ConTatto Aprile-Maggio — Numero 4, Anno 1

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Anno I

Aprile/Maggio 2022

Numero 4

ConTatto Periodico bimestrale

FAMILIARI, OPERATORI ED EX–PAZIENTI INSIEME PER USCIRE DAI DISTURBI ALIMENTARI


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Sommario Il tuo cuore lo porto con me ............................................................................................ 3

Josie .................................................................................................................................... 6

I nostri eventi ................................................................................................................... 9 ............................. 11 M’illumino di Lilla .......................................................................................................... 14

La tutela assistenziale e sociale nei disturbi della condotta alimentare. Intervista alla Dott.ssa Lisa Perugino ....................................................................... 15

Era solo una battuta ........................................................................................................ 19

L’importanza di chiedere aiuto...................................................................................... 22

Il peso delle parole ........................................................................................................ 24

Magazine bimestrale dell’Associazione

La Vita Oltre Lo Specchio

Direzione esecutiva: Annalisa Panicucci Federica Ciuccoli

Registrazione al Tribunale di Pisa Nº 08/15 del 08/09/15

Grafica e impaginazione: Mariella Rinaldi

In redazione: Ilaria de Gioia, Francesca Gagliardi, Giulia Mattei, Elisa Muzzillo, Mariella Rinaldi, Serena Rosini, Sofia Vittoria Veracini

Progetto “Fragilità allo Specchio” cofinanziato da: Fondazione Pisa

Società della Salute

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“L’aspetto delle cose varia secondo le emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi.„ [ Khalil Gibran ]

Il tuo cuore lo porto con me

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Amore è quello scatto che fa muovere l’ingranaggio del più alto concetto di Amore stesso che è la Vita. È magia; è verità; è realtà, ma soprattutto è poesia! Ecco, a proposito di poesia, se dovessi dedicarne una d’Amore, non avrei dubbi: sceglierei questa! IL TUO CUORE LO PORTO CON ME (Edward Estlin Cummings)

Questo grande poeta, scrittore, saggista, pittore, illustratore e drammaturgo statunitense, noto come e. e. cummings (amava firmarsi in minuscolo), nato il 14 ottobre del 1894 e scomparso il 3 settembre del 1962, è famoso per il suo personalissimo modo di dare importanza al significato delle parole, utilizzando un uso particolare, inaspettato ed innovativo della sintassi e della punteggiatura,

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così da interrompere non solo la frase ma anche il singolo termine. Proprio per la loro grafica, le sue poesie sono comprensibili sulla pagina e più difficili per la lettura ad alta voce. Ma noi proviamoci ugualmente! Proviamo a chiudere gli occhi e a sussurrare insieme queste parole: «Il tuo cuore lo porto con me, lo porto nel mio». Cosa sprigionano in voi? A me donano una sensazione di benessere, quasi paragonabile alla felicità! Ma cos’è l’Amore? Non credo che esista una definizione unica ed esatta, ma solo riflessioni personali, come queste, ad esempio: «L’amore è costanza, pazienza e dedizione.» (GIULIA, 23 ANNI)

«L’amore per me è una cosa che ci fa sentire migliori.» (MICHELE, 31 ANNI)

«L’amore è una felicità che un giorno nella tua vita può arrivare e portare cambiamento.» (GAIA, 13 ANNI)

«L’amore per me è esserci sempre e comunque. Esserci quando la vita è facile ed esserci soprattutto quando non lo è. Restare quando, nel disaccordo, volano maleparole e continuare a restare quando l’altro fa di tutto per allontanarti. L’amore è anche riuscire a rimanere in disparte lasciando chi si ama libero di fare le sue scelte e i suoi errori.» (ANNALISA, 58 ANNI)

«L’amore è quando sei disposto a fare cose per qualcosa o per qualcuno che altrimenti non faresti.» (IVÁN, 27 ANNI)

«L’amore è una fregatura.» (BENEDETTA, 24 ANNI)

«L’amore è donarsi agli altri senza perdere sé stessi.» (SOFIA, 19 ANNI)

«Noi siamo l’origine dell’amore. Amare è qualcosa che deve iniziare da noi. Voglio unire la parola amore alla mia persona. Oggi mi amo!» (MARCO, 31 ANNI)

«In realtà non lo so, ma penso sia una cosa astratta che prova un certo numero di persone tra loro. È anche un po’ quando ti diverti.» (MARGHERITA, 12 ANNI)

«L’amore è immenso! Si prova per qualcuno o per qualcosa; è armonia che avvolge e libra nell’aria.» (BARBARA, 65 ANNI)

«L’amore è prendermi cura dei miei genitori.» (JOHN PAUL, 36 ANNI)

«L’amore è un regalo fatto con gratuità.» (FRANCESCA, 25 ANNI)

«L’amore non ha senso, è l’illusione di trovare una persona che porta felicità.» (MOMO, 13 ANNI)

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ConTatto «L’amore ha mille sfaccettature, ma non può esserci amore per l’altro senza amore per sé stessi.» (ALESSIA, 24 ANNI)

«L’amore è l’espressione sublime della nostra anima. Ci rende poco razionali e dà una svolta alla nostra vita. L’amore è un modo di vivere, scrive le sue regole per farci scegliere sempre col cuore ed esprimere soltanto il meglio di noi.» (VALENTINA, 42 ANNI)

«L’amore è dare tutto sé stesso per qualcosa o qualcuno a cui teniamo e che ci arricchisce. A volte può non sembrare razionale ma comunque, senza questo sentimento, non saremmo così pieni di energia e vita. È come se fosse un carburante che ci spinge a dare e fare qualcosa incondizionatamente!» (ILARIA, 27 ANNI)

Quanti modi di amare esistono? E quali sono i tipi di Amore? Leggendo queste riflessioni già si intravedono alcune possibili risposte: Amore per la famiglia; Amore per la Vita; Amore per il proprio lavoro; Amore per qualcuno e principalmente Amore per sé stessi. Amare sé stessi è essenziale per poter amare gli altri, per affrontare le cose belle e anche gli imprevisti della vita. L’Amore per sé stessi deve essere coltivato giorno dopo giorno e lo possiamo fare semplicemente prendendoci del tempo per noi, scegliendo di fare cose che ci fanno stare bene o frequentando persone che ci fanno sentire di essere nel posto giusto. Questo scegliere di amarsi non deve essere scambiato per egoismo ma deve essere visto come una necessità per diventare persone complete e stabili. Imparare ad amarsi non è semplice e richiede un lavoro continuo di accettazione di sé e delle proprie debolezze: un lavoro impegnativo ma necessario per imparare a non pretendere sempre il massimo da noi e dagli altri. L’AMORE È! Io credo che l’Amore sia Vita e non sopravvivenza. Provo a spiegarmi meglio. L’Amore non è ossigeno, ma un buon profumo; non è pane, ma una buona pietanza, la tua preferita; non è acqua, ma il primo buon caffè della giornata… Anzi, di più: è il cioccolatino che alcuni baristi posano accanto alla tazzina: non sempre si trova, poiché non è necessario, ma quando c’è, lo si mangia con piacere proprio perché ci fa stare bene. Ci fa stare bene il gesto, la sorpresa. Sì, anche perché un cioccolatino si richiede sempre. Giusto? Ecco, l’Amore per me è questo: stare bene!

“L’amore è… talvolta difficile da comprendere.„ (Love is… Credits: Kim Casali)

Inoltre, bisogna scindere un altro pensiero: saper amare è bellissimo, ma lasciarsi amare è un lusso che in pochi hanno la fortuna di godere e di apprezzare, essenzialmente per paura di soffrire. Farsi amare richiede coraggio, un coraggio notevole… e allora, forza, che aspettiamo? Lasciamoci andare! Lottiamo per essere l’emozione di una canzone non ancora ascoltata; i dettagli di un disegno non ancora visto; la virgola di una frase non ancora letta.

Impariamo ad osservare la nostra meraviglia riflessa negli occhi della persona che prova ad amarci.

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Trovare il proprio desiderio e vederlo riconosciuto dagli altri equivale ad essere unici ed accettati; quando il desiderio si trasforma in passione, esso diventa scopo e gioia, e la passione ci completa e ci salva.

