I Quaderni di Eccegrammi - N1

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Palermo 20 Aprile 2015 N. 1

« Penso sia il compito di ognuno di noi portare la cultura non dove c’è già, ma dove manca, in provincia, in periferia, ai più poveri, dove ci sono meno informazioni. La cultura di un paese si misura dalla cultura dell’ultimo uomo di quel paese,è la media che conta.Compito e dovere di ogni persona è di fare pubblicità alla cultura. » (AG Fronzoni)

“Se si credesse davvero nel valore delle opere d’arte, nessuno le venderebbe! L’Italia è notoriamente il paese che ha sempre avuto il più gran numero di inventori al mondo, se si volesse veramente risolvere la crisi economica, anziché lasciare che i nostri brevetti vengano venduti all’estero per poi ricomprare i prodotti che ne derivano, bisognerebbe fare un censimento di tutti gli inventori e le invenzioni italiane, selezionare quelle giuste, comprare i brevetti e creare per ognuno di essi una fabbrica. Si creerebbero innumerevoli posti di lavoro e si otterrebbero così prodotti finalmente originali e competitivi sul mercato mondiale.” (Gino De Dominicis)

I Quaderni di Eccegrammi è una raccolta dei migliori articoli di approfondimento apparsi sul sito dell’Archivio Flavio Beninati, che, senza alcuna periodicità vengono selezionati e pubblicati in forma cartacea. La tiratura è limitata ad un numero mai superiore alle 300 copie perchè intesa come edizione collezionabile. L’ Archivio di Flavio Beninati ha come unico fine la raccolta di dati biografici, il più possibile precisi ed approfonditi, di persone italiane (per nascita o per naturalizzazione) che in qualsiasi epoca storica ed in qualsiasi campo d’attività abbiano lasciato, o stiano lasciando oggi, un contributo alla società attraverso il loro operato, sia nel bene che nel male, sia esso noto o sconosciuto. La nostra attenzione, infatti, è principalmente rivolta a quei personaggi che necessitano più degli altri d’esser messi o rimessi in luce. Parlo di tutti quegli artisti, scienziati, inventori, compositori ed altri che la storiografia, per le ragioni più svariate, ha trascurato fino all’oblio o non ha mai preso in considerazione. Il cuore di

questo archivio sarà, dunque, un’insieme di biografie di stampo enciclopedico, raccolte dalle fonti più svariate, internet inclusa, attorno a ciascuna delle quali si aggiungeranno, nel tempo, degli approfondimenti critici, giornalistici, storici sia sottoforma di scritti che di video ed audio registrazioni, prodotti da studiosi o testimoni (nel caso di personaggi contemporanei) che vorranno collaborare col nostro progetto. Non abbiamo fini di lucro, ma il solo obiettivo conservativo e divulgativo, d’un patrimonio culturale, il nostro, che non ha eguali nel resto del mondo. Perchè? Perchè la cultura e la storia della cultura italiana hanno bisogno di grande partecipazione per sopravvivere.E poi, lo sapevate che… Il pianoforte, il cinema sonoro, ma anche il cinematografo di per se, il violino, il motore a scoppio, la nitroglicerina, l’elicottero moderno…e ancora le note musicali, il turismo, le prime banche, le prime università…per non parlare di ciò che quasi tutti sanno (ma soltanto in Italia): la radio, il telefono, l’elettricità, il telescopio e l’idea stessa dell’universo, il primo computer… insomma un intero universo di scoperte e di invenzioni sono state ingiustamente attribuite ad altri ma sono in realtà frutto della ricerca e del genio italiani. Perchè porta il nome di Flavio Beninati? Perchè a Flavio, che era mio fratello, così come a me stesso, stavano moltissimo a cuore le sorti di questo immenso patrimonio umano. Come me, anche Flavio si rattristava molto al constatare, ogni giorno di più, che ci

stiam o smarrendo. Si rendeva conto che un uomo senza memoria non può funzionare e, conseguentemente, una società senza memoria non può funzionare neanch’essa. Viaggiando per il mondo, lui rispettosissimo delle altre culture, si dispiaceva nel constatare quanto poco o nulla i nostri artisti fossero celebrati o quanto poco o nulla i nostri compositori fossero eseguiti, spesso a tutto vantaggio di altri che avevano fatto propria la nostra cultura. Quando, dunque, il 13 o 14 maggio del 2006 Flavio venne a mancare nel pochissimo civile primo reparto di rianimazione dell’Ospedale Civico di Palermo, dopo un lungo mese di coma, venne da sè che avremmo dovuto intitolare a Lui questo progetto d’archivio a cui abbiamo dedicato, insieme all’altro progetto dell’Associazione Flavio Beninati, che potete scoprire quì, tante enrgie e tanta dedizione nel corso degli ultimi 6 anni. Insomma… Insomma questo Archivio è intitola-

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to a mio fratello ma dedicato all’Italia che è, a parte tutto, un paese assolutamente fuori dal comune, un posto straordinario in cui il più grande patrimonio artistico e culturale del mondo è ospitato in un territorio di immensa varietà di flora, di fauna, di paesaggi ed habitat naturali. Sono cose che, seppur sotto i nostri occhi, tendiamo a dimenticare, così come dimenchiamo che la storia di questo paese è la testimonianza del genio, della laboriosità e dell’ingegno dei popoli che vi hanno abitato nel corso dei millenni lasciando ciascuno la sua impronta: edificandovi templi e monumenti, città, borghi, porti e vie fluviali e persino cambiandone l’assetto naturalistico, creando boschi, foreste, laghi, bonificando zone paludose e prosciu-

gando laghi naturali per farne campi coltivabili. Questi popoli insomma hanno adattato la natura alle proprie esigenze così come, in precedena, s’erano essi dovuti adattare a lei. Oggi che quella natura che ha accompagnato la vita dell’uomo per millenni non è più l’unica, vivendo noi tutti in un mondo sempre più virtuale che sta modificando sempre più velocemente la nostra percezione delle cose, forse proprio per questo, sembrerebbe un vano esercizio di stile il voler costruire un’arca della memoria. Sono io il primo a rendermene conto, cionondimeno…tentar non nuoce. Manfredi Beninati


Totò che stava per vincere il mondiale di Vincenzo Profeta

Palazzi sbriciolati come biscotti si inzuppano in un cielo appena stellato e latteo, all’esterno si sente un rumore monocorde di televisori che cantano notti che dovrebbero essere magiche, ma che in realtà non lo sono, non lo sono mai state e non lo saranno mai. Palermo, cemento disarmato, asfalto, cielo, tanto Don Vito Ciancimino. Borgo nuovo, quartiere di casermoni, poi il Cep (Centro edilizia popolare) la scuola calcio Luis Ribolla dove un ragazzino tirava calci ad un pallone fino a quando non si vedevano le stelle in quello stesso cielo latteo, i muscoli fanno male,

le gambe indolenzite, 35 gradi come le notti di quel 1990 quasi leggendario. Gli occhi di Totò spiritati e spalancati, Totò il re dei Terroni. “Schillaci ruba le gomme, ruba le gomme, Schillaci ruba le gommeeee,” gridavano nei derby con la Juve i tifosi del Torino. Ma gli occhi di Totò sono sinceri come quelli del principe De Curtis, dentro ci trovi riflesso tutto questo mondo, questo odore di grasso ed olio motore, gli Agnelli, i padroni della Fiat, lo preleveranno dal Messina. Prima una breve apparizione nell’Amat Palermo, la squadra dell’azienda trasporti pubblici della città. Un mio amico panchinaro in quella stessa squadra mi dirà: “Totò era già da serie A: in campo volava, faceva tutto da solo e sbagliava gol clamorosi”, poi appunto il Messina di Franco Scoglio, il suo mentore, un altro perdente di successo. Poi ancora Messina e un allenatore-filosofo come Zdenek Zeman, Totò Schillaci capocannoniere della serie cadetta con 23 gol. È il 1989, Totò Schillaci viene

ingaggiato dalla Juventus, il contratto più importante della sua vita. Nel 1990 Azeglio Vicini è il ct della nazionale italiana di calcio, un uomo pacato, aria da nonno, ma l’aria da nonno non cancella un certo coraggio nelle scelte da selezionatore. Insomma.. Totò va in azzurro nell’anno del mondiale italiano, un palermitano in nazionale non si vedeva da anni, la squadra della città è ancora impantanata nelle paludi della serie C e gioca finalissime con Giarre e simili. Totò invece è in serie A ed in nazionale, ha due gambe supersoniche, è un motorino vispo ed opportunista che sotto rete non perdona, spietato come certi sicari della mafia. Un giorno indirizzò un «Ti faccio sparare» a Fabio Poli al termine di un Bologna-Juventus a nervi tesi. Dicevo sangue freddo sotto porta ed occhi spiritati riempiti di quella vitalità che è tipica di certi italiani a cui potrai togliere tutto tranne che la vita. Totò è un ragazzo semplice (mai un congiuntivo azzeccato) ma ci ha, e mi ha, fatto sognare per un estate.

