Oltre. Tenebra e luce

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Curatori Luciano Baiguera Paola Mutti Margherita Sommese


Con il patrocinio gratuito

Con il contributo

Con la collaborazione

OLTRE TENEBRA E LUCE Auditorium BCC Agrobresciano Ghedi 27 ottobre - 11 novembre 2018 Un sentito ringraziamento a tutti coloro che in vari modi hanno contribuito alla realizzazione di questo volume. Luciano Anelli Paolo Linetti Arturo Mor Fausto Moreschi Davide Moretti Carmela Perucchetti Simonetta Scalvini Irene Tirloni Michela Valotti Progetto grafico Mara Cominardi


Indice 7

Prefazione

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Tenebra e luce

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Dolore e speranza

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Oblio e salvezza

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Inferno e paradiso

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Il male e il bene

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Mito e realtĂ

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Scuola primaria


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Oltre Tenebra e luce Un filosofo greco, giocando con le parole, diceva: “Finché io ci sono, la morte non c’è! Quando la morte ci sarà, non ci sarò io! Perché preoccuparmi?” Dallo sviluppo del pensiero magico in poi, i popoli hanno sempre cercato di immaginarsi e di codificare una vita dopo la morte: una narrazione che riuscisse a riempire quella vertigine insondabile e insensata. Immaginare una vita dopo la morte implicava però immaginare anche un luogo in cui le anime potessero abitare, un’organizzazione spaziale che riflettesse alla perfezione la credenza della cultura che l’aveva prodotta. Di riflesso, l’aldilà riempiva di senso e scopo la vita sulla terra, facendo di questa un banco di prova per quello che sarebbe venuto dopo. Il regno dei morti si popola così di oggetti ed esseri del mondo visibile, di stanze, cammini, sentieri, formule magiche ed esami che l’anima avrebbe dovuto superare per accedere al suo riposo eterno. L’oltretomba inizia ad occupare un preciso luogo (spesso a ovest, associato al tramonto del sole) e svolge una precisa funzione nell’economia cosmografica dell’intero universo. Il regno dei morti diventa dunque un riflesso del

regno dei vivi: i suoi abitanti sviluppano un ruolo di mutua dipendenza con quelli che rimangono sulla Terra. Le varie tradizioni religiose hanno descritto l’aldilà con una grande varietà di simboli e con sfumature diverse anche all’interno della stessa tradizione. Dante Alighieri, uno dei massimi rappresentanti medioevali della tradizione cristiana e grande conoscitore della Bibbia, si è veramente sforzato di immaginare e di descrivere l’aldilà cristiano proprio attraverso numerose simbologie e metafore, nel suo capolavoro “La Divina Commedia”. È attraverso queste rappresentazioni che la nuova proposta culturale dell’Associazione Nexus, dal titolo “OLTRE – TENEBRA E LUCE”, vuole essere, attraverso l’arte, un’occasione di conoscenza e di ulteriore avvicinamento ai grandi temi dell’uomo. Rassegna ormai giunta al sesto edizione e che quest’anno affronta un tema molto complesso. Alla domanda “Cosa c’è dopo la vita terrena?” le risposte sono state, nella storia dell’uomo, molteplici. Si tratta di una delle domande più antiche che l’uomo si sia posto. E sin dall’antichità l’arte ha tentato di rappresentarne le risposte.

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Quando parliamo di questi temi, non abbiamo paragoni nella vita di ogni giorno, non riusciamo a fare esempi chiari che possano aiutarci a capire. Anzi, spesso gli esempi confondono le idee. Morte, paradiso, inferno, aldilà... sono esperienze chiare soltanto a chi le vivrà, per gli altri si tratta solo di provare a parlarne, ma rimanendo sempre con qualche dubbio irrisolto. Ma non potrà essere diversamente! Credo alla vita eterna. Il cattolico lo ripete ogni domenica durante la Messa. E l’Inferno esiste davvero? Nel linguaggio della Chiesa le realtà ultime, cioè quello che accadrà a ogni uomo alla fine della sua vita terrena, si chiamano “novissimi”. Paradossalmente, pur riguardando ciascuno di noi, se ne parla poco. L’idea infatti che si possa morire, le domande ultime su chi siamo e dove andremo, sono escluse dal dibattito pubblico, quasi che ignorandole non ci riguardassero. Invece si tratta di concetti fondamentali, importantissimi, cui non a caso la Chiesa dedica molta attenzione. Più nello specifico i “novissimi” sono quattro: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso. Il Cristianesimo lega, in modo indissolubile, la morte alla risurrezione. Anzi, per san Paolo sarebbe vana, inutile, assurda la nostra fede se non ci fosse la risurrezione. Non avrebbe quindi senso il Cristianesimo se non ci fosse alla base la risurrezione. San Paolo è stato il primo ad occuparsi della dottrina cristiana sulla morte e sulla risurrezione. Spesso, parlando della morte, dimentichiamo 8

la vita! La morte appartiene alla vita, fa parte della vita. E’ l’unica certezza che abbiamo. Se vogliamo sapere come sarà l’aldilà, il paradiso, l’inferno... guardiamo questa vita. A volte sia il paradiso che l’inferno iniziano in questa vita. Il paradiso è la scelta di Dio, è lo stare con Dio (che, ormai lo sappiamo, è legato indissolubilmente allo “stare” con gli altri!). L’inferno è la scelta di voler stare senza Dio, è la mancanza di Dio nelle azioni, nei valori, nei comportamenti. La morte è il passaggio misterioso tra questa e l’altra vita attraverso l’OLTRE. Un ideale dialogo fra antico e contemporaneo si snoda attraverso le sette sezioni della mostra. Tenebra e luce, incentrata sull’icona, immagine dell’invisibile che conduce al mistero dell’aldilà. Dolore e speranza, una sequenza di opere pittoriche, scultoree e incisioni realizzate tra il Cinquecento e l’Ottocento, con all’interno grandi autori tra cui Domenico Tintoretto, Francisco Goya e Luis Dorigny che affrontano il tema dal punto di vista della storia sacra e del mito, con interessanti risvolti interpretativi. Oblio e salvezza, sezione costruita sul vedere oltre, attraverso due pittori del secondo Novecento, Fausto Pirandello e Jean Guitton, opere prestate dalla Collezione Paolo VI di Concesio. Inferno e Paradiso, corpus di quindici opere di contemporanei messe a disposizione dall’Associazione per l’Arte Le Stelle di Brescia che propone un percorso visivo sui versi finali delle tre cantiche dantesche. Mito e realtà, sezione di grafiche realizzate dallo Studio


Ebi Brescia di Paolo Linetti che propone un avvincente viaggio nella mitologia classica. Sempre presente la collaborazione con alcune associazioni ghedesi che condividono il progetto: la Proloco che quest’anno presenta lo scultore bresciano Lino Sanzeni, in mostra con due opere. il Circolo fotografico Lambda che aderisce per il terzo anno consecutivo e per questa edizione presenta una mostra fotografica del socio onorario Francesco Cito, fotoreporter di fama internazionale, a costituire la sezione Il male e il bene. Infine un “fuori mostra” dal titolo Noi e Le stelle della scuola primaria dell’istituto Comprensivo “Emiliano Rinaldini” di Ghedi. Questa rassegna espositiva giunge alla sesta edizione grazie all’importante collaborazione con la Collezione Paolo VI di Concesio di Brescia e con alcuni collezionisti privati; da quest’anno le collaborazioni si sono arricchite con opere provenienti dall’officina del Torcoliere di Gardone Valtrompia, e dall’Associazione per l’arte Le Stelle di Brescia. In questi anni l’Associazione Culturale Nexus ha costantemente operato nella convinzione che l’arte e la cultura rivestano un ruolo centrale sia per la crescita individuale sia, di conseguenza, per la stessa coesione della comunità. Si situano in linea con questa mission le mostre tenutesi dal 2010 ad oggi presso l’Auditorium della Bcc, per un totale complessivo di oltre

cinquemila visitatori. Un ringraziamento particolare va al sostegno della Bcc Agro Bresciano di Ghedi che sin dall’inizio ha ospitato nell’Auditorium della sede di Ghedi le varie mostre, a tutti i fotografi e artisti contemporanei e alla spontaneità e freschezza dei bambini delle classi quarte della Scuola Primaria Istituto Comprensivo “E. Rinaldini” di Ghedi e alle maestre che li hanno guidati. Margherita Sommese

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tenebra

e

luce



L’Icona Bello estetico e bello teologico L’icona è soprattutto teologia. Trubeckoj ha descritto l’icona come una “contemplazione a colori”, mentre padre Pavel Florenskij l’ha definita “un richiamo al Prototipo divino”. Il significato teologico dell’icona è esprimere nella lingua dell’arte le verità dogmatiche rivelate agli esseri umani nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa. Nella rappresentazione pittorica, sia che si consideri l’autore dell’opera o il fruitore di questa, risulta evidente che ad affermarsi, in modo cosciente oppure irriflesso, è «la personalità umana». In questo caso la capacità espressiva dell’artista e la sua abilità nel servirsi di colori e di tecniche particolari assumono la massima importanza, mentre il contenuto della realizzazione pittorica viene ritenuto secondario. L’iconografia si presenta come un’arte decisamente contrapposta all’esaltazione della libera creazione del pittore. Secondo L.A. Uspenskij, «la bellezza di un’icona [...] è espressa dall’artista soggettivamente, secondo il rifiuto cosciente del suo io, che si annulla di fronte alla Verità rivelata» Se nella pittura occidentale, sia profana sia religiosa, prevale il «culto del

personale, dell’esclusivo e dell’originale», l’iconografia può essere definita un linguaggio espressivo allusivo e simbolico del divino, la cui intenzione «non è di provocare né di esaltare in noi un sentimento umano naturale. [...] Il suo fine è di orientare verso la Trasfigurazione tutti i nostri sentimenti e tutti gli altri aspetti della nostra natura, spogliandoli di ogni esaltazione che non potrebbe che risultare negativa e nociva». La venerazione dell’icona, ampiamente diffusa soprattutto presso il popolo russo, non va perciò considerata quale semplice devozione ad un’immagine votiva. Attraverso la contemplazione dei colori e dei soggetti rappresentati, il fedele può cogliere una realtà diversa da quella umana, ossia la presenza di Dio: non venero la materia, ma venero il Creatore della materia, che per me si è fatto materia, che ha assunto la vita nella materia e per mezzo della materia ha realizzato la mia salvezza. L’icona non ha un valore puramente estetico, bensì intende essere un tramite reale della Rivelazione. La dimensione estetica si perde quasi totalmente a favore di quella teologica e l’icona viene a essere immagine anticipatrice dell’eschaton, della piena realizzazione 13


del progetto di Dio sull’uomo. Se l’icona custodisce un carattere rivelativo e teologico, si può ben comprendere come la figura dell’iconografo non possa essere assimilata a quella del pittore occidentale. Il carattere liturgico-sacrale del manufatto richiama un concetto di bellezza molto particolare, quello della «bellezza-somiglianza divina», tenendo sempre ben presente che Dio stesso si è fatto uomo, secondo le parole dell’evangelista Giovanni: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Tratto da Valentina Dordolo “L’arte dell’icona: ascesi e contemplazione”

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L’icona fa parte della Deesis composta da tre tavole. Il termine Deesis tradotto dal greco significa “supplica”. Si tratta dell’ultima preghiera di intercessione che tutti i santi indirizzeranno a Cristo Giudice per il perdono dei peccati degli uomini nel momento della Seconda Venuta del Signore per giudicare i vivi ed i morti. La Deesis è integrata quindi nel contesto escatologico del Giudizio universale e deve aiutare, grazie alla potente intercessione dei santi, il perdono e la salvezza degli uomini. Questo è il significato principale della composizione che può essere rappresentata sia su più tavole, sia su una sola tavola: l’ultimo caso si riscontra più raramente. L’iconografia della Deesis ebbe una sua evoluzione nel corso dei secoli e conobbe una larga diffusione nell’arte bi-

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zantina e in quella russa antica a partire dai secoli X-XI. Nel primo periodo la Deesis, di solito, non comprendeva che tre personaggi principali raffigurati in piedi. La Madre di Dio si presenta di solito alla destra di Cristo. Nella nostra icona ella è raffigurata a mezzo busto, girata di tre quarti verso Gesù. Il suo capo è leggermente chinato, la mano destra è alzata nel gesto di supplica, mentre nell’altra ha un cartiglio. La Vergine indossa una veste blu e un maphorion di color porpora con i risvolti che scoprono una fodera rossa. Sopra il maphorion vi è un altro velo rosso, più piccolo, decorato con fiori. Il tipo iconografico della Vergine della Deesis che regge un cartiglio in mano è chiamato Paraklesis, vale a dire “preghiera”.