Josie

Per questo numero abbiamo deciso di intervistare Josie, ventiquattrenne nata a Cecina e residente a Londra. dimagrire e a 16 anni sono caduta nell’anoressia; questo è durato per un bel po’ di tempo. Poi mi sono resa conto che nonostante fossi molto magra continuavo a non piacermi; non mi sono mai piaciuta magra o ‘nel mezzo’, ‘normale’, ‘sovrappeso’: non mi sono mai piaciuta, quindi era molto difficile trovare proprio il momento in cui io ero contenta con il mio corpo. Ancora ci sono dei giorni in cui è difficile guardarmi allo specchio e dire «basta», però sto cercando di distruggere non i pensieri ma piuttosto il modo di pensare di me stessa perché il valore in me stessa non cambia rispetto al peso o a come sono fatta ma cambia solo il se io divento una persona cattiva, secondo me.

Raccontaci un po’ di te! ono nata in Italia a Cecina e avevo 10 anni quando mi sono trasferita con la mia famiglia a Londra. Mio padre è italiano, mia mamma è inglese di origine sudamericana e io sono mulatta. Ho vissuto i primi dieci anni della mia vita in Italia sentendomi molto ‘diversa’ e subendo episodi di razzismo da parte delle persone che avevo intorno; questo ha fatto sì che non riuscissi a sentirmi parte del posto in cui sono nata. Ho sempre cercato di essere come tutti gli altri per essere accettata ma non funzionava; pur sforzandomi di tenere tutto sotto controllo non riuscivo a sentirmi appagata, quindi ho usato la parte che si può controllare molto più facilmente, ovvero il cibo, il peso e il corpo e ho usato questo come mio sfogo, come mio compagno di aiuto per tanti anni. Tutte le volte che ho vomitato, vomitavo anche emozioni, sentimenti che mi sentivo dentro, di cui non riuscivo a parlare. Non riuscivo a dirlo ad alta voce ed era uno sfogo.

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Quando è stata la prima volta che chiesto aiuto o è stato un qualcosa che ti è arrivato dall'esterno? È partito da me perché ai miei genitori ho sempre detto tutto. Questo disturbo lo avevo tenuto per me per un bel po’ di tempo. Mi ricordo che la mia mamma mi aveva detto: «stai perdendo peso: stai bene così. Tu diversa da me lo stai perdendo per bene». Io le avevo risposto: «sì, è vero», ma dentro di me sapevo di averle detto una bugia. A me non piace per niente dire bugie quindi non riuscivo a tenere questa cosa dentro e così un giorno — mi ricordo che era Ottobre 2014 — le ho parlato del mio problema. Era una cosa nuova per noi. Io lì per lì avevo detto: «non voglio aiuto e voglio provare a farlo da sola», ma è stato uno sbaglio. Se avessi ricevuto aiuto fin dall’inizio le cose sarebbero molto diverse. Sebbene pensi che tutto accada per un

Quando è stato il momento in cui hai preso consapevolezza del tuo disturbo alimentare? Quando ci siamo trasferiti a Londra, i miei parenti mi chiamavano tutti i giorni e mi chiedevano sempre se io e mia sorella avevamo perso peso o se avevamo un ragazzo. E quindi queste due domande mi hanno sempre fatto pensare che se non avevo un ragazzo e se non ero magra, allora non valevo niente e quindi ho sempre cercato di avere queste due cose che per me erano molto difficili perché io dai 10 fino ai 14-15 anni il peso anzi lo mettevo di più perché stavo crescendo. Ho un corpo geneticamente formoso. Anche se cercavo di perdere peso la mia struttura continuava a modificarsi e crescere in un modo che non riuscivo ad accettare, per niente. Quindi ho iniziato a perdere peso e a scoprire tutte le modalità per farlo, ma più perdevo peso, più non riuscivo a smettere di voler

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motivo, quindi per me forse era questo il percorso, adesso mi sento di dire che è importante chiedere subito aiuto. È importante cercare medici competenti che indichino il percorso di cura, appena ci si rende conto di avere un problema, per far sì che questo non si radichi in te e sia più difficile sconfiggerlo. Io ho convissuto per 8 anni con la malattia; infatti, riconosco che ci sono ancora oggi dei momenti in cui è difficile. Ho chiesto poi aiuto perché era l’ultima speranza di vivere perché ero diventata una persona vivente ma morta dentro. Stavo vivendo senza sentire l’anima, senza sentire emozioni, senza niente… come se fossi vuota. Mi sono resa conto che non ero più me stessa e questo non andava bene perché anche se avevo la malattia ho sempre saputo, grazie alla mia fede spirituale, che avevo uno scopo e un compito in questo mondo. Io avevo una cosa da fare e questo mi ha spinta tanto. Sono andata da tantissimi professionisti per cercare aiuto in Inghilterra e per più volte non ha funzionato. La mia nonna di Cecina, la stessa donna che mi chiedeva del peso, è cambiata tantissimo e ha cercato in tutti i modi un posto in Italia che mi potesse aiutare e ha trovato la Casa di Cura San Rossore. Ho parlato con il Dott. Gravina e con la Dott.ssa Carla Piccione e da lì ho capito che avevo proprio bisogno d'aiuto — ma non un aiuto con il cibo e basta ma qualcosa di profondo, perché avevo capito che c'è c'era molto dentro di me che doveva uscire. Il Dott. Gravina appena mi ha parlato aveva capito tutto. Aveva capito come mi sentivo, aveva capito da dove veniva il problema, aveva capito di cosa avessi bisogno. Era come se avessi trovato degli angeli che mi hanno capita subito e sapevo che dovevo essere proprio lì. Infatti, mi sono trasferita di nuovo in Italia per qualche mese ed in seguito ho fatto avanti e indietro. Questo trattamento mi ha cambiato la vita, mi ha completamente riportata ad essere chi sono, la persona che ho sempre visto là dentro la mia testa, la ragazza che si vestiva come voleva, che si sentiva bene e a cui tutte le opinioni delle altre persone non importavano. Ho fatto pace con me stessa e ho imparato a vivere la vita che avevo sempre voluto vivere.

Facevo sempre finta perché avevo paura di essere me stessa, avevo paura di essere giudicata perché quando io ero me stessa venivo criticata. Sono stata tanto male e non volevo più sentire quei sentimenti che sentivo quando ero piccola e quindi mi sono nascosta dentro di me. Oggi lavoro e mi diverto, mi vesto come voglio e tengo i miei capelli ricci sciolti che prima tenevo sempre legati, senza avere paura del giudizio degli altri. Prima avevo bisogno di avere amici e oggi invece riconosco quando una persona vuole essere veramente parte della mia vita. Mi sento molto più forte, molto più libera e capace di fare quello che voglio. Voglio bene al mio corpo, voglio che il mio corpo stia bene e che sia sano; voglio essere me stessa, quella che sia. Hai una passione che ti ha aiutata ad affrontare la malattia? Nel mio percorso di cura ho imparato di nuovo a dipingere e a scrivere, perché io lo facevo molto prima della malattia; poi me ne ero dimenticata. Alla Clinica ho ritrovato quanto mi piaceva l’arte e questa cosa mi faceva star bene. Sono riuscita a ritrovare la parte creativa di me e infatti ho tantissimi disegni che sto raccogliendo per poter fare un domani una mostra. Ho iniziato a comprare dei pennarelli, della carta, poi le matite… e da lì piano piano ho iniziato ad aprirmi. Mi portavo sempre dietro anche un quaderno dove scrivevo tutte le mie emozioni e tutto quello che sentivo. Ho scritto tantissimo. Da lì è ritornato quel lato creativo, che è anche quella parte più importante per me. La mia passione è stata la mia piccola ma allo stesso tempo grande via di uscita. Se non l’avessi avuta, sarebbe stato molto più difficile uscire dal disturbo. Oggi fanno parte di me l’arte ed il teatro. Ho studiato teatro in una scuola qua a Londra e mi piace tantissimo. Lavoro come personal trainer e mi piace aiutare le persone a sentirsi forti. Lo considero quasi più un hobby che come un lavoro perché mi fa stare bene quando vedo le persone che stanno arrivando al loro obiettivo. Mi piace andare in giro con il mio ragazzo in bicicletta che è un hobby che abbiamo insieme. Canto tantissimo e poi mi piace andare a giro e fare foto. Pratico yoga e meditazione, che mi fanno sentire bene.