Io che il mondiale dell’82 lo ricordo a stento, io che ero quasi innamorato di quella squadra perfetta del 1990, di quel Baggio, di quel Donadoni, di quel Giannini, di quel Baresi a murare la difesa, di quell’Olimpico di Roma stracolmo, di quello odioso pupazzo modulare di nome ‘Ciao’, mascotte del torneo, di quel sentirmi italiano e siciliano, di quel sentirmi basso come Totò Schillaci che ha due gambe che sembrano due accendini pronti ad incendiare un pubblico in visibilio. Il buddhista Roberto Baggio la sera se lo ritrova in stanza mentre prega, questa tanica di benzina vivente e nervosa. Tutto comincia con il gol decisivo con l’Austria a un quarto d’ora dalla fine, sostituendo quella larva di Carnevale ad infilarsi tra i giganti della difesa austriaca. Gol di testa e di risorgimentale furbizia, da vero bandito, uscito da una qualche spedizione dei mille. Mi sentivo italiano, ascoltavo l’inno e mi commuovevo, poi le partite con la Cecoslovacchia, l’Uruguay, l’Eire, in

un crescendo rossiniano, Totò il rapinatore dell’aria di rigore, è diventato Totò gol, ormai per tutta l’Italia. C’è odore di “sfincione” in casa Schillaci, la mamma di Totò fa la pizza tradizionale palermitana un pò per tutto il quartiere quella sera del 3 luglio 1990, la sera di Italia-Argentina al San Paolo di Napoli. Poi tutti a piangere. Il piano ordito da Maradona nella sua Napoli è perfetto: “si ricordano di voi solo quando c’è da tifare” disse al suo popolo partenopeo. Mentre un altro nano dal cuore di ghiaccio e dalla faccia da ragazzina ci manderà all’inferno stavolta, l’attaccante argentino Claudio Paul Caniggia con un gol di testa uccellerà un impalpabile Walter Zenga altro gigante beffato, poi i rigori e tutti a casa, è finita l’avventura. La sofferenza peggiore? L’Isola dei famosi, il reality penoso che vede Totò Schillaci “esotico” protagonista qualche anno dopo. Totò la magia non esiste. Totò al Cep se dici esotico a qualcuno, magari le prendi di santa ragione

Ci vuole smalto di Fabrizio Gabrielli

Federico Maria, quando s’inerpicava da Piazza Tomasseo su verso il Bisagno braccio a braccio col cugino Enrico, le domeniche limpide per andare alla partita, sprizzava albionicità. Bianca la camicia, bianco il cappello: bianco l’incarnato. Al campo non c’era che una modesta tribunetta, cinque o sei file di posti a sedere destinati ai scignuretti: il resto degli spettatori s’assiepava ai bordi del rettangolo verde, divisi dai calciatori da un filare di transenne. Verso Nord, la Caienna. La Caienna era l’arena dell’Andrea Doria, e prendeva il nome dalla città della Guyana; come se poi bastasse un nome, un’allusione, un ammiccamento a ricongiungere, foss’anche idealmente, i due mari. Il primo ad approdare alla Cayenna, raccontava Federico Maria, che di storia era appassionato sul serio, pènsa, è stato Cristoforo Colombo, zenése come noi, infatti. Avrebbe tifato sicuro Genoa, Colombo, dice Federico Maria, pieno di smalto. Alla Cayenna ci portavano gl’avanzi di galera a farsi passare i bollori, lì o alla vicina Isla del Diablo. Alla Cayenna era tutt’un gorgogliare d’animi esagitati, zanzare e afrori micidiali. Vi incubavano rabbia e malattie. Dalla Cayenna chi lo sa, se ci riuscivi, a uscirne vivo. Quando c’erano i derby, alla Caienna, alla Caienna zenese, sul Caffaro c’era chi arrivava a scrivere Preghiamo i signori spettatori di non aizzare i giuocatori onde non dover assistere ad un match brutale e scorretto. Perché su quel campo, poi, non s’inscenava un semplice testa a testa calcistico, ma l’atavica contrapposizione di classe, prolet da una parte, scignuretti dall’altra, e in gioco c’era mica solo l’autorevolezza fubolistica, il blasone, la gloria. Il Genoa lo tifava il padrone. L’Andrea Doria l’operaio. Vincere o perdere era assecondare o sovvertire i ruoli assegnati. I doriani indossavano una casacca a quarti bianchi e blu, blu come l’onde o come certe sfumature del piombo quand’è fuso; bianchi come la biacca che producevano allo stabilimento dei Boero. La biacca la chiaman pure Bianco di Genova, se lo sussurravano sempre, gl’operai dello stabilimento. Perché Genova è bianca, aggiungevano di soppiatto: come le maglie del Doria. Mica rosseblù, infatti. (I padroni avrebbero contestato che no, la biacca è pure detta Bianco di Amburgo, di Londra, di Venezia, olandese, inglese, cosa blaterate, tornate a lavoro, belìn). C’era stato un tempo, lontano e fumoso, in cui la rivalità cittadina era mica così incandescente. Addirittura si vociava che James Spensley, il fondatore della sezione calcistica del Genoa Cricket Club, si fosse prodigato affinché dei giovanotti mettessero su una compagine competitiva in città, alternativa agl’imbattibili grifoni. Li aveva presi in simpatia, quei sovversivi. Su tutti, Francesco Calì, Calì lo dicevan tutti Franz, Franz il tedesco, anche se era nato a Riposto, in Sicilia. E non aveva mai giocato ai pirati, da ragazzino. Piuttosto, erano stati i pirati a giocare col suo destino, con quello della sua famiglia. Il padre commerciava in vino. Abitavano sulla spiaggia delle botti, che si chiamava così perché era lì che il nettare degli dei finiva dopo la vendemmia, in attesa che le navi piantassero le ancore in rada e inviassero un pontone a remi a ritirarle. Franz, i corsari, se li immaginava sporchi e con la barba lunga, i denti marci e le sciabole arrugginite, tipo quelli che infestavano le coste della Guyana, che se poi li arrestavano li trasportavano in catene alla Cayenna. C’era rimasto un po’ male, a vederseli arrivare coi baffi radi e le coppole incastrate in testa. Parlavano la sua lingua, i pirati, non poteva crederci. Come i Malavoglia quando la Provvidenza gl’era andata a fondo portandosi dietro Bastianazzo e tutt’i lupini, ai Calì non era rimasto nulla più, solo la disperazione di dover cominciare tutto daccapo.Dovettero emigrare, in

DIPORTO

Isvizzera, dove non c’era neppure il mare, figuriamoci i pirati. Dove tutti gl’inverni nevicava che Dio la mandava. E la terra fangosa imbiancata si faceva collame appiccicoso, come la biacca se la diluisci nell’olio di noce. In Isvizzera, se ne dovettero andare: a cercar fortuna. Franz aveva preso a giuocare al calcio: fortuna, per trovare, l’aveva trovata. Militava col Fortuna Zurigo, poi passò al Genève. Da Genève a Genova il passo è breve, solo due vocali e trecento chilometri, a dorso di mulo, per tornare a smerciare vino, per provare a vedere se si può giocare al fubò in Italia pure. Ed è là, a Zena, che dopo aver militato nel Genoa di Spensley, giust’in tempo per perdere una finale scudetto, quella del 1901, tre a zero contro il Milan, che Calì piglia in mano il suo destino. Fonda l’Andrea Doria. Quella squadra che più in là, liquefacendosi in un abbraccio di piombo fuso con la Sampierdarenese, avrebbe dato i natali alla Sampdoria. Guardatelo, lo svizzero Calì, scriveva il Caffaro, leggeva Federico Maria quand’era un fringuelletto: giovane, modesto ed entusiasta, del suo gioco, e della sua società. Veste di bianco e di blu, Franz. Fa il capitano, Franz. Ogni mattina si sveglia alle cinque, come allenamento giù di corsa dalle colline fino al mare, son dieci chilometri al giorno, ma lui è giovane, ed entusiasta. Si liscia i baffi, scuote i capelli sudati, e via. Calì è un terzino: devi averci i polmoni grossi e ‘l cuore empio, se vuoi fare il terzino. Devi imparare a essere modesto. E poi, averci smalto. Nella Pro Vercelli, invece, per dire, ad esempio: pure i terzini c’avevano la spocchia.È il millenovecentodieci, l’ultimo atto del campionato vede sfidarsi Pro Vercelli e Internazionale. Quello stesso giorno, il quindici maggio, la rappresentativa militare è attesa dalla Francia sui campi dell’Arena di Milano: si tratta dell’esordio assoluto di una selezione Nazionale italiana. I campioni provercellesi rifiutano la storica convocazione tricolore: abbiamo una finale scudetto, noialtri, si schermiscono. Vengono multati, duecento lire a paio di gambe, e squalificati per un anno. Perderanno pure la finale, dieci a tre, ineludibile legge del contrappasso. La maglia della Nazionale finisce sulle spalle larghe di undici pionieri increduli, non necessariamente campioni, ma di certo entusiasti. E modesti. De Simoni. Varisco. Trerè. Fossati. Capello. Debernardi. Rizzi. Cevenini I. Lana. Boiocchi. E poi Calì. Franz Calì. Che conosce le lingue, l’isvizzero Calì. Per questo lo fanno capitano. L’Italia vince sei a due, la Gazzetta dello Sport celebra Francesco detto Franz, che fece dar ragione a coloro che insistettero per averlo in linea, e questo dice tutto data la lotta che si accese intorno al fortissimo capitano dell’Andrea Doria, Calì che si conferma per calma, sicurezza, per la perfezione del giuoco il più degno a coprire il posto di capitano del nostro undici nazionale. Avrebbe indossato la fascia di capitano anche nella sfida prevista in Ungheria, contro i campionissimi magiari, undici giorni dopo, Calì. Per la seconda e ultima volta. Dopo la pesante sconfitta, sei a uno, avrebbe lasciato il posto, sconsolato. Non avrebbe mai avuto l’onore di indossare una casacca azzurra. Perché quei due primi match, poi, l’Italia, l’ha mica giocati in azzurro: troppo costose, le magliette colorate. Meglio spendere sette centesimi in meno, e accontentarsi d’una camiciola bianca. Bianca come la neve in svizzera. Come i bagliori del sole quando s’erige alto sui flutti di Riposto. Come la biacca che gli operai impastavano lassù, sulla collina di San Martino, negli stabilimenti Boero, sotto gl’occhi del commendator Filippo, che ogni tanto pigliava sottobraccio Federico Maria e vedi, tutto questo un giorno sarà tuo, gli sussurrava. 2


