento e completamento. le conseguenze socio-economiche più vistose, che sono alla base dell’avversione degli agrari per l’emigrazione e dei giudizi sommari sugli emigrati, riguardano lo spopolamento della terra, con i connessi fenomeni di crisi della manodopera, aumento dei salari, trasformazione degli antichi patti agrari e del rapporto di lavoro. Emigrare è un tacito ribellarsi ad una condizione secolare di servaggio e di miseria, un atto violento di liberazione, che non ingiustamente è stato accostato, nella sua origine, al brigantaggio. il frutto della rischiosa avventura s’investe nella soddisfazione del bisogno primario, che è la casa, poi nell’acquisto di terreno, nella realizzazione di innovazioni e trasformazioni, nel prestito del

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F.S. nitti, Scritti sulla questione meridionale, vol. iv, parte i, Bari 1968, p. 155. leggi anche le pp. ss.


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denaro a interesse. il vecchio proprietario è costretto a scendere a patti con gli antichi soggetti, spesso a ricorrere al loro danaro, a vendere loro delle terre. i nuovi ricchi ostentano in tutte le manifestazioni del vivere la loro fortuna, avviano i figli agli studi, impongono in una società ferma, anche contro la propria intenzione, la loro diversità, in definitiva costituiscono una nuova classe, intermedia tra i contadini e i signori, quale è avvertita non solo dalla classe dominante, ma dalla stessa cerchia di origine. la seconda vasta conseguenza riguarda l’erosione dell’antico ordine familiare, del focolare domestico come centro di valori e cellula della vita sociale. al centro del fenomeno vanno ricondotte, in un’analisi storica serena e nello spassionato esercizio del giudizio morale, con egual peso la parte della donna e quella dell’uomo emigrante, anche se la prima è innegabilmente più vistosa nei termini tradizionali dell’ordine sociale e morale. a volersi tenere equamente distanti da una parte dalla criminalizzazione della donna operata da certi resoconti giudiziari e da certe posizioni di scuola o comunque interessate, che guardano all’istinto, e dall’altra dalla mitizzazione di una letteratura ideologizzata, che ha costruito l’eroismo della solitudine, l’essenza dei fatti è quella che studiosi e uomini di legge hanno descritto e che il sorriso, l’ironia, il sarcasmo della letteratura folcloristica ha riflesso e caricato: i matrimoni affrettati per la partenza dello sposo, la lunga solitudine della donna, le insidie, i cedimenti, i ratti, gli stupri, l’elevato tasso della filiazione illegittima, degli aborti, degl’infanticidi ed altre connesse trasgressioni. intorno a siffatta selva di malanni, la stretta cintura ambientale nel suo duplice volto: il pettegolezzo sorridente, ammiccante, malevolo e la connivente omertosa solidarietà, tesa a risolvere i fatti all’interno della società stessa, fuori dal controllo delle leggi dello Stato. alla donna resta, oltre la responsabilità di regolamentazione della propria condotta, la conduzione della casa, e, in molti casi, il peso dell’educazione dei figli, con un duplice effetto: la delinquenza minorile, conseguente al limitato esercizio del controllo, e quella della donna stessa, conseguente all’assunzione, da parte di lei, dei ruoli maschili, anche sul piano negativo dell’infrazione delle leggi. Ma, al di là del negativo, sociologi e antropologi hanno messo in luce il posto di questa assunzione di responsabilità nello sviluppo storico della condizione femminile. non meno problematica e per molti aspetti corrispettiva alla condi-


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zione della donna è quella degli uomini emigrati, i quali, tuona il procuratore generale di Catanzaro nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario 1906, «vivono in concubinaggio e adulterio, procreano spuri, ingannano donne facendosi credere scapoli» e commettendo molti connessi delitti, tutti motivi della condanna in blocco pronunziata nei riguardi dell’emigrazione da studiosi d’oltreoceano. a parte l’ingiusta generalizzazione del giudizio, la rilevanza dell’amara realtà va guardata nel quadro di un persistente groviglio psicologico, nel quale concorrono, con il sapore della libertà, col gusto dell’avventura, con la forza dell’istinto, esaltati dalla predominante ignoranza, la triste condizione del vivere, l’insicurezza, l’irrequietezza, la preoccupazione. non meno delle donne abbandonate gli emigrati, scrive vito Teti, vivono uno stato di cordoglio continuato, una situazione di lutto irrisolto [...]. le donne sole diventano vedove che aspettano il marito vivo e gli uomini senza donne si sentono insieme sposati e scapoli. E’ a questa scissione, a tale frattura e perdita di presenza psicologica e culturale, a un generalizzato e continuato «disordine melanconico» che vanno ascritte le nuove forme di partiti e rimasti, separati e nello stesso tempo legati [...]. il paese è un fantasma che accompagna, segue, insegue gli emigrati nel nuovo mondo. [...]. le scelte degli emigrati sono spesso frutto delle idee distorte del paese che si formano. E di riflesso, come in un gioco di specchi, le donne sole in paese regolano spesso le loro scelte, decidono i loro comportamenti in base alle immagini distorte che arrivano dal paese mai visto d’america. la preoccupazione delle corna, accentuata dai «si dice» e dalle allusioni dei paesani, diventa esasperazione per «uomini senza donne», che vivono in campi di lavoro e nelle pensioni, affaticati, umiliati, spesso affamati [...]. la paura e l’incertezza per quello che può accadere in paese sono all’origine di molti comportamenti anormali riscontrati in quel periodo tra gli emigrati2.

Siffatto groviglio, in cui gioca a mano a mano un vago senso di colpa, governa anche la condotta dei ritornati quando sono messi di fronte all’infedeltà delle donne o comunque a situazioni familiari inattese e sgradite. le statistiche dicono che la soluzione tradizionale, al di fuori della legge dello Stato e interna a quella società stessa, cioè il delitto d’onore, è in progressivo recesso nella categoria dell’emigrazione. Chi torna giudica la colpa della donna non più in base ad un parametro assoluto di

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v. Teti, Donne sole in Calabria, «periferia», a. iX, n. 25, gennaio-aprile 1986, passim.


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valore morale, ma con quello assai confuso della propria storia, tra le attenuanti che la coscienza gli detta e il pungolo della vergogna, tra il calcolo delle conseguenze certe di un delitto e il richiamo d’una libertà avventurosa che ha assaggiato e alla quale gli è gravoso rinunziare. Chi non riesce ad accettare, a perdonare, non ha che una soluzione: la rinunzia, la fuga. Ed è la soluzione definitiva di molti dei drammi dell’emigrazione. Questi termini fondamentali del fenomeno, che ho sommariamente richiamato, si riflettono in molta parte nell’opera di Michele de Marco e s’illuminano del suo giudizio. Tre sono le opere ispirate dal tema emigrazione: Mara Grazia, Vampate, Core patrune sempre. della prima, che, come si è detto, gli attori Spadaro e Grasso rappresentarono a Cosenza nel 1823 tradotta in siciliano e poi portarono con successo per l’italia, restano testimonianze di cronaca, entusiasticamente laudative: l’opera è stata vivamente applaudita da un pubblico sceltissimo e per abitudine non indulgente, perché essa s’impone sin dall’inizio per una sicura previsione di effetti e per una cura scrupolosa di ogni dettaglio... l’azione e il dialogo si svolgono con tale naturalezza che pare di assistere non da un palco ad una rappresentazione teatrale, ma dal balcone di una villa a un interessante episodio campestre... ma soprattutto è notevole la coerenza del carattere dei personaggi e dell’azione3.

purtroppo un banco di prova non può essere eretto su ricordi e testimonianze, tanto più che il dramma rappresentato era, per così dire, solo per metà di Ciardullo, mancandogli metà della sua forma, cioè il dialetto calabrese, e tuttavia non si può non considerare, nel giudizio, che Grasso aveva già portato in giro per l’italia Malia di Capuana e Cavalleria di verga. Ma se non è dato misurare attraverso l’analisi del testo il valore letterario dell’opera, è possibile ricavare dalla minuziosa esposizione dei contenuti, che il cronista ci ha lasciato e che qui si riassume per amore di brevità, quello sociale e il significato e il posto dell’opera nella problematica e nel pensiero dell’autore.

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ed., Mara Grazia, cit.


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la scena iniziale è di natura ambientale: una casetta di campagna, davanti alla quale rocco, un anziano contadino, parla ad un gruppo di giovani leghisti, lodando il buon costume antico e l’onestà di sua figlia Mara Grazia. Egli è ignaro del dramma della figlia, ma non lo ignora Titta, che perciò fa, ogni tanto, maliziosamente il verso alle sue parole: Mara Grazia, giovanissima e bella, lasciata dopo solo otto giorni dalle nozze dal marito emigrato in america, non ha resistito alla lontananza e ha ceduto all’amore di pippo. Titta ora confida il segreto ad uno della comitiva, suscitando la rabbiosa reazione di Mara Grazia, che lo affronta e minaccia ad armi pari, ricordandogli un suo tentativo da lei respinto. Sopraggiunge pippo e racconta di aver ucciso una volpe che decimava ogni notte il pollaio di rocco: altro argomento per resuscitare le allusioni di Titta e gli sguardi maliziosi delle ragazze. poi suoni e balli, ai quali partecipano giovani e vecchi, e pippo con loro; sola, in disparte, Mara Grazia si rode visibilmente. Ma è già tardi ed essa, che ha acconsentito a passare la notte nella casa dei genitori, si trattiene fuori, ove avviene il convegno amoroso e la gelosia si dissolve; alla madre, che la chiama, racconta che ha recitato il rosario. Ma ’ntoni, che è stato avvisato da una lettera anonima del tradimento della moglie, torna precipitosamente al paese e, intuito in Titta l’autore della missiva, lo costringe a confermargli la verità in tutti i particolari e a ripetergli il fischio di pippo, segnale del convegno. Ed il fischio di pippo non tarda. Mara Grazia apre la botola per farlo passare, ma si trova davanti il marito tradito. raggomitolata in un angolo, senza voce, attende la sua sorte. Ma ’ntoni non l’uccide: impreca, insulta, si dispera, vuol sentire la verità dalla sua voce. la donna intuisce di aver vinto, di essere più forte; si erge, grida: _ uccidimi, ma sei tu che l’hai voluto! _ E cade sfinita. ’ntoni, che l’ha ascoltata smarrito, in un tumulto di pensieri, la guarda un’ultima volta e fugge. pur nella consapevolezza che i contenuti prendono rilievo e significato dalla parola e che, perciò, la mancanza di questa condiziona la lucidità e l’ampiezza dell’esame, è possibile interpretarli senza forzature nei loro più chiari ed evidenti messaggi. Ciardullo affronta il problema dell’emigrazione nel suo lato più crudele e innaturale, la vedovanza bianca. attento sempre a sollevare a significato universale le figure di un piccolo mondo, qui eleva il dramma singolo a categoria morale, interpretandolo, per la prima volta nella sto-


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ria letteraria e in quella sociale, con i canoni della compassione, della moralità e insieme del diritto di natura. la solidale compassione dell’autore non si rivela nel costruire un’immagine edulcorata della colpa di Mara Grazia per conquistarle benevolenza, anzi egli carica la sua parte attiva, i particolari della colpa: la capacità piuttosto sfacciata di contendere con Titta, lo scoperto rodimento della gelosia, la resistenza a consigli e preghiere dei genitori, la piccola impostura, in certo senso dissacratoria, della giustificazione. Egli, invece, frantuma il comune metro di giudizio, sostituendo alle soluzioni tradizionali, che erano anche quelle letterarie, del ripudio e della punizione, quella pedagogica di una presa di coscienza, da parte dei protagonisti del dramma e della stessa società, delle cause e delle circostanze della colpa. Mara Grazia sa di aver infranto la legge morale e lo dimostra nel suo rannicchiarsi disperato, tra il terrore e la coscienza della fatalità della punizione e, se attinge la forza della difesa, lo fa solo nella debolezza dell’altra parte, la quale par che le costruisca apposta, con i vari moti dell’animo e della parola, un piedistallo di diritto e di coraggio. Essa vi monta prontamente, sovrapponendo alla propria colpa quella dell’altro, il costretto abbandono, mentre l’altro sospende la sua vendetta per un complesso intricarsi di un perdurante comandamento d’amore e di un improvviso barlume di verità, che per la prima volta gli fa apparire Mara Grazia come donna e non solo come moglie. la soluzione e il significato del dramma non sono, perciò, tanto nella ribellione di lei, quanto nella reazione del marito, nella cui confusa coscienza il grave fardello di emigrato, col dolore della lontananza e i fastidi di una vita faticosa e sola, comincia a fondersi con il senso di una insospettata condizione di responsabilità. Ma come una siffatta assunzione di colpa da parte di chi è soltanto vittima della sorte e della storia suona dolorosa ironia, così la reazione della protagonista, drammaticamente efficace, si sfalda sul piano del giudizio morale, regolata com’è da nessun valido criterio oltre quello del dispetto, dell’istinto di difesa disperata. è, perciò, evidente che Ciardullo, mentre come scrittore la registra nella sua amara contraddizione, come uomo morale vuole ricondurre sia la responsabilità della donna sia quella dell’uomo alla loro propria sede, fuori cioè di loro e fuori della famiglia, all’unica radice della responsabilità sociale, dell’emigrazione come fenomeno con il suo triste corredo di lacerazioni e di rovine. Ed è altrettanto evidente che egli non grida un generico diritto di natura _ lo si dice a frenare fraintendimenti e distorsioni del suo pensiero _, ma ne denunzia l’offesa nell’ambito dei


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vincoli sociali, che la violenza esterna del bisogno interviene a turbare e sovvertire. altri momenti dell’opera ci chiariranno tale posizione dello scrittore nel quadro della sua malinconica visione del mondo e della vita. intanto la drammatica problematicità ciardulliana balza anche dal confronto col bozzetto ’A ricchizza nosta, di Sandro Turco, rappresentato, come si è detto, in Castrovillari nel 1924. Qui la vicenda risulta altrettanto dolorosa, ma assai meno efficace la soluzione: un emigrato, ritornando dopo molto tempo di lontananza, trova la donna, che egli ha abbandonato con un figlio in tenera età, unita ad altro uomo e, dopo un minaccioso atteggiamento di resistenza, accetta la nuova situazione, ma non per effetto di un travaglio interiore, sibbene per la casualità degli eventi, cioè per una sua grave condizione di malattia, che lo fa riflettere sulla sua incapacità di assistenza e viceversa gli fa vedere nell’altro la sicurezza per il futuro della donna e del figlio. Sul piano tecnico il valore della scena iniziale, di natura ambientale, che il cronista giudica piuttosto prolissa, occupando metà del primo atto, appare in realtà, dal suo contenuto, nient’affatto oziosa, anzi completamente funzionale a far conoscere antefatto e persone e a preparare il dramma. Questo, che qui è un reperto, si rivelerà, nel procedere dell’analisi, un vero e proprio canone. Vampate è certamente anteriore alla nascita del «Teatro dialettale», come risulta da una testimonianza di alessandro adriano, il quale, dopo aver parlato del successo dei drammi ’U suonnu de chist’uocchi e Core, patrune sempre (anni 1932-33), scrive: «il successo incoraggiò tanto l’autore, che finalmente si decise a parlarmi della possibilità di fare andare in scena un capolavoro, il suo capolavoro drammatico che teneva in serbo per lanciarlo al momento opportuno, avendolo composto già da qualche anno»4. la testimonianza rinvia, per lo meno, alla fine degli anni venti. Esso non fu mai rappresentato probabilmente per le difficoltà che presenta alla realizzazione, trattandosi di una favola di respiro molto ampio, calata in una ricchezza e varietà di elementi più da film che da teatro, sì da poter parlare, come si è detto per certi ambienti del teatro di viviani, di romanzo breve. pasquale l’americano cerca moglie; Squaquicchiu, un rivendugliolo

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a. adriano, Il teatro di Ciardullo, cit.


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sensale, s’incarica di procurargliela e lo fa con arte diabolica, sottraendo col seme della gelosia Matalena a Franciscu, dandole cioè a credere che egli se l’intenda con Scintina de paccune. la donna, profondamente innamorata, dapprima resiste, e lo fa anche con sdegno, ma le insinuazioni del diabolico mezzano sono così sapientemente architettate che essa, finalmente, cede. Franciscu, dopo essersi sfogato con un canto di dispetto e una bevuta all’osteria, fa presto a dimenticarla, ma non Matalena, che, divenuta moglie ricca e ingioiellata di pasquale l’americano, conserva il volto del giovane nel cuore. per la festa di Sant’ippolito c’è una grande animazione davanti alla chiesa; la gente, dopo il rito, si dispone a crocchi sullo spiazzo antistante, riccamente addobbato, tra grida di venditori e di giocatori e fanciulli che scorrazzano, o si sparge per i campi a consumare lietamente il pasto. Ci sono anche quelli del vecchio vicinato di Matalena, ai quali si uniscono di seguito Squaquicchiu, la stessa Matalena con pasquale, infine Franciscu. l’atmosfera si fa carica e tesa: Franciscu offre a tutti da bere, traendo il discorso tra lo scherno allusivo e la provocazione aperta, poi chiede a Gatanu il cieco di cantare la Canzuna de li mericani, una canzone di dileggio allora in voga, che il cieco esegue con diletto dello stesso pasquale. Tra il disagio e la stizza, Matalena avverte chiaramente il suo stato di donna ricca, ma tradita nell’amore, e l’amore e il desiderio si ridestano come una vampata, sicché, rimasta sola con Franciscu, mentre gli altri visitano la chiesa, cede, dopo una schermaglia di sentimenti e di parole, al suo invito e lo segue tra la folla. inutilmente pasquale la cerca. dopo d’allora, tra crucci, capricci e gelosie, non c’è pace nella casa di pasquale. Sette mesi dopo è festa nel vicinato e nella casa di Franciscu: il giovane va sposo alla figlia di Gustinu. Tra luci e pioggia di confetti e grida di fanciulli il corteo nuziale torna dalla chiesa e la suocera accoglie la sposa nella nuova casa. poi la festa si fa interna, mentre fuori il tuono brontola e cade la pioggia. Sola davanti alla casa in festa, tra i lampi e la pioggia che s’infittisce, Matalena è venuta a guardare ed ascoltare, a consumare la sua vampata, la «vrascia cucente». pasquale la cerca e la raggiunge, accompagnato da Squaquicchiu. ora il lenone invoca le medesime arti con cui ne ha procurato l’infelicità, le assicura che il marito è disposto a perdonarle, che la nave, «’u lignu», è pronta e in america sarà tutto dimenticato. Matalena lo respinge con tutta la forza del disprezzo e con lo stesso disprezzo respinge il marito, al quale getta in faccia la verità e addossa la colpa dell’infelicità sua. pasquale avverte l’irreparabile e pian-


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ge. Squaquicchiu, cinico, lo trascina con sé nella pioggia dirotta e Matalena resta lì, davanti alla casa in festa, con la sua disperata pena. Qui Ciardullo affronta il problema dell’emigrazione da un’altra angolatura e in un’altra faccia delle sue conseguenze sociali: la condizione di chi, avendo fatto fortuna, ritornato dopo gli stenti e la lontananza, crede di aver in mano la chiave del rispetto sociale e della tranquillità familiare e naufraga in questa sua legittima aspirazione. anche in questa condizione l’emigrato è un vinto e il giudizio sociale, che s’appunta alla facciata esterna delle cose, si riflette nel dileggio della canzone che accompagnò la fase più densa e cruda del triste fenomeno calabrese e che, per interpretare un fenomeno, era rappresentativa del numero e della costanza dei casi. pasquale è, perciò, diversamente da quello che una facile lettura può far pensare, un personaggio caro al cuore dell’autore, un suo ricorrente fantasma poetico e un suo cruccio umano. Ma qui il problema si complica con un altro di portata ben più ampia e particolarmente vivo in quella società patriarcale da cui Ciardullo traeva i motivi della sua riflessione e della sua arte: la libera scelta del matrimonio da parte della donna. nell’esame del quale problema l’accusa non è, come non lo è per Mara Grazia, per l’uomo, ma per la violenza sociale, qui rappresentata dall’intrigo e dall’inganno. in questa difesa della libertà di determinazione, anteriore ad ogni giudizio di responsabilità, Ciardullo è veramente anticipatore. la stretta relazione fra i due drammi è evidente anche nella struttura della rappresentazione: il marito tradito, la donna peccatrice, l’intervento esterno, sia pure in chiave diversa, nella determinazione della vicenda: lì Titta, qui Squaquicchiu, la scena iniziale introduttiva e preparatoria, la soluzione finale affidata alla donna in veste di accusatrice. Ma mentre in Mara Grazia la mancanza del testo non ci ha consentito che intuizioni sociologiche e morali, per Vampate esso fornisce tutti i necessari elementi di giudizio. il dramma vive della dimensione artistica dei personaggi, la quale non si sovrappone all’ambiente, ma passa per le sue pieghe. l’ambiente iniziale, fatto di cose ordinarie, problemi quotidiani e pettegolezzi, dispetti e simpatie, lavoro e riposo, vicinato vecchio e infiorato, strada, verone e cantina, schermaglie e curiosità, e mastru Titta sulla soglia della cantina, fa pensare al Teocrito dei mimi urbani, anche per la fresca grazia e la dosata schiettezza ed efficacia del dialogo. E questo è una sequenza continuata, ove le pause, che non mancano, non sono fratture, ma legami


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lirici e tematici, variati più volte dal contrappunto. Tale funzione ha, per rilevare qualche esempio, il grido del rivendugliolo: acu, acuzze, buttuncini, e trinetti e gargarelle; puntaggiornu, nastri fini accattati, donne belle!

o il canto delle fanciulle, ingenuo messaggio dei segreti pensieri: acqua de sdegnu e sapune d’amure pue truovu, bella mia, ppe lle lavare, ca si lu sdegnu me dà gran dulure, lu granne amure tue lu fa passare;

o mastru Titta che porta fuori dalla cantina il bicchiere con la compiaciuta sicumera del fornaio Cisti di Boccaccio: TiTTa. SQuaQuiCCHiu. TiTTa.

Squaquì, nu’ llu guardare. Se vrigogna? E’ barsamu!

o la scena paesana della passatella, «’u tuoccu», motivo presente anche nell’opera poetica e qui risolto in un filmato che non perde colpo, tanto preciso che Ciardullo stesso ne sembra parte, e parte da padrone, attento a non farsi seminare: TuMaSi.

CiCCu. TuMaSi. FranCiSCu.

TuMaSi.

nun ’mbrogliamu lu siminatu; fermi alli jìrita ca cuntu io! Cinque ... nove quattordici ... vintunu vintitrì... vintinovi trentatrì. a’ fattu sbagliu, ’nn’à zumpatu unu. no ca sû giusti. Sì, sû giusti, sì. nove diciottu vintisette... lu cuntu vo’ vintuottu... vintinove, cchi vue? va’ t’arricette, ca è proprio d’accussì!... Trenta, trentunu... Cchi me fai lu dottu? trentadui trentatrì... è patrune zu ruoccu, io sugnu sutta.


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E prima del serioso consultarsi e delle gravi determinazioni adottate, come il gioco comanda, sul filo di un’attenta politica del dare e avere, dell’amicizia, della gratitudine, del dispetto, come davanti a un groppo politico, si leva il canto del padrone, di antica tradizione popolare, momento di un rito religioso, preghiera e quasi inno sacro: Guappu pitignu, ccu llu suchillu tue li mali attagni! Sia benedittu chine te spitigna, chine te puta e de surfa te bagna!

un bozzetto in sé compiuto e perciò isolabile, quasi componimento autonomo e insieme finalisticamente accordato col prima e col poi. nelle spire di questo vario teatro s’inserisce a punto a punto e cresce senza fallo e senza affievolimenti il diabolico costrutto di Squaquicchiu, ma cresce proprio in virtù dell’esatto supporto. l’ambiente della festa paesana è realizzato a prezzo di una pittura pur essa continuata, nella quale gli elementi sono uno accanto all’altro, ma anche uno spirante dall’altro, anzi nella loro economia c’è tale intreccio e tale reciproco sostegno, che è impossibile sorprendere uno iato. Tale continuità riguarda movimento e dialogo e con la stessa intensità l’ambiente della chiesa come quello dello spiazzo, con un naturale inserimento di alcune figure oltre la folla anonima dei paesani, dei contadini, delle comari, dei ragazzi: «’u pizzillaru», «’u milunaru», «’u copparellaru», il venditore di voti, il venditore di giocattoli, il parroco, «’u spirdatu», il sagrestano, il cieco, personaggi tutti non anonimi, ma essenziali alla sostanza della storia, strettamente finalizzati allo svolgimento spirituale e alla parola dei protagonisti, l’uno e l’altra, a lor volta, ancorati a quell’intricato supporto. E’ evidente che nella realizzazione intervengono una consumata esperienza e riflessione, un esempio di osservazione fattosi metodo, attento all’armonia generale e al quadro d’insieme come alla nota e alla pennellata, col risultato di costruire il naturale motore per la continuazione del dramma fondamentale. l’ambiente finale dev’essere, per lo scioglimento del dramma, di provocazione, di contrasto, di ossessione, e perciò presenta uno scorcio di paese addobbato per la gloria di un corteo nuziale a sera e poi la risonanza della festa dall’interno della casa. Questa scena, che nella coscienza del poeta colto fondeva immagini d’epitalami catulliani: il corteo, le


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tede, l’imeneo, con le costumanze del paese, gioca sul piano dei sentimenti collettivi: la partecipazione rionale, i preparativi d’uso, l’impazienza, l’attesa, lo scoppio della festa nuziale, e trova il suo contrappunto in due momenti lirici: il tenero saluto della suocera alla sposa: Bona venuta, parma carricata, speranza e pace de la casa mia. vieni cce regna e cce àje la durata de la Madonna ’ncielu e cussì sia,

e il rituale saluto che accompagna gli sposi al ballo: Cumu abballanu belli ’ssi figlioli! me parû tutti dui figli a ’na mamma.

Quanto basta a muovere e giustificare la soluzione del dramma. a siffatto intrecciato supporto è legato lo svolgimento psicologico dei protagonisti. pasquale, tema caro, come si è detto, alla sofferenza del poeta, è personaggio poco attivo nel dramma, giusto tanto quanto dev’esserlo per esaurire la sua parte: credulo, senza ambasce né preoccupazioni morali, facile a consolarsi, manovrato, quasi preso per mano. Ha dalla sua la ricchezza e un patrimonio espressivo povero e melenso, che il poeta si diverte a ripetere e caricare: «jè», un monosillabo per tutti gli usi: Jè grazie. ...... Jè trova granne piacire mia muglia a scherzîare. ....... Jè, su’ prontu, al toi piacire.

l’autore ne sottolinea la credulità in un colorito momento di abbandono nelle mani di Squaquicchiu: io te dugne mazza e tila;

si compiace di caricarne la goffaggine attraverso il rimbrotto che Squaquicchiu gli rivolge per la sua trasandatezza:


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Tu, però, m’arriccumannu, arrigìstrati ’na picca... Cchi bonura, sî di n’annu! Stai cussì, va’ te ’mpillicca... Ccu ssu dio de mustazzune, ccu ssu giaccu ’e palandrana... sî lu viecchiu Simiune, pari l’uorsu de la tana!

o lo richiama, mentre gl’indica Matalena, a un portamento più deciso e dignitoso: pasqua’, l’à’ vista? ’Mpipirinatu! Forza allu zìcaru... conza lu passu!

la sua insensibilità morale confina con una condizione di beata incoscienza. nel generale impaccio suscitato dall’apparizione, nel crocchio degli amici, dell’antico innamorato, egli solo è indisturbato e quieto; quando Franciscu chiede al cieco di eseguire il canto di spregio, Le mugliere de li mericani, il primo a goderne è lui: Jè, Tumà’, ’ntra la Merica ssu cantu si tu sapissi cumu è ricercatu!

insiste nel compiacimento, sì da muovere l’irrisione di rosa: ’a malanova tua, manzu sˇtricatu!

E quando la moglie scompare nella folla con Franciscu, lontano da lui ogni sospetto: Ma duv’è juta? jè, sprèja a ’na vota! Mo valla trova ’ntra ssa girivota!

C’è, nella sua debolezza, un barlume di coscienza, che si risveglia solo davanti all’irreparabile, e lo fa attraverso le lacrime, timida ma commovente espressione di affetto, che non l’assolve, ma lo redime e da involontario carnefice lo eleva a vittima. Così l’autore lo lascia, mentre Squaquicchiu lo trascina, ancora marionetta nelle sue mani.


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Franciscu è un personaggio piuttosto scialbo come termine di confronto nel dramma di Matalena, né si comprende perché l’autore l’abbia voluto cosi: scialbo per un innamorato e per un contadino calabrese, che, assalito da lei col sospetto e con l’accusa, sbalordito e furente, si lascia chiudere la porta in faccia dopo uno sbrigativo colloquio e, prima di affidarsi al vino e al canto, si scioglie in un’arietta metastasiana: ah, cchi fazzu ? patreternu, tu mantèneme stasira. vrascia, vampa, fuocu ternu. ohi la capu cumu gira... ma ppecchì staju a soffrire? ppe lle dare grolia e gustu? no... no... ridu... ridu. rire? Ca ’ssa vita l’àju ’nsustu! lu dittaggiu ha ragiune: certa gente è miegliu si la pierdi ca la truovi. Fimmine cci nn’aû tante. allegramente!

la quale presenza melodrammatica è più importante nella storia dell’autore che in quella del personaggio, contribuendo ad attestare le origini colte del suo teatro. E si badi anche a quel triplice verbo «ridu..ridu.. rire», che riporta a La cena delle beffe di Sem Benelli. la sua superficialità sentimentale, alimentata dalla stizza, si libera nel brindisi agli amici, che traveste la ripulsa sofferta con la celebrazione della vittoria e della liberazione: vivu ’ssu vinu, barsamu sinceru, e me sientu lu core cunsulatu! Gioia allu core miu! preju sinceru! avìa le ferge e signu liberatu! ... E’ rutta, è rutta, è rutta ogne catina...

e contrappone la vanteria, la smargiassata: cchi mi nne ’mporta sì! passu cantannu!... cca ci nne sû, nne sû scalune e vie! E l’àju pronta, e cce curru abballannu! alla salute, fraticielli mie!

Franciscu domina un’altra parte dell’opera e si riscatta, ma lo fa senza alcun dramma interiore, solo a prezzo dell’orgoglio e della spacconata,


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consapevoli l’uno e l’altra della debolezza dell’avversario. li si legge nella sequela canzonatoria ed allusiva davanti alla chiesa, sia che voglia accusare la sfacciataggine di Matalena o sottolineare il senso di rabbia per il discorrere provocatorio: Goda, viola mia, si vo’ godire... tena la faccia cumu li limuni,

sia che solleciti il cieco al canto canzonatorio, sia che insista, in contrapposizione alla ricchezza dell’americano, sulla propria povertà: Su, vivimu, alla salute de li tollari chi ’un àju.