Oggi chi sei? Come stai affrontando la tua vita oggi? Prima di iniziare la cura mi nascondevo dietro a quello che volevano gli altri, al posto di quello che volevo io per me stessa. Mi sono nascosta proprio in un buco da cui non riuscivo ad uscire, un buco nero in cui non riuscivo a vedere niente e quindi io, sì, andavo al lavoro perché ci dovevo andare per gli altri, sorridevo perché io sorrido tanto e in questo modo gli altri pensavano che andasse tutto bene.

L’esserti trasferita a Londra ha influito sul tuo percorso? Sì, perché qui puoi camminare per strada vestita in tutti i colori possibili e alle persone non importa. In Italia sento che la mente è ancora troppo chiusa,

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ConTatto anche se mi sembra che qualcosa stia cambiando. L’essere di colore mi sembra che non dia più fastidio — a differenza di quando ero piccola — perché non solo ci sono più persone di colore ma non viene più vista come cosa brutta o diversa in senso negativo e come un problema, ma in senso positivo. Ma soprattutto siamo cambiati io e il mio atteggiamento verso le persone che possono essere più razziste. Io reagisco in modo differente. Adesso non è più un problema mio come pensavo da piccola, ma piuttosto un problema degli altri.

Apr./ Mag. ‘22 Se tu dovessi dare un consiglio a chi soffre di un disturbo alimentare cosa diresti? Datti il tuo tempo, perché non c'è fretta. Anche se non vedi l’ora di arrivare alla fine, è fondamentale che tu ti prenda il tuo tempo. Capisci bene chi sei e cosa vuoi dalla tua vita perché è la tua vita e non è la vita di nessun altro. Trova la tua felicità. Questo è fondamentale.

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I nostri eventi

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l Centro Arianna, facente parte della ASL Nord-Ovest di Pisa, nasce nell’anno 2000 come struttura di riferimento dedicata al trattamento dei Disturbi Alimentari in setting ambulatoriale e le sue principali caratteristiche sono l’interdisciplinarietà e la scelta del team approach come modalità condivisa di lavoro.

Un’altra importantissima peculiarità di questa realtà è la composizione di gruppi come modalità terapeutica aggiuntiva. Infatti, il Centro, in collaborazione con l’Associazione La Vita Oltre Lo Specchio e grazie ai progetti co-finanziati da SDS e Fondazione Pisa, si impegna attivamente nella creazione e nella gestione di gruppi, destinati sia a pazienti che a genitori, separatamente. In alcuni casi, infatti, le attività di gruppo possono dare notevoli benefici, in aggiunta al percorso individuale. È proprio la condivisione delle esperienze ad incoraggiare la relazione: le persone si lasciano andare in conversazioni sempre più profonde e attività ricreative, si fidano e si affidano, si rivedono nell’altro, ascoltano e si raccontano. Tutto questo allevia la propria sofferenza emotiva, toglie da una condizione di solitudine e attenua l’angoscia. La relazione che si genera nel gruppo ha un effetto curativo, che si riflette nei pensieri, nelle emozioni e nelle relazioni di ogni persona. In questo numero abbiamo deciso di parlare dell’esperienza del “Gruppo Emozionale”: il percorso nasce nel tentativo di individuare strette correlazioni tra vissuti psicologici e processi corporei, cercando di promuovere l’integrazione consapevole dell’entità corpo-mente, ponendo il focus sia sugli aspetti psicologici che sulle loro manifestazioni corporee ed emotive. Le emozioni, infatti, non sono altro che risposte innate, stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni (pensieri, sensazioni) o esterni. Le partecipanti sperimentano che tutte le emozioni sono utili, non ci sono quelle positive o quelle negative, ma tutte ci servono per sopravvivere: senza la paura non ci fermeremmo al semaforo rosso, senza la rabbia non ci difenderemmo nel caso qualcuno ci rubasse qualcosa, ecc.. Per chi soffre di un Disturbo Alimentare, infatti, il cibo diventa uno strumento per gestire le emozioni fastidiose e non solo (rabbia, tristezza, disgusto, frustrazione, ansia, noia, senso di impotenza, ecc.), considerata la scarsa capacità di regolare in maniera adattiva le proprie esperienze emozionali. Il gruppo, quindi, rappresenta uno spazio di condivisione e di gestione delle proprie emozioni, con lo scopo di poterle validare e rappresentare in altro modo rispetto al controllo o discontrollo sul cibo.

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Il percorso di gruppo, omogeneo per patologia, è costituito da 10 incontri a cadenza settimanale con orario 14:30 - 16:00; ha coinvolto 7 utenti in carico al Centro Arianna appartenenti alla fascia di età 16-23 anni. Gli obiettivi generali sono andati incontro alla comprensione del significato sotteso al comportamento alimentare disfunzionale, cercando di nominare, riconoscere e gestire le emozioni attraverso un processo di alfabetizzazione emotiva e di interiorizzazione del collegamento corpomente, incrementare la consapevolezza di sé e del proprio corpo promuovendo lo sviluppo di nuove modalità e competenze relazionali, incentivando inoltre l’autorealizzazione e l’espressione delle passioni individuali. Con le partecipanti è stato possibile lavorare ed approfondire alcune tematiche rilevanti nei Disturbi Alimentari, quali: • La consapevolezza corporea ed alfabetizzazione emotiva, legata alla difficoltà di riconoscere le proprie sensazioni fisiche in generale, l’incapacità di esprimere verbalmente sentimenti, desideri, paure ed emozioni; • La percezione distorta delle forme del corpo ed un senso di inadeguatezza relazionale e corporea; • I confini corporei, la sensazione di confusione derivante dal non riuscire a definire e riconoscere i propri bisogni corporei, emotivi e relazionali. L’utilizzo non esclusivo del canale verbale ha consentito l’integrazione della parola all’espressione artistica e creativa come rappresentazione del mondo interiore e come mezzo per esprimere le proprie emozioni: infatti, proporre dei medium come le immagini, i colori, gli oggetti ecc., ha permesso di esprimere contenuti dolorosi e difficili da contattare ed esplicitare, evitando paure del giudizio legate al dover raccontare con parole la propria storia ed i propri vissuti. In particolare, il senso di appartenenza al gruppo cerca di rompere la condizione di solitudine ed isolamento sociale che molto spesso le persone affette da DCA vivono in seguito alla patologia, permettendo altresì la ricerca della solidarietà grazie alla condivisione della propria sofferenza. L’identificazione all’interno del gruppo non è centrata esclusivamente sulla percezione della condivisione della sofferenza espressa dalla sintomatologia, ma anche e soprattutto sulla possibilità di essere riconosciuti nella propria soggettività, collegando ed esprimendo aspetti più profondi della storia personale. 12


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“Il gruppo rappresenta uno spazio in cui l’obiettivo primario è creare un clima di dialogo, scambio e confronto tra i componenti. Nel contesto di gruppo l’insieme delle individualità si trasforma pian piano in un organismo unico, passando dalla somma di “io” ad un unico “noi”, nel quale ciò che l’altro porta diventa facilmente proprio e si sviluppa un sentimento di appartenenza. I diversi componenti sono tutti allo stesso modo protagonisti, attori principali del lavoro, del loro e altrui cambiamento. Ciò che caratterizza il lavoro in gruppo sono gli aspetti di: • Uguaglianza: Nel gruppo tutti sono uguali e il conduttore lascia spazio e libertà ad ognuno, fungendo da mediatore e rileggendo e dando chiarezza al contributo di ogni singolo. • Assenza di giudizio: È uno degli elementi più rilevanti: nessuno viene giudicato; appoggio e cooperazione devono essere sempre reciproci e corrisposti. • Possibilità di sperimentare un luogo sereno e sicuro: Nessuno è obbligato a parlare, se non si sente pronto — approccio questo importante per consentire al singolo di sperimentare un senso di sicurezza e serenità.„ [Dott.sse Ramona Biasci, Irene Mazzei e Giulia Fava]

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ConTatto M’illumino di Lilla In occasione del 15 Marzo numerosi sono stati i Monumenti italiani che si sono tinti di Lilla, in una manifestazione di solidarietà da parte degli Enti Pubblici e della cittadinanza rispetto alla problematica dei disturbi alimentari. Nell’infografica che segue, scaricabile tramite il QR Code a lato, mostriamo alcuni di tali esempi, riportando i contatti delle Associazioni che si sono fatte promotrici di tale iniziativa; per la città di Pisa, in particolare, la nostra Associazione si è spesa per l’illuminazione di due luoghi simbolo per la comunità toscana (e non solo): il Palazzo Pretorio sul Lungarno Galilei e la Torre Pendente in Piazza dei Miracoli.