Madre di Dio della Deesis Fine del XVIII secolo, Russia centrale — 44,7x36,2 cm


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L’icona rappresenta la parte centrale della Deesis. Cristo è raffigurato come Pantocratore, “Colui che tutto regge”. Egli veste un chitone rosso ornato di fiori e un imatio scuro. I suoi occhi non fissano lo spettatore ma guardano in lontananza con un sereno distacco. Il volto è reso con il morbido modellato. Con la mano sinistra Gesù sorregge il Vangelo.Il Vangelo tra le mani di Cristo ricorda il Libro della Vita di cui parla l’ApocaIisse (Ap 5), che solo l’Agnello immolato in sacrificio per i peccati del mondo e che verrà a giudicare il mondo è degno di aprire. Il libro ha il taglio di color rosso, simbolo del sangue, che permette di comprendere l’immagine nel suo contesto simbolico: Cristo appare qui come una vittima, e nel contempo come il Sommo Sacerdote che offre in sacrificio la vittima. La mano destra è sollevata in segno di benedizione “alla greca” che ha un profondo simbolismo — è il gesto che confessa la divina umanità di Cristo. Il manuale di pittura del Monte Athos del XVIII secolo, attribuito a Dionigi di Furna, che ha consegnato molte tradizioni dell’epoca bizantina, insegna: «Quando rappresentate la mano che benedice,

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non congiungete insieme le tre dita, ma incrociate il pollice con il quarto dito in modo che l’indice rimanga dritto e il medio un po’ curvato a formare il nome di Gesù (IC). Il pollice si incroci con il quarto dito e il quinto rimanga un po’ curvato a formare il nome di Cristo (XC). Queste quattro dita costituiscono l’abbreviazione di Gesù Cristo. Cosi la divina Provvidenza ha voluto che le dita dell’uomo, di lunghezze diverse, fossero disposte in modo tale da poter formare il nome di Cristo». Il monogramma di Cristo «IC» «XC», racchiuso in due piccoli cartigli, appare sul fondo della tavola. Nonostante la semplicità dello schema iconografico, che appartiene al novero delle tipologie iconografiche più antiche e ampiamente diffuse nell’arte bizantina e russa, l’immagine di Cristo Pantocratore appartiene alle raffigurazioni del Salvatore più complesse e dense di significati. Essa svela la storia del suo ministero salvifico, del cammino attraverso il quale coloro che cercano la verità giungono alla vera conoscenza e alla vera visione di Dio, all’unione con il Verbo sempiterno.

Cristo Pantocratore della Deesis Fine del XVIII secolo, Russia centrale — 44,7x36,2 cm


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L’icona rappresenta la terza parte della Deesis. San Giovanni è raffigurato rivolto di tre quarti verso la figura centrale di Cristo, reca in mano un calice eucaristico e indica la piccola figura del Cristo Bambino. L’interno del calice è rosso, colore del sangue versato dall’Agnello sacrificato. Giovanni Battista indossa un vestito di peli di colore rosa e ha sulle spalle un imatio verde, segnato sulle pieghe con l’assist dorato. Il volto è inquadrato da ricchi capelli castani arruffati che si stendono in riccioli sopra le spalle. Il Battista è rappresentato solitamente come anacoreta nel deserto, ha l’aspetto emaciato e stanco, la barba lunga e i capelli disordinati. Giovanni Battista occupa un posto particolare nel culto e nell’iconografia cristiana. La sua iconografia si è sviluppata sulla base dei testi del Vangelo: «ln quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia quando disse: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e mie-

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le selvatico. Allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano; e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano» (Mt 3,1-6). Come profeta e precursore di Cristo, San Giovanni è posto tra i grandi profeti d’Israele. Egli è la figura che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento poiché considerato il primo martire della nuova fede. I fatti salienti della sua vita sono inoltre legati alle vicende del Cristo: è il primo testimone dell’Incarnazione, il Battista del Signore. Il culto di San Giovanni, ritenuto grande asceta, l’unico santo uguale agli angeli, ebbe un ruolo importante anche nel monachesimo orientale, in particolar modo negli ultimi due secoli della storia bizantina, nell’ambito della corrente mistica degli esicasti. I monaci vedevano in lui l’esempio da seguire. L’importanza della sua figura consiste nel suo essere l’unico tra i santi di cui viene commemorata la natività (24 giugno), il giorno della morte (29 agosto) e ben tre ritrovamenti delle sue reliquie. Il suo culto è molto diffuso e popolare in tutto il mondo cristiano e a lui sono dedicate numerose cattedrali e chiese.

San Giovanni della Deesis Fine del XVIII secolo, Russia centrale — 44,7x36,2 cm


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Il Menologio (Mineja, in greco mese) è un libro liturgico che raccoglie le preghiere liturgiche, gli inni e le preghiere dedicati a ciascun santo per tutti i giorni e mesi dell’anno. Sulle icone con tale denominazione venivano raffigurati i santi e le feste la cui memoria veniva celebrata nei menologi liturgici. L’icona presenta la sequenza dei santi ricordati nel calendario liturgico nel corso del mese di novembre. In quattro registri di uguale altezza vi sono rappresentati santi e feste che si susseguono cronologicamente, secondo il succedersi delle loro memorie nel calendario liturgico. I santi sono raffigurati in piedi, in pose libere e naturali, generalmente rivolti l’uno verso l’altro: non vengono quasi mai utilizzate pose frontali, tipiche in genere delle icone menologi.

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Menologio XVIII secolo, Russia Centrale — 35×30,5 cm


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La tavola unisce due diverse tecniche di esecuzione: la pittura su legno e la fusione in bronzo. Il crocifisso metallico è inserito in un incavo praticato al centro della tavola e rappresenta il nucleo compositivo centrale intorno al quale sono disposte le raffigurazioni degli astanti; nel registro superiore, vi sono le scene della Deposizione dalla croce e della Deposizione nel sepolcro. L’usanza di inserire una croce all’interno di una tavola lignea risale agli antichi reliquiari-stauroteche bizantini, usati per custodire frammenti del legno della Croce del Signore. La Crocifissione è raffigurata secondo l’antico canone: la croce s’innalza sul Golgota nelle viscere del quale è visibile una grotta con il teschio di Adamo; il corpo di Cristo è fissato alla croce con quattro chiodi, la testa è inclinata a sinistra. Ai lati della croce sono visibili una lancia e una canna con la spugna imbevuta di aceto. Alla sommità della croce si affaccia Dio Sabaoth benedicente. Due angeli si presentano in volo con le mani velate. Nella parte bassa della traversa superiore si legge l’iscrizione «Re della gloria». Ai lati della croce vi è il monogramma di Cristo «IC» «XC». Sotto le braccia di Cristo corre l’iscrizione: «Adoriamo la tua croce, Signore, e veneriamo la tua santa Resurrezione».

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Nel registro superiore, a sinistra, è raffigurata la Deposizione dalla Croce, mentre l’angolo destro è riservato alla Deposizione nel sepolcro. Questi temi seguono cronologicamente la Crocifissione di Gesù e fanno parte della funzione del Venerdì Santo. Le due raffigurazioni compaiono nell’arte bizantina non prima dell’XI secolo, in seguito ai cambiamenti avvenuti nella celebrazione della Settimana Santa. Essi vogliono rappresentare non solo determinati episodi del Vangelo, ma, anzitutto, trasmettere le immagini generate dalla funzione liturgica di quel giorno che celebra i momenti più drammatici della morte di Gesù. Ai lati della croce ci sono i due ladroni e sono raffigurate le figure dolenti tra cui la Madre di Dio, san Giovanni il Teologo e il centurione Longino. All’orizzonte si scorgono le mura di Gerusalemme.

Crocifissione XVIII secolo, Russia Centrale — 54×44,5 cm


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La nascita di Cristo è stata sempre celebrata e inneggiata dai cristiani in un modo o nell’altro, in quanto è fondamentale per la Fede. La Parola di Dio in passato poteva apparire come un angelo del Signore, o come il fuoco divino del roveto ardente, ma ora, da questo momento in poi, Egli è diventato uno di noi; e non solo come un uomo adulto disceso dal Cielo, ma con umiltà Dio è nato da una donna, ed è giunto a noi come un piccolo infante, senza parole. Questo è ciò che è visibile nell’icona della Natività. La composizione di questa icona della Natività attinge ai racconti del Nuovo Testamento, e alle antiche narrazioni sulla vita della Vergine Maria. Il Cristo bambino e sua madre sono raffigurati in una grotta, circondata da rocce sfocate, inospitali, che riflettono il mondo crudele in cui Gesù è nato. Il Vangelo racconta che Giuseppe e Maria

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Natività Fine del XVIII secolo, Russia— 31,5×26 cm

non riuscirono a trovare una camera in una locanda quando giunsero a prendere parte al censimento a Betlemme, e così Gesù fu deposto in una mangiatoia per animali. In quel tempo, gli animali non erano ospitati in stalle di legno, ma in grotte e anfratti nelle colline, e quindi questa “stalla” è mostrata nell’icona. In alto nel cielo c’è una stella, che fa scendere tre raggi, simbolo della Trinità, verso il bambino Gesù. Questa stella rimanda a quella seguita dai Magi, i saggi persiani dell’Oriente, che stanno portando doni per Cristo. Ma qui non sono presenti. A destra San Giuseppe con le mani giunte in segno di preghiera. Oltre a sua madre e a San Giuseppe, l’unica compagnia che Gesù Cristo ha nelle prime ore della sua vita terrena sono un bue e un asino, qui ne è rappresentato solo uno dei due. Questa è l’umiltà dell’incarnazione di Dio sulla terra.


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La storia di quest’icona, che oltre ad essere un capolavoro artistico divenne ben presto oggetto di grande venerazione per i suoi numerosi miracoli, è indissolubilmente legata alla storia della nazione russa. Dipinta a Bisanzio e giunta nella Russia agli inizi della sua conversione al cristianesimo, l’immagine della Vergine della Tenerezza di Vladimir accompagnò il popolo russo in tutte le vicissitudini della sua storia, fino alla rivoluzione del 1917. Il modello originario di questa icona è l’icona della Madre di Dio di Vladimir del XII sec., ora conservata a Mosca. L’icona della Madre di Dio della Tenerezza (o Elousa) appartiene al gruppo della Brephocratousa (“Colei che porta il Bambino”) e mostra un atteggiamento di mutua e affettuosa sollecitudine tra Madre e Figlio. Maria e il Bambino si abbracciano in modo intenso e si accarezzano; i loro volti si ravvicinano guancia a guancia in una dolce espressione di umano affetto. L’icona manifesta i sentimenti di tenerezza vicendevole tra la Madre e il Figlio, ma rivela anche i sentimenti della mestizia e della paura. Lo sguardo intenso e gli occhi leggermente sbarrati intendono esprimere il penetrante dolore della Madre che già conosce il destino del Figlio; il Bambino invece, con la posizione del suo corpo e con le braccia protese verso il collo della Madre, sembra cercarne la protezione. Il patire della Madre per il Bambino si

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Madre di Dio di Vladimir Scuola di Mosca — 44,5x35,5 cm

trasforma, in questa icona, in materna e tenera preoccupazione per tutte le creature. Il termine stesso eleousa, oltre a esprimere l’affetto reciproco tra la Madre e il Figlio, designa appunto l’atteggiamento amoroso della Madre volto a suscitare la pietà (eleos) e la misericordia del Figlio verso i fedeli. Si può quindi dire che questo tipo iconografico mette in rilievo l’affetto che lega Madre e Figlio in vista del bene da elargire ai fedeli. Il Bambino che Maria tiene in braccio è il Verbo di Dio incarnato: è Gesù Cristo, come indicato dal monogramma IC XC; Egli è “Dio da Dio” come mostrato dall’assist del suo manto (l’assist – tratteggi dorati – è simbolo della divinità); è l’Uno della Trinità, come indicato dal monogramma O ΩN iscritto nell’aureola e significante il nome stesso di Dio rivelato a Mosè sul Sinai; Egli è il Maestro perché porta il clavo sulla spalla. È il Salvatore, cui allude la croce inserita nel nimbo. La Madre di un tale Bambino è sì Maria di Nazareth, ma anche la Theotokos, la Aeiparthenos e la Panaghia. Theotokos: Maria è la Madre di Dio, per questo nell’icona compare l’appellativo mhthr theou, o il monogramma corrispondente di MP θΥ. Aeiparthenos: Maria è la Semprevergine: la sua verginità è simboleggiata dal velo o maphorion, e dalle tre stelle che ornano la fronte e le spalle (una è coperta dal Bambino). Panaghia: Maria è la Tuttasanta che porta il Panaghion, o Tuttosanto tra le braccia. La santità è designata soprattutto dall’aureola.


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Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:

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Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.

Strage degli Innocenti XVIII secolo, Scuola di Mosca — Basma in argento, 52×91 cm

(Matteo 2,16-18)


Strage degli Innocenti XIV secolo, Scuola di Mosca — Tavola in legno e bronzo argentato, 45x85 cm

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Vladímir I di Kiev, detto il Santo o il Grande è stato Gran Principe di Kiev dal 969 alla morte. La sua fama è legata alla sua conversione al cristianesimo e al cosiddetto “battesimo della Rus’” nel 988. All’inizio della sua vita, Vladimir era pagano e adorava le divinità slave. Dopo l’arrivo dei Variaghi, il pantheon slavo della Rus’ comprendeva ormai circa centoventi divinità: l’assimilazione tra elemento slavo ed elemento germanico era ormai completa, i nomi degli dèi erano slavi, come tipicamente slavi erano i rituali. Sebbene nella Rus’ vi fossero già alcuni cristiani, la cui conversione risaliva al periodo di governo di Ol’ga, Vladimir rimase, inizialmente, pagano, erigendo statue ed altari a divinità come Perun e Veles. All’anno 986 la Cronaca riporta il cosiddetto “racconto dei quattro missionari”: un musulmano bulgaro, un latino forse germanico, un ebreo khazaro e un ortodosso greco. Chiaramente il “filosofo” greco ha la meglio sui suoi avversari, e persuade Vladimir ad abbracciare il cristianesimo.

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Dopo il battesimo, Vladimir chiamò in Russia architetti e pittori bizantini, che edificarono chiese e dipinsero icone attenendosi ai canoni bizantini. Soprattutto chiamò chierici e monaci per l’istruzione sua e del popolo. La diffusione del cristianesimo procedette molto lentamente: il territorio era vastissimo, la lingua era difficile, e soprattutto nelle regioni periferiche (Velikij Novgorod, Pskov) la popolazione non ne voleva sapere di diventare cristiana. Ancora nella seconda metà del XII secolo nella letteratura di Novgorod i principi vengono chiamati “figli di Dažbog”, tanto che lo storico Boris Rybakov ha parlato di dvoeverie, il “dualismo slavo”: sebbene si fossero convertiti al cristianesimo, gli Slavi avevano conservato delle usanze non cristiane (per esempio, si usava pregare per i defunti non cristiani, si poteva ripudiare la moglie, era tranquillamente in uso il concubinato, si utilizzavano invocazioni agli dèi “pagani” nei giuramenti).

