2006 selvatico 3 pensiero stupendo

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pensiero stupendo


comuni di cotignola e fusignano assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con associazione culturale primola la presente pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di selvatico rassegna di campagna sezione disegno in occasione della mostra pensiero stupendo 16 dicembre 2006 – 7 gennaio 2007 a cura di massimiliano fabbri e paolo trioschi, con la collaborazione di gianluca costantini progetto grafico e impaginazione: marilena benini finito di stampare nel dicembre 2006 da grafiche morandi fusignano


* fusignano ra Il granaio david vecchiato cotignola ra palazzo sforza inguine |||||o blu allegra corbo gianluca costantini pablo echaurren ericailcane angelo mennillo paper resistance emiliano properzi ubq.it / ilaria ciardi sabrina foschini andrea ghetti nero massimo modula cinzia ortali massimo ottoni giulia ricci

sala archeologica (palazzo sforza 1째 piano) lucia nanni casa magnani mara cerri scuola arti e mestieri heriz

pensiero stupendo

* palazzo sforza cantiere delle arti

museo varoli (palazzo sforza 1째 piano) claudio ballestracci davide reviati




Il disegno come arma Pensiero stupendo è il terzo appuntamento del progetto Selvatico. Si tratta di una mostra non ortodossa, in una certa misura caotica e frammentata, quasi si fosse generata per intuizioni e accumuli; un percorso che avanza per strappi e stratificazioni, anche se figlio di un progetto disciplinato, che parte e lo riconduce al nucleo di interesse originario rappresentato dal disegno e dal disegnare. Una mostra sul disegno quindi, con disegni e non solo, poiché il disegno non è solamente una disciplina o tecnica, che si ramifica poi in “generi”, ma è anche una spinta sotterranea, un’attitudine nei confronti delle cose, un luogo, al tempo stesso fisico e mentale, che attraversa e sostiene molti approcci al fare, si mescola a linguaggi, materiali e lavori differenti ed eterogenei. Un paesaggio, o meglio ancora, una geografia. È per questo che lo spettro di questa proposta abbraccia e tiene immagini, operazioni e pensieri anche molto distanti tra loro. Il disegno è quasi una sorta di codice genetico, un marchio o impronta, un’urgenza, una necessità anarchica che si sviluppa, si perde e ritrova per poi riaffiorare sotto spoglie e sembianze multiple, in parte impreviste e imprevedibili. Qualcosa di imprescindibile e multiforme, che non è sempre possibile definire e incasellare. Imbrigliabile e sfuggente alle categorie; resistente. Il disegno come una specie di virus, vibrante, che si adatta, abita e convive, presente anche in situazioni che all’apparenza dovrebbero essergli ostili. Che scuote; tremante. Qui la sua funzione è di scavo o corrosione, soprattutto nei confronti di altri linguaggi. Dello sgretolare, o del riportare a galla e svelare; del mettere a nudo i meccanismi e le nervature che fasciano, reggono e fanno le cose e gli affetti. Strutture e tensioni. Scosse. Assestamenti. Il disegno che serve a smontare, che mina, scopre, sfalda, rivela e costruisce. Di