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“Rare sono le persone che usano la mente, poche coloro che usano il cuore, uniche coloro che usano entrambi.„ [ Rita Levi-Montalcini ]

La tutela assistenziale e sociale nei disturbi della condotta alimentare. Intervista alla Dott.ssa Lisa Perugino

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o scorso 8 Aprile si è tenuta, presso la Stazione Leopolda di Pisa, la conferenza Anoressia e disturbi dell’alimentazione: la cura, il sostegno, la tutela, relatrice la Dott.ssa Lisa Perugino. La relazione ha suscitato notevole interesse e tante domande, alle quali cerchiamo di dare risposte riproponendole alla Dottoressa.

Preliminarmente le chiediamo se una diagnosi di DCA, che dia o meno diritto a prestazioni assistenziali, può pregiudicare il futuro lavorativo di una persona che ne fosse dichiarata affetta. Per esempio, potrebbe impedire l’accesso ai concorsi nella Pubblica Assistenza, nelle forze Armate o in quelle di Polizia? Assolutamente no. Qualunque forma di inabilità, che non abbia carattere permanente, non pregiudica in alcun modo gli accessi alla P.A., anzi: una diagnosi precoce ed una adeguata terapia possono far regredire la patologia e consentire una normale vita lavorativa. Le prestazioni assistenziali hanno sempre carattere di temporaneità e sono legate alla durata della malattia. Dott.ssa Perugino, le chiederemmo brevemente di presentarsi e raccontarci di cosa si occupa. Sono un medico legale e lavoro all’Azienda USL Toscana Nordovest. Per molti anni ho svolto attività di Presidente delle commissioni medico-legali per il riconoscimento di invalidità civile/handicap/collocamento lavorativo mirato; faccio parte della Commissione Medica Locale per l’accertamento dell’idoneità alla guida; al momento sono membro dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare della Disabilità della zona Pisana e mi occupo di Sanità Penitenziaria. Qual è la procedura per richiedere l’invalidità civile per Disturbi Alimentari? A chi bisogna rivolgersi e quali sono i documenti necessari? Se possibile, potrebbe descrivere tutti i passaggi dell’iter e fornire indicazioni precise sulle tempistiche, in merito agli uffici competenti per la zona di Pisa e precisare se ci sono spese per l’istruzione della pratica? Di seguito vi illustro schematicamente i passaggi necessari: 1.

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CERTIFICATO MEDICO INTRODUTTIVO PER INPS Il cittadino che intende presentare per la prima volta domanda per il riconoscimento dello stato di invalidità civile/handicap/collocamento lavorativo mirato deve recarsi presso il proprio medico di Medicina Generale o altro medico che possieda il PIN INPS, abilitato alla compilazione telematica del certificato medico introduttivo che attesti le infermità invalidanti. DOMANDA AMMINISTRATIVA PER INPS

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Una volta ottenuto il certificato medico introduttivo, entro 30 gg è necessario inoltrare telematicamente all’INPS la domanda amministrativa per riconoscimento di invalidità civile/handicap/collocamento lavorativo mirato. La domanda amministrativa può essere presentata: a. direttamente dal cittadino sul sito INPS; b. gratuitamente dagli Enti di patronato; c. gratuitamente dalle Associazioni di categoria dei disabili (ANMIC, ENS, UIC, ANFFAS). CONVOCAZIONE A VISITA DA PARTE DELLE COMMISSIONI MEDICO-LEGALI ASL La medicina legale ASL convoca a visita il richiedente secondo le proprie agende di convocazione. Ultimata la visita medico-legale, la commissione ASL redige un verbale di visita trasmesso telematicamente all’INPS. VALIDAZIONE DEL VERBALE ASL DA PARTE DELL’INPS Il verbale ASL è poi validato dal Centro Medico Legale (CML) dell’INPS che può disporre nuovi accertamenti anche tramite visita diretta. INVIO VERBALE DEFINITIVO AL CITTADINO Il verbale definitivo viene inviato tramite PEC o raccomandata A/R all’interessato. Si tratta di una duplice copia: una con tutti i dati sanitari anche sensibili e l’altra con il solo giudizio finale.

Quali sono i casi in cui si può richiedere l’invalidità per DA? Elencare, se possibile, le casistiche e specificare se esistono differenze per pazienti minorenni, maggiorenni, o adulti che abbiano figli a carico. La voce “anoressia nervosa”, così come gli altri DA, non è presente nelle tabelle di cui al DM 5 febbraio 1992. Nel caso di infermità non tabellate, la valutazione medico-legale dell’invalidità civile avviene, come di consueto, secondo un criterio analogico rispetto a quello tabellare, in ragione di natura e gravità della minorazione. Per l’anoressia nervosa, le voci che possono essere prese in considerazione per analogia possono riguardare l’apparato psichico (es.: “psicosi ossessiva”, tabellata 71-80%) e altre voci che riguardano, ad esempio, l’apparato digerente (es.: “sindrome da malassorbimento enterogeno con compromesso stato generale”, tabellata 41-50%). Per la bulimia o il binge eating disorder, le voci che possono essere prese in considerazione per analogia possono riguardare l’apparato psichico (es.: “psicosi ossessiva”, tabellata 71-80%, oppure “nevrosi isterica grave”, tabellata 41-50%, oppure ancora “esiti di sofferenza organica accertata che comporti gravi disturbi del comportamento”, tabellata 41-50%) e/o altre voci che riguardano, ad esempio, l’apparato endocrino (es.: “obesità classe II con complicanze artrosiche”, tabellata 41-50%). Naturalmente la valutazione finale dovrà tener conto delle disfunzionalità certificate dagli specialisti ed apprezzate durante la visita in commissione, sempre in riferimento alla compromissione della capacità lavorativa generica. Da tenere in debita considerazione anche eventuali complicanze e/o comorbidità. Non esistono differenze valutative dell’invalidità civile tra adulti e adulti con figli a carico. Nei soggetti infradiciottenni, la ‘disfunzionalità’ è rappresentata dalle difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della propria età. In generale, poiché per i minori non è prevista la percentualizzazione dell’invalidità, l’apprezzamento deve necessariamente muoversi sulla scorta di una valutazione multidimensionale delle difficoltà, con un apprezzamento qualitativo anziché quantitativo. Inoltre, non è specificato se, analogamente alla disfunzionalità lavorativa, esista o meno una soglia di franchigia il cui superamento legittimi il diritto all’indennità di frequenza, che è la prestazione economica che spetta al minore riconosciuto invalido civile. Quali sono le esenzioni ticket sanitario per DA? Quale è la procedura per ottenerle? L’esenzione dal ticket può avvenire per invalidità civile, tramite il riconoscimento di un punteggio superiore ai 2/3 (67%), ovvero della sussistenza di difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’età nei soggetti minorenni. Nel caso in cui non si raggiunga la suddetta soglia di invalidità, potrà essere richiesta l’esenzione per patologia: l’anoressia nervosa e la bulimia sono incluse nell’elenco delle patologie croniche invalidanti per le quali è previsto il rilascio di un’esenzione