E si misura soprattutto nella conclusione della scena che registreremo fra poco. perciò il suo agire provocatorio e rissoso, pur sapientemente orchestrato dal regista, non gli aggiunge nulla di interiore e non gli conquista simpatia e la sua vittoria sulla donna, che cede alla gioventù e all’esuberanza, non è drammaticamente motivata e costruita, ma origina inaspettatamente dall’umiliazione e dal bisogno della femmina. in definitiva pare legittimo ritenere che si tratti di un personaggio appena sbozzato, la cui superficialità psicologica non è un dato funzionale, ma una spia dei limiti dell’autore. Quel che l’autore non ha inteso concedere a Franciscu ha dato in supero a Squaquicchiu, un personaggio amorevolmente accarezzato, compiuto nella sua dimensione psicologica, adeguato alle molteplici esigenze del suo ruolo, modellato all’unghia nelle linee esterne come nelle pieghe interiori e scattante a tempo a ogni comando, mai impreparato, mai titubante, mai sorpreso. perché questo è primamente il miracolo del personaggio: essere uno del coro, un rivendugliolo da niente, apparentemente padrone soltanto di aghi e di nastrini, e tuttavia rettore a suo piacimento dei numerosi e incredibili fili di questo teatro, come se egli non fosse la colpa sinistra di un dramma, ma il soggetto-termine in cui tutti convengono finalisticamente gli eventi esterni e i moti interiori. E per questo il discorso drammatico non accentua le tinte e non carica i toni, ma si dipana secondo un modulo costante di estrema normalità, parlato e non gridato, anzi vincente sul convulso groviglio della vicenda proprio in ragione del parlato comune, anzi dello sfumato, delle mezze tinte, dei


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sottovoce. a volta a volta cortese, insinuante, suadente, impertinente, maligno, ambiguo, freddo, svolge i disegni con operazioni sapientemente programmate, adeguate ai momenti e ai destinatari, intangibili dal dubbio e dall’errore, e secondo una logica del freddo calcolo, alimentata dalla miseria e dall’abiezione sociale. la sua forza è la sua sicurezza ed egli la proclama ad ogni opportuna occasione; la conferma davanti ai dubbi di pasquale: Fida a mia ca tuttu fila. la c˜hicàmu, ’un cce penzare ..... Tu lu sai chin’è Squaquicchiu, te pruminta e nun te manca ..... Beh, famme fare comu dice ’ssa capu e cce arrivamu!...;

la ricorda a Matalena, che lo accusa di «parrare muzzicatu»: Muzzicatu io? lu sai ca si parru... e pipe e sale sempre mintu...

non lo scalfiscono le espressioni spregiative della gente, consapevole delle sue arti, come queste: oh... chi vo’ sprèjere, mulu frïutu... ah... chi lu surc˜hi, Cristu mio! ’nu truonu!...

la minutaglia del mestiere, più che mezzo del vivere, pare il pretesto per la sua azione di capocomico, uno contro la folla, in una rapidità di mutamenti esteriori e fonici che si giova della parola, variamente proporzionata e sempre tonda e incisa, del dialogo, sereno, concitato, rapido, diffuso, spesso a più voci incalzantisi, del verso, che varia di metro secondo i moti del cuore e del pensiero con un’agilità e una freschezza di cui par che si compiaccia prima di tutti il verso stesso, e con tutti gli artifici della retorica, dalla metafora realistica al dettato della saggezza popolare, all’allegoria sottile, al canto, alla favola. Gioca con l’altrui sorte «ccu mente e studiu», come dice rosa, ha in serbo parole magiche e formule sibilline, sottratte alla deformazione del vocabolario colto, atte a rompere un momento di difficoltà o a creare


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un’atmosfera:

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Mo ppe dominu e sobiscu...5 mo se conza lu cumbitu... ...... ambuliabissi, caru Franciscu, pizzicu e spizzicu e chiù fa lu sˇcutu...6

E’ perciò che vince sempre e nel groviglio delle vicende afferra il bandolo, uscendone, almeno lui, sempre salvo. vince con pasquale, sollecitandone l’amor proprio con la blandizie dell’ossequio e dell’interessamento affettuoso: pasqua’, mille bongiorni, e chine ’un vò se ’mpica... te sienti buoniciellu?... ’ncatrea, benedica...

e costruendogli intorno una difesa d’ignoranza felice, a tal punto da gabellargli lo scherno per affetto: pasqua’, vi’ chissi amici? Cchi bene chi te vuolû! Quannu te sî spusatu, ohi chissi... chi cunzuolu!

vince su Franciscu a tal punto che continua ad apparirgli, nonostante gli avvertimenti delle amiche, l’amico migliore; vince soprattutto sul cuore femminile, del quale conosce, nella sua plebea saggezza, le debolezze e le vie, sicuro, compiaciuto, trionfale. lo si segua nella diabolica strada. Circuisce: SQuaQuiCCHiu. MaTalEna. SQuaQuiCCHiu.

Sî restata sula sula? Miegliu! c˜hiudu ’ssa quazetta. E lu tiempu sî nne vula... e ogne pena s’arricetta!...

_ Quale pena? _ pensa la donna. E resiste, decisa. allora una svolta sapien-

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deformazione imprecativa del linguaggio sacro (Dominus vobiscum). linguaggio sibillino, inteso a colpire con un intruglio di pseudolatino e di parole che nel contesto non hanno senso, concluso dal verso del chiurlo («sˇcutu»). 6


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te, una falsa ritirata: Fare bene a ’ssu munnu è gran delittu! E a chi però lu vò, però lu via. nun ne parramu c˜ c˜ hiù, nun sia ppe dittu... àju cantatu all’ària ed all’arìa! però!...

Quanto basta perché il dubbio di lei diventi ansia e si traduca, dopo un’abile schermaglia di avanzate e di reticenze, combattuta da Squaquicchiu con arte fine, nell’espressa richiesta, affidata a due verbi esplosivi: ... oh! cchi sinapu chi mo me saglia! avanti, ’ntrumba, ’ntrona! Cch’à’ vistu?

E Squaquicchiu, con velenosa intenzione: Te saluta Scintina de paccune!

lanciato il sasso, preso nelle mani il debole cuore, basta seguire i passi di un naturale cammino: lu saû tutti! è ’na catina ch’è de mo chi sta durannu. Sulamente stamatina? Figlia mia! Ch’è c˜ c˜ hiù de ’n’annu.

E al punto giusto, con piglio metrico d’arietta, conclusivo e liberatore: Mentre chill’autru, abbasatiellu: e mancu bruttu si nun è biellu! Te vò ’nu bene, ’nu bene pazzu! E di li sordi fa cchi nne fazzu!... Buonu, domisticu e prima e pue! ’nu veru zuccaru!... nne fai cchi vue.


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nelle quali ultime definizioni l’utilitaristica amoralità del personaggio pare disegnare anche un allettante programma di vita e deporre il seme di circostanze e sviluppi del dramma. il carattere subdolo, la mancanza di principi e di valori, l’estraneità al comune tessuto della coscienza popolare improntano tutti i suoi rapporti e le sue espressioni. Se ne osservi un esempio più sintetico ed eloquente nel suo districarsi in una situazione di estremo imbarazzo quale è la scomparsa di Matalena con Franciscu. paSQualE. SQuaQuiCCHiu.

Squaqui’, l’à’ vista? appena appena...

Ma è nell’episodio finale la fredda genialità della diabolica figura. accusato irrimediabilmente l’insuccesso, respinto dallo spregio della donna, che ora vede tutto lucidamente, chiama a raccolta tutti gli espedienti retorici a sua disposizione, variandoli secondo le reazioni di lei, dalla minaccia dell’ira del marito: Statti a sèntere: pasquale è ’mpetratu, è ’mbestialutu! E ppe cca ti lu ragare ppu! ppu! ppu! cchi cc’è volutu!...

all’invito al pentimento: Tu fai ’nu vutu de penitenza, ccu grannu amure, ccu gran cuscienza,

alla prospettiva della dimenticanza e della serenità nella lontana america: pue, a chille terre... orait7 Gianni... mutatu luocu, mutati i panni!...

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deformazione popolare americana dell’espressione inglese all right!.


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nun se ricordanu c˜ c˜hiù ’sse ciotie... Già ’ntra la Merica sû gapparie!...,

distanzando abilmente gli argomenti con una pausa di silenzio e con osservazioni distraenti, come questa sulla pioggia che li sta bagnando: cca si dura n’àutra picca io cce pigliu ’na puntura,

o come questo fiore di apostrofe alla stessa pioggia, che, variando l’intestatario, è scenograficamente, oltre che retoricamente, espressivo: E mina, e mìnacce, ricriatinne!

di fronte alla pena di pasquale, di fronte alla disperazione della donna, è come al di fuori del dramma: Quantu abballi, cchi gran festa ppe la figlia de Gustinu!

E a conclusione: Me’, pasqua’, ca nne fa dannu ’ssa timpiesta, jamuninne.

una conclusione che, nel suo coerente cinismo, pare svelare finalmente un’insufficienza dell’uomo, l’imbarazzo della sconfitta e della fuga e quasi un non mai provato senso di paura. E tuttavia lo sguardo «diabolico» che egli rivolge alla donna e con cui accompagna la sua ritirata traduce la coscienza del capolavoro compiuto, con un’interna riserva di compiacimento e di minaccia. Matalena lo insegue con l’odio e col disprezzo: puorcu... va’, sempre nu ’mpiegu!

un disprezzo che non lo tocca e non gli fa male. lui solo si è salvato. E pare che esca di scena solo per ripetere la sua arte in altre scene della vita.


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voluto così dal suo autore, è evidente che il protagonista vero del dramma è lui, l’impeccabile rettore di tutta la vicenda, e che l’apparente protagonista, Matalena, ne esce condizionata non solo come donna, ma come personaggio. E anche questo l’autore ha voluto, tanto evidente è in Matalena la psicologia senza complicazioni, una psicologia d’istinto, nella quale la gelosia, l’orgoglio, la passione, la colpa, anche la redenzione non superano i limiti elementari del suo mondo di cultura. non è che in lei manchi la capacità di resistenza, ma anche questa attinge non a un giudizio morale, ma all’orgoglio e alla paura, perciò è effimera e si sfalda di fronte all’apparenza, senza neppure toccare la via della riflessione e del giudizio. E quando le forze congiuranti, l’assedio di Squaquicchiu e l’infedeltà dell’amato, convergono, quando, cioè, alla sollecitazione suadente dell’uno: Ccu ll’autru, pènsacce, vai ’na rigina...,

risponde il canto lontano di disprezzo dell’altro: de l’autra parte cc’è la ’nnammurata ch’è cientu vote c˜ c˜ hiù bella de tie...,

ogni residuo di tentennamento cede e la soluzione è d’impulso, una vampata: parra ccu mamma!

«Scattando», scrive l’autore. Ma è nell’incontro, alla festa, tra Franciscu e Matalena riccamente maritata, che l’istinto, la vampata ha il suo trionfo umano e poetico in una pagina giocata quasi su una corda sola, cioè sul viluppo della corda interiore, predominante sulle scintille esterne. pare che nel dialogo la parte di Matalena segua solo la logica della ripulsa, dello scherno, della minaccia; in realtà costruisce con quei contrari strumenti un’altra logica, che è quella del desiderio e dell’abbandono: il dispetto di una volontaria perdita con un misto senso di colpevolezza, la coscienza di una sua fortunata, ma mortificante condizione presente, il contrasto tra una squattrinata ma vigorosa e aggressiva giovinezza e la goffa insensibilità del


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ricco marito, la sensazione di un pubblico giudizio sospeso tra l’invidia, l’irrisione e la condanna sono all’apparenza i moventi della risoluzione, in realtà sono i pretesti sui quali l’interiore impulso gioca e si scatena: MaTalEna.

FranCiSCu. MaTalEna.

FranCiSCu. MaTalEna. FranCiSCu. MaTalEna. FranCiSCu. MaTalEna. FranCiSCu. MaTalEna.

Giuvino’, senza chi ridi... Ti lu dicu forte e c˜hianu: cangia via quannu me vidi... sî ’nu puorcu, l’à’ capitu? Sî ’nu puorcu. Sissignore. Ma cchi vue? Tuttu è finitu. Ma cchi vue? Cchi spieri ancora? vavatinne, senta: abbissa... Tu ’nu diavulu me pari... Brutta storia, sente, è chissa. Stamu quieti, stamu ’mpari. Me fai lu risu?... Tu me fai pena. Ju triemu, ’un sacciu chini me tena. Sientu nu’ tremitu ’ntra li jinuocchi... l’uocchi, diavulu... te cacciu l’uocchi. E sia, sia l’urtima ’ssa jocatella, e guarda... e guardalu. Cchi faccia bella! l’urtima, l’urtima... sì, squitatinne. capisci? l’urtima. Sì, jamuninne. Cchi? nun tremare, l’àju capita. lassame, lassame.... Mo, sì, è finita Su, jamuninne. Cchi, cchi? sî pazzu!...

E sparisce con lui. una pagina di psicologia fine, costruita moto su moto, parola su parola. in un teatro come quello di Ciardullo, in cui la soluzione delle vicende ha una sua interiore moralità, ed una sua interiore moralità, anche se non una giustificazione, ha il delitto d’onore, e perciò l’autore insiste sugli elementi della provocazione, la soluzione della vicenda di Matalena non ammette l’azione eclatante e non può trovare posto che nel suo stesso interno. in questo senso si può parlare di redenzione. davanti alla casa in festa, accanto al marito che la cerca e che le promette il perdono,


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Matalena avverte compiutamente la sua condizione disperata e ritrova, in uno slancio improvviso, la sua dignità di donna e un ben altro orgoglio che non quello del suo errore, ristabilendo, tra lo sdegno e lo sprezzo e il dileggio, distanze ed equilibri: Cchi? daveru? Cchi fai tu? Me perduni? oh, cchi granne fortuna chi me vinne! nne ’mbarcamu? ’u lignu è prontu? Tuni, tu, tu, perduni a mie? Tu... vavatinne. vatinne, signu cca, cca, sì pped’illu. Te piace? E tu m’à’ vistu e sî venutu cca ppe me perdunare!... a mie... vatinne! Tu me perduni a mie... Tu gran cur... (con la mano alla bocca tronca la parola) Ma nne tieni ’ntra le vene sangu? E ammazzame; alla manu lu curtiellu!... avanti... appena! ah! maritu mericanu! E ppe tie cce vo’ ssu puorcu. Chi te sta sempre vicinu!...

Coerenza della donna, che, rimasta sola, non ha diritto se non al disperato abbandono: ohi, mamma, ohi mamma, ohi mammarella mia!

E solo a questo punto Matalena si eleva a personaggio: in questa sua coerenza, in questo abbandonarsi senza costrutto, in questa lamentazione senza speranza. Tutti gli altri personaggi al di fuori dei gruppi e della folla: Filumena, agatuzza, rusaria, Graziella, luvisella, Tumasi, ruoccu, pasquale, per nominare quelli più intensamente presenti nello svolgimento del dramma, sono personaggi e coro insieme: perché, a volerne registrare e analizzare al fondo gli interventi, sia pure di ordinaria economia, è possibile definire ciascuno in precise linee di carattere, e perché, concorrendo tutti in egual misura a reggere e commentare la vicenda centrale, la elevano a storia esemplare d’un paese e d’una gente, nella quale ai vizi collettivi, come il pettegolezzo, l’invidia, la maldicenza, s’intreccia il senso della solidarietà e della comune difesa di fronte alle insidie e al male.


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il teatro

E’ questa ampiezza di scenario che spiega l’accostamento, che abbiamo fatto, di questo dramma al teatro di viviani. al quale _ ma lo si dice nel pieno rispetto dell’originalità dell’autore e solo a scopo di maggior comprensione _ altri elementi paiono legittimamente rinviare, oltre la dipintura compiuta dei personaggi, realizzata con tinte diffuse e anche al prezzo modesto di una pennellata: il tessuto fonico e vocale, costruito su una ricca gamma di variazioni e di contrappunti, l’atmosfera dell’azione notturna, con i mortaretti, gli archi e le luminarie, cara al viviani di Via Toledo, la natura del comico, elemento non di colore, ma inteso ad accentuare l’azione drammatica, infine l’innesto, garbatamente operato nella trama, di veri e propri numeri del teatro di varietà. Sotto quest’ultimo profilo è assai interessante l’introduzione della favola, un genere ben adatto alla pensosa e sorridente saggezza di Ciardullo e presente, come si è visto, come componimento autonomo, nella sua poesia. non è una novità, da Esiodo in poi, la sua strumentale presenza nelle opere poetiche, ma è certamente nuovo, qui, il modulo. la favola della cicala che sente il verso innamorato del grillo, canterino ma magro, e rispondendo «facìa lu ’ntricu», ma poi si lascia convincere dal tordo, stupido, ma grosso e ben nutrito, assume, nel miracolo della parola e del verso, una vaga ed incantata atmosfera di mito: Quannu lu grillu grillïava e la cicala supra lu ficu facìa ’nu ’ntricu pecchì cantava, c’era allu pièrsicu ’nu turdulice chi la guardava. lu turdulice, ’nturduliciutu, cum’era grassu, parìa n’agliru e la cicala di lu soi niru sentia lu grillu chi spasimava, ma lu guardava, ma lu guardava: e si a ’na vota la cicalic˜ c˜ hia lassàu lu grillu spiertu, ma lientu e ad ogne cosa chiudìu la ric˜ c˜ hia, minàu ’nu vientu, ’nu vientu bruttu e se trovatte la cicalic˜ c˜ hia


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ccu ll’àutru agiellu, ciuotu, ma abbuttu: la curpa vera, cce vò talientu? fu de lu vientu, fu de lu vientu.

alla medesima categoria possono richiamarsi il gioco d«’u tuoccu», già da noi seguito, i canti del cieco e delle devote, la preghiera per l’ossesso, certe consuetudini matrimoniali e numerose altre espressioni del vivere e del sentire, pezzi dell’anima popolare ormai in gran parte incontrollabili all’indagine demologica. di siffatta portata furono già consapevoli i contemporanei di Ciardullo. alessandro adriano scrisse che Vampate, oltre ad essere un lavoro artistico di vasta concezione, costituisce una documentazione storica e demo-psicologica che riesce ad arricchire tal genere di letteratura8.

C’è, poi, un’altra importante spia della personalità dell’autore. Egli, che nella poesia dà frequente prova della sua disposizione drammatica non solo per la forza rappresentativa che conferisce a molti fatti e personaggi, ma per alcuni specifici componimenti che sono, nel loro movimento, come abbiamo avuto occasione di rilevare, vero e proprio teatro, nel teatro si riserva veri e propri cantucci lirici, come nella rievocazione della vicenda di Saveru «’u spirdatu», una narrazione a più voci che fonde nel movimento scenico e nel compiacimento descrittivo lirica e dramma: raCHElE.

roSa. raCHElE.

TuMaSi. raCHElE.

8

povaru Saveru, cumu jìu e cumu vinne l’à patuta. venìa de la muntagna... Era sinceru. Sinceru povariellu. avìa lu ciucciu, C’era ’na luna chi pampiniava, quannu, sutta la cava de cappucciu... alle crucic˜ c˜ hie? Mentre caminava... biellu, squitatu, de la crucivia l’èscia ’nu cane, de chilli pilusi... ’nu cane tantu bruttu buonusia chi facìa certi mugli colerusi...

a. adriano, Il teatro di Ciardullo, cit.


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GraziElla. raCHElE.

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e le girava ’ntuornu e l’addurava. Mo, potire de dio, s’aza ’nu vientu... a ’na vota? ’un lu vi’, chi te ’mpesava. Erad illu: nicola de Spavientu.

ove l’atmosfera lugubre e allucinata pare emergere da profonde radici romantiche, di bardo antico. Ma è un’atmosfera connaturata e condizionata, com’è evidente, allo strumento linguistico, tale, cioè, da dissolversi senza di esso, nel quale giocano, oltre ai nessi sintattici, intensi atteggiamenti lessicali («mugli colerusi», «’nu vientu chi te ’mpesava»), creando il contrasto drammatico col chiarore lunare che «pampiniava» nel bosco e che, nel seguito del racconto, «parìa ’nu crivu». l’intensa caratterizzazione linguistica, della quale questi e gli altri luoghi toccati dalla nostra analisi sono eloquente documento, connota variamente tutta l’opera. nel linguaggio rotondo di rosa le busse di Saveru alla moglie sono «conisse», la brutta serva del parroco è una «visazza», pasquale che si tiene le corna è «manzu stricatu», Squaquicchiu, pessimo e ambiguo, «mulu frujutu», che ha «ventato» il merlo «allu gramalu» e ne fa quel che vuole, «si lu pastìa» e «di Franciscu si nne gratta». Matalena, che rifiuta di muoversi da casa perché la madre è malconcia, «’ntramata», è «’nchiovata allu siettu». Essa non ama le mezze parole, «lu parrari muzzicatu», è continuamente in timore, «scantatizza», per niente si accende, si «’nfiocinella», si agita come la trota avvelenata, «cumu la trotta che pigliau lu tassu». Squaquicchiu invita pasquale, all’apparire di Matalena, a stare eretto e disinvolto, «’mpipirinatu», pasquale si affida completamente a lui: «ti dugnu mazza e tila». Con una duplice poderosa metafora, quella del sostegno e quella della crassa goffaggine, Filumena dipinge la brutta sorte toccata a Matalena per colpa del sensale: «piglia e li ’mpiertica chillu chiantunu». luisella che sferruzza dalla mattina sta «perdiennu l’uocchi ccu ’sse cantribole»; le donne che rifiutano al parroco l’aiuto nei campi «sû ’mpisune», ma non si lasciano convincere: «mo ne cupa», «mo ne ’mpapagna!» peppe rota para «’nu jureu»; Franciscu innamorato «avia le ferge» e si placa, «sbamma», nel canto. il parroco, che si aggira davanti alla casa dello sposo aspettando l’invito, «cumpassia», il dolore che gli lancina le spalle è «’nu cane arraggiatu». lo Spirdatu ha lo spirito di nicola profondamente attaccato, «’nc˜ hiovardatu», le sue convulsioni sono «’nu scotulizzu».


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Talora la parola si sposa con il dettato, come nell’ampia metafora di rosa, ironicamentre riferita alla dabbenaggine di pasquale: Colla gramale, mintate a ’ssu fuocu ca ti nne licchi l’ugne, gioia mia!

o nel rintuzzo di Squaquicchiu alle donne che discutono i prezzi della merce: alla mala lavannara ogne petra lle fa ’mpacciu,

o nella malinconica e sottilmente compiaciuta considerazione di Filumena sulla sorte di Matalena: Cumu s’è cucinata se minestra.

altre volte dipinge un moto vivo dell’animo, come il disprezzo e la ripulsa di rachele, in funzione di voce corale, per Squaquicchiu che grida la sua merce: doglia ’ntra li stentina nun lu lassa,

o l’istintivo maligno commento di Squaquicchiu al dileguarsi dei due amanti tra la folla, conclusione aspettata: Scurrìu lu lazzu,

o al ritrovarsi insieme nella festa, come i venti forieri di tempesta, tutti i protagonisti della vicenda: Cca la rolla è propria tutta... cca s’accùc˜ c˜ hianu li vienti.

Sulle labbra, infine, di Tumasi, il filosofo della comitiva, diventa espressione rassegnata e amara, ma tagliente come un pugnale, se non di un’aperta protesta sociale, di una coscienza collettiva, o che egli rifletta, cosa che ritroveremo in un’altra opera, sull’impinguarsi della Chiesa a spese del sentimento religioso: Stannu, cumari ro’, se fa li càvuzi...,


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o che denunzi, in dialogo con rachele, la schiavitù economica e morale dell’ignoranza: TuMaSi. raCHElE.

li mierici... a ogni cosa mintû lu mussu. lu miericu vena..., jetta ’na frambosa, s’acchiappa dece lire... e te saluta. pue ca mori o ca campi, si nne rrica.

le osservazioni che ho fatto tendono ad affermare che Vampate è, nonostante qualche riserva da me avanzata, il capolavoro di Ciardullo, ma anche un capolavoro del teatro dialettale, a cui forse il limite del palcoscenico toglie respiro, mentre compiutamente lo si registra con la raccolta lettura. Core, patrune sempre fonde il problema dell’emigrazione, nella variegata serie delle sue conseguenze sociali, con quello, secolare, della libera scelta da parte della donna: dramma nuovo e problemi antichi. anche di questo dramma perduto riduciamo per amor di brevità, ma fedelmente, il resoconto del cronista9. Brigita, costretta dai genitori a sposare un ricco emigrato, che è ripartito per l’america dopo le nozze, ha abbandonato la casa andando a convivere con colui che amava. la macchia, irreparabile nell’etica del paese, grava sulla casa e si riflette nell’atmosfera familiare, nelle parole ingiustificatamente irose del padre e, più, nei suoi cupi silenzi, nel tormento della madre, in cui il pensiero della figlia lontana si confonde con la preoccupazione per il suo uomo: Si nne mangia velenu chillu viecchiu disperatu senza dire nente!... E’ ’n’annu sanu chi ’ntra ’ssa casa ’un si nne parra, eppure è prisente sempre!

Questo è l’antefatto, narrato nella scena iniziale attraverso il colloquio della madre (il cronista non fornisce i nomi dei personaggi genitori) con due buoni vicini, Mastru Baldassarru e Filumena. Ma essi son

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v. Ciardullo (Michele De Marco), Il teatro, MiDe, lorica, 1984, pp. 357-9. v. anche L’attività filodrammatica nell’anno XI, cit.


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venuti per altro: a comunicarle che l’amante della figlia è morto, vittima di un infortunio sul lavoro. allora la madre chiede d’impulso che n’è della figlia e Filumena risponde: «èd illa, me’!» e, spalancato l’uscio, fa entrare Brigita che attendeva fuori, «risolvendo - scrive il cronista - con una battuta sola una situazione che è la più critica del dramma». la madre, tra l’amore e l’imbarazzo, non sa, non può far nulla e lascia, all’arrivo del padre, che la figlia si nasconda nella stanza attigua. Egli si porta appresso, come sempre, il suo cruccio amaro: la minestra gli sembra scipita, perché non ha voglia di cibo; ora, domato dalla prima esperienza, rifiuta di entrare nel merito del matrimonio dell’altra figlia, lasciando che essa scelga di sua esclusiva volontà, e quando la moglie, con una densa e colorita metafora che non si sa se sia un richiamo o una frecciata, gli ricorda il suo ruolo: «ricordate ca sta a tie ’u spàrtare e l’allìjere!», le risponde: «Statti citu tu e fa’ chillu ch’ài da fare!» ove è evidente che la coscienza dell’autorità, ricacciata per un verso, entra per un altro, egualmente dominante. E come gli comunicano la morte di colui che è stato la causa del suo dramma, il rancore esplode così forte che egli impreca contro di lui, solo rammaricato di non averlo potuto «scannare» di propria mano. Brigita non sopporta tanto oltraggio alla memoria del morto e, irrompendo sulla scena, tronca l’invettiva sulla bocca del padre, addossando solo a sé la colpa e protestandola con sì disperata passione, che alla fine viene meno. ora anche la madre è contro di lui, gli grida di avergliela «ammazzata», la fa trasportare sul letto nell’altra stanza e, mentre Baldassarru va a cercare un cordiale, il vecchio resta solo sulla scena. Qui il dramma si raccoglie tutto intorno a lui: lottano nell’animo suo il sentimento dell’onore offeso e l’amore del padre ed egli, «come allor quando ne vegliava fanciulla il quieto sonno sereno», si accosta cauto all’uscio socchiuso, dietro il quale le donne hanno portato la povera sofferente ed origliando e spiando cerca di carpire qualche indizio che lo rassicuri sulla sorte della figlia, alla quale il suo cuore ritorna prepotente in un improvviso rinascere di affetti sopiti, ma non cancellati. è su questa scena finale, conclusa col ritorno del vicino che sorprende il padre nel suo gesto d’amore, che si chiude la trama, tenue ma forte, del lavoro drammatico». il giudizio del cronista, alla stregua degli elementi da lui forniti, deve ritenersi ben formulato. pochi personaggi, quelli strettamente indispensabili ad esaurire i contenuti e il senso del dramma, e poche scene: la prima, essenzialmente preparatoria, come suole in Ciardullo, e le altre


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il teatro

concentrate secondo una logica naturale di sviluppo. Qui il marito americano torna come incolpevole motore del dramma, il quale, se per Mara Grazia è interno al fatto stesso dell’emigrazione, chiamandosi lontananza, per Matalena e per Brigita si complica per l’intervento di una forza esterna: per l’una l’inganno, che ne fuorvia la scelta, per l’altra l’autorità paterna, che per delega sociale la regola e costringe. Ma quanto i tre drammi siano riconducibili allo stesso denominatore appare non solo dal comune tema di fondo né solo dal tessuto interiore, ossia dal velo di compassione che l’autore stende egualmente sulle più dirette e appariscenti vittime e su quelli che ne sono gli involontari carnefici, ma dal piano stesso della tecnica, cioè dall’univoco modulo di soluzione che egli adotta per i tre drammi: il diretto confronto della donna col proprio antagonista. Che se, a differenza dei primi due drammi, nei quali esso si risolve in atto d’accusa per l’uomo, in questo è disperata protesta di colpa da parte della donna, nessuno s’inganni: l’accusa vi è implicita ed egualmente disperata, e la denunzia dell’autore è ancora per le contraddizioni della storia, del costume, della cultura, che lacerano cuori, sgretolano focolari. Figlia e padre sono, perciò, vittime dello stesso impietoso ingranaggio, ma succede che, mentre sul piano umano i loro drammi corrono paralleli, determinando una coralità degli affetti e del dolore, su quello letterario il secondo si sovrappone al primo, che ha quasi la funzione di muoverlo e di esaltarlo, e perciò la figura del padre si erge a protagonista e il dramma d’intreccio si fa dramma di carattere. non altro è il significato del titolo, che si appunta al cuore paterno, nella cui lotta, sapientemente rappresentata dallo scrittore, il diritto della persona esce vincitore del costume e della delega sociale. E Ciardullo, creatore di forti passioni, si rivela, come in non pochi momenti dell’opera poetica, fine dipintore della tenerezza degli affetti familiari.