intreccio e tessitura che preparano al nuovo; una trama, a volte paziente. Germogli. Crescita. Del disegnare che è fondativo, nucleo, cuore e germe a cui spesso si torna e da cui si riparte, che porta, trascina indietro e in parte azzera. Si disegna per vedere meglio: il disegno ha sguardo frugante, scrutante e cercante; del disegno come modalità di ascolto. Un sismografo. Strumento e registro emotivo per sentire il mondo e agirlo, come dialogo instancabile e incessante; del portare e buttare fuori, ma anche del mettere dentro e incamerare. Del trovare e raccogliere; del contenere e trattenere. Dove la distruzione è contemplata. Si imparenta con la scrittura perché entrambi servono ad afferrare, comprendere ed elaborare: fanno chiarezza. Mangiare con gli occhi, quindi un metabolismo. Disegnare è un processo di riversamento e anche una magia, tra visione, registrazione, trasformazione e invenzione. Una lente, uno specchio deformante? Il disegno non è reale; è sempre vero. Disegno che mantiene qualcosa di “naturale” e primordiale che ci cattura e precipita, quasi un respiro che impariamo nuovamente; ci lega al passato e ci catapulta in avanti, familiare ed estraneo, semplice e complesso, primitivo; vegetale e minerale. Saper o poter disegnare è possedere il fuoco. E comunque una soglia, un passaggio; in ogni caso una via di fuga perché apre mondi. Una contraddizione lacerante e vitale restituisce al disegno un peso specifico impressionante, una fascinazione che si rinnova perennemente e che mai esaurisce la sua portata di stupore: il disegno è un corpo, uno scheletro, una solidità costruita con gesto lieve e gentile su mancanze e lacune, sul provvisorio e l’instabilità, che tiene in sé la materia e la leggerezza, la trasparenza e l’opacità, il liquido e la rigidità,


l’angolo e la curva. È spesso non finito, oppure finito maniacalmente. Infinito, perchè chiuso e aperto contemporaneamente. Toglie, fiorisce, nutre. Il disegno come tentativo “concreto” e per questo pensiero sporco, bastardo e stupendo: incarnato; visibile. Residuo, frutto di un compromesso. Uno spiraglio capace di mostrarci l’anima delle cose e la sua assenza (o essenza). Un disegno è un’architettura sospesa, un ponte, un pensiero rilanciato e tradotto in corsa che diventa tangibile: disegnare significa ricucire, colmare un vuoto, congiungere, far succedere qualcosa. Un qualcosa di sapiente, che è mistero antico, un tocco o un’azione che ha a che fare con la cura e l’equilibrio, e che collega l’occhio alla mano; la via più semplice e “povera” per generare immagini. È sempre felice: afferma, essendo frutto di una lotta per la sopravvivenza. Un combattimento, del disegnare come di battaglia. Forse uccide; immobilizza, poi frana. Una difesa e una strategia. Una ragnatela o rete che impiglia e salva qualcosa da un flusso indistinto (intrappolandola come una farfalla), la rallenta, fa affiorare e porta alla luce: il disegno aggiusta, custodisce e protegge; blocca e immediatamente apre al racconto. Simultaneo; tecnologico. Un racconto pericolosamente sul filo, meraviglioso e meravigliato. Forse chi usa, o ha usato il disegno in maniera stringente, non può disfarsene o ignorarlo così, a cuor leggero: lo può abbandonare temporaneamente o metterlo in disparte, sotto, dietro; sa che c’è. Può probabilmente temerlo perché non è mai una scorciatoia: inchioda, prima di tutto, chi lo fa. Il disegno è cattivo, ha a che fare con la conquista. Pensiero stupendo è una mostra in cui sarà forse possibile rintracciare una certa comune condizione di nudità e fragilità nelle opere degli autori: lavori che hanno a che fare con il frammento e il dettaglio, con il depositarsi, ottundere, velare e coprire della polvere; di scavo, resto e sedimento. Della perdita.