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dal ticket (Cod. 005 di cui all’allegato 8 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sui nuovi Lea del 12 gennaio 2017). L’esenzione per patologia è riconosciuta dalla Azienda Sanitaria Locale di residenza (ci si deve rivolgere al CUP), sulla base della certificazione specialistica che attesta la diagnosi. Le persone con diagnosi di anoressia nervosa o bulimia, ed in possesso dell’esenzione, hanno diritto all’erogazione gratuita delle prestazioni specialistiche specifiche per la patologia certificata. Quali sono le leggi che tutelano una persona affetta da DA? Le leggi che tutelano una persona affetta da DA in ambito assistenziale sociale traggono fondamento negli Artt. 2, 3 e 38 della Costituzione Italiana, e sono la Legge 30 marzo 1971, n. 118, la Legge n. 18 dell’11 febbraio 1980, e l’art. 6, D.Lgs. 23 novembre 1988, n. 509. Particolare menzione meritano i commi 1 e 3 della L.5 febbraio 1992, n. 104 che annovera una serie di misure a tutela della dignità umana e dei diritti di libertà e autonomia della persona disabile, della quale viene promossa la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società. l diritto al lavoro dei disabili non è garantito solo dalla Legge 104, ma anche dal la Legge 68/1999, che disciplina il collocamento mirato delle persone con invalidità ≥ 46%, prevedendo l'istituzione di servizi per il loro inserimento lavorativo a livello regionale e provinciale. Oltre all'anoressia, le altre tipologie di DA possono ottenere i riconoscimenti derivanti dalle Leggi 118/71 e 104/92? Cosa dice la Giurisprudenza? Tutti i DA possono trovare adeguata tutela in ambito assistenziale sociale; dipende dalla disfunzionalità o dalle difficoltà che derivano dalla patologia. In merito all’anoressia nervosa, una ormai datata sentenza della Cassazione (n°6500/2002) ha ufficialmente esteso la tutela dell’invalidità civile ai soggetti con anoressia nervosa, riconoscendo a tale patologia una invalidità civile del 100% nella sua fase avanzata. Il principio che deve essere seguito è sempre quello dell’analogia, rifuggendo altresì da qualsiasi rigida applicazione delle tabelle ministeriali. Nei casi più gravi di anoressia nervosa può essere riconosciuta l’indennità di accompagnamento (ricoveri ripetuti, gravi stati di defedazione, necessità di supervisione e/o assistenza). Non vi sono precedenti giurisprudenziali di rilievo per gli altri DA. In caso di accertata invalidità, è possibile ottenere dal datore di lavoro cambio di orari, di mansioni o di sede? Se sì, elencare le caratteristiche che sono necessarie per ottenere queste agevolazioni e indicare la procedura e, se possibile, la tempistica. La persona portatrice di handicap con un grado di invalidità superiore ai 2/3, assunta presso gli enti pubblici come vincitrice di concorso o ad altro titolo, ha diritto di scelta prioritaria tra le sedi disponibili. Non esiste uno specifico diritto al cambio di orario, mentre il cambio di mansione è un giudizio cui è deputato il medico competente ai sensi del DLgs 81/2008. La sua relazione ha, inoltre, evidenziato l'inadeguatezza del quadro normativo complessivo rispetto all'evoluzione delle conoscenze medico scientifiche in materia di DA. In base alla Sua esperienza medico-legale, saprebbe dire se almeno in sede giudiziaria i vari Tribunali tendono a riconoscere le altre tipologie di DA come invalidanti o piuttosto si limitano alle sole anoressia e bulimia? Le tabelle del Ministero della Salute del 1992 sono ormai obsolete, ma comunque utilizzabili in maniera efficace secondo la consueta criteriologia medico-legale. Le tabelle INPS possono costituire un riferimento interno per l’Istituto stesso, soprattutto nel caso di voci non tabellate, ma non hanno alcuna validità di legge. Peraltro, nulla aggiungono per i DA rispetto a quanto può essere ragionevolmente dedotto con criterio analogico dalle tabelle di legge. Nel caso di Bulimia, considerato che le tabelle INPS prevedono solo il 20% di invalidità, è possibile ottenere percentuali più alte?

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Come per l’anoressia nervosa e altri DA, la valutazione medico-legale dipende dal grado di ‘disfunzionalità’ che la patologia comporta nelle sue varie componenti (psichica, cognitiva, fisica). Da qui l’importanza di una documentazione clinica specialistica che rappresenti compiutamente il quadro clinico del soggetto. Qual è l'atteggiamento di INPS e Tribunali rispetto alle altre patologie? Nella zona pisana abbiamo assistito ad un atteggiamento sempre più restrittivo dell’INPS rispetto alle commissioni ASL. L’esito di un eventuale ricorso innanzi al Tribunale del Lavoro dipende sempre dal quadro clinico e dalle disfunzionalità certificate e oggettivabili. Qual è la percentuale minima per il riconoscimento dell’invalidità? Per il riconoscimento di invalidità nel soggetto ultradiciottenne, in età lavorativa, è necessaria la riduzione di 1/3 della capacità lavorativa generica. I benefici economici sono rappresentati dall’assegno di invalidità, la pensione di inabilità e l’indennità di accompagnamento. Nei casi di DA è prevista una qualche forma di affiancamento e di sostegno scolastico? L’insegnante per le attività di sostegno è un docente specializzato assegnato alla classe dell’alunno con disabilità e il cui compito è quello di favorire il processo di integrazione dell’alunno, ragion per cui, senza preclusioni aprioristiche, l’esigenza di affiancamento andrà attentamente valutata caso per caso. Un genitore che segue un figlio affetto da un DA quali agevolazioni può chiedere? I genitori di bambino con handicap grave possono aver diritto a permessi e congedi parentali, che dipendono anche dall’età del bambino. La fruizione dei benefici dei 3 giorni di permesso mensili, del prolungamento del congedo parentale e delle ore di riposo deve intendersi alternativa e non cumulativa nell'arco del mese. Da un punto di vista economico, la Legge di Bilancio 2021 ha previsto un contributo economico a favore di genitori disoccupati o monoreddito, di nuclei familiari monoparentali, che hanno a carico figli con una disabilità non inferiore al 60%. L’Assegno unico e universale, invece, è un sostegno economico alle famiglie attribuito per ogni figlio a carico fino al compimento dei 21 anni (al ricorrere di determinate condizioni) e senza limiti di età per i figli disabili. Come si coniugano il riconoscimento di un'invalidità e lo stigma sociale che questa potrebbe comportare? Quali consigli lei si sentirebbe di dispensare a chi ha paura di 'venire allo scoperto' ed esporsi nelle sue fragilità? Quanto ritiene utile il lavoro di sensibilizzazione e formazione delle Associazioni? Suggerirebbe qualche particolare iniziativa? Il riconoscimento dell’invalidità ha la funzione di rimuovere la situazione di bisogno, per cui non dovrebbe rappresentare uno stigma sociale. È importante sensibilizzare i cittadini, anche attraverso incontri o momenti formativi mirati che possano aiutare le persone ad acquisire consapevolezza sulle proprie difficoltà e sulle possibili forme di tutela; le Associazioni stanno facendo molto in questo senso ma anche le Aziende Sanitarie dovrebbero farsi promotrici di eventi informativi destinati alla cittadinanza sui grandi temi della medicina legale: oltre alle tutele assistenziali sociali, penso all’amministrazione di sostegno, al fine vita, alla sicurezza stradale. Peraltro, nei Lea della Medicina Legale, secondo il già citato DPCM 12 gennaio 2017, sono annoverate le «Attività di informazione e comunicazione» e segnatamente gli «Interventi di informazione e comunicazione ai cittadini ed agli operatori sanitari su temi di bioetica, trapianti, sicurezza delle prestazioni sanitarie, e altri temi di rilevante interesse sociale e professionale». Vuole aggiungere maggiori informazioni che potrebbero essere utili ai lettori del nostro Magazine, che spesso sono familiari di pazienti con DA o operatori sanitari? L’informazione ai cittadini e la formazione degli operatori devono costituire sempre di più una leva strategica attraverso la quale migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie in ogni ambito di attività. Per gli operatori sanitari, occorre intervenire anche su quelle che vengono comunemente chiamate soft skills, ovvero quelle competenze trasversali (ascolto, comunicazione, empatia) che sono necessarie per affiancare in maniera efficace i pazienti nel loro percorso assistenziale. Anche nei momenti più

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‘tecnici’, come quelli accertativi medico legali (penso all’invalidità civile come anche all’idoneità alla guida o all’idoneità al lavoro), l’operatore sanitario deve sempre agire ponendo attenzione al valore delle parole e all’importanza di un atteggiamento di vicinanza e comprensione. La ringraziamo per la collaborazione!