Alla volta di Giotto di Bondone di Cosimo Piediscalzi

Sto arrivando nei pressi di Campi Bisenzio, lì dovrei alloggiare in una colombaia e potermi muovere così alla volta di Firenze. Voglio andare a cercare Giotto: è stato il mio psicoterapeuta privato per molto tempo. Quando anni fa soffrivo di attacchi di panico, mi ero inventato uno stratagemma per calmarmi, in verità era più una perversione: immaginavo di entrare scalzo e nudo all’interno della Cappella degli Scrovegni di Padova, e arrivato al centro della struttura io mi stendevo per terra con gli occhi rivolti verso il tetto, fisso esattamente sotto lo stellarium di Giotto. Ogni volta che arrivava in me quell’odio-terrore verso qualsiasi altra presenza umana; io mi catapultavo con il pensiero lì, nel templum di Enrico Scrovegni. Nella mia immaginazione avrei dovuto anche sentire dei canti gregoriani tuonare per tutte le navate, uno sgolare di lodi a Dio per sedare le mie ansie: un Deum Verum, un Agnus Dei, un Benedictine Nuns, il Magnificat anima mea Dominum. E io lì, finalmente pacato, sotto quell’azzurro di lapislazzuli, sotto quelle stelle e poi sotto ai cerchi, astri anch’essi ma spropositati! Quel cielo di Giotto era per me lo Stargate per il fuggifuggi, una caparra utilitaria per l’altro mondo. Ce l’ho sempre davanti agli occhi se voglio – quel trionfo di blu, un cobalto caldo e stordente, un azzurro imparentato con l’oppio, e mi persuadeva ancor più l’idea che il lapislazzuli in maggioranza arrivava dall’Afghanistan, come l’oppio. Dalle miniere di Sar-e-Sang e poi magari qui steso da un Giotto amministratore di ogni evenienza narcotica – e allora quella calcite, quella pirite, diventavano sollecitazioni chimiche e il blu oltremare creava in me un alluvione di serotonina – e in questa tempesta ipnagogica Giotto faceva arrivare loro – carovana divina dentro navi e vascelli: eccoli, gli astri-cerchi più grandi con dentro la Maria Regina dei cieli! Così strana e distante, così pacata e bella in quel viso che sembra una mimosa cristallizzata, tutta gialla, tutta di cera d’api con due occhi-diamanti. Quella vergine dentro la sfera è una luminaria! Essa è circondata dai 4 pianeti profeti, e per Giotto è il ponte tra la luce e la tenebra. E infine c’è Gesù, il grande sole radioso, con gli altri 4 pianeti profeti, e il più massiccio è l’8, quello di Giovanni Battista. Ma io qui avrei indugiato su di lui – il mio amato e inseguito Cristo, colui che ho braccato tra i pantani della mia giovinezza, e poi il Cristo trovato, scoperto, ottenuto! Se poi scappavo un po’ da quel cielo, allora ero dentro l’anima in pena del povero Enrico Scrovegni, avvertivo l’elettricità nelle sue dita quando lambisce la mano della Vergine e poi insieme al Notaio offre il modellino della Cappella, sarei stato tra le pieghe violacee del suo manto da penitente, insieme a quel San Giovanni e a Santa Caterina. Quel “lasciapassare” alla Vergine è sempre così melodrammatico ma è umano, perché nella liturgia di quell’afflizione c’era l’inferno epilettico dei miei nervi, e per ogni nervo scoperto Giotto mi aveva predestinato un rimando e un monito: Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio, tutte, nessuna esclusa erano infossate nella mia scatola cranica. E poi per contrappeso ogni virtù: la Prudencia, la Fortitudo, la Temperantia, la Fides, la Karitas, e mi vedevo annaspare tra quei mostri che Giotto aveva disposto a mo di ingegneria bellica nel suo Giudizio Universale. La scena di Cristo e Giuda poi… in quella potevo perdermi. La sporgenza del labbro di Giuda, che affronto! Il Cristo di profilo che sembra incantato, con il suo occhio che folgora, e dietro c’è Pietro che fa a fettine l’orecchio di Malco. Mi sconcertava il

retro invece; ossia quella guerra di lance e di bastoni: è il fracasso dell’umanità che non capisce, è il cicaleccio di tutte noi bestie incapaci di interpretare il sistema di cablaggio divino – quello incentrato sul 10, sull’atomo che inganna, sulla particella che fuga, sullo Spirito Santo che regge tutto il gioco – in quel caos c’è questa incoscienza prestabilita. Un incoscienza che con il rigore, la sensibilità e lo studio può divenire coscienza! L’altro teatro che mi faceva sognare era il “Compianto sul Cristo morto” – quello era trance pura, con quel corpo steso tra la sciagura che Giotto ha marcato per sempre nelle facce dei presenti. Non ho mai trovato nulla di tanto sensuale come l’abbraccio di Maria al figlio morto, e nella regia ogni cosa è un prestigio carnale allo stato puro: la donna che alza le mani di Cristo come a volerlo svegliare, la Maddalena angosciata che dall’altra parte pensa ai piedi del Cristo. E San Giovanni non capisce il trucco, e di fatto Giotto lo mostra esaltato dal dolore con le braccia aperte. Persino gli angeli sembrano colombi impazziti qui e là, li immaginavo sbatacchiare le ali e fare schiamazzo. Solo due apostoli, forse Pietro e Paolo, sembrano più calmi. Ma tutto in Giotto è romanzo interagente: come quella roccia-terra che scende e misura, ma dalla parte opposta è già ascensione dove a sommità guarda caso vi è un piccolo albero, a patrocinio ovvio di Resurrezione. Ma era il cielo la mia fissazione, il soffitto della Basilica. In un contesto iconologico che al di là dell’incanto, era un tabulato algebrico da unificare – “dio è una sorta di mappale, distributore celeste di numeri per ogni cosa e ogni cosa è già numero”, aveva capito in anticipo Pitagora. “Il libro della natura è scritto in lingua matematica”, ribadisce Galileo. “Dio è senza dubbio un matematico” ci suggerisce una certa avanguardia della Fisica – e anche lì c’era la password per l’accesso al “programma cosmico”. Per me lì tutto era computazionale, giacché ogni ordine in natura visibile o invisibile è espresso in modo computistico e frattale. Giotto per esempio fa 700 stelle e tutte a 8 raggi, e a me entusiasmava da sempre la ricorrenza dell’8. I raggi di ogni stella sono sempre 8. Anche Cristo resuscitato è un 8, per i cinesi l’8 è il numero degli immortali, 8 è il cubo di 2, numero infinito per eccellenza, l’8 è anche il numero magico della Fisica Nucleare, 8 sono anche loro: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno. E’ anche l’8 dei Pagani che include l’Infinito, è l’ottonario attivo e passivo, equilibrio costruttivo tra le strutture cosmiche. Ebbene, io per rimediare alle mie crisi nervose mi immaginavo lì, sotto quel cielo giottesco, nudo su un pavimento ghiacciato che avrebbe ucciso ogni mia vampata da epilettico. Eccomi adesso invece, da quelle crisi sono passati un po’ di anni. E ora sto viaggiando tra le campagne toscane; Campi Bisenzio è già dall’altra parte di questi colli, Scandicci, Signa, la Colonica laggiù, laghetti con dentro acqua verde, le serre. Stiamo arrivando! Non vedo l’ora di trovarmi sotto al campanile di Giotto. Quanti campanili ha l’Italia! Quanti non se ne innalzano più? Io amo le torri e ogni cosa che tende verso il cielo (sono retorico? Pazienza), ma più in alto vado e meglio mi sento. Pago 500 euro di affitto per vivere in una topaia all’ultimo piano di un palazzo decrepito, se potessi mi venderei un rene per sostituire la mia topaia con la torre di Giotto. Dormirei meglio a 84 metri, che gioia! Potrei fare da guida ai turisti cinesi magari, spiegare loro che Dio forse è un matematico e che un tempo volle inviare proprio in Italia i suoi migliori ingegneri: tra questi Giotto. Poi spiegherei loro che questo Campanile è indistruttibile, alla faccia di quei fiorentini un po’ laidi che una volta eretta l’opera presero ad ossessionare Giotto; bisbigliando che la Torre sarebbe venuta giù, iettatori da quattro soldi! Il povero Giotto, uomo pio, aveva quasi iniziato a crederci, qualcuno osò pensare che