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CapiTolo iii

lE pEnE SEGrETE ’U suonnu de chist’uocchi - Vie de ’nfiernu Tu scendi dalle stelle

il primo di questi drammi, che reca come sottotitolo Scene di vita calabrese, è, come si è detto, la pagina inaugurale del teatro di Ciardullo. in un interno di dignitosa modestia contadina, ove alcune fanciulle lavorano al corredo di rosa, si svolgono e si complicano due storie, solo apparentemente parallele: rosa si prepara al matrimonio con Tuture; familiari e amiche partecipano alla gioiosa attesa. un amore pudico nella confessione, quasi distratto, talora difeso dalla schermaglia sorridente e dispettosa, ma, nell’intimità non minacciata dall’altrui presenza, intensamente affidato a sguardi e parole; gli occhi raccontano con la luce e la parola è breve, immagine e canto più che discorso: E tu trasi, ed io nun te guardu; pare ca nun te guardu. ’u cc’è bisuognu de te guardare; cce sî tuttu, cce sî sempre ’ntra l’uocchi mii.

E lui: lu suonnu de chist’uocchi ti pigliasti, ti lu portasti a dòrmere ccu tie!... Mo notte e juornu campu sbariannu e sempre stannu ccu l’uocchi alla via!

l’autore, che ha rubato al primo verso il titolo delle sue scene, è consapevole di quest’aria sospesa e incantata, nella quale giocano la passione, la ritrosia, la tenerezza, e la sostiene con la sensibilità dell’uomo e l’amore di chi crea, diffondendone i riflessi in tutto lo svolgimento dell’azione, dove nulla è al di fuori della compostezza, della medietà, della gra-


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il teateo

zia gentile, anche lo scherzo, anche la ripulsa e la ritrosia. accanto, Maria, sorella di rosa, consuma la sua pena segreta. Maria, diversamente dalle amiche in attesa di marito, «non ha jettatu ’u chiumbu» nella festività di San Giovanni. Ma essa non ha bisogno di gettare nell’acqua, secondo la credenza popolare, il piombo fuso per scoprire il segno dell’uomo destinato. C’è Savariellu che aspetta: un’attesa fidente, ma ogni giorno meno consolata, un gentile assedio rusticano, che sa essere a momenti deciso e discreto, un sapiente rifugio nella metafora realistica, che per il suo reiterato affacciarsi è quasi un Leitmotiv della storia spirituale del personaggio, immagine d’un reale comune, che è pittura e bozzetto compiuto: n’arrabbattamu, ne lusingamu, speramu ogn’e tantu, ma facimu cumu ’a licerta: s’arrampica, s’arrampica lu muru muru, cce fatiga, cce suda..., a ’nu certu puntu sta ppe arrivare, ma piglia lu lisciu d’a ’mpinnata... pùmmiti! e sbatta ’n terra!

un descrivere, si dice in parentesi, dove il lessico, la materia, la scelta e insieme il climax delle immagini, la musica vigilata, con le sue pause, le sue arsi, le sue onomatopee, assommano segni concordi di natura e di cultura, interessanti da seguire non meno che le consimili tracce dell’opera poetica. il fatto è che anche Maria ama, in cuor suo, Tuture, il dolce compagno d’infanzia, il quale, invece, le riserva non altro che le parole e gli atti della tenerezza familiare, il sussurro impertinente che chiama a confidenza, gli affettuosi strumenti della persuasione, ignaro che di quelle pene è lui stesso radice e alimento; e il dramma di Maria è in questo dover dissimulare, tra il sorriso e il tremore e la schermaglia delle parole e la vigilata indifferenza e il gioco degli occhi, una pena della quale avverte il rischio e la vanità, in questo dover fugare dalla mente dei familiari ogni sospetto e gabellare per naturale ciò che è incredibile per l’età, nell’ansia mortale che l’afferra quando sorprende i due promessi nella furtiva tenerezza di un colloquio d’amore. Ciardullo la ferma sulla porta, assorta, sbarrati gli occhi, impietrita, l’inchioda nell’«ansito forte che le scuote il petto». poi, rimasta sola, la violenza del dramma interiore si fa parola: pigliare ’ssu core e llu frangere... ’u frangere... ’u frangere!


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Così la passione della protagonista si consuma, deve consumarsi nella vicenda collettiva: nel gioco delle parti e degli affetti di un piccolo mondo senza colpa e senza malizia una soluzione di violenza e di rottura era impietosa e impoetica insieme. Ed è scelta sapiente aver sottratto la protagonista al suo ruolo, assorbendola in un’economia in cui il suo dramma resta interno e non turba e non sovrasta. la chiave di volta della vicenda, difficile da risolvere equilibratamente, è in un oggetto che l’interiore religione trasfigura: un fazzoletto che Tuture affida a Maria da rammendare. Essa, sola con se stessa, lo stringe al volto tra i singhiozzi e l’accarezza e culla come creatura e, facendo eco a Tuture come nella «votata» popolare, riprende e restituisce il canto: lu suonnu de chist’uocchi ti pigliasti, ti lu portasti... a dòrmere... ccu tie. Mo notte e juornu... campu sbariannu... E sempre stannu ccu l’uocchi... alla via.

la tela cala su questa struggente ninnananna e chiude un grande mimo, che del mimo ha il movimento, l’ambito breve, il valore autenticamente documentario di ambiente e di costume, la corda patetica, che qui è al limite del dramma, scavando nel sentimento assai più che il mimo antico abbia conosciuto e riporta la comicità non oltre i limiti dell’ironia affettusa e dello scherzo. un’impalcatura mimica, quindi, usata con anima moderna; una narrazione corale, nella quale il dramma principale si esalta e scompare nello stesso tempo, giustificando appieno il sottotitolo. perciò ogni persona è un carattere finito e vigilato ed agisce e parla quanto e come le è necessario per costruirsi. lo sono anche i due personaggi che fanno da contorno, funzionali alle vicende esteriori: Catarinella e agatuzza, la prima così spontanea e sincera nel suo desiderio di marito: ah! io nne jettèra ’nu tùmmini e ’na quarta!,

l’altra saggia, disinvolta, concreta, che ride di sé e d’altri: ’u c˜hiumbu ch’àju jettatu, annu passatu e st’annu, s’è conzatu cumu ’nu cappucciu, piènzuca m’àju ’e fare monaca!

E la sa lunga sugli uomini:


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nn’aviti ’ncuna ’ss’uomini! tirituppiti e tiratappiti, suspiri, purmise, spicuniamenti de piettu! ’nsin’ a chi nun arrivati allu ’ntientu vorru!... pue, doppu ... ruttu c’è cca!... ’na povera fimmina chiusa comu casu viecchiu e vue a ciaramelliare ’sse rolle rolle d’a matina alla sira!

Forse la piccola pipitella, la fanciulla incaricata delle ambasciate segrete, palese eco manzoniana, apparirà costruita piuttosto a freddo e certamente resta al di sotto della statura degli altri personaggi. pipitella non è Bettina, obbedendo solo ad un intento di manovra dell’azione, ma assolve questa funzione al necessario e, quando è cacciata via per la sua ingenua invadenza, si riscatta nell’impertinenza, prendendosi ai danni di Maria la sua innocente vendetta: Me’, me’! ’a sant’e cire!... Chissa nun parra de nente! Stative buoni... Ca pare che nun lu sacciu ca tu sî zita puru!...

Complessivamente a me pare che l’opera viva in una dimensione di equilibrio e di misura, che fa di questa narrazione una vicenda eroica, di un eroismo sottratto alle azioni magnanime e ai romantici impulsi e restituito all’ordinario della vita, al silenzioso svolgere della storia, in cui gli eroismi quotidianamente si consumano e si seppelliscono, oltre lo straordinario degli episodi e le invenzioni letterarie. Scrisse bene Clara Falcone a caldo: nessun intreccio, o quasi, nessuna parola ardente, melodrammatica. v’è solo uno struggersi soffocato, un indovinarsi più che sapersi, un fluire di melodia in sordina, un ricamo di psicologia fine, accurata, quasi demussettiana, un tocco lieve da pastello settecentesco1.

Ma interessa notare anche l’intensità del linguaggio, nella quale l’autore ha immesso, con amorosa naturalezza, tutti i personaggi, indipendentemente dall’importanza del ruolo, per cui all’incalzante identità lessicale e stilistica di questo scherzoso sfogo di Tuture: Me difenna ppe llu cuzzettu!... ’un la senti ca me pizzutìa comu ’na suppressata?

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C. Falcone, Il teatro calabrese, cit.


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o a questo caricato atteggiamento del comico nelle parole di Tuture: ’un fare ’a capuzzella! vi’ ca te mignu ’nu zicchiettu allu nasu!...

corrisponde sulla bocca di rosa uno scavo sapientemente variato e moltiplicato, o che essa voglia costruire lo scherzo maliziosetto: Cchi monachella divota de dio! .. dìcica cce lassère varchiglie o mustazzola!

o che rintuzzi con amabile stizza le insinuazioni dei maschi: Miegliu angiulicchi ccu l’ugne, ca diavulu ccu lli corna!

o che si affidi con dolce ironia alla canzone di dispetto: Sdegnu chi me sdegnàu llu core tantu, ppe quantu t’àju amatu mi nne pientu!

o che infine, si rifugi nella sapiente eloquenza del proverbio: Scarpe alli ziti e quazietti alli ’nzurati.

Si veda come, nelle parole di Savariellu, l’espressione dei sentimenti, in questo caso la riconciliazione degli animi, diventi un processo carnale e sanguigno: E quannu mai sû stati conzati ’ssi sanghi, Tutu’?

anche sulle labbra di Maria, la più parca di parole, possono fiorire immagini di straordinaria densità come questa metafora, sottratta alla terra, del dire e del fare a buon prezzo: Cce zappati muollu ccu mie!

la scelta linguistica assolve anche la funzione di contribuire a sollevare il rango di personaggi secondari come agatuzza, la quale attinge a un immaginoso realismo di antica popolarità: Stati armannu ’na liètica propriu supra ’a sputazza!


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e si difende con l’arguzia affettuosa di questa metafora variata: Tu sî sempre ’na santa scridèbbole. piènsuca tieni ’a licertella a due cude!

Si è già avvertito, nel paragone instaurato da Savariellu, della presenza di bozzetti compiuti per il miracolo della parola. E’ possibile, sullo stesso piano, segnalarne per lo meno altri due. l’uno appartiene al discorso di Savariellu, al quale l’autore ha negato il conforto dell’amore, ma ha conferito la corda del poeta filosofo: Juochi ccu’ssu povaru core miu cumu ’nu guagliune joca ccu ’ssu fisˇcantic˜ c˜ hiu de castagna!... Cce jùjia... ’u sona, cce joca..., pue se sicca, ’u c˜ hîca ..., ’u fa a dui stozza ... ,’u jetta a ’na rasa ... ’u ’cce pienza c˜ c˜ hiù...

dove gli accorgimenti retorici, di natura e non di maniera, raccolti nella veste di un efficacissimo climax, riecheggiano quelli già avvertiti nel primo dei due esempi riportati. l’altro è un non meno colorito discorso di rosa, in cui la ressa delle immagini configura un piccolo capolavoro scultorio: io, annu passatu, àju jettatu ’u c˜hiumbu ’ntr’u vacile. E cchi nn’è esciutu! ... ah ! ridu si cce pienzu! ’nu don priscopiu tantu coscinutu ccu lle gambe storte; ’n’arrinzinatu chi nun valià tri cìciari, chi pàraca si l’avìa mangiatu ’a vruca o l’avìa toccatu ’a jiffa; avìa lu guai d’a testùina, malonova sua, tantu è veru chi, si me sagnave, ’un m’escia ’na guccia de sangu, tantu d’a paura chi àju avutu!

nella tavolozza incalzante dei colori forti campeggia e si potrebbe isolare quell’ «arrinzinatu» che contende in merito col corrispondente in lingua «raggrinzito», moltiplicandone la semantica e componendo una sintesi che nessuna definizione analitica potrebbe eguagliare. anche in quest’opera l’autore si riserva i suoi cantucci lirici, come in queste parole di rosa alla sorella Maria: Tu à’ d’avire ’nu spic˜ c˜hiu chi nun te funzionìa. Certe vote tu me ricuordi chille sirate ’e marzo o d’aprile, quannu c’è, ’mmienzu ’u cielu, ’na luna bella quinta e decima chiara,


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e para ca camina! E tutt’a ’nna vota se ’nzacca dintr’e neglie, e la vidi scurata... e te porta ’nu stringimientu allu core!... picca minuti ed èscia de l’autru pizzu c˜ c˜hiù janca, c˜ c˜hiù bella, c˜ c˜ hiù tunna de prima.

una spia che si riaffaccerà più volte nella successiva analisi. Col dramma Vie de ’nfiernu, che il sottotitolo definisce, per riguardo alla sua brevità, «azione drammatica» e che nel 1932 risultava già composto, anche se la sua messa in scena avvenne nel 1941, la pena segreta si fonde con una tematica di moda, che costituiva per lo scrittore di teatro popolare un passo obbligato e quasi un dato anagrafico: il delitto d’onore. a meglio comprendere l’atteggiamento dello scrittore di fronte al fenomeno, può tornare opportuno rievocare alcuni tratti del problema. il delitto d’onore, pur non conoscendo distinzioni di classe, è particolarmente caratteristico, nella sua storia, del mondo popolare e contadino, nel quale l’ambiente socioeconomico è per sua natura più propizio a determinarne i moventi. Sul piano sociologico esso denunzia l’estraneità di quel mondo all’ordinamento giuridico dello Stato e viceversa l’ossequio a leggi non scritte, ma interne alla società stessa, regolatrici di rapporti e tutelatrici di valori che non si ritengono sufficientemente tutelati dalle leggi dello Stato. Siffatta riserva si coniuga strettamente ad una norma di natura morale, che contempla il delitto riparatore come atto obbligatorio per la difesa dell’ordine familiare e ne detta le modalità, cioè la regolazione all’interno dello stesso gruppo. non ultimo tra le cause del brigantaggio, il fenomeno si acuì nel periodo e per effetto della grande emigrazione, consumandosi tuttavia in una sorta di compassione e di favore sociale, come fa ritenere il rilevante numero di sentenze assolutorie pronunziate dai tribunali dello Stato. l’attenuante del motivo d’onore, introdotta nel 1880 nel codice penale, ebbe, perciò, contro la sua apparenza difensiva, uno scopo reale di freno collettivo, quello, cioè, di affermare la sua sostanziale natura di fatto comunque soggetto al rigore della legge. Ma la tendenza ad attenuarne le conseguenze giuridiche non recedette, anzi si acuì nel periodo fascista, al quale appunto si riporta il dramma di Ciardullo, nel clima di difesa ad oltranza dei valori morali, trovando espressione nel codice rocco, nel quale quel tipo di delitto ebbe importanza minima. l’ordine democratico, rivedendo la legislazione che lo riguardava, lo ha restituito alla sua


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oggettiva natura di delitto, col medesimo diritto alle attenuanti che è riconosciuto a tutte le altre forme di errore umano. il processo della dottrina giuridica si è accompagnato, in questo dopoguerra, alla contrazione della casistica. da una ricerca condotta presso il dipartimento di sociologia dell’università della Calabria è, infatti, emerso che essa, in Calabria, si è cumulativamente ridotta, dagl’inizi degli anni cinquanta alla fine dei settanta, di quasi la metà, pur presentando un andamento assai irregolare e contraddittorio nella distribuzione fra le tre province2. il dato più certo che se ne può rilevare è una mutata coscienza, della quale qualche barlume era apparso già nello stesso periodo della grande emigrazione, come abbiamo registrato nell’analisi fin qui condotta. in Vie de ’nfiernu il dramma è colto al suo culmine, quando è stato lungamente vissuto nelle sue premesse e nei suoi termini, il che contribuisce a giustificare l’unicità dell’atto. l’apertura è ancora mimica, in uno scenario agreste, in una pausa di riposo (l’ «abbientu»), in cui si amministra, si apparecchia e fioriscono i discorsi, sorridenti, pensosi, impertinenti, venati di malizia paesana, di humour popolare, di rusticana saggezza, che ogni tanto il detto popolare («’u dittaggiu») interpreta e sottolinea. Ci sono Jacuzzu e Gasparella, i capifamiglia, il figlio minore luigiuzzu e alcuni contadini. il crocchio si anima all’apparire di fra Franciscu, un questuante che, tra il serio e il faceto rende più vivo il conversare. Sopraggiunge anche assuntina, la figlia minore, che è andata ad attingere acqua. lucia è in disparte, «con la testa tra le mani, cupa, pensosa», col suo dramma: un dongiovanni di paese, uomo di malaffare, l’ha sedotta con la promessa di nozze; ora essa vive ansiosa il suo stato segreto con una fiducia indocile all’incalzante evidenza, sorda alle sollecitazioni dei suoi e quasi loro nemica, mentr’egli sale dall’indifferenza allo sprezzo, all’insulto, alla minaccia e la sua promessa di matrimonio si rivela ogni giorno più fallace per i continui pretesti che accampa. in un impeto di disperazione lucia cede alle suppliche di assuntina e confessa la verità. luigiuzzo, messo già in allarme dalle dicerie del paese, ha promosso indagini nel paese di origine dello sciagurato. Quando un tele-

2

vedi T. Tucci, L’omicidio per onore in Calabria, «periferia», a. iv, n. 12, sett.-dic. 1981, tavv. i e ii, e il dato relativo al periodo genn. 1980-sett. 1981, a p. 22.


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gramma, di là pervenuto, svela la verità, cioè la sua condizione di sposato con figli, il dramma precipita: lucia anticipa la mano dei suoi e lava l’onta col sangue, nello stesso canneto nel quale Filippo l’aveva attratta per un ulteriore convegno d’amore. in quest’azione il cliché è palese e più palesi sono alcuni luoghi di maniera, come l’annunzio del fatto di sangue da parte di una contadina, eco del grido di Cavalleria rusticana, e la chiusura da sceneggiata napoletana: pa’, nun c˜hiàngere! Benedìciale ’sse manu!

la figura di fra Franciscu, il questuante che si ferma per un po’ di riposo, è scialba edizione minore del Galdino manzoniano: gli manca del frate manzoniano la superiore forza della saggezza popolare, che affida alla suggestione dell’apologo risultati più immediati e concreti che non quelli del discorso filosofico o morale. Si deve, tuttavia, riconoscere che il suo inserimento è nella logica dei fatti, diremmo necessario e funzionale per quanto riesce a provocare di parole, sentimenti, atteggiamenti negli altri personaggi, e bisogna dire che adempie efficacemente al suo ruolo. Ma non sono questi gli elementi determinanti per il giudizio. va anzitutto notato che l’apertura ambientale non è un semplice espediente scenico, ma un passo sostanziale del tessuto narrativo, inteso a immergere, insisto, l’episodio nella grande storia, per cui il tema del delitto d’onore supera subito la suggestione spettacolare, tipica del corrispondente teatro siciliano e napoletano e si fa pretesto di pensoso scandaglio della storia. Quel che Ciardullo toglie alla spettacolarità, che è ridotta al minimo, aggiunge allo scavo delle cause, alla complessa problematica che vi confluisce, riscattando il delitto d’onore dal suo limite di topos teatrale. va subito dopo precisato che la forza dell’azione è nella costruzione sapientemente preparata e scandita della soluzione finale, cioè nella rappresentazione dello svolgimento spirituale dei protagonisti. lucia è compiutamente fedele al suo ruolo: dimessa e forte, incredula e speranzosa, disperata, pressante, supplicante. Trascorre nelle sue parole il lungo svolgersi dei moti del cuore e del pensiero: i documenti matrimoniali che ritardano, la stranezza dei motivi accampati dall’impostore, il rifiuto, da parte di lui, di parlare al padre, e d’altra parte il suo terribile stato che avanza, l’impossibilità di aprirsi ad altri, un chiodo,


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«’nu piernu allu core», il sonno «fujutu de l’uocchi», la voglia di piangere e di gridare, i singhiozzi soffocati nel cuscino. dove tutte «chille purmise, chilli suspiri, tutte chille parole chi sacciu de duve le cacciave?». E nel momento più acuto dello sfogo: Ma lu sai cumu signu? Ma tu lu sai cumu signu? Ma cce piensi a cchi statu me truovu?,

ove troviamo che il climax in Ciardullo non è un caso, ma un modulo stilistico e che un pronome sapientemente appunto può fare un piccolo capolavoro di stile: Ma lu sai cumu sugnu? Ma tu lu sai cumu sugnu?

E prima del precipitoso scioglimento, nel drammatico colloquio tra i suoi e Filippo, la sua difesa appassionata di lui, la sua indomita speranza: Ma ppecchì siti pigliati accussì?... Ma illu me vò bene!...

E il disperato innocente scambio delle parti: Cchi m’aviti fattu! Cchi avìati vistu! Chillu nun me lassava! M’aviti ruvinatu!...

poi la verità, la demenza vendicatrice. «Come un fantasma», scrive, e non a caso, l’autore nella didascalia. Ma tutto questo procedere dell’interiore dramma e delle corrispettive parole della protagonista si giustifica e si anima del contrario processo del personaggio Filippu, che Ciardullo ha inciso col pugnale, nulla perdonandogli e nulla risparmiandogli in tinte e sfumature, con un caricato scandaglio psicologico, accordatamente trasferito nel gesto e nella parola: un insolito uso di tinte base in Ciardullo, in cui a questo punto la gioia della creazione artistica coincide con la stessa forza del giudizio morale e l’uomo di legge detta al poeta tutti gli atteggiamenti e le circostanze valide a costruire per l’altra parte una sentenza di pietà e di assoluzione. Gradasso da strapazzo, ha l’aria dinoccolata, strascica le parole, ha un fazzoletto al collo, un berretto a sghembo. ostenta indifferenza: ’un fare ’a triatista. a mie ’sse parte carricate ’un me sû pia-


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ciute mai!

unisce allo sprezzo il dileggio: io, ’na vota, quannu avìa gulìa de vìdere e sèntere ’sse scene, spendìa tri sordi e jìa alle marionette!

E altrove: Mi sta’ faciennu ’a funzione d’u vènneri santu.

Confessa nella smargiassata l’interiore malizia: iu sugnu cumu ’a pùrvera: cchiù la cuntrasti e cchiù fa ruvine!

poi raccoglie tutte insieme le arti e rintuzza e minaccia: iu sugnu carta canusciuta! E le lacrimelle m’àû fattu sempre ridere, ricordatìlu, giuvine’! E all’amminazzi, pue, cce sputo de supra! accussì, me’!

ove il realismo del gesto fa scena da sé. Ma la cruda dominanza dell’uomo scopre nel finale la matta bestialità: Cchi vuogliu? ’u sai... cchi vuogliu... llà vaju e llà t’aspiettu...

intende il canneto degl’incontri, corrispettivo dei fichidindia di compare alfio. l’uomo si sottrae ad ogni attenuante. nel finale lo scrittore distrugge i protagonisti dopo averli creati: il delitto, la colpa, il dolore, la morte assumono una dimensione collettiva, entrando, secondo il codice tradizionale, nel patrimonio familiare, egualmente distribuiti e assunti, senza più la distinzione delle parti; e questo, al di là del finale manierato, è l’interiore senso del dramma, evidente anche a un giudizio sociologico oltre che al giudizio poetico. or questa dimensione collettiva scaturisce da una filosofia dei poveri, tramata in alcuni punti nodali del discorso nelle scene introduttive, alle quali abbiamo riconosciuto valore ben più denso che quello del puro tessuto ambientale. la nota dominante, quasi un presagio, è l’umano studio dell’inganno, il gusto del danno altrui. la riflessione, in bocca a Giuvannu, si fa crudamente allegorica:


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l’omu s’aza, se lava la facce, si si la lava, sbota l’uocchi allu cielu e sse fa la cruce accussì: - patre, dunami capu de minare ’ncinelle eccussissìa.

di «’ncinelle», di botte al prossimo variamente menate, c’è nel paese qualche più noto e additato maestro, don Filiberto, che gioca, come coloritamente si esprime Gasparella, tra la malevolenza e l’impostura: ’u vida ca si spicunìa lu piettu ogne matina...

E qui un’altra falcata di Ciardullo, che ruba all’immagine familiare del piccone la definizione dell’impostura, cioè dell’animo falsamente contrito. Ma il parametro popolare va più in là che la condanna dei singoli, coinvolgendo, nell’immaginoso parlare di Graziella, in minore o maggiore grado, tutti nella colpa: Chine de ascia e chine d’asciune, simu tutti feruti allu garrune!

un epifonema da conservare gelosamente, come lingua e come verità. la realistica visione del male umano si accompagna ad una smagata condizione della coscienza religiosa, balenata già in Vampate. da fra Galdino a fra Franciscu il mondo popolare ne ha fatti di passi. Qui l’ascolto devoto e la fede speranzosa cedono a una filosofia disincantata, la quale, se non irride, sorride di attese e speranze dall’alto, con ironia bonaria e rassegnata malinconia. la religiosità vivente nei riti, nelle tradizioni, radicata ancora alle preghiere, ossequiosa ancora alla superstizione, deve fare i conti con la coscienza del peso ineluttabile della propria parte. Così, all’affermazione di Franciscu che il Signore raddoppia quello che si dà al convento, replica Giuvanni: ’un jocassi la viola d’a matina alla sira...ti nn’abbuttère de mètere ccu lla fuòrfice!

al di là della filosofia, ci afferra la sua traduzione nella parola e più violentemente quel verbo della zappa, quel «jocare», in cui l’intensità dell’amarezza contende con la capacità pittorica e definitoria. E si trova modo, nel correre dello scherzo, di denunziare ironie e contraddizioni, stabilendo le distanze tra i poveri e il convento:


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Tridici puorci, dudici frati.

in un mondo di «’ncinelle» i legami familiari si esaltano, si muove una complessa macchina sociale, il gruppo si chiude a riccio, scattano tutti i meccanismi di difesa. luigiuzzu e assuntina, nel duplice intento di proteggere la sorella e fugare dai genitori sospetti e dolori, si assumono il peso del dramma: il tormento del dubbio, «’u tremulizzu», la ricerca della verità. l’amore di assuntina si fa suadente e dolce nell’invito a confidenza; si traduce nella tenerezza dei diminuitivi: «assuntinella», «soricella», «vrazzulli», «casicella», «mammarella», «’ndoloratella», e nella memoria dei giochi infantili; è disperato insieme e forte di fronte alla confessione di lucia; a petto dell’impostore si arma di dignità, lotta a testa alta, si erge al di sopra del suo stato miserevole di guappo: ’a pellizzuneria se fa canuscere sula sula!... ringrazia dio ca sî chillu chi sî, e vali chillu chi vali!... Guarda ca me scuordu ’nfaccia a chine me truovu e quantu àju de scìnnere!... E scinnu, sa’! ...

poi s’ingigantisce, in una terribile calma: Sente: tu ccu suorma ’un cce juochi! prega a dio c’a cosa fuossi cumu à d’esere... Si no pane nun ne mangi c˜ c˜hiù!...

luigiuzzu, tra le spine delle pubbliche voci e l’evidenza del tormento della sorella, frena la rabbia oltre la capacità giovanile; sceglie, raccogliendo prudenza e ingegno, la più concreta e utile iniziativa dell’indagine; ma come la sospettata verità si fa certezza, rompe gli argini: Tu nun sî mancu puorcu... pecchì ’u puorcu se vrignognera si fuossi cumu a tie !

E se comprime, di fronte all’invocazione disperata di lucia, l’estremo moto, lo fa per un momentaneo rinvio, con la determinata riserva di un preciso appuntamento: vavatinne, nun ti nne ’ncaricare ca nne truovamu!

Ma, come si è detto, la soluzione del dramma si riconduce a chi senza


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colpa l’ha provocato, offrendo all’autore un’ulteriore occasione di affermare il valore della donna persona, il suo diritto all’autodeterminazione nel quadro dei valori familiari. dramma, anche questo, degli affetti, del focolare, da collocare strettamente accanto al precedente, ’U suonnu de chist’ uocchi, nel quale la pena di Maria non supera la soglia dell’anima e in lei si consuma, salvando i valori e i rapporti su cui il vincolo giace. dramma degli affetti domestici e storia ordinaria di dolori, senza alcuna complicazione se non un’imprevedibile svolta al suo compimento, la perduta opera Tu scendi dalle stelle concentra l’attenzione dell’autore nell’interno della casa, sulla vana lotta del cuore contro la morte. anche di quest’opera, rappresentata il 4 febbraio 1933 nel Teatro Comunale di Cosenza, si ha notizia da un resoconto giornalistico3. Battista, contadino, gravemente malato, vive nell’attesa del figlio lontano, ignaro che egli è morto, e Maria rosa, la madre, lotta disperatamente con se stessa per comprimere lo strazio, mostrandosi disinvolta e allegra, e nascondere la verità al povero cardiopatico, incapace di sopportare emozioni. è natale ed egli si vede il figlio già accanto, immagina di stringerlo a sé, ma Capriettu, un minorato capitato in casa, si lascia sfuggire un accenno alla verità, donde l’intuizione del padre e il suo costringente colloquio con Cristina, la fidanzata del figlio morto, il cui pianto è eloquente confessione. le campane e i mortaretti di natale si confondono con le urla di dolore che accompagnano la morte dell’uomo. il breve e retorico resoconto del cronista, dal quale sono ricavate queste linee essenziali della vicenda, non permette di formulare alcuna utile osservazione oltre quella di un’ulteriore prova della disposizione dello scrittore a penetrare sottilmente nel mondo degli affetti. il natale, oggetto della sua poesia in lingua e in dialetto come festa del focolare e momento della memoria, si fa qui rappresentazione dolente e universale delle contraddizioni della storia.