O del disegno come lampo, squarcio e trasparenza, che dialoga con il vuoto, testimone del trascorrere del tempo, oscillante tra velocità e lentezza, tra abbozzo larvale e precisione spietata. Di lucidità abbagliante; che denuncia. Accelerazioni. Un vortice che fa il mondo capovolto. Del disegno come carezza, che lambisce, scalda e porta via; che consuma. Sprofondante. Qualcosa che si misura con il grado zero, o come di ciò che resta dopo un rogo: una solitudine, un nocciolo o anima indistruttibile, un involucro lieve; pochi colori comunque, che siano come vere apparizioni ed esplosioni, perché non c’è spazio per l’imbellettamento (che è della pittura). O ancora, di e con andamento che rimanda per certi versi alla scrittura, perché l’immagine sembra quasi generarsi automaticamente e rivelarsi, concatenata, esponenziale, facile e felice, sorpresa e sorprendente. Scivola e scorre: liquida, si evolve. Ma anche della pulizia scintillante, esatta e diamantina, del pensiero geometrico, numerico e combinatorio, che incastra e mette ordine, con volontà di ridefinire spazi, pensieri e movimenti. Forse di razionalità forgiata, respingente, rigida e austera, che è poi del capogiro della mente, o piuttosto pronta ad aprirsi e schiudersi inaspettatamente al calore, alla memoria che ci riporta echi lontani, ricollegandoci per un istante a civiltà ed ere perdute, mai esistite. Labirinti. O dell’assurdo e improbabile, che nel disegno tutto è possibile, in metamorfosi e gioco. Infine dell’immagine sospesa e fluttuante, che si affaccia, sporge e ci chiama dall’abisso. Una bestemmia scagliata; una preghiera, una ferita in cui è possibile entrare. Il disegno è quindi un incrocio, un sistema complesso e articolato che tiene l’unto, la traccia sporca e quasi casuale, l’incisione, lo sfregio e il graffio, lo scarabocchio infantile, sentimentale e sgrammaticato o del disagio, il ghirigori analfabeta e soprapensiero dei disegnini al telefono, la narrazione magnifica, complessa e articolata del fumetto e anche


la “compiutezza” dell’illustrazione; e poi a scendere, la linea senza peso, flessibile, curva, morbida e sinuosa, di eleganza aerea e capace di adattarsi e seguire, o quella che divide, buca, taglia e si abbatte fragorosa, con rumore di schianto. E ancora l’appunto frettoloso e stenografato che deve catturare al volo e restituire, che condensa e comprime, lo schizzo a memoria e la sintesi bruciante che non lascia scampo; la copia dello studente, lo studio dal vero fatto di confronto faticoso e faticato, con e di segno incerto, quasi balbettante, combattuto, spezzato e ritornante, che si cancella e definisce senza sosta, perennemente in caccia: vorace, affamato e senza tregua. In frustrante alternanza, prima nitido e poi fuori fuoco, senza soluzione di continuità. Aggrovigliato; selva e matassa inestricabile. Del progetto tecnico o scientifico, che vuole e deve essere oggettivo, la segnaletica conforme ed economica, l’identikit. La “buona” mano stucchevole e frigida... Il disegno è una voragine. Un linguaggio forse punitivo, intimo e diaristico, che libera da incubi e libera incubi. Il disegno come atto d’amore e come arma. Con questa proposta proveremo a sondare, parzialmente ed in maniera certamente incompiuta, attraverso i lavori di un numero cospicuo di autori, questo universo e sistema di segni: in mostra una serie di stanze slegate tra loro, autarchiche e autonome, collegate e attraversate dalla tensione e necessità del disegno, disegno come imprescindibile mezzo di indagine, espressione, riflessione e conoscenza. Una

mappa. La scommessa è di disegnare un palinsesto contraddittorio, esploso e non finito, in grado però di “chiudersi” in una forma unica e discorso organico sulla “attualità” e resistenza di questo linguaggio. Infine, una caratteristica non secondaria, ma estremamente rilevante del progetto, è l’intrusione, ad opera di alcuni artisti in mostra, in spazi già densi di cose, immagini e storie (la casa, il museo, la scuola); alcuni di questi contenitori, vitali e pulsanti, altri più in ombra, addormentati, in parte dimenticati o semplicemente poco visibili. In ogni caso, al di là delle singole e specifiche dinamiche degli interventi, il lavoro dell’artista serve a portare nuovo sangue e linfa a questi luoghi, a suggerire altri possibili sguardi, modi di vedere e abitarli (del disegno che è progetto e cellula). Una serie di occupazioni illegittime, dove le cose si possono, apparentemente, confondere e mescolare con intenti mimetici, oppure a segnare, con la loro presenza, una rottura, con la convinzione che il conflitto (nelle cose d’arte) spesso generi energie e apra a territori prima sconosciuti. Scrigni. Storie e percorsi che stridono, convivono forzatamente e che si sovrappongono, intrecciano, combaciano, abbracciano e amplificano, specchiandosi reciprocamente. Per un tempo breve, paralleli. Scintille, brace che cova. Aria nuova forse, di certo spostamenti, relazioni e collegamenti. Perché il disegno è un’azione, prima di tutto, politica. Massimiliano Fabbri