Principe Vladimir il Grande XVIII secolo, Scuola di Mosca — 67.5x48 cm


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dolore

e

speranza


L’interessantissima composizione sacra è opera veneta di fine ‘500 o inizio ‘600. I caratteri sono quelli di un allievo/ imitatore/continuatore di Palma il Giovane, cioè di uno dei “Sette pittori in certa guisa consimili” di cui parlava il Boschini. Lo si ricava dall’ambientazione molto veneziana (alla Paolo Veronese, con quel pezzo brillante del minuscolo cagnolino), dai colori profondi ma nello stesso tempo brillanti (il rosso, l’aranciato, il verdone), e dalla tipologia che comunque rientra sempre nell’ ispirazione del Palma. Fra questi artisti Sante Peranda (Venezia 1566 — 1638) vi si avvicina più degli altri per le fisionomie femminee, per il tratto della pennellata, per quella piccola gloria di angioletti in alto, per le qualità cromatiche, ed in un certo senso anche per l’inscenatura architettonica perché il Peranda altre volte recupera fondali simili alla Tintoretto e alla Veronese. E quindi l’opera — pur senza avere del tutto lo smalto cromatico del Maestro veneziano — va senza dubbio ascritta all’esecuzione nella sua bottega, probabilmente anche con il suo intervento ideativo e sotto la sua sorveglianza. Luciano Anelli

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L’Annunciazione / Maestro veneziano nella bottega di Sante Peranda Fine ‘500 — Inizio ‘600 — Olio su tela, 97x70 cm


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Adorazione dei magi / Domenico Tintoretto XVI secolo — Olio su tela, 92x114 cm

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Decollazione di San Giovanni Battista / Anonimo lombardo Metà XVII secolo — 78x94 cm


Flagellazione di GesĂš / G.L. De Deyster Olio su tela, 85x155

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«Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,11-12). Si tratta di una verità che non si comprende se non con la fede, in quanto radicata nella misteriosa alterità di Dio, che si è rivelata e donata nel suo Figlio Gesù, per mezzo dello Spirito. Soltanto nella profondità del mistero trinitario di Dio riposa il senso dell’evento di Gesù, poiché da esso proviene e ad esso conduce. L’opera, sotto forma di dittico, propone una lettura della Croce attraverso un’inquadratura di tipo orizzontale, basata sul rapporto provenienza/destino: nel Gesù crocifisso, guardato di fronte, possiamo

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Via lucis. Stazione prima / Nicola Zaccaria — UCAI, Sezione Brescia 2017 — Stampa fotografica su lino con retroilluminazione, 60x40 cm


avvertire lo sfondo da cui proviene che è il Padre che lo ha inviato; nello stesso Gesù sulla croce, guardato di spalle, possiamo intravedere dove va ed il suo orizzonte è il Padre che lo accoglie, crocifisso e risorto, nel suo seno (M. Gronchi, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, 2012). Ecco allora che la Via Crucis si trasforma in Via Lucis: la sofferenza diviene trionfo, la croce dolorosa diviene croce gloriosa. È in evidenza il senso soteriologico dell’evento di croce che supera lo sviluppo narrativo della storia della crocifissione, tradizionalmente contenuta nel percorso devozionale della via Crucis pasquale, portandolo a compimento.

Via lucis. Stazione seconda. L’ultima / Nicola Zaccaria — UCAI, Sezione Brescia 2017 — Stampa fotografica su lino con retroilluminazione, 60x40 cm

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Speranza, Amore e Bellezza strappano le ali a Saturno / Luis Dorigny 1688 — Olio su tela, 245x168 cm


Pietà / Anonimo XVII secolo, Centro Italia — Olio su tavola, 67x52 cm

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Addolorata / Scuola marchigiana — Ambito del Sassoferrato Metà XVII secolo — Olio su tela, 69x49 cm


Incoronazione Beata Vergine Maria / Anonimo XVII secolo — Olio su tavola di castagno, 67x49 cm

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L’Arcangelo Michele e il drago / Luciano Baiguera e Cristina Brognoli 2018 — Tecnica mista, 320x100x100 cm


Immacolata concezione / Scuola romana XIX secolo — Scultura in marmo bianco

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L’incisione L’incisione è una delle più antiche forme di espressione artistica e molto coltivata non solo quale fine a se stessa, ma anche come strumento di riproduzione di opere originali su altro supporto, e largamente impiegata nelle arti applicate: basti pensare ai punzoni per sigilli, e alle matrici per monete e medaglie. La diffusione dell’incisione è però legata alla nascita della stampa d’arte, ossia dell’immagine incisa solitamente su una matrice lignea, metallica o di pietra, impressa su di un supporto cartaceo mediante un procedimento d’inchiostrazione e di successiva stampa.

L’Officina del Torcoliere

Svolge attività di conservazione, ricerca e didattica, oltre ad occuparsi della valorizzazione delle collezioni presenti. La finalità è di rendere divulgativa e didatticamente comprensibile la collezione; il progetto si pone inoltre come luogo d’incontro di vari settori, finalizzati a un contesto storico-artistico ben preciso. L’Officina ha una sede espositiva ideata con l’intenzione di raccontare le tecniche dell’incisione in modo chiaro,

mostrandone gli strumenti, le matrici e i testi storico-didattici, in un itinerario che comprende la xilografia, l’incisione calcografica e la litografia. A questo interessante percorso didattico fanno da cornice una selezione di stampe originali e libri di rara bellezza, opere di artisti nazionali e internazionali fra i più conosciuti del secolo.

Gutenberg

INVENTORE DELLA STAMPA L’uomo che è tradizionalmente ritenuto l’inventore del libro nella forma moderna, nasce a Magonza col nome di Johannes Gensfleisch, ma è passato alla storia come Gutenberg, poiché i suoi genitori provenivano dal paese omonimo Gutenberg. Come sappiamo non inventò dal nulla, ma ebbe il grande merito di intuire per primo Ia possibilità di pubblicare dei testi in un numero teoricamente infinito di copie, attraverso un nuovo modo di applicare al libro Ie tecniche di incisione già note, combinate però con l’invenzione della matrice, che permise di fondere i singoli caratteri tutti uguali, nel disegno e nella forma, per contenerli sul piano del torchio in modo da poterli riprodurre a pressione sulla carta. 51


PER FARE LIBRI CON LE FORME È ben noto come Ia stampa a caratteri mobili, la grande invenzione di Gutenberg, che diede così decisivo contributo alla diffusione della cultura nel mondo, sia stata preceduta, forse di un secolo, dalla xilografia (la stampa tabellare, tavolette di legno duro e compatto, su cui si incidevano con molteplici ferri assai taglienti, dove si eseguiva il disegno prestabilito e il carattere), l’invenzione a caratteri mobili mise così in risalto la rigidità esecutiva della stampa tabellare. La Bibbia latina data alle stampe da Gutenberg 1453-1455 fu la prima tappa di un processo che cambiò il mondo, è anche detta “Bibbia delle 42 righe” perché si compone di 641 fogli stampati in gotico, suddivisi in due colonne di 42 righe. Nel ‘700 fu trovata una copia di questa Bibbia nella biblioteca Mazarina e per questo fu anche chiamata Mazarina. Considerata il primo libro a stampa a caratteri mobili che si conosca, ne furono stampate 180 copie, per completarle ci vollero tre anni periodo in cui un amanuense avrebbe portato a termine una sola bibbia; era la prima volta che si stampava una bibbia; senza prima aver ricevuto un’ordinazione. Suscitò un immediato entusiasmo per la qualità tipografica. La rivoluzione dell’invenzione della stampa, che quasi sei secoli or sono offrì al mondo una democratizzazione e alfabetizzazione della cultura senza precedenti, rompe i cancelli chiusi della cultura medioevale aristocratica ed ecclesiastica.

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Sweynheym e Pannartz

LA STRAORDINARIA AVVENTURA DELLA STAMPA IN ITALIA La diaspora dei primi tipografi tedeschi, dopo il sacco di Magonza nel 1462, portò molti di essi a venire in Italia, nazione ricca e culturalmente avanzata, per ricercare mecenati che potessero finanziare la nuova “Artem Artificialiter Acribendi”. I monaci e tipografi tedeschi Sweynheym e Pannartz, allievi di Peter Schöffer, socio di Gutenberg, dopo aver lasciato Magonza per cercare la fortuna e dirigersi nel monastero di Santa Scolastica di Subiaco all’inizio del 1460, portarono con sé un tesoro d’inestimabile valore: la conoscenza della tecnica della stampa a caratteri mobili. Chiamati presumibilmente dal cardinale Niccolò Cusano, gli stampatori che erano chierici rispettivamente della diocesi di Magonza e di Colonia fra il 1464 e il 1465, lasciarono la Germania per recarsi a Roma e impiantarvi una tipografia. La morte inattesa del Cusano nell’estate del 1464 e forse altri motivi che oggi sfuggono, convinsero i due monaci a fermarsi e fare tappa a Subiaco nel monastero benedettino dove poterono istallare la prima tipografia sul suolo italiano. Nel 1465 stamparono 4 libri: • un Iibro del Donato, diffusissima opera di grammatica latina a uso delIe scuole, • il “De Oratore” di Cicerone,


• un libro del Lattanzio (il primo libro datato 1465 pubblicato in Italia), • un libro di S. Agostino. Spostandosi dopo due anni a Roma in casa dei nobili Pietro e Francesco Massimo, trasferirono la loro officina; la loro attività romana è testimoniata da un’ampia documentazione fino al 1474. Nel frattempo giungono in Italia altri stampatori, quasi tutti tedeschi che si stabiliscono nelle varie città della penisola. II primo italiano a stampare in proprio è il messinese Giovanni Filippo De Lignamine che inizia la sua attività nel 1470 a Roma. Non dimentichiamo che i tempi in cui i due tedeschi lavoravano, furono assai difficili: rischiarono, infatti, il fallimento con i magazzini colmi di libri invenduti. Arrivarono a rivolgere una supplica a Papa Sisto IV.

Tecniche principali della stampa

XILOGRAFIA Incisione su legno (incisione in rilievo) Dal greco “xilon” (legno) e “grafo” (scrivo - incido). La tecnica xilografica di origine orientale, è il mezzo più primitivo di stampa che precedette l’invenzione della stampa a caratteri mobili metallici, e fu utilizzato per la riproduzione di disegni ornamentali e immagini. L’incisione tecnicamente consiste nello scolpire il legno seguendo Ie linee di un disegno

tracciato. La tavoletta si incide con gli strumenti adatti come scalpelli e bulini e lo spessore deve essere di circa 23 millimetri, altezza del carattere tipografico. La tavoletta incisa, matrice, è inchiostrata da rulli o tamponi sulle parti in rilievo che poi saranno impresse sul foglio eseguendo una pressione con un torchio a leva tipografico. CALCOGRAFIA Incisione su metallo (incisione a incavo) Dal greco “calcos” (rame) e “grafos” (scrivo incido). Tecnica diretta: questa tecnica ricorre a utensili che incidono direttamente suI metallo. Il bulino: è un’asta di acciaio temperato affilato su un manico, taglia nettamente il metallo e lo toglie sotto forma di trucioli, dando così un tracciato puro e severo. Il procedimento del bulino è il più antico e difficile. La puntasecca: di uso molto più libero, la punta ad ago permette degli effetti più immediati. La punta ad ago, non tagliando il metallo, permette un’espressione molto spontanea dove il disegno ritrova tutta la sua libertà e sensibilità. Tecnica indiretta: questa tecnica richiede I’uso dell’acido che intacca il metallo mordendolo. L’acquaforte: la lastra è ricoperta di vernice che la isola dall’acido. Si disegna direttamente sulla vernice con una punta di metallo che togliendola permette all’acido di scavare il solco desiderato.

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L’acquatinta: questa tecnica destinata a creare una grande ricchezza di sfumature e toni ricorre alla colofonia o al bitume sparso sulla Iastra prima riscaldata. Questi materiali particolari creano, seccandosi, una trama più o meno sottile che lascia passare l’acido dando così un aspetto granuloso. Combinandosi con i tempi di morsura degli acidi si ottengono le sfumature che vanno dal bianco al nero. LITOGRAFIA Incisione su pietra (incisione in superficie) Dal greco “litos” (pietra) e “grafos” (scrivo): scrivere sulla pietra. L’invenzione della litografia fu attribuita ad Aoiso Senefelder, nato a Praga nel 1771 e deceduto a Monaco di Baviera nel 1834. Questa invenzione risale al 1796 quando fu scoperto il principio del fenomeno fisico-chimico della incompatibilità dell’acqua con le sostanze grasse. Il principio litografico è appunto basato sulla legge chimica della repulsione dell’acqua sui corpi grassi.