3

v. Ciardullo (Michele de Marco) il teatro, cit., p. 367


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CapiTolo iv

lE opErE CoMiCHE Quarantottu ’u muortu chi parra, Fratellanza nofriana, Spiritismo

alla medietà delle opere drammatiche Ciardullo alterna la rappresentazione del comico nel suo aspetto esasperato del farsesco con tre opere: Quarantottu ’u muortu chi parra, Fratellanza nofriana, Spiritismo, la terza delle quali perduta. nella prima, un atto in prosa, molto più intensa e complessa, nelle situazioni e nei caratteri, della seconda, benché l’autore la definisca scherzosamente «c˜ hiac˜ c˜ hiarella», un’intera famigliuola contadina, servendosi dell’abilità teatrale del nonno, organizza uno scherzo punitivo per dichiciellu, un don Chisciotte fanfarone, facendogli credere che il nonno è morto e lasciandolo, con un pretesto, solo con lui, in una situazione che mette a nudo la poverissima umanità del personaggio. nella seconda una compagnia di squattrinati, buontemponi da strapazzo, si arrangia alle spalle di un innamorato credulone, organizzandogli un incontro con la fanciulla ritrosa, che poi si scopre essere uno della masnada, travestito. il tema della beffa attinge ad una tradizione che da plauto e da Boccaccio ricorre frequentemente nella letteratura e impronta le stesse origini storiche della poesia calabrese, con il poemetto, attribuito a duonnu pantu, La briga de li studienti, in cui una brigata di studenti organizza una specie di esproprio proletario ai danni di un collega bonaccione. lo stesso Ciardullo utilizza efficacemente il tema dello scherzo nel poemetto ’A pignata. antecedenti delle due farse non mancano: uno lontano può, ad esempio, ravvisarsi nella Betìa del ruzante, la quale si chiude con la finzione di un contadino che rivela alla moglie di esser morto, descrivendo l’inferno dove sono puniti i suoi perseguitori; più vicini sono Miseria e nobiltà di Scarpetta, ove si racconta di una burla giocata da alcu-


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ni poveri affamati ad un aristocratico, e L’antenato di Carlo veneziani, una commedia che ebbe fortuna negli anni venti e oltre e di cui ritorna in Ciardullo non solo il tema del redivivo, ma anche, cosa che non può dirsi casuale, qualche precisa situazione. Ma nonostante questa più o meno consapevole memoria, il fatto che il popolo diventi, fuori di maschera, soggetto e artefice di scherzo alle spalle della cosiddetta gente per bene è nuovo ed eloquente nella letteratura calabrese, più avvezza a vederlo come soggetto di passione e di dolore. ritorna nella prima farsa la sapiente costruzione dell’ambiente nel quale la vicenda matura, affidata ad un realismo vigilatissimo, che stabilisce un’atmosfera di interno quotidiano, gioioso e sereno nella sua elementarità, mediante una dosata architettura delle parti, individualmente caratterizzate e armonicamente composte. Marianna, la madre, che sollecita con arguta amorevolezza le figlie nel lavoro, rusinella che si spolmona sulla legna restia ad accendersi, Tiresa che si affanna a nettare la pasta da ospiti incomodi, linardu, il padre, preoccupato di non poter disporre, l’indomani, delle tegole per il lavoro in corso, perché si è rotto «’u majuolu» del carretto di Marru parmullu, Gatanuzzu impegnato in una schermaglia amorosa con rusinella, Gaspare, il nonno, bonariamente condiscendente all’organizzazione dello scherzo, e poi tutti insieme attenti, a gara, ad alimentare la millanteria del malaccorto fanfarone, mentre compongono uno spaccato storico della condizione contadina, realizzano una pagina che, nella sua naturalezza e vivacità, sarebbe già godibile anche senza la beffa e, se si vuole, lo è più della beffa stessa. la quale vive della corale partecipazione, anche se poggia sul rapporto fra i due protagonisti, il nonno e dichiciellu, un rapporto caricato nelle situazioni, negli atteggiamenti, nelle espressioni oltre lo stesso inverosimile della vicenda, in quella enfatizzazione che appartiene al teatro di peppino de Filippo e di Totò. il personaggio dichiciellu si compone di due estremi: quello della spacconata, quello della miseria e della viltà. il primo si costruisce per gradi, attraverso una sapiente manovra degli altri personaggi tanto più sottile ed efficace quanto meno avvertita dalla vittima. abito alla cacciatora, fucile ad armacollo, spavaldo, galante, come poteva passare davanti alla casa degli amici senza dare un saluto? Mancu si me puntavanu ’ncuollu ’nu cannune a mitraglia!


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come il cannone che gli puntarono contro tre austriaci e di cui riuscì a impossessarsi dopo aver ucciso i tre nemici. a caccia, poi, che uccelli e uccelli! Tu cchi vue, ’nu lupu, ’nu crapiu, ’n’ursu? M’à’ de dire sulamente due lu vue curpitu, all’uocchiu mancu o allu destru! e nente c˜ c˜ hiù.

Ma si veda come la spacconata trovi l’abile attizzamento di Teresa, nel suo finto dileggio del fratello Gatanuzzu: pilandru’, ’mpàrate! Tu ca si sienti ’na botta t’ammucci sutta lu liettu!

E si segua nelle battute conclusive il sapiente costrutto dell’intelligenza contadina: TirESa. diCHiCiEllu. ruSinElla. diCHiCiEllu. ruSinElla. diCHiCiEllu. TirESa.

E si t’escèranu d’avanti dece persune, te spagnère? a mie? ah! ah! ah! ’Ssa parola spagnare, Tirisine’, scàssala, è tridici ’un cunta. nnè ccu lli vivi nnè ccu lli muorti? Ccu lli muorti? ah! ah! ah! puru de li muorti te spagni? io morèra si nne vidèra ’nu mienzu. Ed io, si nne vidèra ’nu sanu, mi cce facèra ’na partita a piripac˜ c˜ hiu! Cchidomu! dichici’, viatu chine te piglia!

Quanto basta perché la beffa scatti. l’altro estremo realizza il contrario processo, che tuttavia non è correlatamente graduato, ma un precipitare improvviso, perché lo smargiasso si dissolve al primo impatto e tutti gli altri gradi della dissoluzione sono modi della sua stessa misera natura, nella quale l’autore si diverte a scavare sempre più a fondo, con atteggiamento benevolmente castigatore, sì da creare la persona e insieme l’eterno modello. Questo processo alla rovescia avviene velocemente, dallo sbalordimento per vedersi lasciato solo col morto alla paura, alla disperazione, al terrore, dal tremore al balbettio, al piagnucolio, allo smarrimento completo del senso della persona, che lo riduce zimbello dell’altro a mano a mano che questi, con mosse accorte, starnutisce, lo sfiora con una mano, solleva la


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testa, si pone seduto, gl’intima silenzio, lo costringe a rimangiare le sue smargiassate e a mettere a nudo la sua viltà. C’è del comicamente maestoso e solenne nell’intimazione di questo contadino redivivo alla sua vittima: «Citu..., statti citu!» col suo richiamo letterario ad analoga intimazione dell’antenato redivivo al postero barone di Montespanto nella già ricordata commedia di Carlo veneziani: «T’umilia e taci!» anche una vaga e complessa memoria letteraria ispira, nelle parole di Gasparu, un descrittivismo parco ed essenziale: Signu allu prugatoriu. Cca cc’è lu munte e cca cc’è la jumara!... Cca cc’è l’erva e cca cc’è lu lavuru...

abilmente montata, la confessione delle smargiassate dà luogo ad un grottesco finale: GaSparu. diCHiCiEllu. GaSparu. diCHiCiEllu. GaSparu. diCHiCiEllu. GaSparu. diCHiCiEllu. GaSparu.

dìcia: signu ’na piecura! Jesu! dìcia: signu ’na piecura! Si... signu ’na p... piecura! Signu ’nu cunigliu Signu ’nu cu… cu… cunigliu! li quatrarielli me faû spagnare! li qua… qua… ohi mammarella mia! E mo t’abbrancu e te puortu ccu mie!

l’esagitato e caricato grottesco dura tanto da dar tempo agli altri burloni di ricomparire sulla scena a sciogliere la vicenda, tra la cordiale ilarità del lettore o spettatore e lo sbalordimento del malcapitato, sul cui volto l’autore dipinge la maschera dell’idiota. la logica interiore ai personaggi e alle scene conferisce all’esasperato grottesco naturalezza e credibilità. a sostenerla concorre per gran parte l’ininterotta autenticità del linguaggio, sotto il quale aspetto questo è uno dei documenti più interessanti dell’opera di Ciardullo. l’attenzione si appunta già alla costruzione della scena di apertura: il «vignano», per cui si accede alla porta d’ingresso, «camarra» e «quadaruottu» nel camino, «sazizze» e «suppressate» appese alla «piertica», fra sedie e sgabelli qualche «fierula». in nessun’altra opera l’autore dimostra tanta necessità di puntualizzazione antropologica. in siffatto contorno i «tac˜ c˜ hi de ficu» su cui rusinella si affanna a soffiare sono bagnati «cumu


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piscicantuni», ma all’impertinenza di Tiresa «paranu vitullu»; i giovani, nota Marianna, corrono al lavoro «com’u lupu allu tumbarinu»; rusinella ha mangiato un pezzo di pane «gruossu quantu ’nu cippu»; col vino «nannuzzu» se «’ngalluzziscia e pitta llu sule»; «’nu scotulizzu, ’na tremarella» sono l’intento iniziale dello scherzo; dichiciellu, che nella voce pubblica è «garofanu jurutu», nell’ironia di Tiresa è «core mio ’nzuccaratu»; a Gatanuzzu è passato «’u cilampicu»; l’invito a mangiare patate è per lui «bellu ’mbitu a mmiennule scunfette»; dichiciellu abituato al meglio «à de trivuliare de ’ssa ’nchiampa nostra»; Marianna stenta a «’mpizzare fuocu» e, con un esempio di realismo continuato, insegna a rusinella come vincere la resistenza della legna: Mìntacce dui carvunielli, conza lu cippu, ’ncatàstali laschi laschi e vidi ca sbàmpanu. l’à’ jettati cumu ’nu muortu ammazzatu supra ’a cìnnara, cchi m’àû de pigliare! cce vò lu mantice de marru dominicu, e mancu cce arrivi.

linardu riprende bonariamente il padre, che fa lega coi giovani: ’Ss’atru rimbabitu chi si cce ’nfunna lu pane,

e con una doppia metafora di grande effetto avverte dei rischi dello scherzo: vi’ ca ve mintiti a ’nu bruttu abballu. vi’ ca cce resta e vi nne liccati l’ugne!

Tiresa, polemica con la madre che la sollecita a nettare la pasta, ricorre in chiave contestativa a tutto un armamentario antropologico: Mammare’, ’ssa pasta minuta cula de oru, sî cuntenta? Chissi nun sû cose de sùrici, sû perle! lu jugliu ci lu vuogliu, la vizza è ’na ricchizza, ’a jina aumenta farina: è annettata la carusa!…Chilla era fimmina, no, mammare’?!…

il gusto pittorico rilevato in alcune pagine delle opere drammatiche e qui già notato nella descrizione dell’oltretomba ricorre ancora, col sussidio combinato del lessico e della mimica, nel linguaggio dell’ammazzasette: Certe vote, certi tali te giranu ’ntuornu cumu li musˇcuni e


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il teatro

te ’nsfastidìanu, e te ’nquietulìanu!… à’ vistu ’u musˇcune?! Te rota ’ntuornu e tu lu guardi e nun lu vidi, e illu zu… u…u…, pue l’ac˜ c˜ hiappi e, zza, lu sˇcamacci ccu dui jiritella.

E c’è anche un linguaggio della gentilezza composto a gara dalla tenerezza e dal realismo delle immagini, come in queste parole del nonno a Tiresa, che gli ricorda quante volte egli l’ha tenuta sulle gambe: Quinnici anni arrieti, quannu tu pisave dece chili ed io minava vintitrì libre de zappa; mo, benedica, sì ’na jencarella, ed io …

Ma si tratta solo di esempi in un documento fertile di suggerimenti linguistici dal principio alla fine. la farsa Fratellanza nofriana è storicamente importante nel teatro di Ciardullo e perché, come si è detto, fu la prima sua opera in dialetto e perché, scritta in versi alla pari del dramma Vampate, segna con esso la prima fase della sua attività teatrale, quella dell’ossequio alla tradizione carnevalesca. Sul piano dell’arte essa risente dei limiti imposti dall’ambiente per cui fu scritta, la filodrammatica, come pure si è detto, di un collegio maschile, il «Manzoni» di Cosenza, con la conseguente esclusione di personaggi femminili, solo relativamente compensata dalla finzione del travestimento. la farsa sa, a nostro avviso, dell’improvvisazione o quanto meno della frettolosità, per una dominante concessione al facile e al cantabile, un uso piuttosto disinvolto della variatio del verso, spesso non consequenziale e non accordata al momento psicologico o scenico, e un abusato ricorso ad arie da operetta sul tono di note canzoni dell’epoca e anche col gusto, già notato in Vampate, della favola e della parabola. Essa vive, tuttavia, di una sua piacevolezza davanti al lettore e resisterebbe probabilmente alla rappresentazione come fresca oasi, per chi non chiede troppo, in tanto intellettualismo dominante. E non per la natura della beffa, che è, come si è già notato, uno dei fatti codificati dell’inventiva popolare, ma per la vivace naturalezza dell’ordito, giocata sui caratteri personali. Ciardullo, anche qui malinconico osservatore della società, attinge, come in altri luoghi del suo teatro, ad un campionario di paese, un infimo grado che oppone l’ingegno al bisogno e lo esercita negli espedienti


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per vivere, di volta in volta attraverso l’astuzia, l’intrigo, l’inganno, la frode, con risultati che trascorrono variamente dal puro ridevole al dolo e che, comunque, rappresentano, nelle piccole società paesane, una realtà coreografica e temibile insieme. alla medesima categoria sono sostanzialmente riducibili, nonostante la differenza delle condizioni personali e dei modi della condotta, Squaquicchiu di Vampate e pirulinu di ’A Scala. Tumasi è «lu capu» e «lu priuru» dell’amena brigata e ne guida le mosse. Squattrinato da dimenarsi come la trota avvelenata nel torrente, «sbattiennu cumu ’na trotta», affida alla buona sorte la speranza del suo uscir di pena, con un’esperta e colorita meditazione cabalistica, purtroppo vana, perché manca il danaro per giocarla al lotto: nun te pue giammai sbagliare, è chiara la navetta e la catina, la cruce de le tridici magare: sette zumpa ppe tria, fa’ lu pinnazzu, giri tri vote e truverai sullazzu.

ideatore e principale tessitore delle imprese, ha l’autorità che gli viene dall’esperienza e dal saper fare, avvalorata dal frequente ricorso a lampi di pseudocultura, a un linguaggio di effetto in quel mondo arcaico e semplice. di siffatto potere egli è convinto prima di altri e lo proclama con enfasi immaginosa: Figliu miu, quannu Tumasi si cce minta ccu lli siensi, po’ jurare, quasi quasi, ca se carmû li riscienzi! E se gàpanu le starne! E se fa botta sicura, Granchici’, senta: ’ssa carne caccia sangu de li mura!…

Ciccariellu, nella presentazione di Tumasi, è ... ’n’amicunu; canta cumu n’artista de triatu; lu truovi ad ogne pizzu, a ogne spicune; e sa chillu chi fa, statti squitatu!


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nei suoi strumenti del successo ci sono chiavi parodiche che richiamano Squaquicchiu e con cui scomoda platone e strapazza il latino: «Omina bona mea mecum portu1» disse pratune all’articulu quartu: omu senza dinari è corpu mortu!

Tra l’estro e la stizza, usa il primo per affidare le sue riflessioni allo stornello: Juru d’amuru, tutte le funtanelle se stutarû! lu pecuraru cangia de culure, lassa le troppe e se va fa nutaru;

scarica l’altra sulla moglie «’na pajarda», «cilampica pestusa», «capelluna sbrigognata», che egli narra con aria soddisfatta di avere «aggallata» di santa ragione, «e mina… e forza… e ’ncugna» lasciandola che «sˇcamava ’nterra cumu ’na crapa», ma purtroppo viva perché «tristu rugagnu nun cada de ’ncinu!». a spese della disgraziata avviene la fornitura del vestiario per il travestimento di lucertella. Ed ecco con quale compiaciuta ipotiposi Ciccariellu racconta l’operazione: CiCCariEllu.

piSTaCCHiu. CiCCariEllu.

illa era ammuzzellata a ’nu spicune; io trasu cumu si ’un l’avissi vista; illa ’ntostata cumu ’nu muntune… ccu ll’uocchi vasci… va’, povera crista!… Mi cci à tiratu proprio ppe llu cuollu! n’autra vota lle passa lu c˜hiuritu! Signu jutu alla cascia, muollu muollu… àju ammappatu tuttu, ed illa citu!

prova dell’efficacia di certe maniere, pronte, all’occorrenza, a ripetersi: E si fa c˜hiac˜ c˜hiere la ’nghielenata,

1

deformazione della risposta data, secondo l’attestazione di Seneca (De clementia), da Stilpone, filosofo megarico e discepolo di diogene il Cinico, a demetrio poliorcete, che aveva occupato Megara, sua patria: Omnia bona mea mecum sunt («i miei beni li ho tutti con me»).


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n’àutra suscipia sta preparata.

Grancu, «asciuttu cumu l’isca» tutto l’anno e «de sucu mancu ’navutta», guarda invano il bar per un conforto contro i rigori dell’inverno: Ccu ’ssa gappa filippina chi ne fa tartaglïare…

pronto ad ogni servizio, la sua specialità è aprire serrande e grimaldelli: Questo è Grancu, granchiciellu, chi t’abballa ad ogne rasa! Minta garra o manganiellu, c˜hiuda tu, ma Grancu trasa!…

il suo pari è pistacchiu, …lu veru cac˜c˜hiu de ’mpisu de la cumpagnia. zumpa, s’arrampica, mai fa ’nu ’nquac˜c˜hiu, gioia, gïubilu, galanteria. la risposta alla presentazione di Tumasi è in questa nuda dichiarazione della perfetta povertà: Ciccu, me pappicìanu l’uocchi, c’àju ’ntra li stentina tri crosche de finuocchi.

Ed ecco i due poveri diavoli seduti l’uno davanti all’altro, alle prese rispettivamente con una scarpa e un paio di pantaloni, l’una più malconcia degli altri: GranCu. piSTaCCHiu. GranCu. piSTaCCHiu.

Questa è la

Me para, benedica, la pullara! M’assimiglia ’nu scula maccarruni! le sole, le c˜hiantelle e lli taccuni para ca sû nimici!… E guarda, e abbara cavuzi cumu chissi si ’nn’à’ vistu… nun tienû c˜c˜hiù ’nu puntu si l’ammazzi! po’ jire allu spitale ppe spilazzi, parû la vesta de ’nu gesucristu!


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fratellanza nofriana, la scilla rutta, ma la vozza sana.

Come denominatore comune, le «ruglia la panza» e la costringe ad un «taluornu» quotidiano per campare. Ma la lega anche una solidarietà cavalleresca, che si esprime nel saluto: TuMaSi. GranCu.

Salutamu sbriscerati! E ccu duvire salutamu!

una compagnia che, per essere all’altezza della situazione, storpia all’occorrenza il gergo e l’eleva a nobiltà linguistica, con un’esilarante contaminazione che trova qualche corrispondente in Vampate, ad esempio nel linguaggio del marito americano o dello stesso Squaquicchiu, ed è un fatto assai rilevante: non il bilinguismo delle farse carnevalesche, inteso a stabilire la diversità del grado sociale, ma l’innesto del colore aristocratico e culto nel dialetto come strumento di riuscita e di conquista. lo scherzo vero e proprio ha un precedente che si risolve nella sconfitta nofriana.Tumasi crede di aver pescato un innamorato inquieto e di poter risolvere la giornata offrendogli aiuto: TuMaSi. BarTuluzzu. TuMaSi. BarTuluzzu. TuMaSi.

accillenza, bongiornu! Si nun sbagliu lei ci aviti lu core pizzicatu! Chine sî tu e cchi vue? Te viegnu a tagliu e sgrizi e sˇcanti! Sî ’nu scustumatu! Ma... Ma ’nu cuornu; iu parru sempre chiaru: T’àju ’ntisu ’na picca e buonusia lei accillenza parìe ’nu pisciularu!… te rucculave tutto, la via via. io t’àju ’ntisu e viegnu a t’aiutare.

Con arte sottile Tumasi l’induce a confessare quello che ha e pure quello che non ha, per assicurargli aiuto e conforto: TuMaSi. BarTuluzzu. TuMaSi.

… Ecco … dico io la signorina ti fa un pochettino ’ntussicare!… illa no. Già, la rosa ccu lla spina… lei, ’nsomma, amicu, non ci poi parrare!


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BarTuluzzu. TuMaSi. GranCu. TuMaSi.

BarTuluzzu. TuMaSi.

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Chissu è veru daveru! Ecco issofatto! Stringia! abbozza! (a Bart.) Ti sciolgo il nodo chiuso: sei un po’ timiduccio e all’intrasatto si sei pigliato, resti un po’ confuso Sì, veramente io triemu, io cchi nne sacciu… quannu la viu pierdu la favella. Scherzi d’amure! rumpere lu ghiacciu lei nun ti fidi, ed è ’na c˜hiac˜c˜hiarella.

il dialogo è documento di notevole capacità psicologica del personaggio, che, se non l’eleva all’altezza di Squaquicchiu, ne fa un non indegno discepolo. Con argomentazione tra arietta e parabola Tumasi chiede fiducia e propone la soluzione: un bigliettino e, come preliminare, una serenata. la serenata, concertata a gara, «’ntinna» e delizia anche l’interessato, ma quando Bartoluzzu, «don» per la compagnia, deve mettere mano alla berta, la diabolica compagnia si accorge che «chissu è ’na cruce pieju’… pieju» di loro. Ci vuole la previdente saggezza di Tumasi per sottrarlo alle ire dei gabbati, con la considerazione che ... lu piecuru è de razza… priestu o tardu ritorna allu sˇcorrazzu!…

i fatti danno ragione a Tumasi, il quale dopo alquanto tempo, sorpreso il tordo che lacrimava perché abbandonato da Tiresina, gli offre come soluzione immediata il matrimonio con una sua nipote, ottenendo, questa volta, insieme al pronto assenso, il corrispettivo del beneficio in un bel foglio da cento, con impegno di integrazione. la nipote, che Tumasi non ha, sarà lucertella, un degno amico, il quale resiste a tutti gli argomenti, anche alle insinuanti pressioni di Grancu, impreziosite dall’iperbato: … tieni l’avantu ccu ’ss’uocchi nìvuri, ccu ’ssu lavruzzu di al seno stringere don Bartuluzzu,

ma non alla vista della carta moneta. all’abbigliamento provvederà, come si è anticipato, Ciccariellu, il quale potrà cantare, radendo


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Bartoluzzu per renderlo più presentabile, dopo una seconda elargizione: Si vo’ fare ’na gapparia: lu core ad illa e ’lli sordi a mia.

l’esilarante incontro poggia sulla straordinaria vis comica di lucertella, che risulta da una disinvolta contaminazione della parte della vergine ritrosa con incontenibili rigurgiti della gagliofferia, una contaminazione della quale non pesa l’estremo caricaturale teso fino all’inverosimile, sì naturalmente è operata e sì cordiale è l’ilarità che suscita. E Bartoluzzu, che non è tanto melenso quanto pare, ma lo è abbastanza per le arti della diabolica brigata, vi s’irretisce, anzi l’alimenta e se ne compiace. Si segua il primo aspetto nella studiata compunzione dell’apertura del dialogo: BarToluzzu. luCErTElla. BarToluzzu. luCErTElla. BarToluzzu. luCErTElla. BarToluzzu.

Signorina, buongiornu. a vussiria. io sacciu… senta… te volera dire… zizìu m’à dittu ca me vue tu a mia, ma io ’un capisciu. M’ài de cumpatire. Cum’è sincera, gioia, ssa vuccuzza! no, cussì nun parrare ca m’affruntu e me vienû li chianti… oh, chi fatuzza! Bella palumba mia de tuttu puntu!

il velo della pudicizia si dilacera d’improvviso e la natura del personaggio gli prende la mano quand’egli, che non fuma da giorni, scorge nella tasca di Bartoluzzu le sigarette. luCErTElla. BarToluzzu. luCErTElla. BarToluzzu. luCErTElla. BarToluzzu. luCErTElla. BarToluzzu.

piSTaCCHiu.

........…Chi cce tieni? duve? là … ’ntra la sacchetta? Quale? chissa? Chilla. vieni, vida, me’: ’na zicaretta! uh! Chi dici? Ch’è peccatu! Ti la fumi? Te fa dannu! licertella fila fila


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luCErTElla.

BarTuluzzu. luCErTElla. BarTuluzzu. luCErTElla.

BarTuluzzu. luCErTElla. BarTuluzzu. luCErTElla. BarTuluzzu.

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’na sullazza à già beccatu. dio me sarva… me ’mpizzune… Bartulu’, ca ’u dugnu a nannu … te trovassi ’nu muzzune? ’nu muzzune de sicarru, no ’ssa paglia, gioia mia! ...... Signori’, cumu la tiri!… passi tutte le misure! ppe lle ganghe, cchi te criri! oh, ma a mia me dà piacire, resti dittu tra de nue. Quannu è chissu, e vue godire, projaminne ’n’autre due. Ti le fumi? una ’ntra l’atra. E fumère ppe le vie? Bartolu’, autru ’ntra quatru… me fumèra puru a tie. o cchi piezzu d’ammazzata!

Ma ormai lo spasimante ha perso i freni e chiede, in ginocchio, di sposarla. Qui scatta, a punto giusto, l’interesse della donna e insieme s’avvia la soluzione: luCErTElla.

vi’ cumu è viecchiu ssu mantisinu!? ’Ssi zocculilli sû ’na miseria!…

Chiesto e ottenuto il corrispettivo in danaro, la finzione non ha più motivo; avviene il riconoscimento, tra lo sbalordimento e il furore del beffato e la festa della brigata, che ha vendicato ad usura Chilla tinta e sanizza lapristata

e gli consiglia di andare e tacere, pago di portarsi «li cuosti sani». il ricorso piuttosto soverchio che si è fatto, nell’analisi, al testo, mentre vuol esser guida alla lettura di un interessante campionario umano, vuol esserlo anche alla struttura di un linguaggio che qui, per la particolare natura dei personaggi, quando non è strumentalmente contaminato, è da suburra e scade a gergo. la commedia perduta Spiritismo, della quale resta nota di cronaca2, è l’u-


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nico lavoro teatrale di Ciardullo fuori del mondo popolare. il protagonista è un benestante di paese, don attanasio, marito attempato di una moglie ancora giovane e padre di lauretta, una ragazza molto bella. Tutto preso dalle sue pratiche di spiritismo, lascia che un gagà del paese, Fausto perris, frequenti la sua casa e non si accorge della tresca che gli fila con la moglie sotto il naso. Così alla figlia vorrebbe dare come marito un mezzo spiantato, brutto e balbuziente, perché ritiene di aver trovato in lui un ottimo soggetto per i suoi esperimenti, e non sa che essa è innamorata di Giuseppuzzu, che trova modo di incontrarla in casa ad ogni assenza dei familiari. per realizzare il loro intento lauretta finge di essere in stato d’ipnosi, procuratogli da un giovine del paese, potentissimo medium; il padre lo riceve volentieri in casa e lo mette alla prova in una seduta, durante la quale la coppia, approfittando dell’oscurità, abituale a tal genere di esperimenti, prende il volo. la commedia rientra in tutto un filone satirico dell’insensatezza umana, che, inseguendo cabale e chimere, smarrisce il senso del reale con ridevoli e insieme lacrimevoli conseguenze, personali e familiari. Conoscendone solo il contenuto, peraltro attraverso un resoconto sommario, il giudizio deve limitarsi allo sviluppo dell’azione e su tale piano avanza necessariamente riserve, se non altro per l’evidente forzatura dell’intera vicenda e per l’artificiosità della soluzione, che non pare uscita dall’estro di Ciardullo, mentre giustifica a pieno l’ironia del cronista: «Se quei due avevano agio di vedersi e parlarsi così spesso, non potevano scegliere occasione meno chiassosa per la loro fuga?» il testo sarebbe stato molto importante come metro della capacità dello scrittore di entrare in un mondo non popolare e in definitiva come termine di confronto per il problema della «forma» ciardulliana. Così come detta il resoconto, la tesi riceve ulteriore conferma, nel senso che al di fuori del suo mondo, come lingua e come cultura, Ciardullo perde terreno. non diverso giudizio esprime, del resto, il cronista: Spiritismo resta un tutto a parte nella magnifica produzione del de Marco (...). attendiamo dall’inesauribile vena di Ciardullo, artista vero e indiscusso, un lavoro di altro genere, che dia la misura delle rinnovate possibilità del nostro amico in un campo più eletto.

2

v. Ciardullo (Michele de Marco), Il teatro, cit. pp. 363-4. v. anche Recital del gruppo folkloristico dialettale, «Calabria Fascista», a. Xi, n. 11, 17 febbraio 1933.