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Sul fronte del rischio della traccia Lasciare il segno è un gesto che ci attrae in modo irresistibile, fin da bambini. È la magica pozione che ci permette di dimostrare la nostra esistenza, il nostro passaggio e di librarci per un istante nella fugace sensazione di essere per sempre. È anche una tecnica per delimitare il proprio territorio: un dire senza parole che sapete questo è il mio stile, il mio modo di tracciare steccati. Ognuno di noi ha il suo, ce lo insegna dapprima la grafologia. Chi passa dal temporaneo lasciar tracce, ad una più matura volontà di disegnare, sancisce in un qualche modo la propria appartenenza continua all’età dell’infanzia e al suo delimitare steccati e contorni. Non è un caso che un pittore come Caravaggio, più aderente ad una visione adolescente e giovanile, irruenta e apparentemente contro le regole del buon creato, sembra non essere mai transitato attraverso il disegno1. Con questo non voglio sostenere che il disegno sia un fatto da bambini, ma semplicemente che esso aderisce in modo più naturale alla primaria necessità di tracciare, viene spesso prima della macchia, che anzi spesso confonde e impaurisce. Il disegno stabilendo un limite e uno steccato tranquillizza e pone certezze. Il suo essere strumento dalla ineludibile valenza didascalica e preparatoria è chiaro in particolare nella sua forma progettuale, applicativa. Attraverso il disegno, specializzato e di interpretazione dedicata agli addetti del settore, l’uomo costruisce macchine, oggetti, edifici, e visualizza istruzioni. È quindi una modalità di espressione consolatoria, rassicurante? Ovunque si celi il tentativo di perennità è in agguato per noi il terribile mostro dell’inquietudine, ma questo mostro appare e scompare non dico a cicli regolari, ma quasi, sul palcoscenico del fare artistico. Non è un caso che esso faccia capolino con particolare veemenza nel lavoro di autori che prima di definirsi artisti, inciampano tra i denti e si propongono come disegnatori, o ancor peggio fumettisti. È proprio dall’arte sequenziale che Reviati, Costantini, Vecchiato, ma anche giovanissimi come

Mennillo, prendono il vizio di tracciare i propri contorni. Questo medium, parente stretto, ma muto e statico, della cinematografia, inserisce la narratività come elemento caratterizzante del proprio dispiegarsi. Vuole la storia, il racconto, non si accontenta dell’iconico dirsi. Sono quello che gli inglesi chiamano story – teller, sono i fulestar del disegno. Questa necessità insita nella nona arte si ripercuote sulla linea e sul suo farsi. Anche quando realizzano ritratti (è il caso ad esempio di Vecchiato e delle sue sintesi biografiche di icone musicali) in esse sentono il bisogno di concentrare elementi che ne raccontino la storia, che ne esplicitino gli aspetti temporali. Non sono diversi i disegni al telefono di Reviati: le sue linee crudelmente tonde, attorcigliate, senza centro di riferimento, tracciate con la non chalance che permette però la misura del tempo, ci mettono a confronto con la spietatezza di una cronologia che ci costringe ad operare senza coscienza e consapevolezza, ne mette in luce appunto i limiti storici, narrativi. Costantini non può invece emanciparsi dalla parola: in questo parente di Pettibon o della visionarietà di Kentridge, non riesce a rinunciare alla calligrafica e decorativa presenza delle lettere. Che non sono ricamo del foglio, ma parte della linea del disegno e contorno di senso o dissenso dal personaggio, dalla foto rappresentata. La regressione ad uno stile che ricorda i primi libri illustrati del seicento/settecento contenenti mirabilia di Ericaeilcane assumono un tono inquieto e perturbante. Sono la riprova che lo stile rappresenta la denuncia di una identità, ma che esso senza il suo contenuto, senza la semantica, rimane puro altare e idolo. Nella progettazione tematica collettiva di inguine peraltro si configura come primaria questa volontà di dire le storie, di non essere conniventi del silenzio estatico e succube di molte arti. È vero che oggi appare a volte quasi trendy nel supermarket dell’arte l’approccio alla tematica etica. Ma essa avviene in questo caso attraverso il disegno, che proprio grazie al suo essere antiquato e preistorico, porta un po’ di olezzo da dinosauro materico in questo mondo fatto di minimalismi