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La matrice può essere di pietra calcarea oppure per motivi di praticità una lastra di zinco; si disegna direttamente sulla pietra con matite grasse e carboncini oppure con pennini e pennelli intrisi di inchiostro grasso e si sottopone a un trattamento chimico che fissa l’immagine. II foglio di carta è collocato direttamente sulla matrice disegnata, che prima viene inumidita e successivamente inchiostrata e collocata su un carrello del torchio. II carrello è fatto scorrere sotto la pressione del coltello di legno duro cui è montata una guarnizione di cuoio. II coltello preme contro la pietra e il foglio, che raccoglie l’inchiostro trattenuto dalle parti grasse della matrice. Nelle litografie a più colori è usata una matrice per ogni passaggio di colore. La stampa è detta piana perché la matrice non porta rilievi. Tratto dal volantino de “L’Officina del torcoliere” di Gardone Valtrompia



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Annunciazione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Visitazione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Adorazione degli angeli / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Annuncio ai pastori / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Strage degli innocenti / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Circoncisione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Battesimo di Gesù / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Le tentazioni / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Discorso della montagna / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Trasfigurazione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Resurrezione di Lazzaro / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


La lavanda dei piedi / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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L’ultima cena / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Gesù nell’orto degli ulivi / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Orto degli ulivi - La cattura / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Cristo e Caifa nel sinedrio / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Gesù al cospetto di Pilato / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


La flagellazione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Via della Croce - Incontro con la Veronica / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Via della Croce - Gesù è inchiodato sulla croce / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Beata Vergine, Giovanni, Maddalena sotto la croce / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Deposizione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Discesa agli inferi / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia


Resurrezione / Anonimo italiano (Nord Italia) Fine ‘500 — Incisione a bulino e calcografia

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Deposizione / Scuola di Dürer Fine ‘500 — Bulino e acquaforte


Dai disastri della guerra / Francisco Goya y Lucientes 1810 — Acquaforte e acquatinta

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Crocifisso / Lorenzo Viani Xilografia


Infernali visioni

Nardo di Cione e la raffigurazione dell’inferno dantesco nell’iconografia tardo-medievale L’incisione ad acquaforte 1 esposta nella presente mostra riproduce il noto affresco realizzato da Nardo di Cione (Firenze, 1320-1366) 2 per la cappella “Strozzi di Mantova”, presso la basilica di Santa Maria Novella a Firenze3. Nella cappella, oltre alla visione della voragine infernale, ispirata direttamente al testo dantesco e collocata sulla parete destra, sono affrescati il Giudizio Universale, sulla parete di fondo e il Paradiso, sulla parete sinistra4. L’artista, fratello di Andrea di Cione, detto l’Orcagna, e autore del polittico collocato sull’altare della cappella, affrescò l’Inferno con precisione e dovizia di dettagli, tanto che è possibile seguire il percorso parallelamente al dettato dantesco. Al fine di rendere ancora più puntuale il legame con il testo, egli riporta all’interno delle formazioni rocciose che descrivono la grotta-voragine una serie di scritte, riferite alle scene o ai personaggi raffigurati.

La rappresentazione è suddivisa in sette ordini, a loro volta spesso “tagliati” da sottili lembi di terra che separano più scene. Nel primo registro è raffigurato l’Antinferno: in alto, al centro spicca la figura di Caronte, il traghettatore infernale, raffigurato da solo mentre rema sulla sua barca all’interno di un bacino simile ad un lago più che ad un fiume. Alla sua sinistra si vede un’anima nella posa medievale del dolente, con la mano appoggiata alla guancia5, perché tormentata da un serpente; sulla destra un gruppo più folto di anime, anch’esse tormentate da serpi mentre inseguono un vessillo. La pena rappresentata è quella degli Ignavi, sebbene nella descrizione dantesca siano mosconi e vespe a tormentare i dannati, il cui sangue è poi raccolto da vermi. Probabilmente l’iconografia fu semplificata per ragioni di maggiore leggibilità da Nardo di Cione, il quale trasformò i vermi

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L’incisione è tratta da: D’AGINCOURT, Storia dell’arte col mezzo dei suoi monumenti dalla sua decadenza fino al suo risorgimento nel XVI secolo, Milano 1825 e misura 45 x30 cm circa. 2  D. PARENTI, Nardo di Cione, in Dizionario biografico degli italiani, vol.77, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012. 3  La cappella è situata alle testa del transetto sinistro dell’edificio ed è intitolata a San Tommaso d’Aquino. 4  Il programma iconografico è completato nella volta dalle raffigurazioni di S. Tommaso e delle Virtù nell’arco d’ingresso da quelle dei Padri della Chiesa e dei Santi domenicani nella vetrata di fondo dalle immagini di S. Tommaso d’Aquino e della Madonna col Bambino nella vetrata di fondo. 5  Per una esauriente descrizione di tale iconografia, risalente alla tradizione medievale si veda: C. FRUGONI, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino 2010.

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in vere e proprie serpi, senza invece rappresentare gli insetti. In linea con il testo è invece la presenza della bandiera, inseguita dai dannati senza sosta, a indicare l’incapacità dei pusillanimi di dedicarsi ad una causa quando ancora erano in vita. Si noti che l’incisione non riporta in questa parte alcuna scritta, mentre nell’affresco, in corrispondenza delle sottostanti formazioni rocciose, l’artista aveva scritto «qui si punisce la setta dei cattivi»: forse tale scritta fu considerata troppo generica al fine dell’identificazione dei soggetti e non venne pertanto riprodotta nell’acquaforte. Alla stessa altezza, sulla sinistra è raffigurato il castello dei Giusti non battezzati, collocato nel primo cerchio dell’Inferno: il Limbo. Nell’affresco fiorentino il luogo veniva identificato da una scritta posta appena al di sotto delle mura merlate, recitante: «Qui si punisce coloro che furo senza peccato ma non ebor fede». Il secondo registro presenta tre distinte scene, collocate nel Secondo e Terzo cerchio e narrate nel VI e V canto dell’Inferno6: sulla sinistra Cerbero, il cane a tre teste individuabile dal nome riportato sotto alla sua figura, strazia le anime dei golosi, divorandole e graffiandole con i propri artigli. Anche il peccato qui punito è individuato da una scritta, presente sia nell’affresco che nell’incisione, recitante: «qui si punisce il peccato della gola»7. Si noti all’estrema sinistra il curioso dettaglio dei golosi, raffigurati anche nel mo6

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mento in cui commettono il loro peccato, ovvero mentre sono intenti ad abbuffarsi intorno a un tavolo imbandito. Al centro del registro sono rappresentate le anime dei lussuriosi trascinati in volo dalla tormenta; nuovamente in questa scena è omessa la scritta, presente invece nell’affresco: «qui sono puniti li peccatori charnali». Infine, la scena più a destra mostra Minosse, rappresentato come un toro e identificato dalla scritta ai suoi piedi; egli attorciglia la coda intorno al corpo varie volte indicando ai dannati il cerchio ove sconteranno la propria pena per l’eternità. Il terzo registro mostra tre scene, tutte narrate nel canto VII e collocate nel Quarto e Quinto cerchio: sulla sinistra si osservano gli iracondi e gli accidiosi, immersi nel fango della palude Stigia e individuati dal testo: «qui sono puniti gli iracondi e gli accidiosi». Più a sinistra è raffigurato Flegiàs, il secondo traghettatore infernale. Egli trasporta sullo Stige Dante e Virgilio, qui raffigurati per la prima volta, facendoli approdare sulla costa ai piedi della città di Dite. Da notare in questa scena due dettagli di una certa rilevanza: in primo luogo lo spiccato realismo con cui è rappresentata l’acqua che da una tubazione viene fatta sgorgare nella palude; in secondo luogo, appena più a destra, alcuni diavoli che lanciano un dannato nel fango, tenendolo a testa in giù. Forse tale iconografia nacque per contaminazione con un episodio del tutto simile, narrato nel canto XXI: in

Per una esauriente descrizione di tale iconografia, risalente alla tradizione medievale si veda: C. FRUGONI, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino 2010. 7  Il testo riportato sull’affresco recita esattamente: qui si punisce il pecchato della ghola».


esso si legge che i barattieri, situati nella quinta bolgia dell’Ottavo cerchio, sono immersi nella pece bollente e che Dante rimane colpito dalla vista di alcuni diavoli che senza pietà lanciano i dannati nel liquido incandescente8. La scena molto ampia presentata sulla destra riproduce in modo puntuale la punizione degli avari e dei prodighi: divisi in due schiere contrapposte essi fanno rotolare enormi massi con il petto e ogni qualvolta si incontrano si insultano, facendo poi dietrofront. Anche in questo caso le anime sono individuabili mediante una scritta collocata sul bordo ai loro piedi9. Pluto, il custode del cerchio è rappresentato in veste di diavolo armato di clava e osserva la scena da un masso sopraelevato. Si noti il dettaglio iconografico delle teste dei dannati, con la tonsura o con indosso cappelli cardinalizi o vescovili, in obbedienza a quanto precisato da Dante ai versi 46-48 del canto VII10. Il quarto registro è interamente occupato dalla rappresentazione della città di Dite, che con il suo scuro profilo merlato spartisce orizzontalmente l’intero dise-

gno. Lungo le mura si stagliano tre torri esagonali, sulle cui cime si trovano diversi diavoli armati mentre sulla torre centrale spiccano le figure delle tre Furie11. Al di sotto delle mura avvampa un vasto incendio, le cui fiamme circondano le tombe scoperchiate da cui emergono gli eretici, individuati dalla scritta «heresiarchi». Si giunge quindi al quinto ordine, dove sono raffigurati i tre gironi in cui è suddiviso l’Ottavo cerchio, nel quale sono punite le rispettive tre tipologie di violenza: contro Dio, contro il prossimo e contro se stessi. Procedendo da sinistra verso destra troviamo i violenti contro Dio12, individuati da un’omonima iscrizione e puniti da una incessante pioggia di fuoco. Più a destra si trova Gerione, mostro-personificazione della frode identificato da una scritta soprastante: egli trasporterà sulla propria schiena Dante e Virgilio aiutandoli a superare il burrone che divide l’Ottavo e il Nono cerchio. Al centro si apre un’ampia rappresentazione dei violenti contro il prossimo, immersi nel Flegetonte, una fossato circolare sorvegliato dai centauri, armati di arco e frecce13. Nell’ultima scena sono raffigurati i vio-

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«[…]e vidi dietro a noi un diavol nero/correndo su per lo scoglio venire./Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!/e quanto mi parea ne l’atto acerbo,/con l’ali aperte e sovra i piè leggero!/L’omero suo, ch’era aguto e superbo,/carcava un peccator con ambo l’anche,/e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo». If, XXI, vv. 29-36. 9  «Qui sono puniti li prodighi e avari». 10  «Questi fuor cherci, che non han coperchio/piloso al capo, e papi e cardinali,/in cui usa avarizia il suo soperchio». 11  If IX, vv. 34-60. 12  Tra i violenti verso Dio sono puniti usurai, blasfemi e sodomiti. 13  I violenti verso il prossimo, ovvero omicidi, predoni e tiranni, sono puniti nel Primo Girone dell’Ottavo Cerchio. Pertanto l’ordine di lettura corretto sarebbe dalla scena centrale, verso sinistra, dove si trovano i violenti contro se stessi (suicidi e scialacquatori), situati nel Secondo Girone, per poi tornare a destra, dove sono raffigurati i violenti verso Dio, situati nel Terzo e ultimo Girone. I canti di riferimento sono il XII, il XIII e il XIV.

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lenti contro se stessi14: i suicidi, tramutati in alberi dai rami spogli, di cui si cibano le arpie e gli scialacquatori, sbranati dalle cagne infernali, di cui si scorge appena un dorso al centro della composizione. Il sesto registro, organizzato su due livelli concentrici che circondano il Pozzo dei Giganti, mostra le Malebolge, suddivise in dieci “scomparti”, a individuare le rispettive dieci fosse concentriche, dette Bolge dove sono puniti i fraudolenti contro chi si fida. Partendo da sinistra e procedendo verso destra in senso orario troviamo i seguenti dannati, identificati sempre da scritte riportate sulle rocce che incorniciano le scene15: • consiglieri fraudolenti, arsi da alte fiamme; • indovini, con il volto girato verso le spalle; • adulatori, immersi nel letame, mentre si percuotono e si graffiano da soli; • seminatori di discordia16, mutilati da un diavolo armato di sciabola; • simoniaci17, interrati a testa in giù in stretti pozzi, circondati da fiamme che ne lambiscono le piante dei piedi; 14

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• barattieri, immersi nella pece bollente e feriti dai diavoli con uncini; • ladri, morsi e avvinghiati da serpenti e loro stessi tramutati in serpi; • seduttori18, nudi e disposti in schiere contrapposte mentre vengono frustati dai diavoli; • falsari 19, malati di lebbra e scabbia: essi non riescono a stare in piedi e siedono schiena contro schiena grattandosi o si trascinano scorticandosi; • ipocriti, rivestiti con manti pesantissimi, nel testo dantesco descritti con cappucci che qui non compaiono. I sacerdoti farisei del sinedrio sono crocifissi per terra e calpestati dalle altre anime: si noti qui la scritta «Chaifas», a indicare il più importante dei sacerdoti. Degno di nota sulla destra è il ponticello visto in scorcio che collega tra loro la bolgia dei seduttori e quella dei simoniaci, in sintonia con i ponticelli descritti da Dante nella similitudine con quelli che collegano i fossati intorno alle fortezze20. Il settimo e ultimo registro coincide con la zona centrale del bas de page, dove è raffigurato il pozzo dei giganti21,

Anche in questo caso è presente una scritta nel bordo sottostante che ne consente l’identificazione: «violenti contro se stessi». 15  Il corretto ordine delle bolge, che qui non viene seguito, è il seguente: seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari. 16  L’espressione utilizzata per individuarli è: lenones, che rimanda più ai procacciatori di donne di malaffare che al concetto dantesco di seminatori di discordia. Tuttavia l’iconografia sembra collimare con quanto descritto da Dante. 17  Individuati dalla scritta «simonia/di» 18  L’espressione utilizzata per indicarli nell’iscrizione è: «scandalosi». 19  L’iscrizione recita letteralmente «alchimisit (probabile refuso stante per “alchimisti”, n. d. r.) e falificatori». 20  If XVIII, vv. 14-18. 21  Sul bordo del pozzo, in alto a sinistra si legge la scritta «tradito», mentre sulla destra «ingrati», quest’ultimo termine riferibile sia ai giganti, il cui peccato di superbia fece sì che sfidassero chi li aveva generati, sia ai traditori degli ospiti, che infransero la fiducia di chi aveva chiesto la loro ospitalità.