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CapiTolo v

Guizzi E STanCHEzza dEll’invEnzionE ’A Scala

l’ultima opera teatrale composta da Ciardullo è, secondo le notizie che possediamo, ’A Scala, un dramma in tre atti, in prosa, che l’autore dettò in tre nottate consecutive, dal 12 settembre 1941, ai componenti della sua filodrammatica. del primo atto si conserva il manoscritto, che riporta in calce la seguente nota, importante come spia di una condizione economica, ma anche di una condizione di semplicità di spirito: «ore 21 inizio dettatura, ore 2 spuntino (pane e pomodoro), ore 4,30 termine». l’opera, dimenticata per molti anni e perciò non riportata nell’edizione del Teatro del 1968, fu rispolverata e rappresentata nel 1985 dal Teatro Musicale Giovane «Città di Cosenza» in occasione della celebrazione del centenario della nascita dell’autore. il dramma ha un antefatto che scorre tra le sue fila e si chiarisce compiutamente nell’ultimo atto. Mariantonia, che in gioventù ha menato vita facile, è stata causa involontaria della morte di Stefano, a lei legato e ucciso per gelosia da altro spasimante. la vedova, rimasta con un figlio in tenera età, Stefanuzzu, e un’altra creatura in grembo, ha sopravvissuto poco alla perdita del marito, morendo di dolore e lasciando due figli. Stefanuzzu è stato allevato, non senza stenti, dallo zio Bennardu, che l’ha educato all’onestà e al lavoro e lo considera come proprio figlio. Mariantonia, per suo conto, ha trovato un marito compiacente e danaroso, «’nu ciucciu carricu ’e dinari», che è morto dopo alcuni mesi dalle nozze in circostanze non chiare, lasciandola libera e ricca. Ed essa ha ben impiegato la sua ricchezza, prestando denaro ad usura e passando disinvoltamente sul corpo della povera gente. ancora florida a cinquant’anni, sempre riccamente vestita e ingioiellata, ha ora l’assillo di trovare un idoneo partito per la figlia, Filumenella, una ragazza piuttosto


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il teatro

striminzita, che nel paese hanno soprannominato «’a muscia», ed ha messo gli occhi addosso a Stefanuzzu. Ma il giovane è legato a Maria, figlia di genitori poveri, ai quali Mariantonia ha prestato danaro in occasione di una triste vicenda familiare. Qui inizia il dramma. E’ giorno di vendemmia; le donne recano sul capo le ceste d’uva al palmento; gli uomini amministrano la pigiatura; sulla soglia due ragazzi, pipitella e parpagnu, giocano «alle petruzze». la festosa serenità è turbata prima dal sopraggiungere di Filumenella, con la sua volgare astiosità e il tono gratuitamente provocatorio dei suoi discorsi, poi di Mariantonia, la quale, piluccando con calcolata cortesia un grappolo d’uva che le è stato offerto da Bennardu, punta direttamente all’intento, trovando modo, da una parte, di affrontare Maria e avvertirla che farà bene a togliersi dai suoi passi e a non ostacolare i suoi piani, dall’altra di insinuare nel cuore di Stefanuzzu il tarlo del sospetto e della gelosia, sussurrandogli che Maria tresca con don Carrucciu, un signorotto del paese, e promettendogli di fornirgliene la prova. l’effetto delle sue parole è subito palese nel disagio e nel turbamento che improntano, per la prima volta nella loro storia d’amore, il colloquio tra i due giovani. il secondo atto è occupato dalla trama del triste disegno, che dovrà offrire a Stefanuzzu la prova del tradimento. davanti alla casa di Bennardu scorre la solita vita di lavoro, complicata all’improvviso dalla caduta, a valle, di una grande «liequia», che ha risparmiato miracolosamente i due uomini intenti a lavorare lì accanto, e dal conseguente affannarsi a cercare braccia per farla a pezzi e trasportarla in casa. nella preoccupazione generale pipitella cerca, per conto di Mariantonia, pirulino, lo smilzo sciancato che vive di espedienti e d’intrighi. a lui Mariantonia ha affidato l’organizzazione del diabolico disegno: egli sottrarrà furtivamente dalla casa di Maria una sua veste assai nota e ne vestirà altra persona della medesima statura e della medesima età, la quale entrerà a tarda sera, complice il fattore, nella casa di don Carruccio. Stefanuzzu, in guardia, si convincerà del tradimento. pirulinu non tarda ad annunziare che tutto è pronto secondo il disegno e impone il prezzo dell’infamia, al quale Mariantonia si obbliga nonostante l’esosità. poi essa comunica a Stefanuzzu l’ora e il giorno della prova oculare. il terzo atto si apre quando il diabolico disegno è andato a fine. Sono tre giorni che l’impresa, perfettamente orchestrata e condotta, ha sconvolto cuori e menti. la scena è all’interno della casa di Bennardu, in


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- guizzi

e stanchezza dell’invenzione

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un’atmosfera di sconforto e di tensione. anche la serenità del lavoro appare turbata: bisogna raccogliere, prima che vada alla malora, «’u pirullu trentuzzu», e gli uomini temono della scala, che ha i primi gradini consunti, ma Bennardu ha altro da pensare, preso com’è dal volto emaciato del nipote, dal dolore e dallo smarrimento di Maria, dall’improvvisa coscienza che tra le accuse e gl’insulti dell’uno e l’inutile disperata profferta d’innocenza dell’altra un legame da lui favorito con cuore paterno e considerato già solido e sacro vada tristissimamente naufragando. Ma ora egli vuole vederci chiaro, perché, tra accusa e difesa, comincia a sospettare la verità, a leggere nei fatti la stessa mano del suo lutto di vent’anni addietro. Mariantonia non tarda a ricomparire, venuta a godersi il frutto della sua vittoria; Bennardu l’affronta da solo a sola, finalmente senza veli, le ricorda le antiche vicende, il fratello, la vedova, gli orfani, le sue cure per Stefanuzzu, le sue preoccupazioni per l’attuale stato del ragazzo; le rinfaccia lo scoperto interesse ch’essa spiega per acquistarlo a sua figlia, eventualità ch’egli scongiura come più triste della morte; la ritiene, perciò, fonte di una seconda sventura per la sua casa e pretende di conoscere da lei, che certamente sa, la verità delle cose. Con abile schermaglia Mariantonia elude e nega, ma quello che la fredda determinazione non concede è reso possibile da un residuo di coscienza del più miserabile. pirulino, infatti, stretto dal rimorso, interviene spontaneamente a confessare la sua colpa e a chiarire minutamente i fatti. Si ristabilisce, con la giustizia, la serenità della casa e del lavoro; Mariantonia è scacciata, seguita dal disprezzo e dalla maledizione; Maria è salva nel suo amore e nella sua dignità di donna; anche la raccolta delle pere è stata fatta agevolmente e senza danno, capovolgendo la scala. vicende e persone del dramma rivelano una crescita, in profondità e vastità, del mondo morale e della coscienza pedagogica dello scrittore. la scala, che dà il titolo all’opera, è in essa strumento di lavoro e insieme metafora, motivo unificatore, caricandosi dell’adulta visione sociale dello scrittore, altrove risolta nella contemplazione malinconica, nella satira sorridente e indulgente, nello scherzo, nella beffa, qui governata continuamente dall’indignazione, dalla condanna, da un sotteso grido di giustizia, che percorre tutto il dramma ed esplode nella conclusione. nella scala sociale i deboli, i poveri sono i gradini sottani, logorati dall’uso, e quelli soprani, intensi, forti, sono i potenti. nella multiforme gamma della potenza Ciardullo appunta gli strali sui nuovi ricchi, oggetto, peraltro, delle sue falcate giornalistiche, non sull’arricchito america-


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no, il quale, se è oggetto del suo sorriso impertinente, lo è, come si è osservato, anche della sua pena umana, ma sulla ricchezza malamente accumulata e proterva, crescente sull’altrui bisogno e sull’altrui dolore, e traduce nella condanna di Mariantonia un bisogno di giustizia accumulato negli anni, tra le personali difficoltà di vita, l’osservazione del mondo e l’esperienza dell’uomo di legge, un bisogno verosimilmente rinfocolato da una recrudescenza del male in quegli anni di guerra, che erano anche del benessere di pochi e della miseria dei più. la filosofia dei vinti, che ha governato altri drammi di Ciardullo, condannando Maria al silenzio e Matalena alla disperata solitudine, e che in Vie de ’nfiernu ha trovato nella vendetta un superamento traumatico e perciò solo apparente, qui trova un approdo positivo sul terreno etico e giuridico: il capovolgimento della scala non è soltanto la risoluzione di un episodio di vita, ma, nella sua espressa metafora, un’indicazione e un programma. a volerne cogliere i termini, ci pare che essi siano già eloquenti nelle parole di Bennardu a Stefanuzzu che fa per scagliarsi sulla donna e chiudere violentemente la partita: ritìrate! Cce pensa dio e la giustizia!

Ma su quel dio non bisogna ingannarsi. dio passa, in Ciardullo, come nome e consuetudine; la pietà popolare è tradizione e rito, non sentimento profondo quale, in genere, nei popolani del Manzoni. la visione della vita è quella manzoniana, oscurata dall’insidia permanente del male, ma retta dalla fede nella giustizia, la quale mentre nel lombardo è forza soprannaturale, nel calabrese è tutta umana e terrena, avendo come unici termini di riferimento la coscienza e la legge dello Stato. una confessione di moralità e di democrazia laica, che pare preludere all’ingresso di Ciardullo nell’agone politico del secondo dopoguerra e indicarne già le direttrici e i toni. il dramma, che al suo apparire fu salutato da alcuni come l’espressione somma dell’arte ciardulliana, va guardato, a mio avviso, con minore entusiasmo e più attenta coscienza. a me sembra che alla crescita del mondo morale e sociale non corrisponda, in esso, un’adeguata concorrenza sul piano dell’arte e che questo, anzi, accusi una certa condizione d’involuzione e quasi di esaurimento. Mi diffonderò, pertanto, nell’analisi quel tanto che permetta di cogliere nella misura più chiara ed equa i pregi e i limiti.


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- guizzi

e stanchezza dell’invenzione

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il dramma non ha un vero proprio protagonista, potendosi questo identificare in più d’un personaggio secondo l’angolo visuale del lettore o spettatore e comunque contrapponendo a un mondo di onestà e di lavoro quello dell’interesse, dello sfruttamento, dell’intrigo. al centro del primo è Bennardu, una figura di stampo verghiano, avendo di mastro-don Gesualdo e di ’ntoni, nel senso che, senza attingerne le mete eroiche, ne impersona i corrispondenti valori, la roba e la casa, nei comuni parametri economici, morali, affettivi della cultura contadina. a suo modo, anche quella di Bennardu è una religione: una religione della roba, che lo fa vigile ministro delle opere e dei giorni, perché «l’uocchie d’u patrune ’ngrassa llu cavallu»; religione della casa, che gli fa riversare sul nipote, nella preoccupazione per la sua salute, per i suoi affetti, per il suo destino il mondo dei propri affetti, la memoria del fratello morto, quasi una consegna del patrimonio di generazioni e dell’eredità di sangue. in siffatta disposizione d’animo trova spiegazione anche il suo interesse per Maria, che tanto più si tradisce quanto meno egli cerca di dimostrarlo, come in questo scambio di battute con Graziella a proposito dell’assenza di Maria: BEnnardu.

GraziElla.

Sa’ ’ncuna cosa? l’addimmannu a tie ca te sacciu ’na giuvinella seria, chi le vo’ a bene a Maria, bene ppe daveru. no ca m’interessa, ma c’è stata sempre lluocu… E a mie, ’nvece, m’interessa e a tie pure, ’un dire ciotìe, zu Bennà. Signu ’na criatura, ma capisciu…

E si spiega la sua trepida partecipazione al dramma della fanciulla, il quale trova il suo scioglimento proprio tra le sue braccia, nelle parole che egli le dice mentre le piega la testa sulla propria spalla, le liscia amorevolmente i capelli, le asciuga le lacrime: Figlia mia, nun c˜hiàngere c˜ c˜ hiù. Figlia, figlia bella! à’ sentutu ’u Saracinu? ’a scala è votata!…

Questa capacità di gentilezza convive con le espressioni di una radicata e sperimentata saggezza, che sono, di volta in volta, la prudenza, la fermezza, la tolleranza e gli consentono di comprendere il salto generazionale nonostante il fastidio evidente dell’intemperanza giovanile («Ebbroca moderna… zicarette… scarpuncini e povarielli nui…»), come si esercitano opportunamente nel difficile rapporto con Mariantonia, in


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quella caricata cortesia («azzetta, azzetta, Marianto’… onùrane!») che fa dire a Saracinu: Grazie’! cumu ’u cummanna a bacchetta!

E’ la calcolata saggezza di chi vuole esorcizzare un’incombente minaccia, l’ombra d’un male antico, come è ben intuito nelle parole di Graziella: Si nne spagna c˜c˜hiu’ d’u bruttabestia, crìju ca si nne spagna puru ’u bruttabestia!

Ma al culmine del dramma, di contro all’incombente frattura del suo mondo di affetti, la sua prudenza rompe gl’indugi e cede a un’adeguata determinazione, che ne eleva la statura e lo fa arbitro temibile della vicenda. una determinazione che si esercita anzitutto nei confronti del frastornato Stefanuzzu: Stefanu’, guarda ca ti chiamu ancora Stefanu’, ’nsinu a mo t’àju pregatu, mo te cummannu, vuogliu sapire tuttu e mo!…

e più incisivamente nei confronti di Mariantonia: E’ truoppu mo. ripigliamu nu viecchiu discursu, Marianto’, ti l’àju ’e dire ’na parola… ma a quattru uocchi. Jati tutti fore: sû cose chi ’un potiti sèntere…

il vecchio saggio usa dapprima le armi del cuore e della ragione: … i figli sû figli; chissu ’un m’è figliu, ma cientumila vote m’è cchiù de figliu.

poi, attraverso un minuzioso revocare dolori antichi, nonostante i quali essa è restata «funtana de tuossicu chi nun sgutte mai», tocca per la prima volta lo sprezzo aperto, troppo a lungo covato: Stefanuzzu è llu mio, è de Maria; ’ntr’a casa mia, ’a mala razza nun cce à de tràsere… Sente, iu triemu quannu ’un me sta buonu, ma ccu ’sse manu (’e vidi ’sse manu mie chi triemanu?) ’a capu a due menzine le spacchèra si se pigliassi a fìgliata…


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E infine, davanti alla fragile resistenza della donna: ah, daveru, e mo me canusci ’e ’n’atra manera… Stefanu’, vieni cca, veniti tutti cca, Mari’, Grazie’.

la successiva scena, a più voci, un vero e proprio confronto dopo gl’interrogatori singoli di Stefanuzzu e di Mariantonia, mentre è distintiva, sia pure in poche battute, del carattere dei singoli personaggi indicati, è documento di un’arte dell’indagare in cui sovviene certamente, oltre l’esperienza psicologica, la consuetudine giuridica dell’autore: BEnnardu.

Senza c˜hiac˜c˜hiere e mottiamenti, guagliu’, dìceme cch’à vistu fare a ’ssa giuvinella. (Sbarra gli occhi, tutta la sua anima è nel viso). STEFanuzzu. Mi cce staju ammazzannu ppe cci ’u fare dire. Maria. Citu tu: mo signu ’ntervenutu io. Su, mòvete! BEnnardu. Sì, mòvete, Stefanu’, ca si no signu iu chi cacciu calunnie. MarianTonia. (Disperatissimo). lassàtime jire, me vuliti ammazzare. STEFanuzzu. Ma tu scuri ’na figlia ’e mamma; ’a razza nostra nun l’à fattu BEnnardu. mai. Ma pecchì me ’ncatturati? Mari’, nun te vrigogni? STEFanuzzu. Ma si io vuogliu che tu gridassi! Maria. nente àju fattu ppe me vrigognare. ’a sientu e ancora sta’ citu? BEnnardu. dìcia, o m’ammazzu. Maria. Stefanu’, ma sî propriu ’nu capune. GraziElla. parra ca si no s’a piglianu ccu mie. MarianTonia (Ancora a Maria). nu llu sai! Ccu quale curaggiu sta’ faciennu STEFanuzzu. ’ssa parte? Chine t’à ammarratu? io jiesciu pazza. Maria. MarianTonia. parra, Stefanu’: chissu è llu mumientu buonu. (A Mariantonia). E tu ’u sai, no? S’è cunfessatu ccu tie! BEnnardu poca jiesci ’e lluocu: va’ allu palazzu, ca llà t’aspettanu. STEFanuzzu. MarianTonia. duve? là c’è don Carrucciu, llà sî juta a bussare propriu ieri sira. (Urlando, impazzita, e strappandosi i capelli). Sciollu, m’à’ vistu Maria. bussare allu palazzu. E nun m’à’ ammazzata! ’vanti ’ssa mia ’nfamia tu ti nne sî jutu? ieri sira. propriu ieri sira. Ma tuttu ieri sira è stata sempre GraziElla. ccu mie. ih, ruffiana, si l’àju vista? STEFanuzzu.


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Maria. MarianTonia.

Mo ’è’ venire ccu mie. petru nega, avissi vistu ’a gallina mia. Mo se fa puru ’i testimoni. Citu tutti (afferra il nipote per il braccio). Cc’à’ vistu, tu propriu? BEnnardu. STEFanuzzu. Ccu ss’uocchi, chi fuossi ’ncecatu! nne sì sicuru? BEnnardu. STEFanuzzu. Certissimu. allu scuru? BEnnardu. C’era la luna e pue, sacciu cumu camina, sacciu cumu veste… STEFanuzzu. Tu m’à’ vistu… tu m’à’ vistu… tu m’à’ (non conclude la frase, Maria. le s’imbiancano gli occhi e cade sulla sedia; Graziella la sostiene). l’aviti ammazzata… Cce siti riesciuti. GraziElla. E, a chiusura, ’nu svenimentiellu. MaranTonia. (dando non troppo peso allo svenimento di Maria, incalza con il BEnnardu. nipote). E chine c’era ccu tie? E tu cchi nne sapìa? ’u bruttabestia ti cci à portatu (scuote violentemente il nipote). (che tuttavia guarda Maria distesa sulla sedia con uno sguardo STEFanuzzu. commiserevole). Me’… illa (ed indica Mariantonia). (feroce). ah!… BEnnardu. Malanova sua… GraziElla. (resta sconcertata, non sa che dire. Ma entra Pirulinu)… MarianTonia.

riportata la vicenda alla verità e le persone al loro giusto valore, la parola non ha più ritegno e scende alla pari del grado della donna: Marianto’, è llu cuolmu, à’ perdutu ogni vrigogna, cippu ’e galera! pirulinu, ’nu disgraziatu, ccu llu core ’ncallatu, nun à resistutu. Tu, tu sempre ’e ’na manera…Fore, fore, disgraziata, maleritta zocculune!

orbene questo personaggio, che veglia sulle vicende del dramma come un albero grande e le unifica e le ricompone, non riesce a sottrarsi, nel suo complesso, ad un’impressione di staticità e di artifiziosità, quasi tagliato non su una misura autonoma, ma su un ideale confronto con un personaggio di teatro, come quel Giovanni Grasso che dominava, portandole per tutt’italia, le scene del teatro siciliano; e la sua umanità, pur accortamente costruita, scade alla fine in una dimensione di letterarietà, riecheggiando, tra l’altro, modi e forme della Filumena Marturano di Eduardo de Filippo, alla bocca della quale Ciardullo sottrae alla lettera una fondamentale argomentazione di Bennardu: «i figli sû figli».


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Maria è un termine di compiacimento non solo di Bennardu, ma dello stesso autore, che in essa ha tradotto uno dei suoi paradigmi morali. dolce e forte a un tempo, fedele e appassionata, determinata fino allo spasimo nella difesa della sua dignità, costituisce il filo logico e unitario dell’azione. Fiera della sua povertà, proclama che farebbe la serva, «metterebbe la capu supra ’nu cippu» pur di liberarsi del debito contratto dalla sua famiglia, in occasione di una disavventura del fratello, con Mariantonia, che ora le «sta sucannu l’anima ccu llu ’nteresse»; e a Filumenella, la «signora muscia», che glielo rinfaccia, risponde con sdegno sprezzante che può ben vomitare veleno, tanto non la tocca. dalle insidie di Mariantonia si difende con armi uguali, quando, rintuzzando, aggredisce: Marianto’, guardame ’nfacce, guardame buonu. Signu quatrarella sì, de anni, ma ’i sventurati cumu e mie, quatrarielli ’un cce sû mai… ’u sacciu ’u jocariellu tue e guardame ’ntr’a facce e sacciu puru cchi vo’ fare… ’u sacciu quantu ’nfamia tieni ammuzzellata ’ntra ’u core… già core tu… tu core… tu va’ trove cchi tizzune ’e ’nfiernu cce tieni ’ntra lu piettu. Fa’ chillu chi vue, ma lassame jire. Tu sî stata sempre ’nu serpente ppe la casa mia. à’ ruvinatu a tutti e mo tu vue… o vorra ruvinare a mie. Fallu si pue, ma nun t’abbicinare… io, quatrarella, signu c˜ c˜ hiù vecchia de tie.

E più oltre rompe ogni argine e la dipinge e la definisce, marchiandola insieme come femmina e come persona sociale: ’u sacciu, ma chillu chi te vorra accattare ccu lli sordi, nun ti l’accatti. à’ potutu spogliare casicelle, à’ potutu levare ric˜ c˜ hinelli alle ric˜ c˜ hie d’a povera gente. T’à’ accattatu stigli, t’à’ fattu ’u palazzu, sucannu ’u sangu alli disgraziati, ma io, quatrarella, cumu tu me chiami, sente cchi te dicu. pensacce… pensacce. ’ntra cca c’è ’na cosa chi nun s’accatta ccu lli sordi. ’na cosa chi ’e fimmine cume e tie ’un la puotû capire, ma chi io, quatrariella, ’a sacciu. Mo fa’ chillu chi vue ed è finita.

la dedizione totale a Stefanuzzu risalta da queste profferte che, per il fedele modo del dettato inferiore, instaurano una sorta di stilnovismo rusticano:


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Tu me sai, no? ’u sule, ’u cielu, ’u jatu, ’a vita mia, sî tu. Certe vote chiuru l’uocchi e piensu si tu me manchèra, ma nun puozzu resistere a ’ssu pensieru, sbalancu subitu l’uocchi e jatu forte forte. Me pare de murire. Si avissi de pàtere tutt’e pene d’u ’nfiernu, s’avissi de caminare supra ’u fuocu, ppe t’evitare ’nu dispiacire, fuossi la gioia d’a vita mia. Crìju ca tu sî lu stesso. però ’na sula cosa nun cumpuortu: ’a mancanza ’e fiduzia. Gesù, me sientu morire a cce pensare sulamente.

Ed è sì totale la forza di quest’amore da includere, per salvarlo, una capacità omicida: io, quannu ssi jurni passati, ura ppe ura, minutu ppe minutu, senza me potire movere, senza potire fare nente, disgraziata e sula sapìa ca tu chiangìa e te torcinïava, io si sapìa chin’era chilla c’avia minatu ’u corpu mortale, io l’avera sˇcannata, dopu chi l’avissi scippatu ’a maschera de vipera velenusa e… forse te sarvava, puru si io me perdìa.

perciò quella sua disperata preghiera di parlare, quel suo scongiurarlo «ccu ’na pietra allu piettu», per l’anima della madre «ch’era ’na santa», di rivelarle il motivo del segreto tormento; e la sua disperata protesta d’innocenza, la cui sincerità muove l’intervento di Bennardu, decisivo per la svolta della vicenda. un personaggio, dunque, fedele a se stesso, e al quale tuttavia l’autore non riesce a risparmiare momenti retorici e melodrammatici. Tali suonano certe enfatiche effusioni del sentimento amoroso, come questa specie di congedo: E tu, Stefanu’, nun te crìdere nente. Sulu ppe mie è finita. Ma ppe lla pace tua, chi a mia ’nteressa c˜ c˜ hiù d’a vita, io vuogliu chi te ne ricordassi ’e Maria cumu se ricordanu ’e belle jurnate ’e primavera, tutte luce e senza neglie, senza ’na picca de vientu, vierdi, adduruse…

Suonano parimenti letteratura espressioni come: «forza, core mio, ’un tremare!, ’u ’ncantu è ruttu, ’u suonnu è sfumatu» e lo stesso strambotto col quale Maria «dolcissima tra i singhiozzi», spiega a Graziella la sua pena e che comincia: «’Ssu core l’à pigliatu l’acquatina». Esso, peraltro, conferma la stretta dipendenza del personaggio dalla Maria di ’U suonnu


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de chist’uocchi, ove il canto s’inserisce naturalmente nell’atmosfera sospesa e par tutt’uno con essa, mentre qui suona estraneo ed avventizio e quasi arietta liberatrice. a petto di Maria, la figura di Stefanuzzu è dimessa, secondo il modello scialbo degl’innamorati ciardulliani (Filippo non fa testo) rispetto alla forza dei personaggi femminili. dubbioso e impressionabile e perciò fragile preda di raggiri e inganni, in lui Ciardullo ha voluto rappresentare i vari moti della gelosia, ma è la gelosia di un debole in continua lotta con la forza del suo amore e perciò continuamente in bilico tra il sospetto e il rimorso, con molte reazioni impulsive e qualche gesto eclatante, come lo sputo in faccia a Mariantonia, ma senza alcun momento di determinazione, e perciò in una predominante condizione di macerazione e di lacrimosità. Tale egli appare già nel colloquio con Maria immediatamente successivo alle insinuazioni di Mariantonia. Comincia con una sentenza ad effetto, troppo solenne per la sua elementare filosofia: Certe vote ’u nemicu te sarva e l’amicu te sutterra.

prorompe all’improvviso nella confessione del tormento interiore: Si tu sapissi cchi fuocu lavuratu de pice viva tiegnu cca a ’ssu mumentu, e cumu lavura, lavura, lavura!

Ma lancia il dardo e non spiega: è niente; del resto non ha pure lei di questi momenti? «nun te sienti morire?» E neppure la lunga appassionata profferta di Maria, che abbiamo sopra riportata, esce dal groviglio di sentimenti: ’un po’ d’esere… Ma allura ’u munnu è piersu, ’u munnu è frunutu…

ancora la resipiscenza, una condizione di smarrimento tra lo sgomento e l’incredulità, quando Maria accusa la ferita e avverte la fine del sogno: Cumu mi nne manni, me cacci… vo’ restare sula!… Cumu, allura tu ti cce sî conzata; allura tu jìa truvannu ’a sˇcarda; allu-


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ra ànu ragiune…

all’ironica accorata conferma di lei ritorna lo slancio: Mari’…Mari’… io me sientu morire, noni ca nun criju a nente, nun sacciu nente, nun me puozzu alluntanare: l’anima mia tutta è cca, ccu tie, ccu tie.

nella quale profferta, che si conclude in un nodo di pianto e in una fuga disperata, l’autore concede anche a Stefanuzzu un pizzico di retorica. Siffatta altalena di sentimenti tormentosi fa dire a Graziella che qualcuno li sta giocando «cumu pupazzielli». allora egli sembra avere un interiore moto di resipiscenza, ma la semplicità del personaggio cede del tutto di fronte alla diabolica messa in scena del tradimento e, lontana dal sospetto di un magistrale inganno, si ritrae in una disperata condizione di smarrimento e di solitudine: Tu cca? Tu ancora me vieni davanti… Tu me vo’ mannare ’ngalera. E ’un è miegliu morire? E staju moriennu alla casa mia: làsseme finire ’mpace. piglie ’a via tua. ’a notizia te vene priestu.

ora gli fioriscono in bocca l’ironia amara, le minacce ingiuriose: Te pisava de mie, te spagnava ca morìa, ca perdìa ’ssu bellu cuvierc˜ hiu, ’ssu cumbeglia vrigogne? Te sî voluta accertare ca m’à’ riduttu cumu ’nu disgraziatu, mo l’à’ vistu e sî cuntenta… vavatinne ca t’ammazzu e vaju ’ngalera… Ca ’na fìmmina potìa arrivare a chissu statu, mai potìa crìdere; ca ’na criatura tenissi ’nc˜ hiusu ’ntra l’anima sua malaritta tanta malignità.

Ma nonostante il fuoco delle parole, la condizione è quella di una disperata rinunzia, al fondo della quale c’è un’inespressa ansia di aspettazione, che esplode nella soluzione della vicenda davanti alla confessione di pirulino. Ma allura, Santu Gesucristu! allura?

E gli fa compiere l’unico vero atto di decisione, il tentativo, frenato


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da Bennardu, di aggredire Mariantonia: Bagascia! t’affucu!…

il mondo della simpatia dell’autore si connota anche del contributo di personaggi secondari. Graziella, Saracinu, Tumasi, mentre scandiscono la vicenda del lavoro, partecipano variamente, e talora con vivace passione, al dramma di Maria e, se difettano, come si è premesso, di originalità, valgono a comporre l’immagine di una piccola comunità chiusa a riccio, nonostante le interne contraddizioni, contro il pericolo comune; anzi Graziella, nella quale l’autore celebra il modello ideale dell’amicizia, è una delle chiavi per la soluzione del dramma. l’altro mondo, se pur non avesse gli altri riferimenti che ha, sarebbe sufficientemente risolto dalla figura di Mariantonia, a delineare la quale, indipendentemente da certe incoerenze strutturali, su cui mi soffermerò più in là, Ciardullo ha chiamato a raccolta, come già per Filippo, il disprezzo dell’uomo, il giudizio sociale, il sostegno della legge. Quel disprezzo si traduce nei gesti e negli atteggiamenti dei personaggi già tratteggiati e percorre, tra lettera e metafora, tutti i momenti della sua presenza nel dramma, ma si assomma in due espressioni definitorie, l’una di Saracinu, al primo apparire della donna: E me’, bonichissia, chine azzappa!,

l’altra di Graziella: Si nun se sterra chilla mala razza, bene, a ’ssu paise, ’un ni nne virimu c˜c˜hiù.

la componente essenziale della sua figura esteriore è la spocchia, nella quale confluiscono l’insensibilità morale, la certezza del potere economico, la spietatezza del servirsene e che, percepibile nella vistosità grossolana e sfidante dell’ornato, si confessa senza infingimenti in un dialogo con Maria, uno squarcio di grande drammaticità: M’à’ capitu. ricòrdate ca ’nfine a mo chillu c’àju voluto, l’àju avutu cullu buonu o cullu tristu sempre! Tu sî ’na pampuglia, io signu ’nu cippu de cerza. Simu ’a scala d’u munnu, tu sî lu scalune ’e sutta, zampatu, distruttu, io signu chillu ’e


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supra, grisu, sanu, potente.

Siffatto carattere fondamentale si paluda all’occorrenza di una studiata cortesia ed amabilità, come di una calcolata generosità a buon mercato, come nel saluto iniziale alla piccola squadra di Bennardu: Bongiornu a ’ssa bella cunversazione!

o nel commento all’omaggio dell’uva da parte di Bennardu: l’àju dittu! zùccaru!…

o nello stesso malizioso accenno a Maria: Si permitti, nne vuogliu dare io ’nu ricioppiellu, me’! a chilla pullulilla là. io cci àju ’nu sbiersu ppe ’ssa giuvinella, l’àju vista crìscere. Te’, Marì…,

o nella più maliziosa replica al rifiuto: àju capitu e à’ ragiune. Mo te fazzu vìdere si l’azzietti… me’, ’a spartu: ’na menza a tie e ’na menza a chillu fringillune ’e llà chi stamatina tena ’na faccia chi para a chilla ’e sutta San Michele…

o nel richiamo alla sfacciata volgarità della figlia: Citu, scustumatella. Chissa è ’na faluòtica: nun à pigliatu ’e nente ’e mie…

o nelle smancerie della carità al cieco, nelle quali è sottinteso il riso amaro dell’autore su certe apparenze umane: Stàtive citu, ca ’a limosina, azziettu sia, è lu viaticu d’u paravisu.

la freddezza del calcolo, che le fornisce di volta in volta le armi della persuasione, dell’insinuazione, della fermezza, della minaccia, la rende tetragona alle sprezzanti allusioni come agl’insulti aperti, perfino allo sputo in faccia da parte di Stefanuzzu. Spietata senza veli con Maria


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povera e indifesa, zuccherosa e accorta con Bennardu, gioca a suo piacimento col debole cuore di Stefanuzzu, insinuandovi, in un serrato dialogo, il sospetto, con un crescendo sapientemente orchestrato. prima un quasi sbiadito accenno: E chine te tocca? io, no certu. Statti attientu nun ti toccassi ’ncun’àutru e… e a punti delicati.

poi un colpo ancora indiretto, ma vibrato a sangue: no, io nun te vuogliu ruvinare… già illu pue è cumu se pensa … cumu ’a pigli… certe vote sû grannizzerie…

infine l’accusa aperta: io? Sula? Cchi sarû tutti eccettu tu sulu…

Ma ecco come, di fronte al furore del ragazzo, volge l’insidia a comprensione e affetto: Bravu a Stefanuzzu, sfògate ccu mie, nn’à ragiune. Chillu ch’avèra ’e fare ccu ll’autri, fallu a mie, ca te truovi. io nun mi nne ’ncàrricu, c’àju ’nu sbiersu ccu tie;

e come, appena sente di tenerlo in pugno, va diretta al fine e gli segna il passo: io te vuogliu sarvare. Sente: picca parole. Tu vu’ fare cumu San Tumasi: be! ti cci lle fazzu pigliare io… però nun fare ’u cantature, ’è’ fare l’omu. Tu sî alla prima carizzella.

Chi manovra così implacabilmente il cuore umano non misura il costo dell’operazione pur di raggiungere il fine e su tale certezza pirulinu gioca ad alzare sempre più, con pari «pellizzuneria» e con pieno successo, il costo del delitto: pirulino. MarianTonia. pirulinu.