«È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva.» [ da “L’Attimo Fuggente” ]

Era solo una battuta

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oco prima di ricevere l'Oscar come migliore attore, Will Smith è stato protagonista di un gesto eclatante nei confronti di Chris Rock, colpevole di aver fatto una battuta sull’aspetto della moglie dell'attore, Jada Pinkett Smith, chiedendo se il suo prossimo film sarebbe stato il seguito di Soldato Jane, riferendosi al film in cui Demi Moore aveva la testa rasata. Con molta calma Will Smith si è alzato dalla poltrona, ha raggiunto il palco e ha sferrato un colpo sul volto del comico, quindi è tornato al suo posto, rivolgendo qualche parolaccia verso Rock, omessa dalla diretta tv sulla Abc: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca» gli ha urlato due volte. Tutto questo perché Jada Pinkett Smith da anni combatte contro l'alopecia, una malattia autoimmune che causa la caduta dei capelli. La telecamera ha inquadrato la donna, seduta accanto al marito, che alla battuta ha alzato gli occhi verso il cielo. Chris Rock è rimasto impassibile e ha tentato qualche battuta: «Will Smith mi ha appena picchiato. È la più grande notte nella storia della televisione». Poco dopo, durante una pausa, dapprima Denzel Washington e poi Bradley Cooper si sono avvicinati a Will Smith mostrando il loro supporto all'amico — che avrebbe reagito per difendere la moglie da una battuta infelice — abbracciandolo. Quanto accaduto alla cerimonia degli Oscar ha fatto il giro del mondo e per giorni e giorni abbiamo visto e rivisto le stesse scene e sentito un mare di commenti e di condanne verso chi ha usato la violenza fisica in risposta a quella che era solo una battuta. Ma se ci fermiamo a pensare al perché questo sia successo, forse, pur continuando a condannare il gesto violento che non è mai assolvibile, capiamo quanta sofferenza ci può essere dietro a quella che per molti può sembrare solo una battuta. Ora, la punizione di Will Smith è stata la seguente: non sarà più ammesso agli Oscar per 10 anni; e la punizione di Chris Rock invece? Nessuna. Dopotutto è stato lui a essere picchiato, è stato lui a subire una violenza. Ma è proprio così? La sua battuta infelice non era forse una violenza? Sì, certo, era una violenza anche quella. In quella notte, in quegli attimi, sono avvenute due tipi di violenza: quella verbale da parte di Chris Rock e quella fisica da parte di Will Smith. Tutti abbiamo condannato Will Smith; ma siamo proprio sicuri di come avremmo reagito noi nella stessa situazione? È davvero giusto condannare Will Smith e lasciare Chris Rock impunito? Reagire con la violenza fisica ad un attacco verbale significa diventare preda di emozioni incontrollabili che ci portano a comportamenti ignobili; in risposta ad un'offesa dobbiamo cercare sempre di utilizzare l’arma migliore e più potente che abbiamo, che è proprio la parola. Quest’arma potente deve essere sempre ben dosata e ben usata, perché le ferite che può infliggere spesso si rimarginano con fatica…

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Sicuramente le parole del comico erano violenza. Ma è una violenza che accettiamo di più, che giustifichiamo di più. Era solo una battuta. Ma è davvero così? Solamente perché qualcuno fa parte del mondo della satira e della commedia si può permettere di dire tutto senza un filtro tra il cervello e la bocca?

Era solo una battuta. È solo comicità. È solo satira.

Ma questo non avviene solo nel mondo dello spettacolo: tante volte le persone fanno delle battute quando è forse meglio tacere, tanti feriscono il prossimo con parole indelicate. Era solo una battuta. “Liesel non sa scrivere, quindi quando la maestra la chiama alla lavagna a scrivere il suo nome, lei fa una croce. La professoressa diventa paonazza e le sibila di tornare al posto; Liesel si sente umiliata. In giardino i compagni di classe fanno un cerchio intorno a lei e dicono ripetutamente in coro: «Scema! Scema! Scema!». Nessuno interviene. Nessuno dice nulla. Poi uno di loro, il capo gruppo, si avvicina a lei e le dice: «Lo sai leggere questo, scema? E questo?» sventolandole davanti un libro… Liesel gli tira uno schiaffo facendolo cadere in terra e poi comincia a prenderlo a pugni. Interviene la maestra, che la prende per i capelli, le tira due sculaccioni e la mette in castigo.”

Mi sorge quindi un dubbio, una domanda. Perché i ragazzini che canzonavano Liesel non sono stati puniti, mentre quando Liesel ha preso a pugni uno di loro, lei è stata punita? Perché Chris Rock ha potuto fare una battuta del genere e non essere punito in alcun modo, mentre Will Smith è stato duramente punito? Perché si dà meno importanza alla violenza verbale rispetto alla violenza fisica? Siamo sempre pronti a condannare uno schiaffo, un pugno, mentre le parole non le pesiamo, non ne diamo conto. Perché un pugno, uno schiaffo, ci fanno più effetto rispetto a un insulto? Molto spesso non si dà peso alla violenza verbale, perché al contrario di uno schiaffo o un pugno, le parole non mostrano quanto feriscono, perché il più delle volte si subiscono ed è diventato normale che sia concesso fare battute e scherzi anche pesanti; spesso non si sa come ribattere, o se si ribatte si subisce una violenza ancora più pesante, o ci viene detto: «Non sai stare agli scherzi», «Non sai ridere alle battute»; «Sei una persone triste che non riesci a cogliere battute del genere». La violenza verbale spesso può essere peggio di quella fisica. Ti logora dentro. Perché mentre dopo uno schiaffo, o un pugno, puoi metterci del ghiaccio e dopo un po’ di giorni magari non senti più male, le parole rimangono dentro e anche a distanza di anni e anni le continui a sentire. Le parole possono manipolare, ferire; bisogna sempre prestare attenzione a come si parla e alle parole che si utilizzano; perché non si sa la storia che c’è dietro a una persona. Ma era solo una battuta. C’è un sottile limite tra la comicità/satira e l’offesa, e debbono essere l’intelligenza e la sensibilità del comico a fare la differenza. Potrei dire che è comicità quando anche chi è oggetto dell’intervento del comico riesce a ridere, mentre si tratta di un’offesa quando la battuta spegne il sorriso sul viso di chi la riceve. Anche se magari non si intende offendere nessuno, i comici come, in generale, i personaggi che hanno un profilo pubblico dovrebbero imparare a pesare quello che dicono, perché le loro parole valgono molto di più delle parole di qualunque altro, perché appunto sono “pubblici”. Purtroppo, però, ciò non avviene, e sempre di più ci sono casi di violenza verbale — una violenza sempre giustificata, al contrario della violenza fisica. Era solo una battuta. La comicità e la satira fanno sempre leva sul diverso, sulla singolarità. Perché è giusto prendere in giro chi è diverso? Siamo ormai tanto abituati a sentire battute sull’orientamento sessuale, sul fisico, sulla religione, sulle malattie che forse siamo come anestetizzati e non ci rendiamo conto che questi sono dei veri e propri giudizi, vere condanne, vere offese. Voglio ricordare il caso Charlie Hebdo, battute infelici sulla religione musulmana, offese nei confronti di chi la pratica e della loro religione. Tutti sappiamo come è andata a finire. L’azione del gruppo terroristico è inaccettabile, ma perché Charlie Hebdo ha fatto e continua a fare una simile satira? Era solo una battuta. È veramente giusto offendere gli altri in questo modo? Era solo una battuta. Tutti conosciamo il black humour, le battute sugli ebrei, sui disabili, sui più deboli, sulle persone che purtroppo soffrono o hanno dei problemi. Era solo una battuta. Le battute infelici si fanno quotidianamente sull’aspetto fisico delle persone. «Ma come fai a mangiare tutta quella roba?»: T. si sente dire questo dalla compagna di classe più magra di lei, più popolare di lei. «Mettiti un po’ a dieta, vedrai che sarai più bella». M. si sente morire dentro. «Abbi un po’ di disciplina e non cedere alle tentazioni» — G. rimane allibito. «Ma cosa vuoi diventare? Essere così magri è roba da donne, quello lo fanno le modelle», dice il dottore di S. a S. che si sente sbagliato.