quel tarlo gli sveltì un po’ la morte, avvenuta ancora in un 8 ovviamente: 8 gennaio 1337. Ecco racconterei questo ai cinesi, gli farei vedere il Campanone, la Misericordia, l’Apostolica, l’Annunziata, la Mater Dei, l’Assunta e l’Immacolata, e gli direi che tutte e sette fanno un Plenum che risveglierebbe anche i morti a Pechino. Mentre penso a questa follia, mi accorgo che viaggio su una corriera sbilenca e ho accanto più cinesi che italiani, una bambina con gli occhi a mandorla si tura il naso, sorrido, guardo fuori: sto quasi arrivando. Campi color smeraldo, girasoli che osservano chini gli elettrodi dell’alta tensione: è la Toscana, ci sono! Per altro, lì dove dovrei dormire, miseria della mia stamberga a parte; dovrebbe trattarsi di Paradiso! Proprio così, scopro che Dante Alighieri cita questo posto nel XVI canto del Paradiso (vv 49-51) della Divina Commedia. Ma c’è anche un anti-paradiso di estrazione popolaresca; il paesello di Campi Bisenzio è citato in un famoso detto toscano che la dice lunga: “Peretola, Brozzi e Campi la peggio genia che Cristo stampi”. Dunque per un po’ di notti dormirò lì dove Cristo ha stampato la peggior gente? Ma siccome sono paranoico e perfezionista; io so e subito ricordo che proprio qui, in

queste c a m pagne, tra queste colline; sono avvenuti ben 4 omicidi per disegnare quello che è a tutt’oggi uno dei misteri criminali d’Italia più occulti: quelli finiti poi sotto il target diminutivo di “il mostro di Firenze”. Sempre qui. E qui adesso dormo, e da qui parto in direzione di Giotto, il pittore contadino-capraio. L’indomani mattina sono già su un autobus alla volta di Firenze. Nel viaggio penso a Giotto da ragazzo, me lo immagino puzzolente e lagnoso, con dei sandali vecchi, le unghia delle mani nere. Cerco di immaginarmi il tanfo delle strade, di una stagione irripetibile dove la carne dell’uomo ardeva per stretto contatto con i cieli! Arrivo a Firenze di buon ora, il sole splende e io ho fame. A Firenze ci ero già stato da giovanissimo, feci tutta la città a piedi con 40 gradi all’ombra, e con in mano solo un libro di Rimbaud. Ho ancora una foto, Rimbaud tra le mani, la mia faccia da cretino sotto la statua di Dante Alighieri, Basilica di Santa Croce. Non ero voluto andare neanche agli Uffizi perché mi annoiava (a 18 anni si è folli e cretini). Ma in compenso arrivai fino a Vinci. Per par-condicio quindi, dopo Leonardo Da Vinci, conto di attraccare nel Mugello, ove si trova la casa natale di Giotto. Sulla mia agendina ho segnato anche “Ponte di Ragnaia”, che dovrebbe essere nei pressi della statale 551, vicino a Vespignano. Questo cavalcavia è più noto come il Ponte di Cimabue, e sarebbe quello dove secondo la leggenda, Cimabue avrebbe incontrato il pastorello Giotto intento a disegnare 3

una pecora sulla roccia. Io sto andando a cercare Giotto, ma Giotto chi era? Giotto è nato nel 1266 (data non certa! Ma 12 e 66 per un tale come Giotto sono più che azzeccati), a Colle di Vespignano (forse). Stabilire la vita di Giotto è una fatica. Quando da ragazzo, Giotto, arrivò a Firenze gli fece una grande impressione: tutta quella gente, gli edifici, le chiese, la cultura nascente. E lui un po’ provinciale! Ma Giotto lo fu davvero un provinciale? Fu davvero il bambino pastorello? Il poveraccio figlio di contadini? Le origini vere e proprie di Giotto sono una speculazione perpetua: figlio di quel tale Bodone il fabbro o per l’appunto discendente da umili contadini? Ai suoi tempi non esistevano carte battesimali per la plebe. Tuttavia quest’aspetto di Giotto retoricamente proletario mi è sempre piaciuto (giacché mi appartiene), e Giotto conferma che la razza anche sottointesa come perno di origine non si smentisce agevolmente: di fatti quando Giotto diventa un apprezzato artista, acquista una casa ma pur sempre in periferia, e con gli altri guadagni più consistenti, Giotto predilesse acquistare terreni nella sua Vespignano, lì dove era cresciuto in maniera umile. Ma resta vero il fatto che, la biografia dettagliata di Giotto è pur sempre un arcano: esistono documenti che parlano di un Giotto residente per breve tempo presso la Parrocchia di San Michele Visdomini. E per contrappeso alla predisposizioni di un Giotto provinciale e umile; vi è quella (ovvia) d e l Giotto che lavora per la Corte di Roberto Re di Napoli, lo stesso che poi assegnerà a Giotto persino una “pensione a vita”. O il Giotto già prestigioso a servizio del Signore di Milano, Azzone Visconti. In Giotto, possono coesistere senza urti tutte le cacofonie caratteriali del “nobile plebeo”, dell’uomo di origini umili che si eleva portandosi a duello personalistico tra antitesi continue e travagliate, in una dualità esistenziale che è l’anticamera naturale per i grandi talenti. Giotto era un italiano rude ma versatile, di poche parole e piuttosto pignolo ma perspicace nelle relazioni, gran taccagno e al col tempo abile imprenditore. Era e forse fu, tutto e il contrario di tutto. Il suo genio rozzo produceva poi quel naturale paradosso che nella comprensione completa diventa sempre elitario un esempio di ciò ce lo conferma storicamente proprio Petrarca. Petrarca, da grande osservatore, nota subito che l’arte di Giotto, seppure abbastanza richiesta, lasciava spesso perplessi i più, e non sempre si poteva definire “compresa” la pittura religiosa giottesca, quindi il Petrarca scrive: “Questa bellezza in Giotto, gli ignoranti non la comprendono, essa stupisce solo i maestri dell’arte”. Ecco! Il plebeo non destinato ai plebei: Petrarca infatti aveva inteso che nelle novità di Giotto vi erano elementi troppo raffinati e poco usufruibili per tutti – a capire quel Giotto stranito ci volevano solo i grandi esperti, i dotti, gli illuminati. Ma più provavo empatia nel personaggio di Giotto, più adesso che sono sulla sua terra riaffiorano in me note, stranezze, curiosità. Ad esempio Boccaccio, che descrive Giotto più o meno così: “Goffo d’aspetto, cervello fino, brutto e arguto”. Perfetta incarnazione dell’archetipo sopra esaltato: brutto e arguto, goffo, impacciato, ma di cervello fino. Ed è sempre Boccaccio che di Giotto ci consegna anche un

altro lato del suo carattere – quello della sua modestia. Ora, io non so quanto esagero ma in Giotto e in certe sue spigolosità vitali; io vi vedo “un siciliano”. Mi conforta e mi da ragione l’antichissima e ambigua parentela tra “toscani e siciliani”. L’italiano del 300 incarnato da Giotto mi anticipa un modello futuro di “uomo-artista tutto meridionale”, italiano e intellettuale del sud, eretico e religioso, spartano e raffinato, zotico e intelligente, buono e cattivo. Novella VI.5 del Decameron, sempre Boccaccio, ecco come ci appare il maestro: “[Giotto] meritamente una della luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò, vivendo quella acquistò, sempre rifiutando d’esser chiamato maestro. Il qual titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevan di lui o da’suoi discepoli era cupidamente usurpato”. Chiaro e tondo: il cattivo e rude pittore ha orrore verso l’onorificenza di “Maestro”, e da essa scappa, e solo chi ha penato sotto il tallone scimunito del maestrino-borghese può, in futuro, irridere ogni maestro e ogni scuola! Frustrazione, cinismo e genio, in Giotto non ancora maturo trovano conferma in un altro strano espediente di “modestia” – espediente più unico che raro per quei tempi – Giotto non si firma! In talune sue opere giovanili, Giotto non trova per nulla importante lasciare il suo nome e cognome. Un bellissimo altare a Pisa, dipinto da Giotto giovane, è firmato semplicemente con “OPUS IOCTI FLORENTINI”. E fece la stessa cosa usando diverse frasi più volte: tra il 1328 e il 1337 Giotto ultima un bellissimo polittico, niente firma, solo questo: “OP.MAGISTRI IOCTI D.FLORA”. E ancora: presso la cappella dei Baroncelli nella chiesa di Santa Croce è esposto un altare di Giotto, firmato con le parole “OPUS MAGISTRI YOCTI”. E finalmente quel Giotto che anziché lasciarci la sua firma, ci lasciava strani epigrammi, ora è qui – davanti a me, e sfiora come detto i 100 metri! Sono ritto in piedi sotto il suo Campanile. C’è odore di marmo inzaccherato di CO2, c’è puzza di turismo. Drappelli di piccioni ovunque, bambini che frignano, giovani zombie abbigliati come rapper che pascolano. L’obelisco di Giotto è qui al mio cospetto. Il sole, mio magistero, sfolgora, e quasi fatico ad alzare gli occhi in alto fino alla sommità della torre. Ogni mio sforzo di spalancare gli occhi è peggiorato dai miei spostamenti: prima all’indietro, poi in avanti, ora a destra, no meglio a sinistra, da chi scappo? Dalla gente, non cambio mai, scappo da una massa chiassosa di gente per lo più escursionista come me, che tuttavia non sembra assai attenta a farsi accecare dal sole pur di mettere a zoom la Torre di Giotto. Pochi la guardano, la maggior parte guarda per terra, alcuni leccano dei gelati, altri guardano i piccioni. Finalmente trovo una buona postazione: mio caro campanile, mio caro Giotto, ti ho conquistato! 84 metri da terra, esattamente 82 e qualcosa dall’ultimo capello della mia testa –84, 82, 3, 3, 3, oggi è il 31 marzo 2012, 31, 3 – Duecentoquattordici per totale? E facciamo 214, eccolo, Sant’Agostino, il discorso numero 214, nella trasmissione del simbolo, e si sfrangia come una zolla di ghiaccio sulla mia testa accalorata: “E riguardo a questa carne mortale non dobbiamo dubitare che essa risusciterà alla fine del mondo. Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina nell’ignominia e risorge nella gloria, si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale. Credete a Cristo che assicura: neanche un capello del vostro capo perirà”. Sorrido, nemmeno più l’orda chiassosa dei turisti mi disturba, mi sento divampare come un meteorite, sono felice, pieno, stracarico, appagato – si semina nell’ignominia e risorge nella gloria – è tutto perfetto, precipito sulla terra e brucio, come in cielo e così in terra. Mi siedo sui gradini del Campanile, mi faccio una sigaretta, è tutto ok. La gente che passa io non la vedo più.