Marianto’… purmisa forte, pic˜c˜hiu sostanziusu, e pipiarnu e passìu , fattu cunc˜hiusu. Spèghete chiaru: prima ’e tuttu ’a giuvinella… pue ’u guardianu d’u palazzu. ’Mprimis… ppe la giuvinella; cc’è volutu propriu pirulinu.


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MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu. MarianTonia. pirulinu.

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’a mamma se pulicîava e n’avia ragiune; ’a figlia strepitava e n’avìa ragiune. E allura pipiarnu e passìu: cientu nibbis… allura duicientu nibbis poca tricientu nibbis. piruli’, tu me fa’ vìnnere ’a casa. parra ’na vota, quantu? ’na manu. Cinquecientu? ’un cce simu: sette ccu llu jibissinu. piruli’, sî ’nu sbrigognatu! Simu onesti tutti due. anzi, me curreggiu, sette e menza. Ma pue è illa ’mpersuna ppe tagliu, ppe figura, ppe caminata. E vari? S’intenne. Sula? Sula. ’E notte? Quannu vue. E nun se ’mbroglia? ’u picchiu fa venire ’a spertìa. E llu guardianu? predispostu! m’è custatu fatiga, ma cce signu riusciutu. parra chiaru: quantu illu? ’na carta. Cientu lire? no: mille, ciota. Mi cce minnìcu: ma pue… Tuttu fattu: rape lu purtune, illa trase, cce sta quantu volimu; puru ’a matina si nne pò jèscere.

la conclusione del furfantesco testa a testa è la «feroce compiacenza» della donna, che qui ritorna come Leitmotiv della sua conformazione caratteriale: ’a scala! Signu o no ’u scalune supranu?

della sua proterva freddezza in situazioni difficili, della quale si è avuta sufficiente prova attraverso la lettura delle scene su riportate, si veda l’espressione suprema nella scena risolutiva, a petto della confessione di pirulino, alla quale essa cerca di sottrarre credito puntando variamente sulla nota gagliofferia del personaggio: Cacciàtilu fore… è ’mbriacu … ... piruli’, chine t’à pagatu ppe fare ’ssa parte?


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... pellizzunu, cridìtilu, ’mbuccativillu…

una resistenza che, nella sua disperazione, non vacilla e si sfalda solo di fronte alla determinazione violenta, da noi già registrata, di Stefanuzzu e Bennardu. Filumenella vive, come personaggio, all’ombra della madre, ne rispecchia i caratteri deteriori, ma senza l’ausilio della maschera simulatrice e viceversa con l’aggravante della scioccaggine e dell’improntitudine, note che lo scrittore si compiace di accordare con la persona « striminzituccia», che le ha meritato il soprannome di «muscia», ma pretenziosamente vestita e ornata. pur essendo la causa finale della contesa, questa figura si affaccia di rado e pare di contorno, ma muove ingranaggi, ad ogni apparire, nella macchina della vicenda. vedasi come la sua prima apparizione la riveli intera e valga ad insinuare, in un baleno, colpo su colpo, lanciati alla sventata, ma in profondo, in quel piccolo mondo sereno il dubbio e l’inquietudine: GraziElla. FiluMEnElla. GraziElla. FiluMEnElla. GraziElla. FiluMEnElla. Maria. FiluMEnElla. Maria.

FiluMEnElla. Maria. FiluMEnElla.

Cchi, Filumene’, sî venuta a provare ’na picca d’uva? io ’un n’àju bisuognu, ca ne tiegnu quantu ne vuogliu; l’à de provare chine va a jurnata ppe s’abbuscare tri lire. Ccu salute: tu l’ài e tenatilla: nue nn’a jamu procuramu ’e ’sse vigne vigne. nun è veru, Saraci’? e cumu sari! a mie m’a portanu alla casa panara panara. E nun te ’mpinge mai? E sempre parre illa ! pecchì m’à de ’mpingere? neca parru ppe tie. E ppe chine parri, signura muscia? io muscia? Musce sû chille chi se ’mpriestû li sordi e nun lle rènnanu. Senti, tu a mie tu nun m’appanni ccu ’sse parole de vipera. po’ vuommicare velenu ’nfin’a cchi vue; tu ’u sai ca a mie ’un mi nne ’mporta. E già, ma pàtretta i sordi a mamma nun ci le renne, àrû ser vutu ppe la galera ’e fràtetta, ppe ll’avucatu. E vò stare buonu ’u patreternu. Sente, io ppe ti lle sbattere ’ntra la facce, mintèra lu capu supra ’nu cippu, fàcèra la serva. (secca). ’a fai…

un’irresponsabilità proterva, che non cede neppure all’autorità di


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Bennardu quand’egli le chiede di Stefanuzzu, che non vede da giorni, e sbandiera la ricchezza come parametro dei valori sociali: FiluMEnElla.

BEnnardu. FiluMEnElla. BEnnardu. FiluMEnElla.

E via, zu Benna’. Si ’u vue trovare, ’u sai ccu chine s’a fa. l’à pigliata ’a via! dìcica ’un lu sa ’nciarmuliare, o tena scrupoli!… (stizzito). Fatte l’affari tue, ca me saglie lu sangu allu cerviel lu. à’ ragiune… Ma piglie onure e piglie ricchizza. Filumene’, tu sì ’na criatura e te puzza la vucca de latti, ma te puozzu pure… me’ nun m’a fare dire ’a parola giusta. E cchi àju dittu? Chiss’è ’nu tuortu, su Bennà. Mi nne vaju. Me sû venute cientu canne de tila tessute apposta ppe mie.

in quest’azione inconsultamente e volgarmente provocatoria e demolitrice si esaurisce il suo ruolo, non essendoci nelle sue parole e nei suoi atteggiamenti nessun cenno di sentimento che riguardi il conteso Stefanuzzu, sicché essa appare non più che un termine di un orgoglioso e puntiglioso commercio. in tali limiti il personaggio è uno dei meglio delineati, e quello che può sembrare, per la scarsità delle presenze, un abbozzo, è un distinto e compiuto carattere. pirulino ripete Squaquicchiu, ed uno Squaquicchiu più che dimidiato. può essere già significativo che l’autore non fornisca di Squaquicchiu una descrizione esteriore, lasciando al lettore la possibilità di costruirselo secondo i suggerimenti della complessa ricchezza della parte; di pirulinu fornisce, invece, una descrizione molto precisa: «magro, calzoni stretti, giacca striminzita, cappello a larghe tese, tic alla mano, intercalare senza significato», che delimita il personaggio entro linee di un caricato farsesco, accomunandolo ai gaglioffi, peraltro moralmente meno dimessi, di Fratellanza nofriana, ai quali è vicino anche nel gergo. la genialità ricca e dominante di Squaquicchiu, che regge per tutta la vicenda uomini ed eventi e desta nei semplici paesani un misto confuso di ripulsa e di rispetto, cede il posto ad una furfanteria miserabile («’a pellizzuneria»), temuta ma spregevole, di un disprezzo di cui egli è prima di ogni altro consapevole. la complessità psicologica di quello cede ad un’esile trama, tessuta su pochi espedienti e su un numero ristrettissimo di intercalari e di parole sacrali, insensate deformazioni lessicali, anche del latino; l’allusivo degrada dalla grandiosità maligna della favola di


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Squaquicchiu al modesto adagio sottratto allo strambotto popolare. la sua statura trova modo di elevarsi solo a petto di Mariantonia, di corrispondente «pellizzuneria», con la quale istituisce quel serrato corpo a corpo che abbiamo sopra riportato. di fronte ad essa anche il linguaggio di pirulino si anima di calore, dando luogo ad alcuni esempi del migliore descrittivismo ciardulliano. Ecco, ad esempio, con quale incisività lessicale e freschezza narrativa di ipotiposi egli descrive a Mariantonia il furto della veste: àju rinnuniatu ppe ’n’ura e menza e la mamma ’un vulia saglire! Finalmente ’nu pieditruòzzulu ppe la scala e allura… zum … signu ’nzaccatu. ’na frugata alla cascia, ’na sbolicata ed èccume cca ccu llu fagottiellu.

Ecco un piccolo saggio d’impegno stilistico, che torna a caratterizzare il racconto dell’opera di convincimento esercitata sulle due complici: ’a mamma se puliciava e nn’avia ragiune; ’a figlia strepitava e nn’avia ragiune… E allura, pipiannu e passiu: cientu nibis… allura duicientu nibis, poca tricientu nibis.

Ma se si eccettuano questi momenti, la figura è scialba e certamente molto al di sotto del suo ruolo nel dramma. la stessa conversione, che pur attinge al grande modello manzoniano, interviene come un fatto scialbo e posticcio e non ha alcuna interiore drammaticità, affidata com’è ad un racconto lungo e dolciastro, che blocca gli altri personaggi sulla scena e toglie forza alla rappresentazione: […] Signu ’nu pellizzune chi cumu ’e mie ’un cci nne puotû esere allu munnu. Ma cussì pellizzune, tutt’a ’na vota, me signu trovatu cca dintra ’na cosa chi nun cci ’a sapìa e ch’era chiusa ’ntra ’na corazza ’e fierru. io pirulinu chi àju vistu ririennu torciniare ’a gente e cce dormìa supra, io sû tri notte chi nun pigliu n’ura ’e riciettu. nn’àju fattu ’ncuna! nn’àju ruvinatu figli ’e mamma senza mòvere cigli, senza rimorsi. Ma mo… l’uocchi ’e ’ssa giuvinella chiari, ’nnozienti, m’ànu fattu ’na pena, ’nu pisu… Mi le vidìa sempre davanti, matina e sira e paria chi me supplicavanu, tutti c˜hine ’e lacrime. ’u core m’è ’nzignatu a tremare, nun putìa stare fermu, e cientu spine me pungìanu a tutti i pizzi. M’appisulava e vidìa chille pupille chi io facìa chiangere; sc-


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cantava e mi le trovava ancora davanti spalancate, mo cumu si ’nvocasseru aiutu, mo sˇcantatizzate. Cussì l’avie viste ’ssi jurni passati quannu lle girava ’ntuornu ’ssa casa duve chilla là (indica Mariantonia) mi cci avìa c˜ hiantatu ’e sentinella. Cussì puru io àju canusciutu cchi vò dire ’u dulure. ’nu ’nfiernu me stringìa lu core cume ’ntra ’na morsa; vulìa cumpurtare, vulìa resistere, ma stringìa più forte; vulìa ridere, ma ’u jatu me strozzava la gola e m’affucava. Chill’uocchi, mamma mia, chill’uocchi me facìano quasi spagnare… E pirulino ’u disgraziatu, ’u ’nfame, ’a carogna fetusa nun à potutu resistere c˜ c˜ hiù; ed è cca […] ’na sula cosa ancora nun sacciu: s’è c˜c˜ hiù granne ’a pellizzuneria mia, o ’a ’nfamità ’e chilla là o ’u martiriu ’e ’ssa giuvinella, ’e ’ss’aggelluzzu d’u cielu chi me vulìano ruvinare…

Con la quale ultima espressione si entra nel melodrammatico e nel retorico, come vi entrano la sdegnata restituzione dei «sordi maleritti», che me «vrùscianu l’anima, sû petre ’nfernali», l’invito a sputare in faccia «’ssu pellizzune» per farlo «sèntere cuntientu», infine il pianto liberatore: c˜ hiangiu, c˜ hiangiu… miraculu! è la prima vota chi c˜ hiangiu! Cumu è duce c˜ hiangere! Benedittu ‘ssu c˜ hiantu: me libera, me sarve.

ancora una volta siamo in letteratura: questo pianto è sottratto agli occhi e alle parole di Filumena Marturano nell’omonima commedia di Eduardo de Filippo, di ben altra sostanza drammatica. in definitiva questo personaggio, che nell’intenzione dell’autore voleva essere esemplarmente grandioso, non riesce a muovere più che la commiserazione del lettore o spettatore, che gli preferisce, pur nella condanna morale, la coerenza statuaria di Squaquicchiu. la memoria letteraria, che nei luoghi citati denunzia l’orecchio dell’autore alla commedia napoletana, è altrove automemoria: ritornano il cieco e pipitella, peraltro in funzione scopertamente riempitiva e posticcia; Graziella, l’amica fedele di Maria, non è estranea a sentimenti e atteggiamenti di rosa o di assuntina di Vie de ’nfiernu o dell’omonimo personaggio di Vampate, dal quale dramma riemerge anche Tumasi. il melodrammatico tocca variamente l’azione anche oltre i momenti


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riportati; l’impressione insistente di staticità si riceve dall’azione e dai caratteri e investe il dialogo, caratterizzato non poco dal compiacimento dello sfogo, della confessione, del narrativo, a mo’ di monologo; la intensa contrazione dello scenario comporta alcune situazioni inverosimili o per lo meno ingenue, come il chiedere di pirulino, che sta tessendo l’insidia, proprio nel palmento, cioè in casa della parte avversa, nello stesso luogo il dialogo tra Mariantonia e Maria, sia pure a bassa voce, e il perfido patteggiamento tra Mariantonia e pirulino, infine la presenza di Mariantonia in casa di Bennardu a sincerarsi della vittoria e a goderne i frutti: tanto da non sfuggire all’impressione dell’artato e dello scarsamente verosimile. Tra gli aspetti di maggior validità va considerata, a mio avviso, anche in questo dramma, la rappresentazione del quotidiano contadino, che della vicenda è supporto e contorno, in una sorta di trittico portante: la vendemmia, la «liequia», il pero, col correlativo corredo di azioni, consuetudini, strumenti, lessico, e nel quale anche la presenza dei personaggi secondari, quali i braccianti Saracinu e Tumasi, che ad una superficiale considerazione potrebbe apparire marginale e posticcia, acquista rilievo e si rivela opportuna ed essenziale. Tale aspetto riporta ad un topos ciardulliano, indicativo di quella disposizione al mimo che già in altri drammi abbiamo rilevato e della quale si può cogliere un esempio nel dialogo ad inizio del secondo atto, tra Bennardu, Saracinu e Tumasi: TuMaSi. SaraCinu. BEnnardu. TuMaSi. SaraCinu. BEnnardu. TuMaSi.

BEnnardu.

(Entra insieme a Saracinu con la zappa sulle spalle in abito di lavoro). n’àutra picca stamatina l’avìamu fatta ’a jurnatella! Facìamu propriu ’a morte d’a zòccula (si ferma davanti alla porta del palmento e, alzando la testa, chiama) Benna’, Benna’! (Scende in maniche di camicia). Cch’è successu? aviti lassatu ’e fatigare? Eh… simu nati ’n’atra vota stamatina. ’n’àutra picca l’avìamu pigliatu ’u piripirillu! Eramu ’ncappati cumu ’u sùrice alla tagliola. E cunta, cunta. l’avìamu fatta propriu bella. ppe pulizzare l’acquaru, amû scavatu ’na picca sutta chillu malerittu terreno chi pare ’na canigliata e tutt’a ’na vota s’è scasata ’a liequia supra ’u tièrmine e me’… ppe miraculu ’e dio ’un n’è caduta ’ncuollu e nne facìa ’na paparotta. ’a liequia, aviti fattu carìre chilla bella liequia! Siti vecchi


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SaraCinu. BEnnardu.

SaraCinu. BEnnardu. TuMaSi. BEnnardu. SaraCinu. BEnnardu. TuMaSi. BEnnardu. TuMaSi. BEnnardu SaraCinu.

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fatigaturi e nun aviti nullu gàlapu. n’à fattu dannu? ca chillu era ’n’àrvulu chi parìa ’nu bastimentu. Me figuru chille alivelle ’e ’ntr’a macchia, cumu sû conzate. Benna’, n’autru poca c’eramu muorti e tu c˜hiangi ’a liequia e l’alivelle. Ma mo ca chissu ’un è successu, nun resta ’u dannaggiu? l’alive spallate, ’u tiermine franatu…’un te po’ fidare, ’un te po’ alluntanare ’nu mumentu; quantu picca t’alluntani, fatigaturi viecchi, gramali granni e gruossi, te farû cose, ma cose… Già mi cc’è data ’ssu mise… ’na jettatura… (mormorando) E’ chilla là ’a jettatura…’a serpa cervina d’a casa mia… ah, patreternu!… Benna’, l’alive ’u ll’à toccate ’e nente; sî statu fortunatu ch’è sbersata ’e l’àutra parte. E mo te inc˜hi ’u vasciu ’e ligna. E già: supra i cuosti ’e l’autri currìa larga. E mo pecchì vi nne siti venuti? pecchì aviti lassatu? E cchi facìamu c˜ c˜ hiù? l’acquaru è pulizzatu e la liequia vò gaccïata. E pigliative ’e gacce e pizziàtila, ’ngraràtila: oje stessu s’à de gaccïare, si no quannu ’a zappamu ’ssa macchia? Benna’, avissi dittu ’na menza parola d’u periculu c’àmu passatu. n’àutra picca nne vidìa tirate ’e capilli!… Cch’àju ’e c˜ hiàngere? ’un lu viju ca nun v’è successu nente e quasi quasi v’u meritàvati. Tante grazie. ’un perdimu c˜ c˜ hiù tiempu: jate ccu ’sse gacce. Sû ’ntra ’ssu parmientu. Jamu, ca si no nne mine. ’ngraràtila bella bella: frasˇche ppe frasˇche, rami ppe rami, cipparielli ppe cipparielli, ca iu truovu fimmine e viegnu. (quasi infastidito). Tu chi sî venutu ’e mètere, refrìsˇchite a ssu mànganu. Si murìamo nue, era morta ’na piecura a Barracca…

il dialogo, ricco, nella sua brevità, di indicazioni culturali e di risvolti psicologici, è suggellato, come è facile notare, da due immagini forti, nella prima delle quali la fantasia gioca con la realtà, componendo una densa prova della capacità espressiva del dialetto, mentre l’altra chiama all’aperto dal fondo dell’anima del popolo la dolente coscienza della sua nullità e delle sue istanze sociali. Ma qui il ricorrente ricordo del marchese di Crotone, assunto come antonomasia del privilegio e degli abissi sociali, si spoglia della veste sorridentemente rassegnata che rivela nella lirica Natale e si fa dolente protesta.


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un gradevole momento di realismo psicologico è configurato dalla seconda scena del secondo atto, in cui Bennardo sorprende parpagnu a rubare uova nel palmento. il carattere bonario e comprensivo dell’uomo si scontra con la simpatica furfanteria del monello, che tenta la resistenza, ma alle prime difficoltà si sfalda, per cedere il posto alla confessione loquace e disarmante: BEnnardu.

parpaGnu. BEnnardu.

parpaGnu. BEnnardu. parpaGnu. BEnnardu. parpaGnu. BEnnardu.

parpaGnu. BEnnardu. parpaGnu. BEnnardu. parpaGnu.

BEnnardu.

parpaGnu. BEnnardu. parpaGnu. BEnnardu.

…Chine c’è ’ntra ’ssu parmientu? (spia dalla porta e vede Parpagnu). - E tu, mulu facciutu, cchi fai? Cumu ti cce truovi ’ntr’u parmientu? (lo piglia per un braccio e lo trascina fuori). Cussì, mi cc’è arrancatu ’u strùmbulu. ’ u strùmbulu … paru ’nu ventirùpulu! ’un ài cumu te guardare. dice ’a verità: ’un t’è bastatu ’u pirillu, ti l’ài scotulatu tuttu e nun t’è ’mpintu. Mi nne avissi fattu provare armenu unu. io? e chine ’u sa ’ssu pirillu tuo! (intanto tiene una mano nella tasca dei calzoni). Cchi c’è ’ntra ’ssa sacchetta? Famme vìdere. Cchi ce pò èsere: ’u strùmbulu! Famme vìdere, erva ’e doglia. (cerca di divincolarsi, ma Bennardu gli tira la mano per forza e ne esce un uovo). Malanova sua: m’arrupa puru l’ova! l’à ventati ’ntra l’erva d’u parmientu. io te tirèra la capu. apposta sentia carcarïare e pue ’un truvava nente. Ti lu sbattèra ’ntra n’uoc˜ c˜hiu. io ’un l’àju pigliatu duve tie: è lu mie. l’à’ pigliatu allu nidu ’e mammata. ’n’àutra vota, si ti cce piscu, te spaccu ’a merulla. E no, zu Benna’ io t’u portava (e lo dice in modo così comico che Bennardu quasi ride). Chi te viegni ’na pesta: me’, ’un cce venire c˜ c˜hiù. Me’, zu Benna’, te vuogliu dire chilli chi t’arrùpanu. l’àutra vota ’u figliu d’a Cialentana s’à cuotu tutta ’a nucic˜ c˜hia d’a gavittella ’e vasciu. dìcica nu llu sai? Ca tu ’un c’era puru! ’un ve supera nullu ppe pigliare perizie. (Guardando l’uovo.) Cchi bell’uovo! ti nn’a’ sucatu ’ncunu alla faccia mia! ’u figliu d’a Cialentana mi ci à ’mparatu. Ma lassamu stare chissu… (Rabbonito) parpa’, m’a va’ fai ’na ’mbasciatella? duve? alla jumara, suttu ’u mulinu, vicinu alla macchia ’e pistillu. dìcica un cce sai?


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parpaGnu. BEnnardu. parpapGnu.

il teatro

duve c’è lu cerasu ’mbubinu? vi’ cchi precisione! C’è Graziella, va’ le dicia chi lassassi cumu se trova e venissi cca ppe ’na ’mbasciata necessaria. Facce ’na vulata. E tu m’u duni l’uovi? ’un t’arû bastatu chilli chi t’à’ sucatu… Ma t’u dugnu, si vieni priestu. Sè (e via scappando).

nel tessuto antropologico del dramma, denso per numero e qualità di elementi, si rilevano, tra l’altro, due precisi numeri di folclore: il gioco delle «petrille» (atto i, sc. 1) e il cieco suonatore di organetto (atto i, sc. 6), i quali riscattano proprio per tal via la loro reale sostanza di additivo coreografico. il primo tramanda, accanto ad alcune figure del gioco, voci della connessa terminologia: «pinnazzu», «à’ scacatu», «l’àmu pallata», «signu a furcella»; il secondo, mentre riprende un personaggio di Vampate, lo completa con la spalla, accompagnatore nel canto e portatore di bisaccia per la conservazione delle elemosine: un duo itinerante ancor vivo in molte aree della regione nella memoria popolare. la «canzunella divota» cantata dal cieco, mentre è documento letterario sottratto all’oblio, fa fede dell’attenzione dell’autore per le espressioni della pietà popolare. notevole è anche in quest’opera la feracità linguistica. Benché il suo spessore non sia eguale da scena a scena e da personaggio a personaggio, apparendo più continuo e forte nei personaggi più radicati alla terra, come Bennardu, Saracinu, Graziella e affievolendosi, ad esempio, quando il discorso scade di naturalezza e tocca il melodrammatico e il retorico, quanto c’è basta per consegnare anche quest’opera alla storia del dialetto. la terminologia contadina si arricchisce di suggerrimenti connessi al particolare ambientale e stagionale, presentando accanto ai comuni lessemi «zappare», «putare», «sputignare», «zampare», un verbo della pausa e del riposo: «abbentare», che ricorre anche altrove e si richiama a lontane origini letterarie, un «ricioppiellu» chiaramente molto più aggraziato e vezzoso del corrispondente «grappoletto», uno specifico del vinificare: «’a prima ’ntisa», e tre del lavorare: «’mpiesare, ’ngrarare, addobbare». anche qui l’evidenza dell’immagine si affida spesso alla similitudine o del tutto all’antonomasia e questa è suggerita sempre dalla quotidiana esperienza: Stefanuzzu, adagiato senza far niente, è «conzatu cumu San


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Tumasinu»; debole e malato, pare «’nu San Girolimu», si sente «cumu ’nu truonu»; imbronciato, è assomigliato a «’nu jureu»; stordito per il sospetto, a «’nu sberratu»; stizzito, Mariantonia gli trova «’na faccia chi para a chilla ’e sutta San Michele»; la fronte alta di Maria è vista, nell’ironia maligna di Filumenella, «cumu ’a pasta quannu se lèvita». il linguaggio proprio convive naturalmente con un metaforare robusto e ne riceve colore e forza: la febbre di Maria è «’na mutria»; gli operai, invece di lavorare, pensano a «ciaramelliare»; si comincia da piccoli a «muzziculiare»; Stefanuzzu non vuole «lamare ’ntr’u liettu»; Maria, nel linguaggio maligno di Filumenella, lo sa «’nciarmuliare»; Stefanuzzu, pressato da ogni parte a svelare il suo segreto cruccio, si sente «’ncatturare»; i due innamorati, che si tormentano a vicenda sono «citruli simentini»; Maria dà della «capellune» a Filumenella; Stefanuzzu è, nell’affettata tenerezza di Mariantonia, «’nu fringillune», mentre nella sua stizzita severità la figlia imprudente è «’na faluòtica»; Bennardu definisce gli operai malaccorti «gramali granni e grossi», Mariantonia «serpa cervina» e i ragazzi di oggi, con una sprizzante operazione di creatività e di contaminazione linguistica, «’gnàtici, sbètici, capozzuluti». l’immaginifico popolare interviene anche diversamente ad accendere e rilevare sentimenti e azioni: il tormento interiore di Stefanuzzu è «fuocu lavuratu de pice»; a Bennardu, che si sente scoppiare il cervello dalla confusione, «dole la merulla»; grandi e piccoli, tutti eguali, tutti «’e ’na sterrata manera»; lo storto pirulino ha la gamba a «sciabula»; «jocare li jurni» è l’augurio di Bennardu ai ragazzi, che sollecita a prendere il largo, a «rumpere ’a catreja» altrove; Saracinu lamenta che poco è mancato che la «liequia ne facìa ’na paparotta» e che facessero «’a morte d’a zòccula». in altre espressioni le metafore s’inseguono e si sovrappongono in sintesi descrittive e pittoriche: l’uva dolce va bene per Mariantonia perché «cussì s’arricetta ’a vena verminarula»; la sua faccia tosta fa dire a Saracinu: «ccu ’ssa spècura ni cce solamu ’e scarpe». Ecco come la metafora compone due contrari modelli, uno di disprezzo volgare e l’altro di calcolata gentilezza: il primo per Graziella, intervenuta in difesa di Maria, è opera di Filumenella, la quale proprio grazie a questo e ad altri pochi momenti del linguaggio eleva la sua umile statura di personaggio: « ’a ’ngroffa mo ce fa de spallazza»; il secondo vuol indicare la disposizione d’animo di Mariantonia per Stefanuzzu: «avia ’nu sbiersu ppe tie». analogamente l’improperio, sulle labbra di Graziella, assume il duplice aspetto della nudità spietata e dell’eufemismo, l’uno nei confronti di


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Mariantonia: «Chi te vuolû sparare ccu c˜hiumbu minutu sutta ’a catreja!», l’altro nei confronti della figlia: «Chi ve vo’ sèrvere ’u pàracu ccu l’uogliu santu a tia e a màmmata»! di detti e proverbi alcuni spuntano con carattere sorgivo, sì naturalmente spontanea è la loro corrispondenza al momento scenico. Bennardu, ad esempio, commenta amaramente l’indifferenza di Saracinu per la caduta della liequia: «Supra ’i cuosti ’e l’àutri currìa larga»; Graziella, al passare di pirulinu, sentenzia: «Quannu passanu i grui, ’a timpesta s’avvicina»; ed un gioioso adagio, tutto immagini luminose, consola la fatica di Saracinu: «Si ad ottobre nun juocû li pieri, a novembre nun se recrìa la vucca». non mancano neppure in quest’opera momenti di descrittivismo e qualche spunto di compiacimento lirico. Graziella cosi riprende i due innamorati che giocano a tormentarsi: Me pariti certi cinesi c’àju vistu ’na vota alla fera chi se ’nsiccavanu ’nu spingulune ’ntr’e carne, se mintìanu cravuni appicciati supra ’a lingua, se divertìanu a sse lazzeriare suli.

Ed ecco con quale ispirata delicatezza Maria trasferisce nella vicenda dei fiori la sua condizione di donna calunniata: Cce sû certi juri belli, delicati e janchi chi nun te stanchèra ’e le guardare. Ma si li tuocchi, supra chillu jancu si cce fa ’na macchia chi nun si nne va cchiù.

notevoli esiti, dunque, accanto a notevoli limiti: la grinta di Ciardullo alternata a sensibili momenti di inadeguatezza e di disagio. la facilitas scribendi, apertamente confessata nel manoscritto, vi gioca la sua non piccola parte; la memoria letteraria è più scoperta e nuda, ma pare soprattutto emergere dal contesto una sorta di esaurimento del mondo dello scrittore, fermo, come storia e come metafora, all’orto concluso del paese e già risolto nelle sue immagini esemplari attraverso le opere precedenti e perciò, drammaticamente, non oltremodo ferace.


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CapiTolo vi

l’ErEdiTà di Ciardullo nEl TEaTro

Emerge dall'analisi delle opere di de Marco la fisionomia di un teatro suo e originale, nonostante l’eco ricorrente di modelli e di scuole, frutto di cultura e insieme di temperamentale disposizione comica, specchio della sua capacità poetica e insieme della sua dolente e sofferente umanità; un teatro antieroico, dal quale sono escluse le grandi vicende, mentre anche il gesto disperato è ridotto nelle dimensioni della vita comune, nella quale l’eroismo si consuma nei drammi ordinari e quotidiani; un palcoscenico dei piccoli e degli umili, estrema interpretazione dell’idea romantica del vero, colto nella vastità della vita del popolo, quello che ha cominciato ad essere protagonista di opere letterarie con renzo e lucia. perciò il teatro di de Marco è il teatro del popolo calabrese e, se non crea il teatro dialettale, lo definisce, sottraendolo al rituale, all’occasionale, all’aleatorio, gli assicura dignità di genere, allineandolo con tutti gli onori a quello in lingua. la ripresa del teatro dialettale calabrese, iniziata dopo il Cinquanta, è troppo legata alla crescita febbrile, alle esplosioni, alle soste, alle contraddizioni, alle posizioni ideali, ai fermenti politici della regione per consentire un’analisi lucida ed esauriente. E questo non soltanto perché la democrazia e la sorella cultura hanno comportato la crescita numerica dei teatri, degli attori, delle opere, e con essa scontri e alleanze, vecchio e nuovo, riprese e rifiuti, tradizione ed esperimento, ma perché siffatta crescita si compie nel continuo recedere dell’identità regionale, nella quale il teatro dialettale radica contenuti e ideologie, e nel continuo sfumare dell’identità linguistica, nella quale trova la sua forma, l’altra parte del suo esistere.