circondato da enormi figure, alcune delle quali impugnano clave, corni o scudi. All’interno del pozzo sorge la palude desolata del Cocito, dove i traditori di chi si fida sono conficcati nel ghiaccio ad altezze diverse a seconda della gravità del tradimento commesso: qui sono rappresentati soltanto alcuni dannati con le teste sporgenti, probabilmente i traditori degli ospiti, in quanto si possono vedere i loro volti, mentre i traditori di parenti e patria dovrebbero essere seppelliti fino al collo, ma con la testa rivolta verso il basso. Infine al centro della composizione si trova l’imponente figura di Lucifero, immerso nel ghiaccio fino alla vita; nelle tre bocche maciulla i corpi dei tre traditori dei benefattori: Bruto e Cassio, divorati nella parte bassa del corpo nelle bocche laterali e Giuda, divorato dalla testa al tronco nella bocca centrale. Dal corpo

di Lucifero si dipartono alcuni serpenti, nella mano destra egli stringe un dannato a testa in giù e nella sinistra impugna una grossa clava, avvinghiata da un’altra serpe. A incorniciare ed evidenziare la mostruosa figura vi sono due enormi e scure ali da pipistrello. Le raffigurazioni della Commedia ebbero fin dalle sue prime edizioni una straordinaria diffusione, ma il medium più utilizzato fu la miniatura22, mentre molto meno numerosi furono i cicli ad affresco o i disegni non strettamente legati all’illustrazione di testi manoscritti. Tra questi si possono ricordare, a titolo esemplificativo gli affreschi di Luca Signorelli23 nella cappella di San Brizio presso il Duomo di Orvieto e il celebre corpus di disegni di Botticelli24, tra i quali spicca la visione della voragine infernale. Anche nel noto disegno di Botticelli sono rappresentati in modo puntuale tutti i cerchi

22  Il codice miniato considerato più antico è il 313 della Biblioteca Palatina di Firenze, scritto intorno al 1333 e corredato da trentadue miniature attribuite alla bottega di Pacino di Bonaguida. Per un’esauriente rassegna sulle più importanti opere miniate della Divina Commedia nel XIV secolo si veda: C. PONCHIA, Frammenti dell’Aldilà. Miniature trecentesche della Divina Commedia, Padova 2015. 23  Il programma decorativo, iniziato da Beato Angelico nelle vele, fu portato a termine tra la fine del XV e i primi anni del XVI secolo da Signorelli nell’arco d’ingresso, nelle pareti laterali e nei clipei monocromi situati nello zoccolo della cappella. Gli episodi raffigurati sulle pareti, analogamente alla cappella di Nardo di Cione, erano dedicati al tema del Giudizio Universale e alcuni di essi, come i Dannati, i Beati, l’Inferno e il Paradiso, erano indirettamente ispirati alla Commedia. Gli episodi nello zoccolo erano invece direttamente riconducibili a undici scene tratte dai primi canti del Purgatorio dantesco. Per una esauriente descrizione degli affreschi e un’analisi dei del rapporto tra Signorelli e la commedia si vedano C. GIZZI, Signorelli e Dante e P. SCARPELLINI, L’ispirazione dantesca negli affreschi del Signorelli a Orvieto, in Signorelli e Dante, catalogo della mostra (19 ottobre-15 dicembre) di Torre de’ Passeri (PE), a cura di C. Gizzi, Milano 1991, pp. 89-109 e pp. 133-134. 24  I disegni furono realizzati in due serie tra il 1481 e il 1497. La prima serie è perduta, la seconda serie fu commissionata a Botticelli da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e conta novantadue fogli, di cui ottantaquattro conservati presso il Kupferstichkabinett di Berlino e otto custoditi presso la Biblioteca Vaticana. Tra questi ultimi si trova la sopraccitata visione della voragine infernale. Per una dettagliata classificazione dei disegni e un minuzioso resoconto sulle ipotesi relative alla loro destinazione si rimanda a P. BELLINI, Le due serie di disegni del Botticelli per la Commedia e A. PARRONCHI, Le illustrazioni del Botticelli per la Commedia e il progetto di un “Pantheon” fiorentino, in Botticelli e Dante, catalogo della mostra (20 ottobre) di Torre de’ Passeri (PE), a cura di C. Gizzi, Milano 1990, pp. 41-50 e p. 77.

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dove i dannati scontano le loro pene in base a quanto descritto nel poema. A livello globale, sulla base di un confronto con le terzine e con la tradizione iconografica precedente e coeva si può ritenere che l’affresco e la corrispondente incisione qui considerati siano piuttosto in linea con il testo dantesco: si osservino la forma a cono della voragine, l’ambientazione in un paesaggio simile a una grotta25, la disposizione dei dannati e le pene con cui essi sono puniti. Un’eccezione è costituita dalla raffigurazione di alcuni personaggi che sono ritratti in modo originale, con iconografie talvolta in contrasto con la descrizione dantesca. Primo tra questi troviamo Caronte, rappresentato come un uomo robusto, ma con appena un accenno di barba, lo sguardo poco caratterizzato e un atteggiamento non particolarmente minaccioso, meno grottesco quindi rispetto alla descrizione che ne fa Dante26. Molto più evidente risulta la deviazio25

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ne dal testo nel personaggio di Cerbero, il cane a tre teste, il quale, contrariamente alla tradizione classica27, non presenta fattezze canine ma somiglia a un normale demone della tradizione medievale, con sembianze antropomorfe, eccezion fatta per le tre teste dai tratti canini e per le ali di pipistrello. Tale anomalia, riscontrata anche in diversi codici miniati, sarebbe da ricondurre secondo Chiara Ponchia alla vaghezza della descrizione dantesca. Il poeta fa riferimento infatti alla presenza di tre teste, ma allude alla natura canina del mostro soltanto quando afferma che «caninamente latra»28, dando luogo inoltre a una certa ambiguità quando impiega il termine «mani»29. Ponchia avanza inoltre l’ipotesi che le rappresentazioni “umanoidi” ma con tre teste dalle sembianze canine, come nel caso del nostro affresco, possano derivare dall’iconografia del cinocefalo, figura mitologica di cui si narra in testi medievali come il libro delle Meraviglie d’Oriente30. Un’altra figura che presenta un aspet-

Per un’analisi esauriente dell’Inferno rappresentato come una grotta si veda ancora C. Ponchia, Frammenti dell’Aldilà, pp. 135-139. 26  «Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio bianco, per antico pelo» «Quinci fuor quete le lanose gote/ al nocchier de la livida palude,/che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote» «Caron dimonio, con occhi di bragia/loro accennando tutte le raccoglie;/batte col remo qualunque s’adagia». If III, vv. 82-83; vv. 97-99; vv. 109-111. 27  «Giunti che furo, il gran Cerbero udiro/abbaiar con tre gole, e ’l buio regno/Intonar tutto; indi in un antro immenso/sel vider pria giacer disteso avanti,/Poi sorger, digrignar, rabido farsi,/Con tre colli arruffarsi, e mille serpi/Squassarsi intorno. Allor la saggia maga,/tratta di mèle e d’incantate biade/una tal soporifera mistura,/la gittò dentro a le bramose canne./Egli ingordo, famelico e rabbioso/tre bocche aprendo, per tre gole al ventre/Trangugiando mandolla, e con sei lumi/chiusi dal sonno, anzi col corpo tutto/giacque ne l’antro abbandonato e vinto.» VIRGILIO, Eneide VI, vv. 612-626. 28  «Cerbero, fiera crudele e diversa,/con tre gole carinamente latra/sovra la gente che quivi è sommersa»If VI, vv. 14. 29  «Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,/e ‘l ventre largo, e unghiate le mani;/graffia li spirti ed iscoria ed isquatra». If VI, vv. 16-18. 30  C. PONCHIA, Frammenti dell’Aldilà, pp. 108-113.


to anomalo rispetto alla tradizione illustrativa è quella di Minosse: normalmente, in ossequio alla tradizione classica, egli è raffigurato seduto con aspetto regale mentre giudica le anime avvinghiandosi con la propria coda. Ponchia individua anche in questo caso una serie di manoscritti che, rifacendosi in modo letterale alla visione mostruosa che emerge dalla descrizione dantesca31, raffigurano Minosse come un normale diavolo, senza connotazione regale, talvolta dimenticando anche la coda. Tuttavia in nessun codice sembra riscontrabile un precedente di Minosse raffigurato, analogamente al nostro affresco, come un essere taurino dalla lunga coda. In questo caso si può ipotizzare una contaminazione con un altro mostro infernale, il Minotauro32, guardiano del Settimo Cerchio. L’orribile creatura era, come è noto, il frutto dell’unione tra la moglie di Minosse e un toro ed era stato poi chiuso dallo stesso re di Creta nel labirinto di Dedalo. Si può pertanto supporre che l’artista abbia fuso i due personaggi in un’unica figura: tale ipotesi è avvallata dal fatto che nell’affresco e nella corrispondente incisione manchi la figura del Minotauro

all’ingresso del cerchio dei violenti. Si ricordi però che nella tradizione iconografica il mostro di Creta veniva raffigurato in due varianti: nei testi classici era solitamente rappresentato con il corpo umano e la testa taurina, mentre nei testi medievali, in particolare nei codici illustrati della Commedia, il Minotauro aveva corpo taurino e testa umana33. L’iconografia introdotta da Nardo di Cione appare pertanto come una soluzione inedita. Gli altri mostri infernali, come Flegiàs, le Furie, i Centauri, Gerione e i Giganti, appaiono in linea con la tradizione iconografica miniata e non introducono significative variazioni. Meritevole di un’ultima menzione è Lucifero, rappresentato come una colossale figura, la cui grandezza smisurata è già di per sé sinonimo di terrore e il cui aspetto generale rimanda ai grandi Giudizi Universali, raffigurati in numerosi affreschi medievali. Si ricordino tra i tanti sicuramente ispirati dalla terribile descrizione dantesca il Giudizio giottesco nella cappella degli Scrovegni34 e quello di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa35. Irene Tirloni

31  «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:/essamina le colpe ne l’intrata;/giudica e manda secondo ch’avvinghia./Dico che quando l’anima mal nata/li vien dinanzi, tutta si confessa;/e quel conoscitor de le peccata/ vede qual loco d’inferno è da essa;/cignesi con la coda tante volte/quantunque gradi vuol che giù sia messa». If, V, vv. 4-12. 32  «[…] che fu concetta ne la valsa vacca;/e quando vide noi, sé stesso morse,/sì come quei cui l’ira dentro fiacca.[..]Qual è quel toro che si slaccia in quella/c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale,/che gir non sa, ma qua e là saltella,/vid’io lo Minotauro far cotale». If XII, vv. 13-15 e vv. 22-25. 33  Per un’analisi approfondita di tali varianti iconografiche si veda ancora una volta: C. Ponchia, Frammenti dell’Aldilà, pp. 118-123. 34  La decorazione della cappella fu ultimata entro il 1305, pertanto sono numerose le ipotesi su una possibile visita di Dante mentre stava scrivendo la Commedia e su una reciproca influenza tra i due artisti. 35  Gli affreschi sono stati realizzati tra il 1366 e il 1341 e comprendono oltre al Giudizio anche una rappresentazione dell’Inferno suddiviso in una serie di gironi, di chiara ispirazione dantesca.

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Bibliografia C. PONCHIA, Frammenti dell’Aldilà. Miniature trecentesche della Divina Commedia, Padova 2015. D. PARENTI, Nardo di Cione, in Dizionario biografico degli italiani, vol.77, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012. C. FRUGONI, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino 2010. D. ALIGHIERI, La Mente Innamorata. Divina Commedia, a cura di G. Tornotti, Milano 2005. F. PELLEGRINO-F. POLETTI, Episodi e personaggi della letteratura, in I Dizionari dell’Arte, a cura di Stefano Zuffi, Milano 2003. R. GIORGI, Angeli e demoni, in I Dizionari dell’Arte, a cura di Stefano Zuffi, Milano 2003. C. GIZZI, Dante istoriato. Vent’anni di ricerca iconografica dantesca, catalogo della mostra (16 ottobre-30 novembre) di Torre de’ Passeri (Pe), Milano 1999. P. SCARPELLINI, L’ispirazione dantesca negli affreschi del Signorelli a Orvieto, in Signorelli e Dante, catalogo della mostra (19 ottobre-15 dicembre) di Torre de’ Passeri (Pe), a cura di C. Gizzi, Milano 1991, pp. 89-102. C. GIZZI, Signorelli e Dante, in Signorelli e Dante, catalogo della mostra (19 ottobre15 dicembre) di Torre de’ Passeri (Pe), a cura di C. Gizzi, Milano 1991, pp. 133-134. P. BELLINI, Le due serie di disegni del Botticelli per la Commedia, in Botticelli e Dante, catalogo della mostra (20 ottobre) di Torre de’ Passeri (Pe), a cura di C. Gizzi, Milano 1990, pp. 41-50. A. PARRONCHI, Le illustrazioni del Botticelli per la Commedia e il progetto di un “Pantheon” fiorentino, in Botticelli e Dante, catalogo della mostra (20 ottobre) di Torre de’ Passeri (Pe), a cura di C. Gizzi, Milano 1990, pp. 77-80. D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, testo critico stabilito da Giorgio Petrocchi per l’edizione nazionale sella Società Dantesca Italiana, Torino 1975. A. VENTURI, Luca Signorelli interprete di Dante, Firenze 1922. A. VENTURI, Il Botticelli interprete di Dante, Firenze 1921. L. VOLKMANN, Iconografia dantesca. Le rappresentazioni figurative della Divina Commedia, Firenze-Venezia 1898.