grafici e oggetti apparentemente dadaisti (in realtà spesso a me sembrano più vicini ai gadget di macdonald che ai Dada). Nella scelta della modalità espressiva si gioca un sottotesto che non ha valenze antitecnologiche o luddiste: d’altro canto autori come Costantini si cimentano con il Web design e l’arte digitale, oltreché con la carta. Eppure l’elemento che accomuna artisti per molti versi così diversi e dissonanti è proprio nella resistenza nella materia, nella temporalità del gesto e nel racconto. La scelta della militanza visiva passa anche attraverso una selezione del mezzo, che non è il fine, ma può deporre a suo favore. D’altro canto la scelta di spazi comuni in cui operare, come una rivista, denuncia una volontà di non sottrarsi all’intelligenza collettiva, per dirla con Pierre Lévy, un tentativo di evitare l’anagrafe individuale che ti incatena al territorio di appartenenza, alla tua discendenza

e al tuo blasone. Denuncia la volontà di essere letti insieme, guardati come una nuova identità: un uomo – diceva Borges – si propone il compito di disegnare il mondo. Per anni e anni popola lo spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di insenature, di navi, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli, e di persone. E poco prima di morire scopre che questo paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.2 Se questa immagine dello scrittore argentino visualizza in modo icastico la presenza dell’autore nella propria opera, mi chiedo quale ritratto potremmo avere dal paesaggio finale degli artisti di inguinemah!gazine. Probabilmente un autoritratto di gruppo. Elettra Stamboulis

1 - Questo aspetto in seguito alle ricerche diagnostiche è stato però notevolmente limitato dalla critica: vedi in generale Cardinali, M., De Ruggieri, M.B., Falcucci, C., Diagnostica Artistica. Tracce materiali per la storia dell’arte e per la conservazione, Roma, 2002. Questa convinzione deriva da quanto riportato da Van Mander, C., Het Leven der Moderne oft deestijtsche doorluchtige Italianensche Schiders, in Het Schilder-boeck, Harlem, 1604 a p. 124 che citava direttamente i principi del pittore. 2 - Questa citazione, che ho imparato quasi a memoria, non sono più in grado di ricostruire da quale testo di Borges è stata tratta. Mi scuso con chi legge, ma d’altro canto è un po’ la sorte degli autori come Borges, che sono talmente condensati e sintetici da entrare nel nostro normale fluire del pensiero.