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«Sei solo una fissata a fare tutti quei pesi. È roba da uomini, ai maschi non piacciono i muscoli», ma a C. piace così tanto sollevare i pesi. Vorrei accendere l’attenzione sul comportamento comune che molto spesso si ha quando assistiamo a battute di dubbio gusto: perché voltiamo la testa quando qualcuno subisce una violenza verbale, quando le persone fanno una battuta infelice? Perché le persone molte volte quando vedono una violenza non intervengono, ma rimangono impassibili? Era solo una battuta. Perché gli amici di Will Smith lo hanno consolato, ma non sono intervenuti davanti alle telecamere? Avevano forse paura di essere coinvolti e di dover rendere posizione? Dopotutto era solo una battuta. Una battuta. Uno scherzo. Intanto la gente soffre e ingoia, le vengono le lacrime, ma tanto era solo una battuta.

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«Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno mai inciampato. […] A loro non si è svelata la bellezza della vita.» [Boris Leonidovic Pasternak, Il Dottor Zivago]

«Raccontarsi non è facile, può essere doloroso. Ma la terapia è come la palestra: devi farla spesso e sentire la fatica, il sudore, i muscoli indolenziti. Sono sceso sul mio fondo e ho accettato la sofferenza che mi ci ha portato. E anche se sono un privilegiato, sono fortunato, se faccio ciò che mi piace, so che ci saranno comunque

momenti in cui soffrirò. Ho solo smesso di vergognarmene perché ho capito che in ogni forma di dolore c’è sempre una forma di dignità. A volte mi sento forte; molte più volte non mi sento in grado. Ma quando succede ho capito che posso chiedere aiuto e qualcuno mi tenderà la mano, chiedere aiuto non è una debolezza, è una forza. Fatelo per tornare a volare.»

Sono le parole di Giovanni Pietro Damian, vero nome di San Giovanni, ospite alla puntata de Le Iene di Mercoledì 13 Aprile. Ha parlato a cuore aperto al pubblico, raccontando come la sua vita sia cambiata da quando è stato travolto dal successo. Così, attraverso questo monologo, ha voluto invitare l'uomo a chiedere aiuto e a raccontarsi.

M

i chiamo Giulia Mattei, ho 24 anni e sono un’infermiera. Sono ormai passati circa sette anni dall'inizio della mia convivenza con quella vocina così satanica definita Anoressia Nervosa. Sette anni di privazioni, di imposizioni, di schemi e rituali diventati come assiomi inscardinabili nella mente,

quasi da farmi credere che non esista alternativa, che non esista una vita diversa.

Azioni ripetute sempre con il fine di raggiungere un obiettivo inarrivabile perché destinato a tendere verso l’infinito e quindi ad un’infelicità eterna. Iniziando il tirocinio in ospedale al NOA (Nefrologia ed Emodialisi dell'Ospedale delle Apuane) di Massa, durante il mio percorso di studi presso l’Università di Pisa, ho potuto con grande fortuna vivere momenti, attimi, istanti e sguardi che non dimenticherò mai. Ho ascoltato storie diverse, ho stretto mani, ho assorbito e condiviso dolori diversi e ho iniziato a chiedermi perché tutto ciò che stavo facendo io per queste

persone, tutto quello che in quel momento faceva sentire ‘utile’ me non avrebbe potuto significare lo stesso per qualcun altro nei miei confronti. Mi sono detta:

«Perché ti ostini in questi rituali? Perché non ti fai aiutare? Perché non provi ad affidarti ad altri occhi, ad altri punti di vista diversi dagli ‘occhiali sbagliati’ che stai indossando? Perché non provi a capire se esiste una vita migliore?»

Ed è proprio così: una vita diversa esiste, esiste per forza. Oggi, nonostante le mille cadute, percorsi non andati a buon fine, sentimenti, emozioni e comportamenti che probabilmente restano incomprensibili e ingiustificabili agli occhi altrui, sono ancora qua a chiedere aiuto, a raccontarmi e a cercare di tornare a vivere.

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Chiedere aiuto è un segno di coraggio. Nascondere i propri sentimenti, credere che piangere sia per deboli, pensare che le proprie forze vadano ben oltre l'energia che possono effettivamente apportare, abbracciare l'idea che nessuno ci capirà sono fili che possono arrivare a soffocarti. Chiedere aiuto infatti è la più bella dichiarazione d'amore verso sé stessi. E amare sé stessi è l'inizio di un idillio che dura una vita intera. Il dolore è utile, non è piacevole ma è prezioso: possiamo cercare di farne un alleato oppure considerarlo un nemico da combattere. Quel che è certo è che il dolore è una realtà così democratica che non dimentica nessuno: prima o poi si presenta in una delle sue tante possibilità. Ovviamente non siamo nati per soffrire ma la sofferenza può diventare uno strumento di conoscenza. Meno facciamo resistenza, più seguiamo la spinta evolutiva che ci offre, tanto più ne possiamo trarre insegnamento, occasione di crescita e sviluppo. Questo però avviene ed è possibile solo se, una volta acquisita la consapevolezza del nostro dolore, decidiamo di metterci in gioco e lottare insieme a qualcuno per riscoprire i mezzi e gli strumenti per tornare a vivere e raggiungere la versione migliore di noi. L'aiuto non è una resa. L'aiuto non è una ritirata in guerra. L'aiuto non è un atto di debolezza. L'aiuto non è un fallimento. Siamo esseri simili, destinati ad un unico destino e quindi alla medesima sofferenza. Questo racchiude la meraviglia di essere simili. Non esiste giudizio di fronte al dolore e non esiste rifiuto di fronte al dolore. Parlatene, sfogate la vostra rabbia, presentate i vostri disturbi, raccontatevi senza timore. Forse non verrete capiti subito da tutti, forse non raggiungerete la felicità subito, però una mano verrà ad assistervi e insieme potrete presto tornare a brillare. Poco tempo fa una persona inaspettata mi ha ricordato di non essere sola. Mi ha ricordato di allungare la mano per accendere l'interruttore tutte le volte che va in cortocircuito. Soprattutto, mi ha ricordato — qualora mi accorgessi in quel momento di essere troppo stanca per farcela ancora — di non dubitare che ci saranno altre mani ad arrivarci. Non fermiamoci alle prime difficoltà, non arrendiamoci alle prime ricadute o ai tentativi andati male: la strada più lunga nasconde i paesaggi migliori. Ciò che fa stare bene me è guardare il cielo in silenzio e pensare che alla fine siamo sempre tutti sotto lo stesso cielo. “E chissà? iniziare un nuovo viaggio può non essere così difficile O forse è già cominciato. Esistono molti mondi, ma tutti condividono lo stesso cielo. Un solo cielo, un unico destino.„

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“Proprio nei momenti più difficili diventa ancora più importante essere bravi a prendersi cura di sé stessi.„ [ Etty Hillesum ]