ARTE


La madre ebrea del fascismo di Alessandra Leone « Tutti in Italia volevano dimenticare l’altra donna del Duce: i fascisti, perché era ebrea; i loro oppositori, perché era fascista; e la famiglia, perché diventò un imbarazzante fardello storico. Il risultato fu che la storia di Margherita Sarfatti scivolò via dai riflettori, insieme al ruolo centrale da essa avuto nel fascismo italiano e nella vita del Duce. Oggi, più di 60 anni dopo che il dittatore fascista venne giustiziato, i discendenti della Sarfatti preferiscono considerarla come un’intellettuale e una mecenate, che lavorò affinché l’Italia prendesse le distanze dal pericolo nazista e che fu costretta a fuggire in Argentina quando Benito Mussolini attuò le leggi razziali. Non le hanno mai sentito parlare dei 20 anni in cui condivise la dottrina e il letto di Mussolini. Nè delle 1272 lettere che lui le scrisse in quegli anni, e che sono scomparse. … » (Saviona Mane) [1] « Chi era Margherita Sarfatti? Come mai la sua figura è così poco conosciuta dal grande pubblico? [...] Margherita Sarfatti, da nubile Grassini, appartenne a un’ottima famiglia ebrea. Di grande e brillante intelligenza fu fin da giovane addentro alla politica. Scrisse su molti giornali, fu regista di un’esperienza artistica piuttosto importante per l’Italia, ma soprattutto fu amante del Duce e sua ispiratrice, poi ripudiata, per le questioni culturali ma anche per quelle politiche. Renzo De Felice, il più importante storico italiano del fascismo parlò con lei e ne trasse alcune considerazioni che per quanto non documentate lo portarono a supporre un ruolo molto determinante nella costruzione dei più importanti miti fascisti. » (Ilaria Tremolada) [2] « Oggi siamo abituati a visualizzare il Mussolini ridicolo e pacchiano dei cinegiornali Luce, ma negli anni ’20 il look e le pubbliche relazioni del Duce erano curati da Margherita Sarfatti, una raffinata intellettuale ebrea, che aveva un grande prestigio anche come critico d’arte. La Sarfatti era un genio delle pubbliche relazioni, e nel 1925 pubblicò in Gran Bretagna un libro biografico/apologetico su Mussolini, un libro che poi divenne un best-seller internazionale; in Italia venne pubblicato col titolo “Dux”. Il look del Mussolini versione-Sarfatti era tenebroso e aggressivo, e risultò decisivo per fare del Duce un mito mondiale. » [3] « Quindi Margherita Sarfatti ebbe un ruolo, e neanche troppo marginale, nella storia contemporanea italiana, eppure è una figura pressochè sconosciuta. Su di lei è caduto il silenzio. Di fronte al suo nome, dice l’autrice di un saggio critico sulla storia della letteratura nel periodo fascista, il lettore di oggi è colto di sorpresa. Fino a pochi anni fa non esisteva neanche una sua biografia completa e coerente. Capire il perché di questo lungo esilio inflitto alla figura di Margherita Sarfatti è estremamente facile. La spiegazione si trova naturalmente nella storia dei protagonisti del costume e della cultura di quegli anni così difficili per l’Italia. Schiacciata dall’avvilente esaltazione della potenza e virilità maschile, anche Margherita Sarfatti, come molte donne che avevano vissuto la loro maturità intellettuale e lavorativa durante il fascismo, era stata volutamente cancellata dalla storia. In realtà, a ben guardare, la sua vicenda è diversa da quella di alcune delle scrittrici contemporanee, come Grazia Deledda, Sibilla Aleramo, Amalia Guglielminetti e Ada Negri, che per quanto sminuite e sottovalutate in epoca fascista, hanno però legato al loro nome una fortuna destinata a durare nel tempo senza soluzione di continuità. In modo

COSTUME E SOCIETÀ

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più profondo la vicenda di Margherita Sarfatti è aggravata dal fatto di essere stata, e ciò non è poco, l’amante del Duce. Quest’ultimo, sul finire degli anni ’30, non solo tentò di negare il ruolo della bella Margherita nella creazione del fascismo, ma dopo l’alleanza con Hitler, stipulata nel maggio 1939, non tollerò più che tutti considerassero l’ebrea Sarfatti come fondatrice e asse portante della politica culturale del fascismo. Così durante gli ultimi anni di dittatura ne fece una “non persona”. Complice di questo gioco infame, per salvare il suo onore e quello della sua famiglia, Margherita lasciò che ancora prima della sua morte il suo nome venisse disgiunto dai ricordi. Per un breve periodo, fino alla comparsa della Petacci nella vita del Duce, lei fu per tutti la protagonista della più lunga storia d’amore di Mussolini. Ma poi gli orrori della guerra e l’imbarazzo della sua famiglia per il coinvolgimento della figlia nella vicenda politica del fascismo, oltre al chiaro prevalere della figura della Petacci come amante storica del Duce, la fecero definitivamente seppellire negli angoli più remoti della memoria. Dodici anni dopo la fine del fascismo, nel 1955, Margherita Sarfatti fece il suo ritorno come scrittrice prendendosi una piccola quanto inutile rivincita su Mussolini. Il suo libro Acqua passata, edito in quell’anno, non contiene la benché minima traccia del periodo fascista e degli uomini che ne furono protagonisti e per questo sembra la risposta, a partire dal titolo, al trattamento subito. » [2] Nata l’8 aprile 1880 da Emma Levi (Emma era cugina di Natalia che sposò il critico letterario antifascista Leone Ginzburg e divenne la famosa scrittrice Natalia Ginzburg) e Amedeo Grassini, due ricchi ebrei della buona società veneziana, Margherita visse un’infanzia incantata tra le mura del palazzo di famiglia situato nella parte vecchia del Ghetto di Venezia. « Nel 1894 la famiglia Grassini abbandonò il Ghetto vecchio per stabilirsi in una casa che rispecchiasse meglio il suo crescente prestigio. La nuova abitazione di Margherita fu palazzo Bembo su canal grande. Questa più degna sistemazione, che era appartenuta tra XV e XVI secolo al celebre storico e poeta nonché Cardinale, Pietro Bembo, venne rimessa a nuovo ed ebbe tra l’altro il primo ascensore di Venezia! » [2] All’epoca del traferimento Margherita aveva 14 anni ed era un’adolescente straordinariamente bella, ma soprattutto straordinariamente intelligente e sicura di se. Nutrita con l’atmosfera culturale che si respirava nella sua grande casa sempre frequentata da illustri rappesentanti della cultura veneziana e italiana, Margherita conquistava gli ospiti di palazzo Bembo esternando preferenze e pareri tanto definiti quanto particolarmente impegnati per una ragazza ancora nel pieno dell’adolescenza. « Quando aveva 12 anni le fu permesso di partecipare ad un’asta di oggetti d’arte dove acquistò un piccolo dipinto che più tardi sarebbe stato attribuito alla scuola di Guido Reni e che costituì il primo pezzo di una delle più grandi collezioni private d’arte in Italia. Poco dopo essersi trasferiti a palazzo