Per amore o per ridere “Rende selvatici la scrittura. Si torna a una selvatichezza di prima della vita. E la si riconosce subito, è quella delle foreste, quella antica come il tempo. Quella della paura di tutto, distinta e inseparabile dalla vita. Ci si accanisce. Non si può scrivere senza l’energia del corpo. Bisogna essere più forti di se stessi per affrontare la scrittura, bisogna essere più forti di ciò che si scrive...Lo scritto è il grado degli animali della notte, quello di tutti, quello di voi e di me, quello dei cani. È la volgarità greve, disperante, della società...” 1 Aste verticali: questo era il primo esercizio che da bambini ci chiedevano di fare. Tutti le abbiamo segnate, solcate, tracciate, odiate, seminate poi in altri luoghi, senza nemmeno rendercene conto. Si parte sempre da un segno minimo (il segno della mano inesperta), può essere un punto, un’asta, o un circolo. Il segno non è programmato. C’è una buona dose di irrazionalità nell’atto di tracciarlo. Alcuni dominano volutamente la precarietà della mano, altri aderiscono alla rigidità delle linee stampate sui fogli, altri ancora si lasciano scrivere abbandonandosi alle imprecisioni del caso, il margine di instabilità però, difficilmente scompare. Disegnare è, sin da subito, una scrittura del corpo, la capacità di coniugare il pensiero con il movimento della mano, con i tic del braccio, le impensabili incongruenze dettate dal momento. Il cervello detta un tracciato e delle linee che la mano spesso segue solo in parte. E non si tratta di inesattezza o incapacità a concretizzare un’imput e un’idea. Spesso il disegno è seguito dalle parole, dalla scrittura verbale, e le parole accostate ai di-segni, possono essere più o meno neutre, incisive, violente, ironiche, crude, poetiche. Alcuni tra gli artisti che partecipano a “Pensiero Stupendo” scrivono parole sulle loro immagini: Massimo Modula (disegnatore e poeta) ed Heriz, disegnatore instancabile di album illustrati con la pittura oltre che con il disegno. Sono parole poetiche e leggere (Modula) alle volte appena visibili o impastate di colore, corrose all’interno dell’insieme compo-

sitivo, oppure disposte a lato, come didascalie non troppo invasive, pensieri indispensabili ma fuggiti alla mano e subito riagguantati come in seguito ad un pentimento (Heriz). Le parole si mostrano a volte così in simbiosi con le immagini, ne sono la continuazione, a volte sono esse stesse segno con una valenza ben definite, non nomadi nel contesto semiologico, di volta in volta tracciato, ma come i segni, non autonome, in cerca di conferma visiva. Il senso quando non è rafforzato da parole, si manifesta attraverso i significanti disegnati, ma spesso la manifestazione è incognita. In realtà questi disegnatori celano, nascondono il senso. Non vogliono rivelare troppo. Trattengono incubi, sogni e geometrie improbabili con l’intento di non rivelarli se non a chi vi si avvicina attentamente, spinto da urgenza analoga alla loro, al loro fuoco, alla loro necessità di tessere, (C.Ortali), di unire frammenti (Nero), depositare segni effimeri come polveri (G.Ricci), riprodurre quel che hanno visto dentro i soggetti osservati (Nanni) e fuori (L.Nanni, A.Ghetti), trascrivere e illustrare quel che hanno sognato e immaginato (M.Cerri, S. Foschini, A.Ghetti, I.Ciardi, Nero). Tra questi artisti alcuni di loro, spinti dalla necessità di entrare dentro le loro opere, e dunque nella terza dimensione, partendo dal disegno, realizzano sculture e installazioni (M.Cerri, Nero, C.Ballestracci). Con modalità molto diverse tra loro, questi artisti ricreano ambientazioni immaginate, entrano dentro il loro quadro bucando la superficie, collocano le figure disegnate nello spazio reale; dalla seconda dimensione, misteriosa, giungono a realizzare atmosfere da set cinematografico, che spesso hanno i connotati di films dell’orrore (Nero). Ballestracci, alchimista, assembra oggetti dediti alla cura (tortura) degli esseri umani come organismi-tracce proliferate in seguito ad epidemie. Innesta assembramenti omeopatici in environment sur-reali. Come uno scienziato dell’ottocento crea fulmini in cattività racchiusi in barattoli di vetro. Altri (L.Nanni, Nero, I.Ciardi) traspongono sui loro disegni mostri fantasiosi derivati da incubi quotidiani, dove il mostro a volte è comico, di una comicità amara e salata (L.Nanni, Nero).