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il teatro

Così, accanto al fiorire delle istituzioni _ teatri, gruppi, collettivi _, si registra, raggiungendo una vera e propria esplosione negli anni Settanta, i caldi anni nati dalla contestazione, quello delle idee, delle proposte, delle polemiche, che è la grande novità del teatro dialettale calabrese, il suo, sia pure stentato, farsi coscienza, teoria, manifesto, prima che opera scritta e realizzazione scenica, talora col supporto di un organo di stampa, come è «l’astrolabio calabrese» per il collettivo «Gruppo ottanta». E mentre a Cosenza il «piccolo teatro di prosa» riprende Ciardullo e suoi epigoni, polemizzando intorno al teatro legato al territorio, il collettivo «Gruppo ottanta» promuove discussioni, proclama la pari dignità del teatro dialettale nel contesto di quello regionale e difende la sostanza culturale del teatro popolare, il collettivo «il Quartiere», già parte politicamente radicale del «Gruppo ottanta», imprime alle sue proposte sceniche una decisa connotazione classista, il «Gruppo Teatro Sud» instaura la regia di gruppo, presenta autori nuovi, altri ne ricerca attraverso il «premio Giangurgolo» e porta il teatro calabrese sui palcoscenici di roma e di Milano, la cooperativa di ricerca «Centro rat» mette in scena il teatro dialettale nella «Tenda di Giangurgolo», a reggio Calabria il «Blusky» inaugura il cabaret dialettale, a Catanzaro il «Gruppo Teatro - Folclore» e il «Teatro Scuola», sorti a tre anni di distanza l’uno dall’altro (1973, 1976), formano attori, alcuni dei quali destinati a far grido. una stagione inquieta, ansiosa, ma certamente speranzosa, che proiettava l’aggressione collettiva alla vecchia società reale in termini di fantasma scenico, operando, come nei migliori momenti della storia teatrale, l’accordo fra teatro e vita, e perciò coinvolgeva nella gara tutte le forze comunque interessate: gli autori, fiorenti di numero nei concorsi, l’editoria, in un momento particolarmente impegnato della sua crescita, la rai-Tv regionale, più volte in concorrenza, e talora efficacemente, con il palcoscenico. il teatro dialettale conosceva nuove fabulae, nuovi generi, nuove sintesi, dalla commedia musicale popolare, inaugurata dal Gruppo folcloristico del teatro «rendano», ad un esperimento di teatro-paese, tentato nel 1980 dalla «Compagnia Calabrese di Canto popolare». il contrasto delle posizioni ideali, il processo di trasformazione culturale, le persistenti contraddizioni e i non risolti problemi della società regionale si riflettono negli autori, da Goffredo Jusi, in coppia con Michele lucanto, a Ciccio de Marco, a vincenzo zicarelli, commediografo di successo anche in lingua, a vittorio Sorrento, a Beniamino Fioriglio. E’ vero che la tematica comincia a slargarsi dai reticolati


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- l’eredità

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ambientali, ma la maggior parte, e certamente quella più convincente, vi sta ancor dentro, registrandone tuttavia gli strappi e i varchi. a volerne tentare qualche aspetto tra i più presenti alla coscienza storica, come l’emigrazione e la condizione femminile, dai tempi di Ciardullo agli autori or ora citati, cioè dall’uno all’altro punto limite di un arco di non più che quarant’anni, sono chiari i termini e la rapidità della crisi. l’emigrante di Ciardullo, il marito americano, si carica, tra storia e folclore, di quella forza di simpatia che gli conferisce la sua confusa condizione di colpevole e vittima, il suo persistente amore, la sua disarmata incredulità, e il tradimento della donna in nome della sua solitudine, la sua ripulsa, la condanna aggressiva dell’uomo vivono ancora in un’atmosfera di focolare infranto, che non elimina la colpa e diffonde sulla nuova situazione il senso del disperato e del precario. l’emigrato di vittorio Sorrento, nella commedia Partìra ppe’ campàra, nonostante la lacerazione della lontananza, entra in una macchina razionale, che ha i suoi congegni e i suoi prodotti scontati, e la consensuale separazione dei due coniugi, entrambi, lui partito e lei rimasta, fedifraghi, rientra pure in quel congegno, come soluzione logica e pressoché indolore di vicende che si moltiplicano e costituiscono a mano mano mentalità e codice. Così Cristina ’a spedesa, la fidanzata svedese della omonima commedia di zicarelli, dopo aver seguito il fidanzato al paese, lo abbandona senza drammi, per non cedere ai ricatti paesani, e la ragazza madre, che nella commedia di nino Gemelli ’A vucca è ’na ricchizza rifiuta per dignità, contro il parere di tutti quelli che la circondano, il matrimonio col padre della sua creatura, è lontana mille anni dalla soluzione ciardulliana di Vie de ’nfiernu: più assai che un dramma domestico e psicologico, un paradigma storico; non un baleno, ma una già ferma realtà. altri nodi del costume percorrono il teatro dialettale, riflettendo il nuovo, ma denunziando altresì la sostanziale permanenza di alcuni valori di fondo, il nome dei quali si compongono, ad esempio, ancora nella commedia di Gemelli, i contrasti di mentalità nella stessa famiglia. parlando di questa fase del teatro dialettale, è d’obbligo accennare al suo ingresso nell’agone politico, percorso nella sua varia gamma, da quello modesto dello scontro elettorale e delle beghe paesane, ferace tuttavia di significati più ampi del suo circoscritto perimetro, come nella commedia di Goffredo Jusi e Michele lucanto ’E due liste, a quello della lotta armata e della rivoluzione, nel quale entra ad opera di Beniamino Fioriglio, il cantore di Melissa in una commedia-documento in lingua,


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il teatro

variata da sequenze dialettali, Tutti a Fragalà, notevole per forza espressiva e chiusa da un «pianto» materno che richiama nel tono e nella drammatica espressività quello per luca Marano nel romanzo di Jovine Le terre del Sacramento. oggi non difettano le istituzioni, le proposte, gli esperimenti, le compagnie; ancor oggi Ciardullo viene rivisitato, accanto ai più autorevoli continuatori, come fresca fonte, e l’elenco degli autori va ben oltre i nomi conclamati ai quali si è fatto cenno, né mancano le iniziative per scoprirli e valorizzarli, come fa l’associazione Culturale Gallicese con un secondo premio «Giangurgolo» dopo quello proposto dal «Gruppo Teatro Sud», o come fanno alcune amministrazioni comunali con iniziative di pubblici spettacoli stagionali. Si ha, nondimeno, l’impressione che si viva un capitolo di mediocrità. vi è certamente, al fondo del processo, l’avvertimento di una Calabria non più dialettale e perciò una vaga coscienza del diverso e quasi dell’inane, ma non si può non pensare, in parallelo, alla fortuna di cui gode, proprio oggi, il dialetto in poesia e alla consapevolezza critica che l’accompagna. vi è anche, come veridicamente nota Giulio palange, il fatto che «oggi il genere dialettale è appannaggio esclusivo delle compagnie amatoriali, del tutto inesistenti a livello di circuiti ufficiali e del tutto irrilevanti come segnali effettivi di un costume o di una cultura»1, ma a me pare che siffatto fenomeno sia piuttosto effetto e non causa e che la causa vada riportata al cattivo uso della cultura e degli strumenti deputati a promuoverla e a sorreggerla, all’insufficienza, nelle istituzioni, della carica e della capacità necessarie ad operare rettamente nel campo, alle condizioni di confusione e di compromesso tra cultura e politica, all’aggressione della pseudocultura, alla sovrapposizione concorrenziale di proposte e di iniziative, che comporta anche lo sperpero del pubblico danaro, tutte forze nelle quali è fatale che il teatro dialettale, per sua stessa natura, si perda o resista a malapena ai margini. il vero problema, stabilito che il genio creativo non manca e che gl’impedimenti di un tempo sono rimossi, pare, dunque, consistere nella mancanza di una programmazione adeguata, di una legge organica che regoli tutta la materia, evitando disguidi, disagi, sfiducia agli operatori del settore e assicurando a chi scrive con merito le vie e gli strumenti della circolazione. E’ pur vero che le attuali circostanze del

1

G. palange, Storia del teatro dialettale calabrese, cit., p. 163.


vi

- l’eredità

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teatro dialettale calabrese non sono né nuove né uniche nel panorama nazionale, che la crisi investe, nientedimeno, anche il teatro veneto e che i medesimi fattori di disorientamento e di confusione da me indicati per il teatro calabrese sono stati coralmente e autorevolmente invocati per un teatro di ben altra portata storica, quello siciliano, ma considerazioni del genere non eliminano il male e non consolano; suggeriscono, tuttavia _ e questo è il nuovo della crisi _ che il teatro dialettale calabrese, da Ciardullo in poi, è entrato nel circuito delle grandi espressioni regionali, riflettendone problematiche e vicende.


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ConCluSionE

l’uoMo E lo SCriTTorE


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c onclusione


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l’uoMo E lo SCriTTorE

l’analisi, che si è condotta, della vita e dell’opera di Ciardullo consente di definire i tratti principali dell’uomo e dello scrittore, sottrarlo a superficialità e avventatezza di giudizio, collocarlo col maggior grado possibile di veridicità nella storia civile e politica e in quella della letteratura. nella società del tempo egli ha esercitato in misura egualmente efficace e significativa, attraverso tutte e singole le forme della sua attività di scrittore, un’azione pedagogica di resistenza, espletata con pari fermezza nei confronti del fascismo e poi dei malanni del primo dopoguerra, fedele, cioè, in tutti i momenti della storia, ad un coerente imperativo di onestà, di libertà, di giustizia: un’azione tanto più apprezzabile perché esercitata in presenza di necessità familiari pressanti e di condizioni spesso amare di disagio economico, non proprio e non sempre propizie a fermezza e coraggio. i suoi scritti, nei quali concorrono, espressi o velati dal sorriso della satira, volti, nomi, vicende, compongono una fonte assai ricca ed eloquente per la storia di quei due momenti calabresi e non solo calabresi; del secondo, in particolare, sollevano i dissimulati veli, sorprendendo scompensi e magagne e con essi i germi di molte odierne calamità della nazione. i termini politici e morali del suo pensiero risultano chiari a chi li legge in buona coscienza, sia che egli li affidi alla denunzia e alla polemica giornalistica, sia che li trasfiguri nei fantasmi dell’arte, ed è perciò vano costringerli secondo vie improprie, a sensi lontani dalla natura e dagl’intendimenti dello scrittore. Qualcuno parla di un Ciardullo del conformismo e della rassegnazio-


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ne e per tal via circola una poesia a firma di lorenzo Calogero, che lo contrappone a duonnu pantu come lo «schiavo contento di sua schiavitù». Chiunque abbia scritto così è della schiera del vulgo orecchiante, o conosce un assai dimidiato Ciardullo e anche di questo è cattivo lettore, avendo confuso il significante col significato, ovvero lo scrittore col suo oggetto; si è fermato, cioè, alla patina dello scrittore e non ne ha colto l’anima, l’interiore energia animatrice. la quale, beninteso, non è del rivoluzionario, benché non priva di forti momenti di riscossa, ma si esprime in una continua e documentata, coraggiosissima denunzia, o che affronti in universale la condizione dell’uomo, o che si appunti a quella contadina o del popolo in genere, o che guardi più in alto, al mondo del potere, dei titoli, dell’impostura politica, della ricchezza male accumulata. la mente filosofica, maturatasi all’osservazione della realtà e a quell’esercizio della tolleranza di sé e degli altri che nei suoi termini sommi si può dire oraziano, guarda a quel mondo con quella sorridente e coerente consapevolezza, venata di giusto sdegno, che lo rese caro a personaggi di diverse e opposte professioni politiche; l’animo del repubblicano affida vibratamente la soluzione del problema sociale all’educazione del popolo e alla forza della legge. in tale ottica va letto anche il tema della donna, il quale, vivo in tutta l’opera dello scrittore, nel teatro, come si è visto, fa da padrone. il motivo di siffatta centralità assomma, a ben guardarlo, elementi oggettivi e soggettivi: il fatto che la donna, nell’ambiente e nel tempo in cui è collocata, rappresenta per se stessa, come storia e come cultura, un coagulo di problemi della società calabrese e perciò uno degli oggetti principali così dell’attenzione della pubblica coscienza come della sofferenza dello scrittore; il fatto, anche, che lo scrittore vi trova lo spazio più ampio e propizio per l’indagine psicologica, che è la vena più pregnante del suo teatro come della sua poesia. Motivazioni a parte, la visione ciardulliana, alla luce dell’analisi condotta, appare lontana da certa enfatizzazione e ancor più da certi compiacimenti femministici a cui è stata non poco assoggettata, contenuta com’è nell’ambito della sua riflessione generale e della sua soluzione coerente di moralità e di giustizia. la sua carica di novità è nella chiarezza e nel coraggio con cui il problema viene posto, per la prima volta, nei suoi nudi termini alla pubblica coscienza, non nelle soluzioni drammatiche in sé, le quali, per quanto costruite con arte sanguigna, appartengono al piano dei fatti, non a quel-


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lo dell’ideologia: dell’autore, cioè, sono la denunzia e la pietà, non il consenso ideale. Marchiato a sangue il cumulo di contraddizioni, di ironie, di repressioni, di ingiustizie in cui la donna è sommersa da una società gravata dal pregiudizio e dall’ignoranza, l’ideale riformatore di Ciardullo resta nel recinto del focolare domestico: è, tra i suoi personaggi, Maria, non Matalena; fuori di teatro è la madre sua, «ch’à priessu l’uocchi a cusari sciguni”. Questo per quanto riguarda il pensiero. le forme letterarie nelle quali esso si traduce, tra loro complementari e parimenti incisive sul piano del significato politico e sociale, si affidano non univocamente, fuori di quella dimensione, al giudizio. Quelle per le quali soprattutto _ e ne sono stati indicati i motivi _ Ciardullo vive, cioè la poesia in dialetto e il teatro in dialetto, costituiscono un’opera profondamente unitaria, richiamandosi, chiarendosi, completandosi a vicenda nelle loro componenti liriche, satiriche, drammatiche. l’autore, mentre contempla un luogo e una gente, scavandone a fondo l’identità e ritraendo uomini e fatti nella loro specificità storica, li assume come specchio del dramma umano, sottraendo così l’opera alla sua dialettalità per consegnarla come patrimonio comune, secondo un’elementare operazione interiore all’arte, a quanti siano capaci di leggerla e collocandosi, con sue precise dimensioni, accanto ai grandi rappresentanti delle letterature regionali, dal porta al Belli, al verga, al di Giacomo. a voler cercare riscontri, appare arbitraria una definizione, che pure è stata da più parti formulata, in termini di verismo e di naturalismo, i quali vanno usati con molta cautela, vincolati come sono a precise condizioni, che in Ciardullo non si realizzano o si realizzano solo parzialmente o esteriormente, mentre dall’analisi risulta legittima una formulazione in termini di realismo, ambientale e psicologico, quello che dalla più lontana classicità passa attraverso le migliori esperienze della nostra storia letteraria, compresa quella dialettale di Calabria, e impegna in eguale e concorde misura l’osservazione e la partecipazione dello scrittore. Se in tal senso si volesse a forza un referente illustre, questo è il Manzoni, la cui scuola, come si è visto, è presente per varie guise, e talora scopertamente, nell’opera di Ciardullo. il suo realismo si spiega in virtù della fedele aderenza alla specificità naturale della sua gente, immerso com’egli vi appare col sangue, i problemi, i bisogni, in una doviziosa rassegna dei modi e delle forme del vivere, del sentire, dell’esprimersi, fertilissimo terreno per l’indagine


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demologica. il concetto di popolarità, dunque, in Ciardullo si realizza in una dimensione originalissima e totale, e anche su questo si è volutamente insistito, cioè assai oltre la sua attenzione per le forme di vita e d’arte del popolo, oltre anche i comuni modelli letterari della simpatia o della trasposizione spirituale, che è sempre un agire dall’esterno. parallelamente lo stesso concetto di folclore va assai oltre le singole manifestazioni caratteristiche e spettacolari, realizzandosi in toto come mentalità, come condotta, come linguaggio. una naturale immersione, tanto più preziosa in quanto comune con la cultura, che abbiamo visto variamente presente nell’opera, anche attraverso influssi diversi, dal mondo classico al teatro contemporaneo. il dialetto è, conseguentemente, la veste naturale per la rappresentazione del mondo popolare di Ciardullo, ma un dialetto scavato di volta in volta nel personaggio e nell’ambiente, magnifico per la sua plasticità, per la capacità scultoria, per le varietà tonali, per la ricchezza delle sfumature, continuamente alimentato dalla metafora, che fiorisce spontanea da quel mondo di cultura; un dialetto, cioè, che dal tenero diminutivo degli affetti familiari al crudo plebeo di certe satire politiche sfida tutte le pieghe delle immagini e dei sentimenti e si compone nelle loro esatte figure. l’arte di Ciardullo è per molta parte di parola e perciò meritevole anche di un’indagine in tal senso, nel ricordo che Francesco Flora ha identificato la storia di leopardi poeta con la «storia della parola leopardiana»1. Ma a parte il livello di letteraria dignità, il dialetto di Ciardullo ha un posto di diritto in ogni seria indagine linguistica, oggi particolarmente bisognevole di documenti certi nel sensibile fenomeno di slittamento di dialetti e lingue. anche il fatto che non poche voci del dialetto ciardulliano non trovino riscontro in dizionari seri e rigorosi dimostra come egli sia andato oltre la comune soglia del parlato e quanto profondo sia stato il suo scavo. Ciardullo ha continuato, in tal senso, la tradizione di serietà dei poeti di aprigliano. per tal motivo si è insistito, in tutti i momenti dell’analisi, nei rilievi linguistici, fermando soprattutto quei lessemi che al vaglio dell’esperienza sembrano divenuti più evanescenti o diradati del tutto, pregnanti di efficacia sorgiva, nobili di antica prosapia, sedimenti di epo-

1

F. Flora, Storia della letteratura italiana, vol. iv, Milano 1950, pp. 134 ss.


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che storiche e di collusioni culturali, colorati dai vari atteggiamenti e ardimenti della metafora e spesso impareggiabilmente imitativi. lo si è fatto volutamente senza una classificazione, nel solo desiderio di dimostrare quanto la lingua conferisca all’arte, ovvero, come si è insistentemente ripetuto, alla «forma» di questo scrittore, e perciò disseminandoli come un’odorosa primavera, nella quale altri, giova sperare, potrà raccogliere e dare ordine secondo generi, grandezze, colori, operando cioè scientificamente sullo specifico linguistico. non si è omesso, nei singoli momenti dell’analisi, anzi lo si è fatto con insistenza e rigore, di indicare i limiti dell’opera di Ciardullo, riportandoli soprattutto alla sua prepotente facilità di scrittura e alla connessa impazienza di revisione e di lima. nonostante i limiti, egli resta uno scrittore la cui eco nella vita sociale e nella storia letteraria è sempre più viva, un maestro di quelli a cui la coscienza e la letteratura di Calabria devono costantemente guardare.


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Edizioni dEllE opErE di Ciardullo

1. Ciardullo, Statti tranquillu, nun cce pensare, con prefazione di l. nicoletti, la Toga, napoli, 1940. prima raccolta delle poesie in dialetto. 2. Ciardullo, Cumu vinne ... e cumu jiu…, con prefazione di n. Serra e

disegni di Baratta, Circolo di Cultura “Città di Cosenza”, 1948. 3. Ciardullo-Baratta, Lupi della Sila, Campionato 1949/50, testi di Ciardullo e disegni di Baratta, con prefazione anonima, Barbieri, Cosenza, 1950. Contiene testi relativi a persone e a fatti di quel campionato e pochi altri già apparsi nell’omonimo libretto edito negli anni trenta, del quale non resta copia. 4.Ciardullo, Le poesie, con prefazione di F. Gullo, Gastaldi, Milano, 1961. Contiene le poesie in dialetto edite nella prima raccolta, con l’aggiunta del componimento Cumu vinne.... e cumu jiu…. 5. Ciardullo, Poesie e teatro, con le prefazioni di l. nicoletti e F. Gullo alle prime due raccolte di poesie, prefazione di F. arcuri al teatro e, in appendice, un discorso di M. Stancati sull’opera di Ciardullo, Brenner, Cosenza, 1968. la sezione teatro contiene: ’U suonnu de chist’ uocchi, Vie de ’nfiernu, Quarantottu ‘u muortu chi parra, Vampate, Fratellanza nofriana. 6. Ciardullo, Statti tranquillu...nun cce pensare, con le prefazioni di l. nicoletti e di F. Gullo alle edizioni precedenti, Brenner, Cosenza, 1968. 7. Ciardullo (Michele de Marco), Le Poesie, a cura di a. piromalli, con


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edizioni delle opere di ciardullo

prefazione di a. piromalli, MidE, lorica, 1984. riporta l’edizione del 1968 con il mutamento di posto di Primavera e con l’aggiunta di due componimenti già apparsi in «orizzonti Silani»: Frevaru e Simina ca ricuegli. 8. Ciardullo (Michele de Marco), La satira, a cura di a. piromalli, con prefazione di E. Gullo, MidE, lorica, 1984. Contiene la maggior parte dei componimenti satirici ed umoristici in lingua, con l’aggiunta del componimento in dialetto Cumu vinne... e cumu jiu…, già edito nel 1948 e nel 1961. 9. Ciardullo (Michele de Marco), Il teatro, a cura di a. piromalli, con

prefazione di a. piromalli e prefazione di u. arcuri all’edizione del 1968, lorica, 1984. riproduce l’edizione del 1968 con l’aggiunta del dramma ’A scala. le ultime tre opere, che fanno parte di un unico progetto, sono state edite dall’associazione Culturale «Michele de Marco» (MidE) in occasione del centenario della nascita del poeta (1984).

MidE,

10. Ciardullo (Michele de Marco), Le poesie, Brenner, Cosenza, 1998. riproduce l’edizione MidE 1984 con l’aggiunta del componimento Cumu vinne... e cumu jiu….


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n.B. Le singole glosse sono riportate e spiegate nel preciso valore lessicale e grammaticale che hanno nel testo. Valori diversi e corrispondenti significati sono separati da punto e virgola.

a abbara imperat., bada. abbasatiellu con una discreta base economica. abbentare prendere riposo. abbili bile. abbissa imperat., va’ alla malora, all’inferno. abbistare scoprire, scorgere. abbozza imperat., taci. abbrancu ghermisco. abbusˇcare ricevere in dono. abbuttère (ti nn’) te ne riempiresti, te ne sazieresti a crepapelle. abbutti; abbuttu sazi; sazio a crepapelle. accattare comprare. acciomu Ecce Homo. accuc˜c˜ hi (v’) vi colga. accùc˜c˜ hianu (s’); accuc˜c˜ hiatu si riuniscono; riunito. acquatina rugiada. adacciata tritata col coltello. addobbare aggiustare, preparare. adduma accende. adduru odore. adòvano (s’) fecondano le uova. affaloppa affastella (dell’albero che mette pollone su pollone). affiru (m’) mi sposo, prendo la fede. affruntu (m’) mi offendo. aggranca resta con le mani rattrappite. agguanta afferra, raccoglie. agliru ghiro.

àje abbi. allèjere scegliere. ammappatu raccolto e avvolto alla rinfusa. ammarratu ammaestrato (da marru, maestro). ammarrune sbaglio, granchio. ammartinatu bene assortito. ammasˇcante lanciando frasi equivoche. ammazzu (all’) ad ammazzare, a distruggere. amminazzi sost. plur. minacce. ammollare assestare. ammucci (t’) ti nascondi. ammucciata (all’) di nascosto. ammuzzellata rannicchiata, raccolta come un mucchio. angilla anguilla. anniricai (t’) ti tinsi di nero. apparature che tutto aggiusta, tutto appiana, tutto risolve. appillatu impantanato, impigliato coi piedi (da pillu, terreno leggero e appiccicaticcio). appizzuta aguzza, appunta. appuzi appressi, appoggi. arrabbattamu (n’) ci diamo da fare in ogni modo, disperatamente. arraggiatu idrofobo. arrama arrugginisce. arrancata part., accorsa precipitosamente; sost., salto repentino e inconsulto; met., aggressione inaspettata. arrassata messa da canto.


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arrassusìa lontano sia. arric˜ c˜hiare porgere l’orecchio. arricetta (t’); (va’ t’) ti dà il riposo; va’ a riposarti, va’ a farti benedire, taci. arrieti dietro. arrigìstrati mettiti in ordine. arringàu lanciò, buttò giù. arrinzinatu raggrinzito. arrìsichi rischi; t’arrìsichi, ti permetti appena di entrare. arrizetta scrive sulla ricetta. arrullava convocava, chiamava. arrumba imperat., grida forte; impers., tuona. arrumbuluni capitomboli. arruòzzula ruzzola. arrupa; arrupano ruba; rubano. arruzza fa scompiglio. àrû hanno. àrvulu albero. asca esca. assacchïava correva affannosamente. assettata (all’) seduti. assulic˜c˜hiaturi spazi per riscaldarsi al sole. attagni arresti. attic˜ c˜ hia imperat.;attic˜ c˜ hiare cammina svelto, aumenta l’andatura, avanza il passo; camminare svelto, scappare. attroppa diventa albero. àû hanno. avantu vanto, privilegio. azziettu sia espressione devota che fa da intercalare: sia accetto, gradito a (a dio, ai santi). azzoppa compare, arriva inaspettatamente.

B baffulli ganasce. banna posto, luogo. banne lati, luoghi, contrade; ’sse

banne banne, qua e là per queste contrade. bargigliutu adorno di vistosi bargigli. basinettu bacino e sedere. bonusìa bene ci sia qui. bottiannu lanciando parole allusive. bruttabestia diavolo.

C cac˜ c˜ hiu cappio, fune; cac˜ c˜ hiu de ‘mpisu, avanzo di galera. a caccia mente 3 sing., fa attenzione, diventa consapevole, mette giudizio. caddara caldaia. caggiula piccola gabbia. camarra uncino di ferro al quale si appende la caldaia. cancarena cancro. canigliata beverone di crusca (per maiali). cannarozza gola. cannaruti golosi. cannìa (si la) si allontana, a passi eguali e misurati; se ne va, muore. cannïava si moveva quasi misurando il terreno. cannielli ditali di canna. cannizza canniccio quadrangolare per conservare pane e altro. capizza cavezza. capozzuluti teste dure. capû entrano. capuzzella caparbia, testa dura. carcarïare verso gutturale della gallina che ha fatto l’uovo. carmû (se) si calmano, si sèdano. carrera (de) di gran corsa, di gran carriera. carusa farina di grano pregiato. cascitelle cassette. casti castelli di castagne per gioco. catapanu appellativo di funzionario bizantino, qui col significato generi-


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co di capoccia. catrea, catreja spina dorsale catu secchio. cavallìa galoppa (come il cavallo). càvuci calci. càvuzi pantaloni; se fa li càvuzi, si arricchisce. cecatu cieco. cecatuni del tutto ciechi. cera faccia; cera d’ammazzatu, faccia di birbante. cerasu ciliegio; cerasu ’mbubinu, varietà pregiata. ceroni maschere dipinte. cervicale ciglione, cima. cervuni cappello a cono. c˜ hiac˜c˜ hiarella scherzo, scherzetto. c˜ hiac˜c˜ hiarìa scherza. c˜ hiamû chiamano. c˜ hiantelle tramezze della scarpa. c˜ hianti sost. pl., pianti c˜ hiatru ghiaccio. c˜ hiava de manu dà di mano. c˜ hica; c˜ hicàmu; c˜ hicare piega; pieghiamo; piegare. c˜ hina piena. c˜ hiudìu chiuse. c˜ hiumbu piombo. c˜ hiuritu prurito. ciaramelliare scherzare, perdere il tempo; lett., sonare la ciaramella. Cicacu Chicago. cìciari ceci; ’un valìa tri cìciari, non valeva nulla. cierza quercia. ciglia cresce, mette germogli; ciglia alla rina, cresce sulla riva del fiume (luogo del mercato dei maiali), cioè non ne possiedo uno. cignariellu maiale con una fascia bianca intorno alla schiena e al ventre. cilamparìa insensatezza, follia. cilàmpicu insensato, folle. cingulatu adorno del cingolo del fez

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fascista; russu cingulatu, pezzo grosso del fascismo. ciotarìe sciocchezze. ciote sciocche. cipparielli piccoli ceppi. citati, sost. plur. città. citruli cetrioli; citruli simentini, cetrioli che si lasciano insecchire per cavarne il seme; met., persone vuote e stupide. citu zitto, zitti. ciutìa stupidaggine; a ’na ciutia, a pochissimo prezzo. colerusi tristi. còmmari comodi, agiati. conzati; conzatu posti, sistemati; posto, sistemato. copparellaru prestigiatore; chi fa il gioco della ‘coppetta’ col dado. coppuluni berretto. coscinutu gobbo. cotraru ragazzo. crapiu capriolo. creddu (’ntra ’nu) in un credo, subito. criri credi. crosche torsoli della foglia. crozza cranio; met. zucca, testa. crucettelle fichi intrecciati a croce. crucic˜ c˜ hie piccole croci; alle crucic˜ c˜ hie, località di pedace. cuc˜ c˜ hia paio. cuc˜ c˜ hiari castagne vuote. cuculli bozzoli. cucuzzignu vuoto come una zucca. cularinu orifizio anale. cumbeglia copre; cumbeglia vrigogne, sost. comp., copri-vergogne. cummena (me) mi conviene. cunc˜ hiû maturano. cuntû (se) si contano. cunzuolu consolazione, gioia. cuosti costole. cupa sost. anfratto, luogo nascosto. cupa (ne) lett., ci perfora; met. ci vince, ci stordisce, ci persuade.


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curi curi verso di richiamo per i polli. curijellu cotenna. curilla schiena; duce de curilla, morbida di schiena, flessuosa. curreru corredo. currìa cinghia, cintola; supra i cuosti ’e l’autri currìa larga, sulle costole degli altri cinghia larga, detto per chi largheggia con le cose altrui. cuvierc˜ hiu coperchio. cuzziettu occipite, nuca.

D ddèranu darebbero. dezi diede. dìcica si dice che; la locuzione, in enfasi, assume significato contrario alla lettera (es., dìcica l’avìe ’e portare: non l’hai portato; dìcica ’un l’avìe ’e dire: l’hai detto). diciû dicono. difenna difende. discienzu convulsione. dittaggiu detto, massima. dittu detto; nun sia ppe dittu, come non detto. dugne do. dunû danno; maturano (delle castagne). duvire dovere.

E èjia sorgi, muoviti. èrrama sventurata, disgraziata. escèranu uscirebbero. eu io.