Bembo, i genitori di Margherita decisero di assecondare la sete di conoscenza che la figlia aveva così bene esternato assumendo dei tutori privati. A quell’epoca era raro che le giovani donne di buona famiglia venissero incoraggiate allo studio della storia e della letteratura. In una cultura ancora profondamente maschilista nella quale gli uomini potevano chiedere il divorzio per adulterio ma le donne no, il futuro che si prospettava alle appartenenti al gentil sesso era semplicemente quello della cura della casa e della propria famiglia. » [2] Già molto determinata a non seguire questo schema, ma soprattutto determinata ad imparare e a studiare ogni cosa, Margherita ottenne l’appoggio dei genitori che presero per lei tre tutori privati: Pietro Orsi, Pompeo Molmenti e Antonio Fradeletto. Essi diedero alla figlia dei Grassini un’educazione di qualità, ampiezza e vigore straordinari. Oltre all’attività accademica erano impegnati in politica e furono poi deputati e sanatori nel Parlamento italiano. Orsi giovane storico che si era occupato a lungo del periodo medievale poi abbandonato a favore della storia dell’Italia contemporanea, lasciò a Margherita un insegnamento che non avrebbe mai dimenticato basato sulla convinzione che il progresso sociale e intellettuale fosse specchio di una nazione almeno quanto lo erano le guerre e la politica. « Molmenti era uno studioso della cultura veneziana e accostò Margherita all’arte pittorica e scultorea con l’idea che rafforzassero i valori civili. Sicuramente importantissimo, l’insegnamento di questi due ottimi tutori non quanto però Antonio Fradeletto che è da considerare come colui che modellò il sistema di valori della figlia prediletta di Amedeo Grassini. Laureato in lettere, critico e scrittore di teatro, noto conferenziere aveva persuaso il sindaco di Venezia ad istituire la Biennale come veicolo di incremento del turismo e del commercio. Il maestro instaurò con la giovane allieva un rapporto intenso, vivacissimo e per nulla univoco. Fradeletto la condusse nel mondo dell’arte e le fece scoprire le opere del critico Jonh Ruskin. Quest’ultimo divenne per la giovane Margherita e per la futura critica d’arte un irrinunciabile punto di riferimento. » [2] Da lui imparò che la vera funzione del critico era spiegare gli ideali che sottendono a una creazione artistica piuttosto che lo stile o la tecnica. Oltretutto Ruskin indicò a Margherita la via dell’arte moderna e lei imparò fin da giovanissima ad apprezzare le audacie dei pittori moderni che condannavano l’accademismo. « Dei classici che Fradeletto le faceva leggere apprezzò veramente solo Dante e la Divina Commedia che avrebbe consultato come un oracolo rivelatore nei momenti importanti della sua vita. Ma in generale le sue preferenze andavano alle opere moderne, in particolare quelle del romanticismo, che lei divorava. » [2] I romanzi realistici di Balzac e Hugo le fecero conoscere le ingiustizie economiche e l’oppressione a cui erano soggette le donne e i deboli. L’incontro con George Bernard Shaw rafforzò queste idee che erano ormai delle convinzioni. Era questa l’epoca in cui scrittori e intellettuali denunciavano apertamente le convenzioni conservatrici trovando in Margherita Sarfatti una decisa sostenitrice. La sua grande intelligenza nonché apertura mentale la portarono a interessarsi anche a scrittori irriverenti


NOTE [1] Tratto dall’articolo di Saviona Mane ”The Jewish mother of Fascism“ pubblicato nel luglio 2006 sul quotidiano israeliano Haaretz. Copyright 2006 © Haaretz / Saviona Mane

come Gabriele D’Annunzio, che ammirava tanto quanto Oscar Wilde. Insieme i due scrittori erano da lei visti come strumenti attraverso il quale “i perfidi anni Novanta tagliavano i ponti con la rigidità puritana del periodo vittoriano”. Arricchita da una formazione così vasta per quantità ma soprattutto per genere, Margherita si trovò però a dover risolvere il conflitto tra la cultura classica, che aveva appreso dai suoi maestri, e le teorie moderne che la sua mente vorace le chiedeva di indagare. Questo contrasto interiore era poi aggravato dall’ambiente famigliare piuttosto religioso. I Grassini erano ebrei ma lei era cresciuta leggendo la Bibbia e i forti legami del padre con il mondo ecclesiastico le avevano mostrato con molta eloquenza le contraddizioni della morale cattolica. Fu a questo punto della sua evoluzione intellettuale che Margherita, ancora diciassettenne, incontrò la causa del femminismo e la teoria del marxismo. Il suo ingresso fra i socialisti italiani avvenne con la pubblicazione di un articolo su una rivista letteraria socialista di Torino. « Il pezzo, che sarebbe stato il primo di tanti, era firmato “Marta Grani”. Margherita aveva coniato questo pseudonimo mettendo insieme la prima e l’ultima sillaba del suo nome e del suo cognome. Dopo la pubblicazione dell’articolo, che scatenò l’ira di Amedeo Grassini, Margherita fu accolta nella comunità socialista che subito la ribattezzò la “Vergine rossa” in onore a Louise Michel, femminista che nel 1871 aveva capeggiato la rivolta della Comune di Parigi, primo esperimento di attuazione delle idee socialiste. » [2] Margherita si accostò al femminismo ma non del tutto. Margherita che cominciò collaborando con “L’Unione femminile”, una rivista edita a Milano e fondata nel 1901 da Ada Negri. È proprio da qui che inizia la presenza attiva e costante di Margherita Sarfatti all’interno della cultura e della politica italiana. « Appartenente alla generazione ancora in bilico tra socialismo e liberalismo, la futura amante del duce fu un veicolo importantissimo con il quale l’Italia approdò ad una nuova visione del mondo, ovvero allo stato fascista. Al di là della discutibilità delle sue scelte è innegabile che il suo fu un ruolo storico di grande rilievo. 1902 i Sarfatti si trasferirono a Milano con i due loro figli: Roberto (che morì in battaglia durante la I guerra mondiale) e Amedeo. (…) Nella grande città lombarda Margherita cominciò a scrivere su l’”Avanti!”. In evidente contraddizione con la loro fede socialista, Cesare e sua moglie vivevano in un bell’appartamento di via Brera e sostenevano una vita agiata a cui non mancava nulla. » [2] Margherita era sempre impreziosita da gioielli costosissimi che Anna Kuliscioff, di cui divenne presto amica, non avrebbe mancato di notare, e aggiungiamo, disprezzare. « La compagna di Turati apriva il suo salotto agli attivisti del partito, ma non impediva la presenza di intellettuali e artisti dissidenti come Marinetti. La Sarfatti vestiva abiti di sartoria e gioielli costosi, non aveva mai voluto attenersi alle usanze delle donne del partito che le faceva apparire volutamente sciatte e proletarie, quali per la maggior parte non erano, e questo atteggiamento di Margherita, che sembrava dettato dalla vanità, non piaceva alla Kuliscioff che era sempre priva di ogni fronzolo puramente estetico. » [2] Oltretutto, la Sarfatti non vedeva nel suffragio uni-

[2] Tratto dall’articolo di Ilaria Tremolada “Margherita Sarfatti, la donna che sgrezzò il bruto Mussolini” pubblicato su Storia in network. Copyright © Storia in network / Ilaria Tremolada

vers a l e un’arma con la quale la donna potesse affermarsi nella società. Questa era invece la prima delle rivendicazioni dei circoli più impegnati, che non accolta, o almeno non interamente da Margherita, la ponevano quanto meno in una posizione particolare rispetto alle femministe più convinte. Il rifiuto del razionalismo di stampo ottocentesco contenendo in se un forte irrazionalismo e il richiamo alla grande varietà di sfumature a cui esso rispondeva, riunì personaggi di diversa cultura ed estrazione come Prezzolini, Papini e Corradini che sarà il maggiore propugnatore del nazionalismo italiano. « I primi due invece saranno protagonisti della creazione, nel 1908 de “La Voce” . La posizione antipositivista e anche antisocialista assunta da “La Voce” non dispiacque a Margherita. Nel progetto editoriale di Papini e Prezzolini, Margherita ritrovava l’importanza della partecipazione dell’intellettuale alla costruzione di una nuova società moderna. » [2] Tutto questo nucleo ideologico costituì l’avanguardia del suo pensiero fascista che convisse con la militanza nel socialismo riformista, ma che in realtà era già presente e ben radicato perché proveniva direttamente dalla sua prima formazione. È comunque attraverso le novità presentate da “La Voce” che Margherita si allontana dal socialismo e approda a una sua totale revisione in cui sono già presenti i germi del fascismo. Il punto chiave del passaggio è costituito dal sostegno alla causa della guerra con la quale avviene la sconfessione del femminismo, del socialismo, del pacifismo e dell’internazionalismo e l’aquisizione piena dell’idea di nazionalismo o italianismo. « Il triennio ’12-’15 è fondamentale e segna il passaggio che è soltanto l’approdo a teorie compiute che hanno però la loro origine ben più addietro. Per questo è importante soffermarsi sulla formazione di Margherita, perché è da lì che provengono tutte le sue idee più innovative e moderne. (…) In quegl’anni fece la sua apparizione, sulla scena politica italiana e nella vita di Margherita, Benito Mussolini che ai tempi dell’intervento era già direttore dell’”Avanti!”. » [2] Assunse questa carica il 12 dicembre 1912. Pochi giorni dopo Margherita andò nel suo studio al giornale per rassegnare le dimissioni: credeva che l’arte non potesse interessare il nuovo direttore, invece trovò un uomo disposto ad ascoltarla. « Era uno dei loro primi incontri e Margherita rimase affascinata sopratutto”dall’energia compressa che emanava da lui”. Nel 1913 erano già amanti, ma c’era nel loro rapporto un misto di attrazione e repulsione. Per di più Mussolini trattava le donne con leggerezza, indifferenza e amava corteggiarle. Leda Rafanelli fu sua amante, con tutta probabilità, contemporaneamente a Margherita che aveva rimpiazzato la socialista Angelica Balabanoff. Comunque da quando Margherita entrò nella vita di Mussolini e fino al momento della rottura che si può più o meno collocare nell’anno 1932, il loro fu un sodalizio amoroso, ma anche e soprattutto culturale e in qualche modo formativo. Il primo capitolo della loro storia insieme fu la partecipazione attiva e