Questi artisti producono molto, lavorano tanto, sono instancabili, e, come uno dei protagonisti del film “Provaci ancora, Sam” affermano: “...io sono uno che le cose le fa.” Il risultato è conseguenza del sudore, della fatica inarrestabile dettata dalla necessità di trascrivere quel che hanno visto con gli occhi, immaginato con la mente. C’è uno struggimento romantico alla base di questo fare, un dolore e una sofferenza che possono essere placati soltanto attraverso un’azione frenetica. Per Nero questa frenesia si traduce anche in un uso insolito dei materiali. Come uno scenografo, raccoglie materiali di recupero e oggetti abbandonati e li assembla attribuendo loro nuovo senso. I suoi environment si manifestano come stratificazioni di materiali e segni, valigie dense di pelli e parole trattenute con la cura di un demiurgo. Ma disegnare richiede amore, e anche quando si disegna di incubi, mostri, violenze e omicidi (M.Cerri, Nero, L.Nanni, e in questa mostra ci sono molti disegni su questi temi) c’è un’energia endogena che spinge la mano e che non parte solo dalla mente. La mano va dove la conduce il battito. E il battito non è controllabile. Amare qualcuno o qualcosa significa essere attratti da quel soggetto - oggetto dei tuoi desideri, (forse con delle motivazioni che non riesci a spiegare). Ogni giorno, componi dentro di te un disegno con tratto lieve, deciso, graffiante. Alcuni segni escono dal foglio... fuggono alla mano, come sbavature improvvise che non vanno cancellate. Ogni segno è parte di quel che si va componendo. Così nei disegni anche gli errori, le incomprensioni “semantiche”, sono parte di un tracciato che cresce spontaneo, come in un giardino all’inglese.* Per alcuni il disegno è un modo per entrare dentro gli spazi umanizzandoli (G.Ricci), decorarli, ricamarli con delicatezza (C.Ortali, S.Foschini, G.Ricci), renderli morbidi, attribuirgli un sapore e un odore (G.Ricci). Giulia Ricci sembra voler sfidare i fruitori a lanciarsi in performances frugali toccando le superfici ricamate con le sue decorazioni/installazioni realizzate con polveri commestibili su mobili di legno. G.Ricci riporta il disegno ad una stesura minimale. Il segno diviene polvere contenuta in piccoli anfratti e la polvere è soggetta ai movimenti dei fruitori che potrebbero decidere di interve-

nire cancellandoli con un semplice movimento del corpo. La polvere segue gli andamenti delle superfici, in alcuni casi sembra cadere spontaneamente, la natura delle sostanze si adegua alla forma degli oggetti. A proposito di polveri, M.Ottoni fotografa gli andamenti di sabbie accarezzate, pettinate, disegnate con cura. Le immagini sono masse indistinte che sembrano fondersi all’energia emanata dai flussi e dagli andamenti creati con movimenti zen. C’è una differenza sostanziale tra le modalità progettuali di C.Ortali che alterna il disegno al ricamo con ago e filo, I.Ciardi che realizza incisioni e disegni con personaggi surreali e lunari, M.Cerri che disegna e da vita a sculture incisive quanto delicate, S.Foschini che crea estesi pattern di segni dove il segno sembra reiterarsi pur nella molteplicità delle icone inventate, e il modo di procedere di A.Ghetti, che addirittura stropiccia i fogli su cui disegna a carboncino i visi da cui è attratto giornalmente. Si passa dall’ordine razionale e progettuale delle autrici sopracitate ad una modalità più espressionista ed emotivamente enfatica. Ghetti si sofferma sui visi contemporanei della diversità multietnica. Sono i visi della discordia e della incomunicabilità, i visi che A.Ghetti vorrebbe vedere interagire forse verbalmente, di sicuro con lo sguardo, la mimica. Così insiste, fino a renderli invasivi, grandi, estesi dentro il nostro spazio, fastidiosi come si percepiscono spesso tra loro. Il disegno così, da preciso e delicato, (G.Ricci, C.Ortali, I.Ciardi, S.Foschini), diventa come un pugno che colpisce allo stomaco, un cibo indigesto, o ancora, uno scarafaggio indesiderato (A. Ghetti, L.Nanni).Il disegno può essere anche una terapia che ci aiuta a fletterci verso il mondo per comprenderlo e accettarlo, e ad osservarlo attraverso l’analisi e la sintesi. È quella cura che ci consente di vedere con altri occhi le cose, di dar loro una forma, di “determinarle nell’animo”, è la via per dar forma a sogni fatti ad occhi aperti (M.Cerri), intravisti nella nostra quotidianità, impossibili da cancellare. Con questa modalità M. Cerri disegna micro eventi quotidiani, già avvenuti, dove i bambini hanno le braccia legate o i volti esterrefatti. Ci pone davanti alla conseguenza dell’evento, ci chiede di intuire cosa è successo,