Il peso delle parole

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a comunicazione è alla base di ogni rapporto umano ed è per questo che l’uso delle parole è sempre molto importante, perché, oltre ad esprimere concetti, le parole sono anche veicolo di emozioni, sensazioni, giudizi e pregiudizi. Ritengo fondamentale l’uso appropriato del linguaggio come strumento per tutte le relazioni umane e se può capitare qualche volta di non riuscire ad esprimere i concetti voluti ed essere fraintesi, l’importante è sempre verbalizzare il dissenso per avere modo di chiarire la questione. Quando la famiglia affronta un Disturbo Alimentare si scardina il sistema di comunicazione che sembrava aver funzionato sino ad allora — o almeno di questo buon funzionamento ne erano sicuri i genitori che, increduli, si trovano davanti un figlio che parla un'altra lingua e che non ha compreso o ha travisato tutto quello che per anni i genitori pensavano di avergli trasferito. Allora è necessario fermarsi e ricostruire la relazione, imparando un linguaggio comune che consenta di non essere fraintesi; è un lavoro faticoso e difficile perché significa ammettere che ci sono state delle mancanze e che queste hanno segnato la vita emotiva di nostro figlio. Può succedere che, senza volerlo, i genitori abbiano inviato dei messaggi al proprio figlio che potevano avere una duplice interpretazione; per spiegarmi meglio è necessario che racconti un episodio che risale a più di dieci anni fa ma che è ben impresso nella mia mente. Durante una visita medica in cui ero presente, mentre mia figlia esponeva il suo malessere al Dottore, questi esordì rivolgendosi a me con un: «Lei ascolta sua figlia?». Io in tutta tranquillità risposi: «Certo! Le poche volte che parla, la ascolto». Quello che sentii subito dopo continua ancora oggi a risuonarmi nella testa e fu: «Lei non mi ha risposto. Lei ha espresso un giudizio, lei ha sentenziato “mia figlia parla poco e questo non mi piace.”.» Lascio a voi immaginare il mio stato d’animo. Capii che, senza intenzione, le mie parole esprimevano un giudizio negativo verso mia figlia che chissà quante volte avevo ferito senza nemmeno rendermene conto. Penso che chiunque riesca ad essere un minimo sincero con sé stesso possa asserire a malincuore che forse è abitato da convinzioni e stereotipi di cui non dovrebbe essere fiero; ognuno è il risultato di ciò che ha vissuto e porta dentro di sé luci ed ombre che cerca di tenere a bada con l’uso della ragione, ma qualche volta in situazioni di stress e di fatica non è sempre possibile dire la cosa giusta nel modo giusto e questo, se non ci assolve, ci giustifica e ci consente di lavorare su di noi per essere persone migliori. E allora, se proviamo a vedere le difficoltà come occasioni, se proviamo ad avere un atteggiamento costruttivo e mai distruttivo, se riusciamo a capire l’importanza dei nostri atteggiamenti e delle nostre parole e se, con calma, decidiamo di darci una possibilità, allora può capitare che tutto questo dolore, tutta questa confusione siano l’occasione per ritrovarsi e ricostruire un rapporto intimo e profondo con i propri figli, un rapporto sano in cui potersi aprire l’uno con l’altro come mai era stato prima. Nei numerosi incontri a cui ho assistito e nei quali i genitori si confrontano con gli operatori la domanda più ricorrente è: «Cosa posso fare per aiutare mia figlia o mio figlio?» La risposta che il Dott. Gravina ha dato in occasione dell’ultimo convegno sintetizza nel migliore dei modi quello che a mio avviso un padre o una madre può fare:

«Nella normalità un genitore cerca sempre di dare le soluzioni, cerca di spiegare, di convincere, di alleggerire le situazioni pensando che questo sia il modo migliore per aiutare il figlio; ma in presenza di un DA non può essere così, perché non si può trovare soluzione a qualcosa che non si conosce, non si può spiegare uno stato d’animo che non si sia vissuto e non si può alleggerire una situazione che provoca tanto dolore. Possiamo piuttosto metterci in ascolto, e accogliere tutto quello che ci viene detto anche se sembra non avere senso, dobbiamo astenerci dal giudizio, dobbiamo farci piccoli e con umiltà far capire che non abbiamo risposte a quanto succede ma che ci siamo e ci saremo sempre per loro perché li amiamo.»

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Si dice che i disturbi alimentari siano le malattie dell’anima. L’anima è difficile da curare: l’anima si cura con l’ascolto, le attenzioni, la presenza e sicuramente con le giuste parole. Quindi impariamo ad ascoltare, a essere presenti e ad usare con cura le parole. Le parole hanno sempre un peso e ognuno di noi ha provato come queste possano ferire o lenire un dolore; quindi, impariamo a dare il giusto peso alle parole che ci vengono regalate e a scegliere con cura le parole da dire perché queste non diventino armi per ferire e allontanare. Imparare ad usare le parole necessita di un allenamento costante e faticoso. Voglio riportare alcune frasi che molto spesso escono dalla bocca di un genitore ferito e addolorato, sicuramente con lo scopo di scuotere e motivare, ma che non hanno l’effetto sperato: •

Ma perché ti comporti così? Ma cosa abbiamo fatto di male perché tu ci faccia questo?

Ma cerca di ragionare e smetti di essere così egoista!

Vuol proprio dire che non sai cosa sono i problemi. Ti abbiamo dato tutto e questo è il risultato!

Non ti vedi? Sei uno scheletro che cammina.

Ma quando la smetterai con questa fissazione?

Sei la nostra più grande sconfitta; per fortuna che i tuoi fratelli non sono come te.

Queste frasi sono la dimostrazione del nostro ‘egoismo’ di genitori: pensiamo a noi, non alla sofferenza che porta la persona affetta dalla malattia ad avere certi comportamenti, e le passiamo il messaggio di essere sbagliata o cattiva, instillando in lei ulteriori e inutili sensi di colpa. Potremmo invece dirle: •

Non capisco quello che ti sta succedendo, ma ti voglio bene e ti starò vicino sempre. Aiutami a capire.

Fermiamoci e proviamo a ripartire insieme.

Parlami: sono qui e ti voglio ascoltare.

So bene che non hai scelto di ammalarti.

Cerchiamo insieme un modo per farci aiutare.

Se qualche volta mi arrabbio, è perché questo disturbo mi stanca; non sono arrabbiata con te ma con la malattia.

Ci sono poi frasi che tendono a sottovalutare lo stato d’animo o le ragioni che hanno contribuito a questo malessere. Queste possono provocare reazioni aggressive e di allontanamento, perché tali sono le reazioni umane di chi vive una grande sofferenza e nel momento in cui, con difficoltà, riesce ad aprirsi e a esprimere il proprio dolore, lo vede sminuito se non addirittura deriso: •

È tutto nella tua testa!

Ma smettila di lamentarti di tutto e di tutti.

C’è chi sta peggio di te.

Come al solito ti piace esagerare.

Ma quanto sei pesante!

Non hai nessun motivo per sentirti così.

Capita a tutti di essere un po’ depressi; prova a svagarti.

Sorridi e il mondo ti sorriderà!

Non puoi stare a piangerti addosso: devi reagire. Fammi vedere che ce la fai.

Potremmo invece dirle: •

Non riesco ad immaginare come ti possa sentire e quanto sofferenza ti porti dentro, ma non mi escludere, permettimi di starti vicino.

Raccontami cosa ti fa così tanto soffrire.

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ConTatto •

Non ho le parole ma ti voglio abbracciare.

So che stai facendo un grande lavoro, e sono contenta/o che tu ce la stia mettendo tutta.

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Potrei andare avanti nel riportare frasi di genitori impauriti, nervosi, e stanchi per non vedere una via d’uscita; frasi che arrivano ai nostri figli come giudizi, accuse o addirittura disinteresse con il risultato di farli sentire ancora più soli e di allontanarli da noi e dalla vita. Ma voglio ricordare a tutti che siamo umani, che ci è concesso sbagliare e che non ci dobbiamo colpevolizzare inutilmente: non serve, non aiuta. Aiuta invece capire e riflettere su cosa poter fare per essere persone migliori, oltre che genitori migliori. Allora decidiamo che nelle nostre parole ci deve essere sempre il seme della speranza per aiutarli a non scoraggiarsi, la comprensione e la pazienza per dimostrare il nostro amore e l’attenzione per ogni piccolo passo che conduce ad un cambiamento. Vi lascio con una domanda che puntualmente il Dott. Gravina ci ripropone:

«Siete sicuri che i vostri figli sappiano quanto bene volete loro?» Ecco, forse è questo l’obiettivo che deve guidare la scelta delle parole: forse, se teniamo bene in mente questa domanda, troveremo le parole giuste e il loro peso contribuirà a spostare la bilancia verso la guarigione delle nostre figlie o dei nostri figli e dell’intera famiglia.

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«Devo pur sopportare qualche bruco Picture Credits: Demelsa Haughton

se voglio conoscere le farfalle: sembra che siano così belle!» [Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe]

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