[3] Tratto dall’articolo “Prepariamoci ad espiare il berlusconismo (e poi anche l’antiberlusconismo)” pubblicato su C.O.M.I.D.A.D. nell’agosto 2009 Copyright 2009 © C.O.M.I.D.A.D.

fond a mentale al movimento interventista italiano. » [2] Partecipò al nuovo giornale un nuovo giornale fondato da Mussolini: il “Popolo d’Italia” che divenne la principale tribuna attraverso cui lanciare le forte convinzione che una guerra fosse necessaria per curare e restaurare la società italiana. « A quel punto della sua vita, la “Vergine rossa” aveva 35 anni e una posizione che le era invidiata non solo dalle donne ma anche dagli uomini. Era diventata uno dei critici d’arte più rispettati, il suo salotto in corso Venezia aveva assunto un carattere politico che ne rendeva fondamentale la frequentazione a chiunque sperasse o già avesse una qualsiasi posizione di rilievo. » [2] Tutto ciò però non bastava a Margherita che, ambiziosa e assetata di potere, vedeva in Mussolini un mezzo con il quale raggiungere il suo scopo. Precisamente ciò che voleva era la creazione di una cultura nazionale ovvero di uno stile nazionale in arte e letteratura. « Questo progetto si sarebbe realizzato solo nell’ambito di uno stato nuovo, che doveva avere i parametri di cui si è parlato sopra, e che lei pensava avrebbe trovato il suo artefice in quell’uomo giovane che “sembrava pronto a spiccare il volo” e che in questo volo avrebbe portato con sé Margherita innalzandola fino alle vette di quel potere che lei in quanto donna non avrebbe mai raggiunto da sola. La condivisione dell’ideale di stato nuovo portò i due amanti ad una complicità profonda. Volendo precisare il ruolo di Margherita nella formazione del fascismo, che ella svolse in modo del tutto consapevole. La sua posizione di preminenza all’interno dell’alta società milanese la poneva nella condizione di poter, anche attraverso il suo frequentatissimo salotto, diffondere idee e convinzioni. Margherita sgrezzò il rozzo Mussolini e lo presentò legittimandolo alla Milano “bene”. Il suo sostegno al movimento violento fondato dal futuro duce fu fondamentale perché fece credere alla borghesia liberale che Mussolini fosse l’uomo giusto al momento giusto. » [2] In altre parole, Margherita diede al fascismo la necessaria rispettabilità, quella rispettabilità che la borghesia milanese faticava a vedere nello squadrismo e nella brutalità del suo capo. « Margherita fu importantissima anche per la diffusione del culto del duce, che ebbe in Dux, la biografia da lei scritta nel 1926 e autorizzata da Mussolini, la prima grande prova. Ma tutto ciò non basta a esaurire gli ambiti di intervento di Margherita. Infatti quest’ultima fu anche responsabile dell’ufficio stampa che forniva informazioni alla stampa estera, soprattutto statunitense. (…) Quindi fino al 1931-32 questa fu la parte che Margherita svolse. Da quell’anno però la ruota della fortuna girò in senso contrario per questa donna che venne soppiantata nel ruolo di amante ufficiale da Claretta Petacci. I rapporti già tesi con il duce la spinsero prima al margine della sua vita privata e poi anche di quella pubblica. Ultimo atto del declino di Margherita fu l’emanazione delle leggi raziali in Italia, nel 1938. Questa legislazione dettata unicamente dalla necessità di tenere testa all’alleato tedesco costrinse Margherita, come tanti altri ebrei italiani, a lasciare il paese. Cacciata e ripudiata da Mussolini che le consigliò di far dimenticare più in fretta possibile il suo nome, la Sarfatti si rifugiò prima a Parigi poi nel sud America dove, già molto conosciuta e ammirata, visse fino al 1947. In quell’anno tornò in Italia e si rifugiò nella villa del Soldo vicino a Como dove poi morì il 30 ottobre 1961. Pochi anni prima di morire, nel 1954, liquidò la sua vita passata con Mussolini, che era già stata processata attraverso lo scritto Mussolini come io l’ho conosciuto, ritratto impietoso del duce ben diverso dal pomposo e artificiale Dux, vendendo il loro carteggio privato, costituito da ben 1272 lettere, ad un chirurgo plastico statunitense. »

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COSTUME E SOCIETÀ


ANNIVERSARI

I 270 anni di Alessandro Volta 270 anni fa, il 18 febbraio 1745, nasceva Alessandro Volta e la cosa non passa inosservata. Infatti, oggi, 18 febbraio 2015, non vi è quotidiano al mondo che non vi dedichi un articolo celebrando il genio del fisico comasco a cui si devono, tra l’altro, l’invenzione della pila e del generatore elettrico così come la scoperta del metano. E Google, che non vuol essere da meno, partecipa alla festa con un doodle mondiale.

Quando Volta scoprì il metano

Forse non tutti sanno che ad Alessandro Volta non si deve soltanto l’invenzione della pila e del generatore elettrico ma anche la scoperta del metano. E, infatti, la storia vuole che … Nell’autunno del 1776 Alessandro Volta studiò un fenomeno (già noto anche in epoche più lontane) segnalatogli da Carlo Giuseppe Campi: in un’ansa stagnante del fiume Lambro, avvicinando una fiamma alla superficie si accendevano delle fiammelle azzurrine. Questo fenomeno era già stato studiato separatamente da Pringle, Lavoisier, Franklin e Priestley pochi anni prima ma lo classificarono semplicemente come un’esalazione di aria infiammabile, di origine minerale. Volta volle andare più a fondo della questione. Mentre era ospite ad Angera nella casa dell’amica Teresa Castiglioni (Angera 1750 – Como 1821), Alessandro Volta scoprì l’aria infiammabile nella palude dell’isolino Partegora, in località Bruschera (provincia di Varese). Provando a smuovere il fondo con l’aiuto di un bastone vide che risalivano delle bolle di gas e le raccolse in bottiglie. Diede a questo gas il nome di aria infiammabile di palude e scoprì che poteva essere incendiato,sia per mezzo di una candela accesa,sia mediante una scarica elettrica; dedusse che il gas si formava nella decomposizione di sostanze animali e vegetali. Pensando immediatamente a un suo utilizzo pratico costruì dapprima una pistola elettroflogopneumatica in legno, metallo e vetro, il cui scopo sarebbe stato la trasmissione di un segnale a distanza, e in seguito realizzò una lucerna ad aria infiammabile e perfezionò l’eudiometro per la misura e l’analisi dei gas. Per ulteriore conferma della sua tesi, si recò nel 1780 a Pietramala, sull’Appennino toscano, dove vi erano dei celebri fuochi fatui.

10 domande (-1) al Prof. Paolo Lissoni di Manfredi Beninati “ L’uomo per scegliere deve conoscere” (P. Lissoni) Paolo Lissoni (Milano, 11 maggio 1954) è un oncologo, endocrinologo, teologo e poeta. E’ specializzato nello studio della ghiandola pineale. Ricercatore in ambito clinico e sperimentale delle Psiconeuroendocrinoimmunologia e della Bioterapia dei tumori. E’ Dirigente Responsabile di Attività Specialistica per l’Oncologia presso l’Ospedale San Gerardo di Monza. Tra il 2004 2 il 2005 è stato Professore Ordinario per il primo corso mondiale di specializzazione in Psiconeuroimmunologia Clinica presso l’Università Ambrosiana di Milano. ***

SCIENZA E TECNOLOGIA

dei quattro angoli del pianeta che giornalmente si divertono a contribuire all’ingigantimento del mito. A farne le spese, oltre alla storia, sono un buon numero di persone che hanno contribuito all’evoluzione tecnologica della nostra società con sudore, sorte e brillanti intuizioni, a cui l’ombra della icona religiosa che è oggi Tesla ha oscurato il sole. Tra questi, oltre a Guglielmo Marconi il cui primato della radio è sempre più traballante, un’altro italiano; quel Galileo Ferraris a cui si deve la scoperta del Campo Magnetico Rotante e la conseguente realizzazione del Motore Elettrico Asincrono, o anche Motore Elettrico a Corrente Alternata che permetterà l’elettrificazione delle nostre città e tanto altro. Dunque i nostri cari analfabeti della rete sembrano non aver dubbi sull’attribuzione di questa oggi fondamentale, imprescindibile invenzione che a loro dire, neanche a dirlo, si deve allo slavo. Noi, come, per fortuna, tanti altri, siamo persuasi del contrario, e allora… Vediamo un pò di storia e cronistoria…