il perchè dell’arto staccato, dei piedi scomparsi, degli occhi sgranati ed increduli. Nei disegni, onirici, l’ironia diviene devastante, tanto da cedere il passo ad un vuoto di senso che M.Cerri rappresenta nei disegni e nelle impalpabili sculture con vuoti fisici, vuoti allo stomaco e alla schiena delle sue figure, vuoti in cui scavare e penetrare per non cadere nell’anestesia dello sguardo. I mostri di L.Nanni sono invece dissacranti. Dalla pesantezza di una quotidianità dove tutto si mostra apparentemente casuale, la disegnatrice (filosofa) analizza i suoi soggetti decontestualizzandoli, con una gestualità inarrestabile, fino a trovare nei segni nascosti altre cause e conseguenze pri-

1 - Marguerite Duras Scrivere, 1993, Feltrinelli, 1994, p.18. 2 - F.Pessoa “Il poeta è un fingitore”, Milano, Feltrinelli, 1993 3 - Marguerite Duras Scrivere, 1993, Feltrinelli, 1994, p.44.

ma impreviste. Forse in sintonia con Fernando Pessoa che scrive: “Tutta la vita è una simbologia confusa” 2, L.Nanni si sofferma sui numeri per decifrarli. In ogni volto ce n’è uno, e così in ogni evento. Nelle manifestazioni del reale sono insite le domande e senza quei quesiti non vi sarebbe disegno, non vi sarebbe scrittura. Come osserva M.Duras: “Scrivere è tentar di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse. Lo sappiamo solo dopo. Prima, è la domanda più pericolosa che ci possiamo rivolgere. Ma è anche la più ricorrente.” 3 Loretta Zaganelli


fusignano il granaio


david vecchiato




cotignola palazzo sforza


inguine Fumetti e illustrazioni tratte da inguineMAH!gazine n.7 numero tematico sul “carcere�.


pablo echaurren


gianluca costantini




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blu




allegra corbo




ericailcane




angelo mennillo testi di elettra stamboulis




paper resistance




emiliano properzi




ubq.it /




palazzo sforza



ilaria ciardi




sabrina foschini




andrea ghetti




nero




massimo modula




cinzia ortali




palazzo sforza


massimo ottoni




giulia ricci




museo varoli (palazzo sforza 1째 piano)


claudio ballestracci




davide reviati




sala archeologica (palazzo sforza 1째 piano)


lucia nanni, suoni di fabio lelli




scuola arti e mestieri


heriz




casa magnani


mara cerri




ringraziamenti: grazie a stefano foschini antichità e restauro di barbiano di cotignola ra (tel 335.5730844) per aver gentilmente messo a disposizione i mobili utilizzati da giulia ricci. grazie a martini legnami di bagnacavallo ra per aver fornito la casetta di legno per esterni che ha accolto l’installazione di nero. un ringraziamento speciale a daniele casadio, lucia baldini, marzia bianchi, massimo pulini, federico settembrini, pamela casadio, mario baldini, mario mazzotti, fabio pignatta, simone pelliconi, stefano tedioli e a tutti quelli che hanno contribuito con il loro lavoro alla realizzazione di questo evento. un grazie sentito e doveroso ai sindaci dei comuni di cotignola e fusignano, ai rispettivi assessori e alle segreterie degli uffici cultura che hanno sostenuto e creduto in questo progetto.



* palazzo sforza cantiere delle arti

comuni di cotignola e fusignano assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con associazione culturale primola

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