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Riproduzione dell’affresco di Andrea Orgagna a Firenze 1825 — Acquaforte, 40X30 cm

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oblio

e

salvezza


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Vedere Oltre. …la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio. (Gv, 3, 19-21) Atmosfera rarefatta, irreale. Un corpo celeste dai contorni irregolari capta l’attenzione dello spettatore, unico “punto di fuga” plausibile, al centro di una visione sospesa che rinuncia volentieri ai dettagli ambientali. Sagome scure, generate da irregolari colpi di spatola, a tratti frammentati, definiscono il diafano incontro tra Adamo ed Eva, ricongiunti dopo la resurrezione, liberi dagli orpelli della carne. Si confronta così, il filosofo Jean Guitton, sul tema della salvezza dell’uomo, il primo uomo, sepolto, secondo la tradizione agiografica, sul Golgota, ai piedi della Croce. Quasi una ricapitolazione escatologica, nell’inconsueta trasposizione iconica, della missione salvifica del Figlio di Dio.

Privo di velleità estetiche, Guitton agisce la pittura secondo una formula per così dire “gestuale”, lontana dai dettami dell’accademia e pure dai movimenti riconosciuti che animano il panorama culturale internazionale. Una “vocazione segreta”, la sua – come è stato scritto - consumata nell’intimità della speculazione filosofica. Partecipe attivo, nondimeno, del processo di rinnovamento che investe la Chiesa, a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, promosso dal Santo Papa Paolo VI, con il quale instaura un sodalizio intenso, già a partire dal 1950, quando l’allora Sostituto alla Segreteria di Stato interviene per salvare dall’Indice dei Libri Proibiti il volume di Guitton dedicato alla Vergine Maria. 95


Il nucleo consistente di opere, tutte su carta, lasciato in eredità alla Collezione bresciana, documenta, oltre che la profonda sensibilità del filosofo per gli eventi e i protagonisti del suo tempo, anche un’originale scelta stilistica che abdica al disegno preparatorio, per far emergere suggestioni ed emozioni destinate a trasfigurare simbolicamente, nell’istantaneità del segno colorato, i soggetti sacri trattati. “In fondo tutto è sguardo, e sguardo sugli sguardi”. La dichiarazione del filosofo francese ben si presta a interpretare l’insistente ricerca sul volto che accomuna, idealmente, nel percorso espositivo, le testimonianze di Guitton e di Pirandello, Fausto, il terzogenito di Luigi. Entrambi, per una congiuntura virtuosa, hanno condiviso e assorbito l’intensità della parola scritta, ma hanno sentito l’urgenza, contestualmente, di rendere l’ineffabile attraverso gli strumenti della pittura, in una ricerca reiterata, a tratti spasmodica, del volto. Quello di Gesù, in prima istanza, ma anche di chi, come Nicodemo (Guitton) o il “buon ladrone” (Pirandello), apre il suo cuore al dubbio, dichiarando la volontà di capire e, al contempo, di essere accolto nelle braccia del Padre. Ecco allora profilarsi, nell’indagine pittorica di Guitton, alcune prove di inconsueta raffinatezza, dove la matericità dell’olio spatolato si trova a fare i conti con variazioni tonali che mettono in luce il marcato simbolismo delle scelte cro96

matiche, o addirittura con l’asportazione del colore, tramite sapienti graffiature: Dio pensante i possibili fissa i contorni dell’acheropita, prima della genesi universale, condensando, per metonimia, in una macchia informe e scura, il Creatore e le creature “in potenza”. Del tutto originale anche l’iconografia del Golgota proposta da Pirandello, in cui il contesto paesaggistico della tradizione iconografica viene annullato, a favore di una continua “messa a fuoco”, con prospettive diverse, delle tre croci. Il marcato espressionismo del maestro si riflette nell’opzione deformante dei corpi lacerati e contusi, definiti da striature informi tracciate con i pastelli a cera. L’attenzione agli sguardi si gioca nell’incontro tra gli occhi del Crocefisso e del “pentito”, aprendo un varco alla comunità della redenzione. Testimonianza di una ricerca sofferta, della propria identità d’artista, prima ancora che delle modalità espressive più coerenti per rappresentare il soggetto selezionato, l’opera di Pirandello tradisce forse un’affinità d’intenti con quel filone di matrice americana che promana dall’esperienza di De Kooning. Woman I, del 1952, groviglio di segni disarticolati e colori stridenti, finalizzato a comporre un nuovissimo modello femminile, tra insetto e automa, documenta la necessità di fare tabula rasa, tanto dell’avanguardia cubista che dell’accattivante felicità/facilità illustrativa della comunicazione pubblicitaria, per restituirci il senso di un percorso solitario, nel panorama dell’astrazione.


“L’equivoco dell’artista che si vorrebbe illustratore dei fatti della religione meglio che creatore delle di lei forme, denunciatore dei suoi simboli, il sistematore del pensiero cristiano quale si andava conformando nei secoli dal nudo ed eroico tirocinio delle catacombe ai fasti della controriforma, sta nello scandalo che ogni forma d’arte religiosa moderna minaccia di provocare”: è con queste parole che Pirandello delinea, d’altro canto, già entro gli anni Cinquanta, il rischio dell’arte oleografica, a ridosso di quella Crocifissione laica (1939) che esplicita il dibattimento interiore dell’artista, e prima ancora dell’uomo, punto di partenza imprescindibile di un itinerario alla ricerca del “senso”.

L’originalità della proposta – che fa parte di un ciclo destinato alla comunità parrocchiale di Vedeseta, nella Bergamasca – sta proprio nel contrasto, quasi un ossimoro, tra l’opacità della massa corporea di Lazzaro, “atterrito” nel senso etimologico del termine, e la trasparenza dell’apertura che prelude all’epifania. È proprio la finestra, d’altronde, secondo una tradizione consolidata che affonda le radici nel Romanticismo europeo, Friedrich in primis, a delineare il vibrante limite tra l’hic et nunc e l’Oltre, promessa di una nuova vita. Michela Valotti

Un’altra resurrezione fa da péndant ideale a quella che apre il percorso della mostra. A più di trent’anni di distanza dai progenitori di Guitton, ora è Lazzaro a condensare il mistero della “rinascita a nuova vita”, attraverso la proposta di Maurizio Bonfanti: il protagonista, accasciato a terra, come un Prigione michelangiolesco, rappresenta l’umanità tutta, avvolta nelle tenebre della morte. La monumentalità del corpo, fuligginoso, è modellata secondo la tradizione accademica: le superfici muscolari esibiscono lo sforzo ferino del defunto, nell’istante della chiamata soprannaturale, simbolicamente rappresentata dal fascio di luce che irrompe attraverso la finestra. Il volto, assente, ci dice di un’umanità derelitta, in attesa dell’incontro con Dio. 97


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Adamo ritrova Eva nel cielo dei corpi risuscitati / Jean Guitton 1969 — Olio spatolato su carta, 17.5x25 cm


Il bacio di Giuda / Jean Guitton 1975 — Tempera su cartoncino, 52x32 cm

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Giuda Iscariota / Jean Guitton 1966 — Olio spatolato su cartoncino, 27x21 cm


Nicodemo / Jean Guitton 1969 — Olio spatolato su cartoncino, 32x24 cm

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Volto di Cristo / Jean Guitton 1968 — Olio spatolato su cartoncino, 33x24 cm


Gesù risuscitato / Jean Guitton 1962 — Tecnica mista su carta, 26x20 cm

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Dio pensante i possibili / Jean Guitton 1969 — Olio spatolato su carta, 27.5x20.5 cm


Cristo fra i ladroni (I) / Fausto Pirandello 1964 — Pastello su carta, 64x37 cm

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Cristo fra i ladroni (IV) / Fausto Pirandello 1965 ca — Pastello su carta, 47x56 cm


Cristo fra i ladroni (V) / Fausto Pirandello 1965 ca — Pastello su carta, 48x65 cm

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Cristo fra i ladroni (III) / Fausto Pirandello 1965 ca — Pastello su carta, 47x32 cm


Studio per crocifissione (X) / Fausto Pirandello 1965 ca — Pastello su carta, 28x22 cm

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Studio per crocifissione (IX) / Fausto Pirandello 1965 ca — Pastello su carta, 28x22 cm


La notte di Lazzaro: Vieni fuori / Maurizio Bonfanti 2001 — Tempera e carboncino su carta intelata, 165x185 cm

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Tenebra e luce nelle sculture di Lino Sanzeni Anche quest’anno l’associazione Pro Loco Ghedi ha accolto con immenso piacere l’invito ad aderire all’evento espositivo annuale organizzato dall’Associazione culturale Nexus. Nell’ideale dialogo fra antico e contemporaneo in cui si articola l’interessante percorso visivo si cela un’opportunità preziosa e irrinunciabile, non solo per visitatori e amanti dell’arte ma anche per famiglie, scolaresche e gruppi di catechismi, di gustare la bellezza. L’iniziativa, come sempre, rinnova un impegno culturale cui il mondo associativo ghedese e, in particolare, la Pro Loco, guarda con viva attenzione. Il tema scelto per la sesta edizione ha suggerito l’idea di presentare un artista bresciano, testimone contemporaneo della sacralità dell’arte: le sculture di Lino Sanzeni, che ho potuto apprezzare in diversi luoghi in provincia e non solo, rimandano ad un sentire particolare, una sensibilità autentica verso il cammino dell’esistenza e le profondità umane. Conoscere Lino nel suo studio è stata una piacevole conferma: tenebra e luce si scontrano e meravigliosamente si incontrano nelle sue opere dove ferro e pietra, insieme, parlano del vivere, nella concretezza del quotidiano, nel contatto con la natura, nell’anelito al trascendente.

Le due sculture selezionate per questo evento pongono simbolicamente l’osservatore nello spazio sospeso tra la rappresentazione infernale della modernità e il respiro luminoso dell’universo che ci accoglie fin dall’origine di tutto, come Genesi racconta. Un binomio visivo di grande impatto che sollecita riflessioni ad ampio raggio sulla realtà e sull’oltre. Ringrazio Lino Sanzeni per la sua partecipazione e l’Associazione Nexus per questa importante occasione offerta alla comunità. Mi auguro che la mostra e il ricco programma che la circonda lasci una profonda traccia nel territorio, favorendo il sorgere di interessi e nuove iniziative altamente qualificate. Giuseppe Fenocchio Presidente Pro Loco Ghedi

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“Dallo stagno di fuoco” concretizza quell’immagine di memoria che ognuno di noi ha sedimentato nel proprio profondo, legata all’antica pratica dei Novissimi e riproposta iconograficamente nel corso della storia. E’ lo scenario terribile di un ambiente infernale, in cui numerosi corpi sono trascinati in una selva infuocata e turbinosa, dove le creste appuntite del ferro sembrano scandire i ritmi incalzanti di una danza macabra. L’artista dà corpo ad una composizione articolata e fortemente dinamica imperniata sul contrasto tra movimento discendente dei corpi trattenuti nello stagno e movimento ascendente delle vampe di fuoco che si innalzano verso un cielo perduto. Ma in questo quadro di tenebra impressionante ed avvolgente è possibile anche riconoscere le angosce e i travagli interiori dell’umanità di tutti i tempi: lo scultore vuole parlare non solo dell’inferno comunemente noto nell’immaginario collettivo ma anche delle apocalissi del mondo contemporaneo come paradigma di rappresentazione di una tragica realtà possibile in cui le anime precipitano verso il fondo, inghiottite da un magma inesorabile che soffoca qualsiasi prospettiva di luce e di respiro. Attraverso una colatura unica di titanio hanno mirabilmente preso forma rilievi stalagmitici incisivi e scavati, capaci di comporre una scena molto plastica, di avvincente impatto visivo. “Il sesto giorno”, accostata, in questa scelta espositiva, all’opera precedente, invita simbolicamente a salire, a non precipitare nell’abisso. Protagonista è il 114

disegno divino raccontato nel capitolo primo del Libro di Genesi dove, nel sesto giorno, Dio continua il progetto di vita sulla terra e, a coronamento del creato, vi porta l’uomo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona». La ricerca materica ed estetica trova la sua essenza nel binomio pietra-ferro che dagli anni Novanta caratterizza la produzione artistica di Lino Sanzeni. Con la lamiera tagliata e lavorata dialoga la candida pietra, lasciata nelle sue forme pressochè originali come la natura l’ha forgiata: essa ha il dolce compito di fare luce e di dare luce, ricordando come la luce abbia vinto le tenebre nel processo creativo. L’uomo e l’animale, frutto della parola performativa di Dio, sono invito per il credente a cogliere il senso della rivelazione nella relazione con il Padre, fondamento della realtà. L’artista, lasciandosi guidare dall’energia vitale della materia, racconta l’attimo beato della creazione in cui l’immagine e somiglianza di Dio scandiscono il racconto dell’universo e la sua suprema bellezza. Due opere appartenenti a stagioni artistiche differenti nel percorso di Sanzeni che, poste l’una accanto all’altra, sanno parlare di pieghe profonde dell’animo e invitano chi le ammira, all’interno di questa avvincente cornice visiva, a illuminare il proprio cuore e a pensare al fine per il quale si è stati creati e voluti: amare Dio. L’amore è la vera luce che spazza via ogni tenebra. Paola Mutti