F

facciutu faccia tosta, sfacciato. faluòtica vanesia, sciocca. farfarielli diavoletti, folletti. farinaru cassone per conservare il pane. faû fanno. fella fetta. ferge catene, pastoie. festa (a menza) testa bislacca. fetenzeria cosa puzzolente, schifosa. fièrula sgabello di legno. filippina vento freddo. filiunni magri e lunghi come fili. piccolo zufolo. fisˇcantic˜ c˜ hiu fò fu. foraffàscinu espressione apotropaica: lontano sia il malocchio. fore maluocchiu c.s. fòsfaru fiammifero di legno. foze fu. frambosa sciocchezza. frangere fare a pezzi. frangia contorno, contesto. fràtetta tuo fratello. fravicàu sbattè contro. fressura padella. fressurate padellate; met., riunioni, sedute. frìja frigge. fringillune fringuellone. frosi invenzione fonica; v. scardi. frugata ricerca minuziosa e veloce. fruna; frùnere; frunuta; frunuti finisce; finire; completa, perfetta; finiti. frunne fronde. fuòrfice forbici. futtu (mi ‘ndi) me ne frego.

G


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gaccïata (vò) dev’essere spezzettata con l’accetta. gàlapu garbo, destrezza. gallanti le castagne più grosse e pregiate, usate anche dai bambini per gioco. gallïare spadroneggiare, andar superbo (come il gallo). ganghe denti molari. gàpanu; gapare ingannano; ingannare. gapparìa prodezza, spavalderia. gapu (fore) senza scherzo, senza intenzione di offesa. gargarotta intruglio sgradevole. garrune polpaccio; chine de ascia e chine d’asciune simu tutti feruti allu garrune, chi con ascia piccola, chi con ascia grossa, tutti siamo feriti al polpaccio, cioè piccole o grandi colpe ne abbiamo tutti. gavittella cunetta per convogliare le acque. ghèssiri essere. giargianise appellativo dispregiativo per i settentrionali. girivote giravolte, giri di parole, stupidaggini. gnàtici teste bislacche. gnilla un’unghietta, un pochino. gradiglia graticola. graffa de pistune graffa di ferro a ridosso del cane dello schioppo; met., perfetto idiota. gramale vischio, pania. grancitelli piccoli granchi. grannizzerie grandezze, onori, vanti. granzilliannu brillando di bollicine di rugiada. gregne; gregnulle covoni; manipoli. grigna criniera; aza la grigna: insuperbisce, fa il gradasso. grillïava faceva il verso del grillo.

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grisa; grisu intatta; intatto. grupi buchi. guappa; guappu forte, superba, splendida, rigogliosa; forte, superbo, splendido, rigoglioso. Guasciantuonu Washington. gustìa (se) si sciala

I ìnc˜ hia, inc˜ hìu riempie, riempì; sucu de petra non inc˜ hìu rigagnu: gnom., dalla pietra non può sgorgare acqua. incrisciu (m’) m’annoio, mi dispiace. intrasatto (all’) all’improvviso, subito. irtu erta, salita

J jemma gemma. jencarella piccola giovenca. jencu giovenco. jette fichi infilati a cannucce. jettèra getterei. jettune pollone; met., figlio. jibbìssinu (ccu llu) invenzione gergale: con una maggiorazione, con un di più. jiffa cimice delle piante. jimbielli legno biforcuto su cui si appende il maiale ammazzato; vi vuolû fare alli jimbielli, possano apppendervi come il maiale. jina avena selvatica jinostra ginestra. jìrita diti, dita. jìu andò. jocarielli; jocariellu giochetti, scherzetti; giochetto, scherzetto. jocatella scherzetto. joculanu allegro. joculìa gioca lietamente.


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jùjia soffia. jumare torrente. junte giumelle (il concavo delle mani congiunte); a junte a junte, a giumelle, in abbondanza, con generosità. junuocchi ginocchia. juochi giochi; juochi de cura, giochi di coda. juocû giocano; juocû li pieri, i piedi giocano (a frangere l’uva); v. recrìa (se). jureu giudeo. juru fiore. jusca pula.

L lamare ammuffire, infracidire. lapristata brutto tiro. Lasca (la) l’alaska. laschi radi. lassère lasceresti. lavannara lavandaia. lavùru maggese. lazzarìadi; lazzariare tormenta, dilania; tormentare, dilaniare. licca lecca; lìccati l’ugne, leccati le unghie; met., goditi la cosa fino al fondo. liciertu lacerto; v. siervû. lientu magro. liequia pioppo bianco. liètica lite. lignu legno; met., nave. limicella piccola lima; limicella tagliarula, piccola lima molto affilata. llari là. lluocu qui.

M magaru’ (= magaruna) epiteto dispregiativo, lett., fattucchiera; met.,

donnaccia. majìa magia, incantesimo. malacera faccia, aspetto da birbante. malanova lett., cattiva notizia; met., qualcosa di esagerato e di spiacente. malipata soffre. mammamia (ccu la faccia a) con espressione timida e smarrita. mammarutu baubau, spauracchio dei bambini. a manchèra (me) 2 sing., mi mancassi. mànganu maciulla per dirompere il lino; tu chi sî venutu ’e mètere, refrìschete a ’ssu mànganu: tu che hai finito di mietere, rinfrescati con questa maciulla, il che equivale a lasciare un lavoro grave e cominciarne un altro più grave ancora. mangiuniscu gran mangiatore. mannû mandano. mantisinu grembiule. marpiuni furbacchioni. marru maestro, persona astuta. masˇca indurita (della canna). mastru juratu mastrogiurato (ufficiale funzionario del medioevo e del periodo feudale); met., grande autorità. matracutu grasso e grosso. mazza e tila asse del telaio e tela ; ti dugnu mazza e tila, ti do pieni poteri, mi affido tutto a te. mazzicuognu cibo, cosa da mettere sotto i denti. ’mbastu basto. ’mbeci invece, al contrario. ’mbiata avviata. ’mbrillicati agghindati. ’mbrocculava (se) arricciava le foglie come i broccoli. ’mbuccativillu imboccatevelo, cioè credete alle sue fandonie ’mbucchisutta capovolta


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’mbuti imbuti; ccu lli ’mbuti, in abbondanza menna (se) si ravvede, si pente. menzine mezze parti (detto soprattutto degli animali uccisi). mièvuza milza. mignu mèno; mignu vientu, porto a casa vento, cioè niente. milunaru venditore di cocomeri. mina; mìnacce imperat., soffia, infuria qui. minàu si levò, soffiò (del vento). mini cerchi, ti affanni. minnìcu (mi cce) mi ci impezzentisco, mi ci impoverisco. minnitta vendetta; met., chiasso, subbuglio; vulìe la minnitta?, volevi miracoli? mintû mettono; mintû lu mussu, mettono il muso, s’intromettono. misˇca; misˇcava (se) s’immischia, s’ingerisce; s’immischiava, s’ingeriva. mo cce vò espressione concessiva: “e già, certamente, naturalmente!” moni adesso. morèra morirei. mottiamenti scherzi, giri di parole. ’mpacchiata di nessun conto, di infimo ordine. ’mpaciamenti in pace, tranquillamente. ’mpalettàu spiccò. ’mpantasatu inebetito, assorto. ’mpapagna (ne) ci addormenta, ci stordisce. a ’mpapuocchiu 1 sing., dico sciocchezze; sost., imbroglio. ’mpari in luogo piano, comodamente. ’mpastura lega (per i piedi come gli animali), immobilizza. ’mpatta riesce, incontra. ’mpecurune carponi (a mo’ di pecora). ’mpernata ferma come attaccata con un pernio.

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’mpesava trascinava via. ’mpica (se) s’impicca. ’mpiegu impiego, occupazione. ’mpiertica attacca come la pertica alla pianta per sorreggerla. ’mpierticati dritti e rigidi come pertiche. ’mpiesare caricare la legna sul capo. ’mpignu impegno, condotta scrupolosa. ’mpignusa cocciuta, testarda, capricciosa. ’mpillicca (va’ te) va’ a metterti in ordine, ad agghindarti. ’mpinge resta in gola. ’mpinna (piglia) imprende a perseguitare (dalla penna, terribile strumento, anche, di offesa). ’mpìnnanu mettono le penne, spiccano il volo. ’mpinnata tettoia; l’irtu ’e la ’mpinnata: la salita lungo il muro verso la tettoia. ’mpintu rimasto nella gola. ’mpipirinatu sicuro e fiero nell’atteggiamento. ’mpisu appeso alla forca; v. cacchiu. ’mpizzune (me) mi dispiace, mi offende ’mpriestû prendono a prestito. ’mprilliccatu tronfio. ’mpucia sospinge, spinge dentro. ’mpunta sulla punta, sull’orlo; ’mpunta all’uocchi, in punta agli occhi, sul ciglio. ’mpuntunata ferma in agguato. mugli muggiti, alti guaìti. mujuolu o majuolu mozzo della ruota del carretto. muligna (alla) alla maniera dei muli. munnizza immondizia, nullità. muòtica muove, scuote. murmugnese quatto quatto, pazientemente.


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muscia moscia, floscia, striminzita. mussi musi; castagne bacate. mussillu boccuccia. mussistorta bocca storta (uno degli epiteti popolari di Quaresima). mustazzola mostaccioli, dolci fatti col miele. mutria malinconia, cattivo umore. muzzicare; muzzicatu mordere, morsicare; morso, morsicato; parrare muzzicato, mezze parole. muzziculiare mordicchiare. muzzicune boccone, pezzetto. muzzune cicca.

N navetta spola del telaio. ’ncallatu incallito. ’ncannaccatu incantato, assorto, tutto preso (da cannacca, collana). ’ncanti incanti. ’ncappa incappa; me ’ncappa, mi capita, mi accade, mi riesce. ’ncarpinata baruffa con vie di fatto. ’ncasi consolidi, aumenti. ’ncastagnatu costretto, compresso (come la castagna nel riccio). ’ncatrea in buona forma (v. catrea). ’ncatturare legare, imprigionare. ’ncatturati (me) mi legate, mi imprigionate. ’nc˜ hiampa cosa o persona insipida. ’nc˜ hiana 3a sing. sale. ’nc˜ hianu in piano, sotto i piedi. ’nc˜ hiovardatu attaccato quasi con i chiodi. ’nc˜ hiovata; ‘nc˜ hiovava inchiodata; inchiodava. ’nciàmpicu inciampo, caduta, errore. ’nciarmi imbrogli, inganni. ’nciarmuliare ammaliare.

’ncilampicata inebetita. ’ncinelle bastonate, colpi. ’ncinu uncino; tristu rigagnu nun cadìu de ’ncinu, gnom., cattiva padella non cade dall’uncino, cioè i birbanti sono fortunati. ’ncriccatu legato con patto ad altro giocatore (voce del gioco della passatella). ’ncugna imperat. batti, percuoti. ’ncugnu mando giù, tracanno (del vino o altro). ’ncuna; ’ncunu alcuna; alcuno; nn’aviti ’ncuna, ne avete di moìne, parole, male arti! ’ncuollu addosso. ’ncurilla (se) s’inarca (da curilla, schiena). ’ncutigna (si) ’ncutta disavventura, disgrazia, momento di difficoltà. ’ndùmina imperat., indovina; sputa ca ’ndumina, sputa e indovini, cioè: quel che pensi accade. neca locuzione negativa: non è che, non. nervinu nervosismo. ’nfiglia infila; mai ’nfiglia filu, mai infila il filo nella cruna; met., mai ne coglie una. ’nfunna intinge. ’ngalapatu garbato, destro, abile, ingegnoso. ’ngalluzziscia (se) ringalluzzisce, insuperbisce, diventa coraggioso. ’ngattatu tutto raccolto (dall’immagine del gatto). ’nghielenata faccia gialla, biliosa. ’nghièrmita; ’nghiermitare indovina, conclude, concludere. ’ngnilla v. ’gnilla. ’ngrarare; ’ngraràtila pulire, mondare; ripulitela, mondatela. ’ngrigna (se) monta in furia, s’infu-


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ria. ’ngrise inglese. ’ngroffa epiteto dispregiativo; lett., fico ingrossato e rimasto immaturo. ’ngrolia in gloria (a dio); intercalare atto a calcare un’esclamazione di meraviglia o di compiacimento. ’ngrugnatu ingrugnito, corrucciato. nibbis invenzione gergale: foglio da centomila. niche piccole. nìchili monete da venti centesimi. niru nero. nofriana (fratellanza) compagnia da quattro soldi, di disperati. nossere nossignore. ’nquac˜ c˜ hiu pasticcio, impresa mal riuscita. ’nserciziu in attività. ’nsiccavanu conficcavano. ’nsignurinati divenuti signori. ’nsustu a noia. ’ntantaviglia in dormiveglia. ’ntecuzza costoletta di maiale. ’ntenna (se) s’intende, naturalmente. a ’ntinna 3 sing., risuona squillando. ’ntisa (’a prima) sost., la prima spremitura (dell’uva). ’ntisa, ’ntisu part., detta, detto comunemente, soprannominata, soprannominato. ’ntostata irrigidita. ’ntramata piena di malanni. ’ntramente intanto. ’ntrica (se) s’importa, si fa scrupolo. ’ntricu intrigo, questione; intreccio, corrispondenza. ’ntrona imperat.; ’ntronàu tuona, grida forte; rintronò, rimbombò ’ntruglia ingrassa. ’ntrumba imperat., grida forte (come tromba) ’ntruòppica incespica. ’ntruzzata urto.

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’nturduliciutu diventato grasso e grosso. nuerru nostro. ’nzacca (se); ’nzaccatu s’infila, entra violentemente; infilato, conficcato. ’nzigna; ’nzìgnanu; ’nzignatu comincia; cominciano; cominciato. ’nzippellate piene zeppe. ’nzirru (me) mi adiro. ’nzurati sposati.

O

onùrane onoraci (invito di cortesia all’ospite perché gradisca il cibo o la bevanda).

P paccunïatu bastonato, percosso. pajarda paletta (arnese per la brace del focolare); netta paletta, met., tasche vuote. palette scapole. pallata acchiappata, colta al volo (voce del gioco delle «petruzze»). pallera arnese con fori tutti eguali dove si cola il piombo per farne palle. palluni fichi conciati a palla. pàmpina; pàmpine foglia, pagina; foglie. pampiniava penetrava, giocava tra le foglie (detto della luna). pampuglia foglia secca. panara panieri. pannariellu placido placido. paparotta poltiglia. pappicìanu si adombrano (gli occhi) come coperti da ragnatele. pàraca lett., pare che (locuzione esclamativa, affermativa per negare, negativa per affermare): pàraca l’avìe ’e portare, non l’hai portato; pàrica ’un


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l’avìe ’e dire, l’hai detto. v. dìcica. paraguantu premio, dono, grande degnazione. parma palma; parma carricata, palma piena di frutti, e met., ricchezza, abbondanza. parrìnuta il tuo padrino. parû sembrano. passata sost.: vicenda. passettu anticamera. passû (se) si passano, si attraversano. passulune passulune mogio mogio (come passuli, uva passa). pastìa (si lu) se lo nutre, ne fa quel che vuole. pasturune grosso garretto. patienze patimenti, sofferenze. pàtretta tuo padre. pellizzune straccione, persona abietta. pellizzuneria la qualità di pellizzune. perfunni (alli) al profondo, sotto terra. perrupata precipitata, cioè inutile. perrupàu rovesciò. perrupu precipizio. pertusu buco. pesta de core diavolo di cuore, disgraziato cuore (in senso affettivo). pestiare divorare. petrusinu prezzemolo. piatusi compassionevoli. picca agg., pochi; ’na picca, un poco. pic˜ c˜ hiu lett., la rete che avvolge il fegato del maiale; pic˜ c˜ hiu sostanziusu, (met.), somma di denaro consistente. pichescinu piccolo soprabito. pieditruòzzulu calpestio, lieve rumore di piedi. pieju peggio. piènzuca forse, forse che. pieri piedi; v. juocû. pièrsicu pesco. pigliati (siti) ce l’avete, siete maldisposti.

pilatura pelame. pinnazzu figura di abilità del gioco delle «petrille». pìnnulu pillola. pinti dipinti, belli, perfetti. pipernino storto, anchilosato. pipita malattia della lingua (delle galline). pipitava (‘un) non apriva bocca. piripirillu gioco fonico sulla parola pirillu (piccolo pero); l’avìamu pigliatu ’u piripirillu!, l’avevamo patita bella!. pirucca sbornia. a pisava 1 pers.: pesavo; te pisava, impers., avevi compassione. piscicantuni ghiaccioli pendenti e gocciolanti. pisciularu grondaia. pisˇcu (ve) vi pesco, vi afferro. pistune schioppo; v. graffa. pitazzu poco. pitignu vitigno, ramo; fig., progenie, schiatta. pitterratu esterrefatto, stravolto, abbattuto, annientato. pìvula civetta. pizziàtila fatela a pezzi. pizzicatu punto, tormentato. pizzillaru venditore di pizzette. pizzu parte, luogo, punto; becco (dei volatili); pizzu a risu, leggero atteggiamento della bocca a sorriso. pizzutìa punzecchia. poca, avv. dunque, allora, subito. postulena sottocoda del cavallo, groppiera. potìa poteva. pracidanza calma, tranquillità. prèju gioia. prejzzarìa; prejzzarìe allegrezza; cose da rallegrare. priestu llà verso per scacciare il cane. pripuostu questione difficile e


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penosa. prisa (cani de) segugi (che inseguono e afferrano la preda). priuru primo in dignità. projaminne pòrgimene, dammene. prumentìa primaticcia. pruminta promette. prumintiella vezzeggiativo di prumentìa o prumintìa. puliciava (se) si contorceva, si agitava (come avesse le pulci). pulizza pulisce. pullitrìa scalpita lieto. pullulilla pollastrella. pùmmiti voce per indicare cosa che cade o avvenimento improvviso. pumpusìa splendore, abbondanza, ornamento. puntura pleurite, polmonite. purmisa; purmise promessa; promesse. pùrvera polvere. putiga bottega.

Q quadara caldaia. quadaruottu piccola caldaia. Quaraìsima Quaresima. quatra quadra, torna chiaro. quatra’ voc. (= quatrari) ragazzi. quazietti calze.

R ragare; ragu trascinare; trascino. raricune grossa radice, radice principale. rassella angolo, cantuccio. ratu omaggio, dono. recrìa (se) gode, se la gode; si ad ottobre nun juocû li pieri, a novembre non se recrìa la vucca, se ad ottobre

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non giocano, non lavorano i piedi, a novembre la bocca non gode; v. juocû. refrìsˇchite rinfrèscati, ristòrati. ric˜ c˜ hinelli vezz. di ric˜ c˜ hini, orecchini. riciettu riparo, rifugio. ricioppiellu grappoletto. ricriari; ricriatinne saziare, soddisfare; gòdine, sàziatene. riestû restano. rifrisˇcu sollievo, soddisfazione. rigagnu recipiente, pentola, utensile. riggiole castagne grosse e pregiate. rigumìa rimugina. rimprosperàu rifiorì, ritornò allo stato di prosperità. rinninelle rondinelle. rinnuniatu (àju) ho girovagato (come la rondine). rira; ririennu ride; ridendo. riscienzi convulsioni. rivuoti porcellini da ingrasso. rolla; rolle accolta, riunione; accolte, riunioni. rotacini stranezze. rotalupu capovolgimento, capitombolo. rrica (si nne) se ne frega. rucculave (te) ti lamentavi, piagnucolavi. ruglia ruggisce, si lamenta forte. rumpèra romperei. ruòsuli pezzi della carne di maiale tra magro e grasso. rusella caldarrosta. ruttu rotto; ruttu c’è cca, tutto è finito, quel che è fatto è fatto. ruzzu rozzo.

S saglia sale, monta alla testa. sagnave salassavi. salatu sost., lardo, lardello. sanghi plur. di sangu, sangue; e quan-


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nu mai sû stati conzati ’ssi sanghi, quando mai c’è stata pace, tranquillità. Sangiuvanni comparatico, parentela spirituale. sanguette mignatte. sanizza sana e forte. sapunìa insapona. sari sa, ha sapore (detto di cibo). sari (lu) lo sa. sarma soma. sattu esatto, preciso. saû sanno. sazizzune grossa salsiccia. sbacantata vuota, svuotata. sbalestra (se) si stende. sbambati infiammati, che hanno preso fuoco. sbamma svampa. sbariannu delirando. sbattû sbattono. sbentrugliata in disordine sberratu alienato, svanito. sbersata caduta riversa. sbètici bisbetici. sbiersu simpatia, trasporto. sbirru met., delinquente, birbante (anche in senso buono). sbolicata sost., spulciata. sbota muta, inverte, sovverte. sbracava lett., usciva dalle brache; met., fuorusciva. sbrinca snella. sbriscerate; sbriscerati sviscerate, sincere; sviscerati, sinceri. sbrittava saltava fuori. sˇcacatu sbagliato, fallito il colpo (voce del gioco delle «petrille»). scalune gradino. sˇcamacci schiacci. sˇcamannu; sˇcamava guaendo, urlando; guaiva, urlava (dell’animale); met., gridando; gridava. sˇcangierri uomini da nulla. sˇcanta; sˇcantata balza; balzata dalla paura.

sˇcantatizzate prese da sùbita paura. sˇcantatizzu pieno di paura. sˇcanti moti, salti prodotti dallo spavento. sˇcarda scheggia, squama; jìa truvannu ’a scarda, andava caercando il pretesto, il pelo nell’uovo. scardi intessi, inventi; scardi frasi e frosi, cerchi, componi espressioni ricercate, arzigogolate. scasa; scasata mette sossopra, smuove le cose dal loro posto; rimossa dal suo posto. schipeci (a) a rotoli, in modo irrazionale, a casaccio. sˇchinu schiena. scifi truogoli. scilla; scille ala; ali. scìnnere; scinnu scendere; scendo. sciolla distrugge, fa precipitare. sciuollu rovina, precipizio; intercalare esclamativo, rovina!, disgrazia! sconcata terminata, sfollata (si dice della fiera). scontricatu pieno di piaghe. sˇcorrazzu luogo della pastura del maiale, porcile. scotulatu raccolto (scotendo). scotulizzu scossa. scridèbbole miscredente. scugnu tolgo l’affilatura. scumbegliatu scoperchiato. scumbenata illogica, strana. scunc˜ hiuti; scunc˜ hiutu miseri, meschini; misero, meschino. scuoppu caduta grave, colpo, botta. scuòtula scuote ripetutamente, agita. sˇcupetta fucile. scurrìu è scorso; scurrìu lu lazzu: il laccio è scorso, met. quello che doveva succedere è successo.


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sˇcutu chiù, assiuolo. secutava inseguiva affannosamente. sere siede, si appoggia. serpentina (alla) da ogni parte (come le spire del serpente). sfierru perdo il controllo, esplodo. sgarru errore. sgogne anfratti. sgrizzare; sgrizzi cercare di liberarsi, cercare scuse; cerchi di liberarti, cerchi scuse. sguilli squilli, gridi (del maiale). siccagnu senza umore, secco per natura. siervû servono; siervû allu laciertu, iron., servono per bene. siettu sedile, scanno. signa scimmia. simburcu sepolcro (addobbo pasquale dell’altare). sinapu ira, rabbia. singa linea. smunnulatu di ottime forme. soru esort., quieto, fermati. spac˜ c˜ hiu (me) mi rinfresco lo stomaco. spachïamu stiamo a digiuno. spagnare (se); spagnère (te) aver paura; avresti paura. spallate piante dalle quali si è staccato qualche grosso ramo. spallazza difensore (con valore dispregiativo). spàrtare dividere, distribuire. spasa sparsa. spaturnata sventurata, misera (orig. senza padrone). spècura cuoio, suola; met., faccia tosta. speranzuni fannulloni. spertìa intelligenza. spicune angolo, spigolo. spicunìa batte ripetutamente. spicuniamenti il battersi forte il petto.

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spierti; spiertu intelligenti; intelligente. spilazzi filacciche (per la medicatura delle ferite). spirdate spiritate, possedute dagli spiriti. sˇpise (le) la spesa, il necessario. spitali ospedali. spiti spiedi; mienzi spiti: più magri di uno spiedo. spitigna; spitignare toglie; togliere i polloni superflui. spizza intacca di lato (le castagne da arrostire). sprejìu; sprèja; sprèjere; sprejuta scomparve; scompare; scomparire, consumare; scomparsa. spùnere poggiare, deporre. spuntune canto, cantone. spurìa terreno pietroso e non fertile. sputazza saliva. squìcciuli; squìcciulu gocce; goccia; fare squicciuli, fare moìne. squitatinne togliti il pensiero, quietati la mente. squitatu spensierato, senza preoccupazioni. stacce grosse pietre piatte. stanchèra (te) ti stancheresti. staû stanno. stennicchia stende a terra. stentina intestini. sterra (se); sterratu si estirpa, si distrugge; estirpato, distrutto. stigli mobili in genere. stolachìa imperat., gioca di fantasia. storciû distorcono. stortiati divenuti storti. stozza pezzi. strafucatu soffocato, strozzato. stranìa luogo fuori del commercio umano, della società comune. straniata smarrita, fuori del proprio luogo. strèuza brutta


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sˇtrica; sˇtricatu sfrega; sfregato; manzu sˇtricatu, manzo fregato, brutto manzo. striglièra striglierei, liscerei. strumbulu trottola. strutti consumati, immiseriti. stuffati annoiati. stujàvano asciugavano. sturciare; sturci (te) storpiare; ti storpi, ti rovini. stutarû (se) si spensero, s’inaridirono. subbernatu sostentato, alimentato giornalmente. suchillu succo. sugliuzziava singhiozzava. sularinu selezionato, non di mandria. sullazza sigaretta (che dà piacere). suorma mia sorella. succhi, aspiri, surc˜ hi; surc˜ hiati porti via; succhiati, esangui. surcu solco. surfa zolfo. suriente sorgente. suscipia gerg., serie di botte. suzu gelatina di maiale.

T tac˜ c˜ hi de ficu rami dell’albero di fico (che fanno fumo e non fuoco). tacc˜ hiu peraluru pollone nato ai piedi del castagno. taccuni tacchi della scarpa. tagliu (a) a misura esatta, a perfezione. talientu talento, intelligenza. taluornu fastidio, pena, molestia. tannu allora. tassu veleno teni (lu) lo cogli, lo colpisci. testùina testuggine. tièrmine limite di proprietà. tijillu pezzo di legno, travicello.

tiniellu piccolo tino per conservare la carne o altro in salamoia. tinta; tintu disgraziata; disgraziato. tira (nun cce) non ne è attratto, non ne sente piacere. tisu tisu dritto dritto, senza un movimento. tizzune tizzone. togu speciale, magnifico. torcinïare; torcinïava (te) torcere; ti torcevi. tortigliune castagne infornate morbide infilate a mo’ di collana. trasi; trasìu; trasu entri; entrò; entro. trattu azione, modo di agire. travagliû travagliano. tria tre. trivuliare lamentarsi piangendo. troppa pianta. truonu tuono. tummarinu tamburello; met., sedere. tùmmini tomoli (misura locale di capacità). tupinari talpe. turdulice tordo cesena. turnise tornese, moneta minima.

U ’ud (’u con d eufonica) non. ugna unghia. uocchiu malocchio.

V vacabunna fannullona. vagliu cortiletto. valû valgono. ’vanti davanti. varchiglie ciambelle a forma di barchetta.


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varra sbarra, stanga. vasciu agg. sost.: locale a pianterreno. vate vai, va’. vattituri tibie. ventirùpulu ventriloquo. ventulïata soffio continuo di vento, ventata. verminarula che produce vermi. verpili scudisci. vi’ vedi; ’un lu vi’, non lo vedi?, certamente, è così. via (lu) lo veda. via (ve) ott., possiate essere. vidèra vedrei; vedessi. vignanu ballatoio, pianerottolo della scala esterna. vinnigna vendemmia. vinnu vendo. viola zappa. visazza bisaccia; met., donna pingue. vizza veccia, loglio. vò vuole. vo’ possa tu. voca espressione (della voce). vota porcile. votàu volse. vozza gozzo, gola. vrascia brace. vrazzulli braccetti.

vriglia briglia. vrogna grugno del maiale. vruca bruco. vue vuoi. vulluti bolliti; met., conciati male. vuolû vogliono. vuommicare vomitare. vurpignu accorto, astuto come la volpe. vutta botte.

Z a

zampa 3 pers., calpesta. zappati zappate; cce zappati muollu ccu mie, vi riesce facile tormentarmi, ne provate piacere. zìcaru sigaro. zicchiettu nuca. zìllichi solletichi. zinzulinu straccetto. zinzulusa stracciona, una delle antonomasie della sfortuna. zirrichïava digrignava. zita fidanzata. zòccula topo di fogna. zumpatu saltato.


indiCE

avvErTEnza ................................................................................................................................................................ Pag. 5 inTroduzionE

pErCHE’ Ciardullo........................................................

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parTE priMa

i Giorni E lE opErE ...................................................

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CapiTolo i

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CapiTolo vii

il dolce paese ........................................................................................... il tempo felice ........................................................................................ a Cosenza .................................................................................................... la stampa cosentina nel ventennio fascista ................ l’ «ohè!» (1924-25) ............................................................................. dal 1925 alla guerra ......................................................................... in democrazia ........................................................................................

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parTE SEConda

la poESia

CapiTolo i

Tra lingua e dialetto ...................................................................... linea della parola poetica calabrese dalle origini a Ciardullo ...................................................................... il poeta al suo libro .......................................................................... Tre sigle .......................................................................................................... i poemetti lirici ................................................................................... le «storie»...................................................................................................... la satira politica .................................................................................. le epistole ................................................................................................ la poesia patriottica e civile .............................................. Mondo paese .......................................................................................... il cantore di Cosenza ................................................................... Ciardullo e la poesia popolare ..........................................

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CapiTolo ii

CapiTolo iii CapiTolo iv CapiTolo v CapiTolo vi CapiTolo vii CapiTolo viii CapiTolo iX CapiTolo X CapiTolo Xi CapiTolo Xii

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parTE TErza

il TEaTro .............................................................................................

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profilo del teatro dialettale calabrese dalle origini a Ciardullo ........................................................ » 180 i drammi dell’emigrazione: Mara Grazia, Vampate, Core patrune sempre .......................................... » 197 le pene segrete: ’U suonnu de chist’uocchi, Vie de ’nfiernu, Tu scendi dalle stelle ........................... » 227 le opere comiche: Quarantottu ’u mortu chi parra, Fratellanza nofriana, Spiritismo ............................................... » 241 Guizzi e stanchezza dell’invenzione: ’A scala ............ » 255 l’eredità di Ciardullo nel teatro..................................... » 281

ConCluSionE

l’uoMo E lo SCriTTorE ........................................

CapiTolo ii

CapiTolo iii

CapiTolo iv

CapiTolo v

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Edizioni dEllE opErE di Ciardullo ....................................................................................... » 295 BiBlioGraFia .............................................................................................................................................................. » 297 GloSSario ....................................................................................................................................................................... » 303


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