Dallo stagno di fuoco / Lino Sanzeni 2009 — Ferro, 65x75x40 cm

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Il sesto giorno / Lino Sanzeni 1994 — Figure: ferro, marmo di botticino e calcare - Base: medolo, 60x80x70 cm


inferno

e

paradiso


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E quindi uscimmo a riveder le stelle. Puro e disposto a salire le stelle. L’amor che move il sole e l’altre stelle. I versi finali delle tre cantiche dantesche offrono visioni d’immenso afflato verso il cielo stellato. Buio e luce, ascesa alla luce, contemplazione della luce, immaginifica conclusione, non chiusura, del viaggio oltre la vita che innerva la Commedia. Oltre. Luce e tenebra include perfettamente il senso della proposta fatta dalla Associazione per l’arte Le Stelle ad amici artisti di diverse regioni italiane, culminata nel 2010 nella mostra Verso le stelle nelle tre sedi bresciane di San Zenone all’Arco, Chiostro di San Giovanni Evangelista, Centro Mater Divinae Gratiae. Con quella esposizione, i promotori dell’Associazione Fausto Moreschi e Carmela Perucchetti intendevano iniziare la loro attività culturale con un progetto aperto, verso la luce, bagliore della natura metafisicamente trasfigurato, che ripercorresse visivamente in piena libertà la parola poetica di Dante riscoprendone la forza e il valore universale. Una selezione di quelle opere viene riproposta oggi, nella varietà di espressioni visive, di echi e consonanze ai versi di riferimento: dipinti che spaziano dalle suggestioni di una astrazione che affida al colore senso ed emozioni a visioni

che, pur nel linguaggio informale, rendono il clima di panorami pervasi di luce, fino ad opere di forte tensione gestuale, dal segno vibrante ed espressivo. E quindi uscimmo a rivedere le stelle. Così chiude l’Inferno: da un pertugio tondo, Dante e Virgilio, dopo tanta oscurità rivedono le stelle, ossia la volta celeste, che apparirà nell’ora che precede l’alba, ancora stellata, ma già azzurra, all’inizio della nuova cantica (Pg I, 13,24). È il verso scelto dal più nutrito gruppo di artisti, forse per la capacità di sintetizzare in un solo endecasillabo l’uscita, la speranza, la fine del percorso in un rinnovato sentimento di libertà. Visioni fedeli al contesto propongono Dante e Virgilio sul limitare di paesaggi di luminosità lunare, privilegiando l’aspetto di statica contemplazione, carica di stupore e di attesa di fronte al mistero (Naspro, Riccetti). Altre opere suggeriscono piuttosto il senso dell’uscita, della riconquista dello spazio aperto dopo la costrizione nei cerchi del male (Cinquetti), il lento passaggio cromatico dal buio alla luce (Monguzzi), il risalire dal fuoco e dalle tenebre (Mombelli).

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Puro e disposto a salire le stelle. La chiusa del Purgatorio vede Dante muoversi con Beatrice, che lo accompagnerà nel Paradiso, puro, rinnovato nell’intimo, e disposto, ossia privo d’impedimento, a salire le stelle, cioè a proseguire il cammino verso la realtà divina. La purezza è tema privilegiato nelle fattezze dei bambini e nella raffinata composizione di incantata ingenuità (Sudati), cui si contrappone il forte gesto ascensionale che squarcia le tenebre (Lazzari), e la visione aerea, rarefatta, dei fiumi Lete ed Eunoè, acque purificatrici necessarie al passaggio verso il Paradiso (Stramacchia). L’amor che move il sole e l’altre stelle. La parola che chiude il poema, stelle, è la stessa che brilla alla fine delle prime due cantiche. Uscendo dall’Inferno, quelle luci sono appena intraviste, lontanissime eppure infondenti speranza. Alla cima del Purgatorio esse sono già diventate meta sicura, che si è pronti e vicini a raggiungere. Qui, al termine dell’ultima cantica, il poeta è come assimilato ad esse, fatto partecipe della loro vita celeste e del loro splendore.

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Il dinamismo compositivo, nella forza ed equilibrio della forma circolare, simbolo ancestrale di Dio, della sua non finitezza, di quel “movere” degli astri in un ordine superiore (Amerini), si confronta con visioni statiche, che inducono alla contemplazione della “rosa mistica”, configurazione umana e poetica dell’ inesprimibile (Pea). Ma compare anche il senso di un’immersione nello spazio – tempo attraverso il segno della scrittura impressa sulla tela, che abbraccia l’essenza stessa della vita, il viaggio di Dante e, con lui, di ogni uomo, alla ricerca della Verità (Rossi). Il percorso si evidenzia infine nella sua completezza nella scelta di dipanare il messaggio dantesco in sequenza, in forma di trittico (Furlani), di raffinato grafismo in punta d’argento, che dal grigio etereo di fondo fa emergere con lenta conquista visiva il senso di progressiva purificazione ed ascesa. Carmela Perucchetti


Inferno / Alberto Rizzini 2009 — Trittico - stampa inkjet su carta fineart cotone, 38x58 cm

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E quindi uscimmo a riveder le stelle / Angela Naspro 2009 — Tecnica mista su tavola, 85x45 cm


E quindi uscimmo a riveder le stelle / Giuseppe Riccetti 2009 — Acrilico e sabbia su compensato, 110x90 cm

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E quindi uscimmo a riveder le stelle / Rosabianca Cinquetti 2009 — Collage, pastelli e olio su tela, 100x100 cm


E quindi uscimmo a riveder le stelle / Giuseppe Monguzzi 2009 — Olio su tela, 60x120 cm

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E quindi uscimmo / Eugenio Mombelli 2009 — Olio, tecnica mista, collage su tela, 150x75 cm


Puri e disposti a salire a le stelle / Marco Sudati 2009 — Olio e acrilico su tavola, 110x70 cm

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Puro e disposto a salire a le stelle / Giusi Lazzari 2009 — Gessetto su cartoncino, 120x40 cm


Le costellazioni del cielo sui fiumi Leté e Eunoé / Edoardo Stramacchia 2009 — Olio su tela, 70x50 cm

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L’amor che move il sole e l’altre stelle / Paolo Amerini 2009 — Olio su tela, 100x100 cm


L’amor che move il sole e I’altre stelle / Luciano Pea 2009 — Olio su tela, 80x80 cm

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L’amor che move il sole e l’altre stelle / Camilla Rossi 2009 — Tecnica mista su carta intelata, 75x195 cm


Qual è colui che sognando vede — Paradiso / Gabriella Furlani 2008 — Punta d’argento, grassello e pigmenti su tela tamburata, 70x70 cm

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il male

e

il bene


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Dentro la realtà Fotografie di Francesco Cito Francesco Cito è in primis un grande amico del Circolo fotografico Lambda, oltre che un grande fotoreporter di indiscussa fama. Socio onorario dal 2011, ha sempre seguito con interesse le attività della nostra associazione, partecipando attivamente con esposizioni e con serate di fotografia che si sono susseguite numerose nel tempo. Per questo terzo anno di collaborazione all’evento organizzato dall’Associazione culturale Nexus, abbiamo ritenuto di proporre una mostra monografica di fotoreportage, diversamente dalle scorse edizioni in cui si è realizzato una collettiva dei soci sul tema. Abbiamo scelto le fotografie di Francesco Cito. Le sue immagini scavano dentro la realtà di ogni giorno, quella vicina e quella lontana, quella che abbiamo l’illusione che non ci riguardi, quella che ci fa paura e che non vogliamo vedere o quella scontata di cui ci dimentichiamo. I suoi occhi sono finestre sul mondo e ci parlano di un tessuto

umano intrecciato di luce e di ombra. Le sue opere sono una lucida testimonianza. Ripensando all’etimologia della parola “fotografia” che deriva dal greco e significa letteralmente “scrittura di luce”, mi sento di affermare che il linguaggio di Francesco sa essere drammaticamente scrittura di luce e nel contempo di tenebra che si scambiano di posto, momento dopo momento, nel cammino sempre nuovo e sempre imprevedibile della vita. Al centro la straordinaria capacità di concentrare la complessità umana in un’immagine densa, memorabile, incandescente. Ringrazio, a nome di tutto il Circolo Lambda, l’amico Francesco Cito per la sua significativa presenza in questa interessante cornice artistica di linguaggi visivi plurimi: un progetto dall’elevato spessore espressivo e comunicativo. Piero Beghi Presidente Circolo fotografico Lambda

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Il bene e il male Il bene e il male, sono sovente la rappresentazione della stessa medaglia, il fronte e il retro, il testa o croce per le scelte di campo. Questa medaglia è il conio della vita che ci rappresenta, il pilastro su cui si erge tutto il nostro sapere, atto a creare, e o, a distruggere. Dov’è il bene, e dov’è il male, è un quesito che mi sono sempre posto, ed ogni volta sono giunto ad un’unica e sola conclusione, in cui il bene è nell’innocenza di un bambino, nonostante lo si voglia ammantare di quel peccato originale che non gli appartiene, mentre il male è ovunque nell’animo degli uomini adulti, anche quando questi si cingono il capo di buoni propositi. All’origine dell’uomo, questa distinzione di cosa rappresentasse il bene, e cosa il male, era solo la suddivisione all’origine della luce e delle tenebre, e in quelle tenebre, l’uomo ha iniziato a conoscere la paura confrontandosi con i misteri dell’universo, in cui era venuto a farne parte. Attraverso le loro paure, gli uomini primordiali, ancor prima che gli antichi filosofi greci dessero una definizione del pensiero, erano già alla ricerca, e poi alla conquista di se stessi, e costituitosi in comunità o tribù, si davano un’identità nel ricercare un Dio che li guidasse ver138

so conquiste territoriali. La conquista per distruggere il già esistente, ove poi edificare il proprio nucleo abitativo, ed erigere il tempio agli Dei, o a quel Dio in cui credere. Un Dio non sempre misericordioso, sovente iroso nell’atto di stabilire il bene, attraverso il suo disegno divino, e nulla importava se tale opera, atta a stabilire la sua primogenitura sugli uomini, conduceva i figli da lui creati, ad uccidere altri figli. Il bene e il male in un Dio che distingue tra i suoi figli gli eletti, a dispetto degli altri, e questo marchio a loro concesso, ne avvalora la sete di conquista in nome di quel Padre Onnipotente, il quale ai suoi figli diletti, concederà il dono per la loro lealtà, di una Terra Promessa da sottrarre a chi quelle terre già le abita da tempo. Al settimo giorno, sette sacerdoti diedero fiato alle trombe fatte di corni d’ariete, tra riti religiosi e miracoli al passaggio dell’Arca dell’Alleanza, e allora Giosuè inneggiò il popolo a lanciare il grido di guerra, perché il Signore mette in vostro potere la città, e le mura di Gerico, antiche di 5000 anni, caddero al suono degli shofar. La Città cananea con quanto è in essa, sarà votata allo sterminio in nome del Signore, e il popolo eletto, ciascuno diritto davanti a sé occuparono quel luogo e si votarono allo sterminio, passan-


do a fil di spada ogni essere, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, ed ogni neonato, e perfino il bue, l’ariete e l’asino. Dal libro di Giosuè 6: 13-27. Dov’è il bene e dov’è il male, se gli uomini tutti, si dettano la religione in cui credere, e in nome di essa, abbandonarsi alle azioni più nefaste e bieche, inneggiando ad un Dio che li guidi alla vittoria, contro un altro popolo? Uomini credenti di quella entità cosi evanescente, da essere ritenuto superiore a tutto e perfetto, tale da esigere che i suoi figli si abbandonino a seguire il suo disegno divino, e porre in atto in nome di una fede, le più spietate nefandezze, contro altri propri simili, colpevoli di non essere figli di quello stesso credo, oppure anche, ma di visione o interessi diversi. Dov’è il bene e dove il male, se lo stesso Figlio di Dio, è sceso sulla terra per spargere il suo sangue per la salvezza dell’animo umano, dando vita a quella religione, essa stessa costola, di quel credo di Giosuè? E ancora da quel credo, e discendente di Abramo, quel profeta Maometto, che attraverso la sua nuova fede, e nel nome di Allah, conduce i suoi eserciti all’islamizzazione del mondo. Dov’è il bene e dov’è il male, se da quel credo in cui si deve porgere l’altra

guancia, in nome di un Dio perfetto, sono state commesse stragi in nome di Esso, dai suoi stessi discepoli e divulgatori del Verbo, e che poi la chiesa ha posto sugli altari della fede e la venerazione? Dov’è il bene e dove il male, nel venerare un San Cirillo, promotore di stragi di non cristiani, solo perché altri esseri avevano la loro fede, nella filosofia, quella stessa di Anassagora, di Parmenide, di Socrate? Sono i grandi filosofi greci, i fautori dell’aver squarciato le tenebre nella mente umana, dando ad essi il pensiero, la vera luce per l’uomo delle tenebre, e la filosofia diverrà il faro che illumina il cammino della vita dell’uomo, anche se ancora oggi gli uomini ne disconoscono la verità, essa resta, e nonostante tutto è il pilastro su cui regge il sapere moderno, grazie a quei pochi eletti tra il genere umano, che hanno il dono non solo del pensiero, ma della riflessione che porta gli esseri a ragionare e rispettare ogni forma di vita in questo sbandato universo, e ancora capaci di apprendere ciò che uomini illuminati, avevano già concepito tremila anni addietro. © Francesco Cito

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Grottaglie: I riti della Settimana Santa / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Afghanistan: Ruins / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Campobasso: Misteri S. Crispino / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Afghanistan: The prayer / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Campobasso: Vestizione / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Afghanistan: Arghandab / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Campobasso: Vestizione / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Bosnia / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Grottaglie: Cristo del XVIII sec. / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Gulf War / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Francavilla: Crociferi / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Assedio di Bethlehem / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Francavilla: I Crociferi / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


The Wall in Ar Ram / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Francavilla / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


The Wall in Abu Dis / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Francavilla: Cristo Deposto / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Gaza: Nada abu Madi / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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Mottola: Le donne addolorate / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm


Palestina: Esercito Popolare / Francesco Cito Stampa fotografica fine art, 30x40 cm

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mito

e

realtĂ



Classici mostri infernali L’uomo contemporaneo è sempre stato incuriosito dal modo in cui nell’immaginario medioevale l’Inferno potesse essere popolato sia dai demoni citati dalla Bibbia che da mostri mitologici. In tante divinità sanguinarie assire e babilonesi, i patriarchi ebraici hanno riconosciuto demoni, arconti demoniaci e angeli caduti citati anche nell’Antico Testamento. Eppure nel caso dei mostri mitologici la cosa è leggermente differente dal sincretismo, non si tratta tanto di entità considerate reali da chi le venerava e da chi ne combatteva il culto, ma di mostri che già la maggior parte dei contemporanei greci e latini indicava come mere figure allegoriche o ne metteva in dubbio l’esistenza; inoltre nei miti essi sono già dati per defunti al tempo della stessa narrazione e se ne descrive l’uccisione al fine di glorificare l’eroe in questione. Dante da grandissimo studioso della cultura classica recupera queste figure non solo demonizzandole (come avevano fatto altri prima di lui con alcune figure come Cerbero e altre più emblematiche), ma giustificandone la presenza con un’analisi dei testi classici.

I mostri hanno un’anima? La prima domanda è di interpretazione filosofica: i mostri classici hanno un’anima immortale senziente come gli uomini che ne giustifichi quindi una vita ultraterrena, oppure un animo mortale come le bestie? Echidna e Tifone erano di origine semidivina ed erano raziocinanti; i mostri più famosi sono figli o antenati loro e hanno caratteristiche ferine. Nel caso della Sfinge brillava in lei una mente scaltra, l’Idra secondo alcune versioni aveva una capo di donna e il drago Ladone padroneggiava una lingua umana per ogni testa. Virgilio deve aver fatto questo ragionamento, quando nel VI libro dell’Eneide collocò la Chimera, i centauri, Scilla, Briareo, l’Idra, le Gorgoni, le Arpie e Cerbero. Apollodoro narra che Eracle sceso nell’Oltretomba fece fuggire tutti i mostri; ad affrontarlo rimase solo Medusa, ma essendo un fantasma non era più pericolosa e il suo sguardo non poteva più pietrificare. L’autore aggiunge che, essendo spettri, sono ombre inconsistenti. Dante ha quindi appoggiato la sua tesi su una tradizione letteraria che amava (l’Eneide del suo Virgilio), per giustificare la presenza dei mostri mitologici nel mondo infero, promuovendoli al rango di demoni e sincretizzandoli. 163


Il sapiente riutilizzo Il recupero della classicità non si limita a una citazione dotta, ma il reimpiego dei mostri è finemente studiato e reinterpretato. I centauri sono una razza mitologica per metà cavalli e per metà uomini, originati da uno stupro fatto da Issione già reo di essere ladro, traditore ed assassino del suocero. Non a caso il carattere dei centauri è bestiale e mosso dall’istinto selvaggio, anche la metà umana del corpo è bruta, col petto irsuto, barbe e capelli incolti, privi di civiltà e convenzioni sociali. Nell’Inferno sono loro a punire gli iracondi. Caco nella Commedia non è il gigante tricefalo figlio di Vulcano che vomita fiamme, ma viene definito “centauro separato dagli altri fratelli” per avere sottratto la mandria a Ercole. Non è chiaro però se la sua presenza nell’inferno sia da anima punita o da custode infernale. Briareo (“la forza”) è l’ecatonchiro figlio; di Urano e Gea, che si era sempre distinto per potenza nelle guerre di spodestamento dei sovrani: contro Urano, nella titanomachia e successivamente diviene una guardia del corpo di Zeus. Inizialmente il padre Urano aveva imprigionato Briareo nel Tartaro, la prigione più profonda del sottosuolo al di sotto dell’Ade. Nell’Inferno dantesco per l’appunto è posto nel punto più profondo, dove sta di guardia Lucifero, l’Angelo che tentò di ribellarsi al Padre, agognandone il trono. Altro personaggio dotato di forza è Gerione dalla triplice forma. Era fratello di Echidna e figlio di Crisaore, a sua volta 164

figlio di Medusa. Aveva un’incredibile forza e a partire sopra l’inguine il suo corpo si tripartiva con tre toraci umani. Nell’opera dantesca subiste un vero e proprio restyling, perdendo la natura più antropomorfa per una più chimeriforme. Tra i custodi infernali c’è il Minotauro a guardia del VII cerchio, figlio di Minosse e Pasifae, il desiderio di vendetta su Teseo lo anima ancora tanto da rivolgere su se stesso l’ira mordendosi il braccio. Plutone e Proserpina (citata, ma non incontrata da Dante) passano da divinità romane a re infernali. Dante si riferisce a Proserpina come moglie di Pluto e regina dell’eterno pianto giocando sapientemente con un’interpretazione duplice; nel mito lei pianse incessantemente dopo il rapimento e cessò solo dopo che ebbe riabbracciato la madre. Questo potrebbe essere il riferimento al pianto, però potrebbe alludere anche al fatto che ora è regina di una bolgia dove eternamente si piange. Vivi tra i morti Nell’Inferno i personaggi del mito greco sono ‘ritornanti’, anime dannate promosse al rango di custodi infernali, ma ci sono delle eccezioni. Cerbero e le Arpie sono creature che secondo i greci abitavano il mondo infero da vivi. Cerbero è il mastino infernale, figlio di Tifone ed Echidna: a seconda dei miti le sue teste variavano da tre a centinaia, i denti erano affilati e neri, e il suo dorso era rivestito da teste di serpenti velenosi, ognuno di una specie e di un veleno diverso. Se sia vivo o meno è l’an-


gelo venuto in aiuto di Dante alla città di Dite a chiarire questo punto. Infatti ammonisce i demoni dell’inutilità di opporsi a un volere superiore ricordando che per non finire come Cerbero che ancora serba le chiazze prive di pelo sul collo e gola a causa della lotta con Eracle. La sua bava era un veleno mortale; quando l’eroe, nella sua ultima fatica, lo trascinò incatenato fuori dall’Ade, la saliva cadendo a terra originò l’aconito, una delle piante più venefiche. Infatti nel terzo cerchio il cane è il boia di chi usa la bocca per avvelenare la propria anima. Le Arpie sono figlie di Taumante ed Elettra. Erano raffigurate come donne alate belle e ricciute secondo Esiodo o in alcune versioni avevano corpo di avvoltoio, lunghi artigli, ali da pipistrello, orecchie d’orso e viso di donna lungo e perennemente scarno. Avevano un odore nauseabondo e amavano tormentare e punire chi si era macchiato di ibris. Erano sicari di Zeus, tanto da essere chiamate come suoi mastini. Punivano Fineo rubandogli il cibo e lordando ogni cosa con i loro escrementi. Secondo la tradizione greca furono salvate dall’uccisione proprio grazie all’intervento della sorella Iris, dea dell’arcobaleno che fermò gli inseguitori Boreadi, garantendo che non avrebbero più tormentato il re Fineo. Seneca nell’Hercole Furens dice che abitavano nell’Inferno da cui uscivano per rapire le anime degli assassini e di chi moriva in modo violento e consegnarle poi alle Erinni. Erano considerate

dai filosofi greci come allegoria dei tormenti della coscienza umana. Come le sirene greche e quelle etrusche per metà donne e per metà volatili, avevano una funzione psicopompa; la differenza era nella tipologia delle anime trasportate: le anime dei morti senza rimpianti o di morte non violenta erano portate nell’Ade dalle Sirene. Dante pone le Arpie nel bosco dei suicidi; lì straziano i corpi dei suicidi in forma di alberi e li tormentano strappandone i rami per farci il nido. In altre parole, il senso di colpa che più tormenta il colpevole e più si annida nel suo animo. Sapienti riutilizzi Il Caronte greco-romano è il traghettatore infernale, figlio di Erebo e della Notte. L’etimologia del nome è “barcaiolo”. Traghettava le anime che gli pagavano il pedaggio il cui costo non poteva essere inferiore a un obolo e superiore a tre; solo le anime dei medici erano dispensate dal pedaggio. I vivi potevano salire sulla sua barca solo con un ramoscello d’oro consacrato a Proserpina. Il toscano Dante però probabilmente si è ispirato al traghettatore infernale dell’antica Etruria. Il Caronte etrusco, Charun, aveva le stesse mansioni del corrispettivo greco, ma come nella Commedia i suoi occhi erano fiammeggianti e picchiava energicamente le anime che faceva accedere all’oltretomba.

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Medusa già in epoca greca ebbe una seconda vita, molto probabilmente si trattava di una divinità ctonia associata ai serpenti venerata da una antica civiltà matriarcale. Il suo nome significa “colei che domina” e Dante la riutilizza, riportandola al significante della sua etimologia. É colei che governa la città di Dite, arriva sulle grandi ali d’oro e la accompagnano le sorelle Gorgoni e le Erinni. Resta una dei demoni più pericolosi e impressionanti dell’Inferno al punto che Virgilio, per proteggere Dante dallo sguardo pietrificante, gli ordina di chiudere gli occhi e pone a ulteriore protezione le proprie mani sugli occhi del poeta fiorentino per proteggerlo. Ella costituisce un ostacolo talmente enorme e invalicabile che deve accorrere un messo celeste. In sintesi possiamo dire che Dante recupera i mostri mitologici, giustificandone la presenza in ambito cristiano e dopo averne analizzato le caratteristiche li riveste di un nuovo significante aggiungendo al mito (che è narrazione rivestita di sacralità e che usa l’allegoria per realtà più profonde) un nuovo mito. Paolo Linetti

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Note alle tavole grafiche Le tavole qui rappresentate sono frutto della matita di Lucia Botta e Alessandro Gazzoli. Io ho lavorato poi graficamente sul disegno in bianco e nero per avvicinarci allo stile delle sanguigne rinascimentali che erano presenti in alcuni bestiari del XIV secolo. Ogni mostro appartiene a un mito che però può avere una molteplicità di versioni. Talvolta un autore aggiunge particolari interessanti assenti negli altri autori, oppure si trovano informazioni che sono in contrasto con le altre fonti. Questo anche per quanto riguarda l’aspetto dei soggetti narrati, costringendo anche a una iconografica da seguire o interpretare. Ad esempio per Cerbero si è deciso di aggiungere serpenti sul dorso come narrava Apollodoro, ma rappresentandoli proporzionalmente piccoli in modo da non stravolgerne l’immagine più nota. Spesso la scelta era fatta in base a quanto una versione fosse più concorde con altre fonti, o talvolta si è seguita una descrizione presente in un testo meno noto quando questa era più precisa e con dettagli inediti, senza che stravolgesse le rappresentazioni più popolari. Altre volte le fonti figurative discordano da quelle scritte, come nel caso della

Chimera; abbiamo ad esempio dipinti, mosaici, sculture e ceramiche che la rappresentano con il corpo leonino, coda di serpente e con la testa di capra che esce nel dorso, i testi invece sono più concordi nel darle un corpo caprino con testa di leone. In questo caso abbiamo mediato optando per un corpo leonino con l’aggiunta delle mammelle caprine. In altre circostanze si è dovuto necessariamente scegliere una rappresentazione rispetto a un’altra: come per le Arpie che secondo Esiodo erano bellissime vergini alate e secondo altri veri e propri mostri con più parti di più animali predatori o nel caso dell’Idra che secondo alcuni aveva corpo di cane, otto teste di vipera e una immortale di donna. Questa versione era interessante, ma troppo distante e irriconoscibile rispetto alle altre rappresentazioni storicizzate. Attraverso le mostre fatte con questi disegni è stato interessante vedere come alcuni personaggi, noti fino al XIX secolo, erano stati contaminati dalla cultura cinefila come nel caso di Medusa; i visitatori la ricordavano priva di ali e con la coda di vipera, appartenente invece alla nipote Echidna, dando vita a una nuova leggenda “metropolitana”. 167


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Cerbero


Charun

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Gerione


I lemuri e le larve

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Il Minotauro


L’idra di Lerna

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La chimera


La fenice

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Le arpie


Le sirene

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Medusa


Drago di Giasone

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ee

noi mito

lerealtĂ stelle



Pensaci e... dimmi quali stelle illuminano la tua vita, quali orientano le tue scelte, quali propagano calore nel tuo cuore. Pensaci... Ci sono le stelle che brillano nel cielo ed indicano la rotta ai naviganti conducendoli là dove hanno scelto di approdare: sono gli ASTRI. Ci sono le stelle che orientano il tuo fare, che ispirano il tuo pensare, che colorano il tuo agire: sono gli ESEMPI di vita di coloro che ci hanno preceduti o che ci vivono accanto; sono coloro che hanno il coraggio di pensare la propria vita e di vivere il loro pensiero... Ci sono le stelle che illuminano e riscaldano il nostro cuore: i RICORDI di coloro che amiamo e che continuano ad esserci accanto anche se i nostri occhi non li scorgono più. Tante sono le stelle, luminose e belle anche dietro le nuvole. Ognuno di noi può essere una stella per sè, per gli altri; perciò: brilla, te lo devi, te lo meriti. Scuola Primaria – Interclasse quarta, a.s. 2018\2019 Istituto Comprensivo “Emiliano Rinaldini” – Ghedi

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