CONTROVERSIE

Tesla vs Ferraris La vera storia del motore a corrente alternata Da quando, negli ultimi anni, il mondo della rete ha deciso di porre Nikola Tesla al centro dell’Olimpo dei geni la storia della scienza ha repentinamente subito delle modificazioni tanto radicali quanto non documentate sono le prove della di lui paternità d’un numero sempre crescente di scoperte ed invenzioni fin qui attribuite ad altri. Il web ha un potere persuasivo impareggiabile ed il caso Tesla ne è un’evidentissima conferma. Allo scienziato slavo vengono attribuite priorità su un gran numero di colleghi meno sostenuti dalla frenesia degl’internauti (spessissimo analfabeti in materie scientifiche)

« Galileo Ferraris presentò il suo motore a corrente alternata ben otto mesi prima che Nikola Tesla facesse domanda per ottenerne il brevetto, ciononostante nel mondo del XXI secolo tutti i meriti vengono attribuiti a Tesla» (Engineering Forum) GALILEO FERRARIS da: Museo Elettrico Virtuale (www.museoelettrico.com) Galileo Ferraris nel 1885 dimostra sperimentalmente in pubblico il risultato dei suoi studi: l’esistenza di un campo magnetico rotante generato mediante due bobine fisse, tra loro perpendicolari, percorse da correnti isofrequenziali in quadratura; un cilindretto di rame, immerso nel campo magnetico, si mette in movimento, tra la meraviglia dei presenti, sotto l’azione delle forze elettrodinamiche tra campo rotante e correnti indotte. E’ l’inizio del motore asincrono. Galileo Ferraris pubblica la teoria del motore asincrono sulla rivista L’Elettricità, soltanto dopo tre anni, nell’aprile del 1888. Nel mese di maggio dello stesso anno, Nikola Tesla deposita in America cinque brevetti sulla costruzione dei motori asincroni. Innegabile il primato scientifico di Galileo Ferraris sul principio di funzionamento e sulle basi teoriche del motore asincrono che Tesla utilizza per la sua costruzione su base industriale (i brevetti furono acquistati dalla Westinghouse). Galileo Ferraris non ne fu amareggiato: « Ho visto a Francoforte che tutti attribuiscono a me la prima idea, il che mi basta. Gli altri facciano pure i denari, a me basta quel che mi spetta, il nome » Al convegno internazionale di elettricità che si tenne a Chicago, nell’agosto 1893, fu da tutti riconosciuto che la scoperta del campo magnetico rotante era dovuta al genio di Galileo Ferraris. L’ invenzione del motore asincrono e i suoi studi sul funzionamento e sul rendimento dei trasformatori cambiarono il mondo . A proposito del convegno di Chicago, il prof. Carhart scrisse in proposito su “The Electrical World” del 15 febbraio 1887: « Egli (Ferraris) era il solo rappresentante dell’Italia nella Camera dei Delegati. Un fatto accaduto nella penultima riunione è indicativo della velocità e grandezza del suo intelletto. Un comitato, che riuniva i migliori rappresentanti della Camera di varie nazionalità, era stato incaricato di formulare la definizione dell’unità di misura dell’induttanza (henry). Tale comitato si incontrò ma non riuscì a concordare una definizione sulla quale tutti fossero d’accordo. Alla fine furono proposti due testi, dopo alcuni minuti di discussione il

prof. Ferraris suggerì di cambiare in uno dei due testi alcune parole (due, forse tre) e questo pose la definizione nella forma finale da tutti accettata. Fu così evidente che questo uomo, che parlava l’inglese con molta difficoltà ed esitazione, aveva formulato in una lingua straniera una definizione che i suoi colleghi di madre lingua inglese avevano cercato di fare invano » I modelli originali di Ferraris andarono distrutti nell’Esposizione nazionale elettrica di Como nel luglio 1899 insieme con i cimeli di Alessandro Volta. Essi sono una piccola parte della collezione degli apparecchi che furono usati per l”insegnamento delle Scienze Elettriche nel “Regio Museo Industriale Italiano” di Torino” poi nella “Scuola di Elettrotecnica”, istituita per iniziativa di Galileo Ferraris presso il Regio Museo stesso nel 1889, successivamente incorporato nel Politecnico di Torino. Essa è attualmente conservata presso l’Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris. Nel 1896 Galileo Ferraris fondò l’Associazione Elettrotecnica Italiana e ne divenne il primo Presidente nazionale. Nello stesso anno fu nominato senatore del Regno ovviamente non per meriti politici ma in riconoscimento dei suoi contributi scientifici e del suo prestigio internazionale. Nel discorso per la nomina a senatore disse: “lasciate che la mia mente. fissando l’avvenire si bei nella visione di una generazione non altro intenta che al bene del comune Paese”, Galileo Ferraris morì il 7 febbraio 1897; interruppe le lezioni a causa della forte febbre: “Signori, la macchina è guasta, non posso conti nuare” disse nel congedarsi dagli studenti. Nello stesso giorno usciva il numero della rivista L’Elettricità”, che riportava la sua nomina a presidente della nuova sezione AEI di Torino, avvenuta tre settimane prima: Il 15 u.s. presso la Società piemontese di elettricità a Torino, ebbe luogo un adunanza di elettrotecnici per la costruzione della Sezione di Torino dell’Associazione Elettrotecnica Italiana. Il senatore Ferraris, nonostante le sue vive insistenze per essere esonerato dalla carica di presidente della Sezione, essendo già presidente dell’Associazione generale, venne ugualmente eletto con la quasi unanimità di voti. Per approfondimenti sull’argomento: http://www.archivioflaviobeninati.com/tesla-vs-ferraris/

« Dopo la morte di Galileo Ferraris nel 1897, la Westinghouse e Tesla sono riusciti a riscrivere la storia con l’aiuto dei tribunali americani » (Engineering Forum)

Professor Lissoni, lei ha affermato che “ha prodotto più sapienza il Lombardo-Veneto che il resto del pianeta terra”. Come se lo spiega? A cosa si riferiva esattamente? Mi riferisco, oltre che al passato, al fatto che negli ultimi 40 anni è stata prodotta in Lombardia, in particolare nell’area Milano-Monza-Lecco-Bergamo-Brescia, una rifondazione spirituale delle sette fondamentali discipline antropologiche umane, vale a dire: Filosofia, Teologia, Medicina, Psicologia, Sessuologia, Sociologia , Giurisprudenza. Tutto questo può essere sintetizzato in un unico evento, quello di avere riportato in vita dopo 1700 anni la fede cristiana ariana, che reinterpretando Cristo come l’amore di Dio, divenuto essere umano, ha potuto rifondare la totalità dell’umana Sapienza. Chi sono i dieci italiani più importanti della storia secondo lei? (in qualsiasi campo e qualsiasi epoca) Marco Polo, Gioachino da Fiore, Tommaso Campanella, Guido Guinizzelli, Alessandro Volta, Enrico Fermi, Guglielmo Marconi, Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giuseppe Balsamo Conte di Cagliostro.

Quali sono i 10 contributi (scoperte, invenzioni, …) italiani più importanti secondo lei? 1) Gioacchino da Fiore, colui che profetizzò l’avvento dell’Età dello Spirito, momento del futuro nel quale la percezione di Dio sarebbe stata diretta e non piu mediata dalla fede religiosa; 2) l’esplorazione della Cina da parte di Marco Polo; 3-4-5) la scoperta delle energie elettrica, magnetica e nucleare, rispettivamente da parte di Volta, Marconi e Fermi; 6) l’intuizione che il vangelo è la chiave di lettura del Corano e che il Corano conferma il Vangelo, unica verità essenziale su cui fondare una possibile comprensione fra Cristianesimo e Islam , da parte di Nicola Cusano; 7) i Promessi Sposi di Manzoni da reinterpretare non come novella ma come profezia che da quelle terre di Lecco sarebbe venuta un giorno l’intuizione dei veri e nuovi promessi sposi, in cui l’amore sessuale fra uomo e donna diviene nello stato d’amore di Cristo, anticipo del Paradiso; 8 ) il primo esercito femminile , nella Repubblica di Salò; 9) l’intuizione di Giovanni Paolo I sulla identità ipostatica maschile e femminile di Dio; 10) la nascita della PNEI¹ clinica, che avrebbe trasformato l’intera Medicina se non fosse stata crocifissa dalla Legge di Mercato. 6

BIOGRAFIE

Tito Livio Burattini L’inventore del “metro”

Tito Livio Burattini (Agordo, 8 marzo 1617 – Vilna, 17 novembre 1681) è stato un matematico, scienziato, cartografo ed egittologo italiano. Ha inventato il metro (il “metro cattolico”).

Renzo Picasso

Architetto dei “grattanuvole” Renzo Picasso (Genova, 1880 – Genova, 1975) è stato un ingegnere, architetto, designer e urbanista italiano. Fu autore agli inizi del secolo XX di progetti utopistici per la città di Genova, come quelli per piazza De Ferrari, che ipotizzavano uno sviluppo in altezza del territorio urbano e metropolitano della città che accogliesse una popolazione di tre milioni d’abitanti (questa, in realtà, un’idea nient’affatto utopistica se si considera che nel 1819 Genova aveva lo stesso numero d’abitanti di New York e nel 1863 quanti Chicago). Molti sono infatti i suoi progetti per grattacieli (i “grattanuvole”) inseriti in un contesto di ampi spazi aperti che agevolassero la socializzazione umana. Fu anche ideatore di macchine e congegni caratterizzati dall’impiego di tecnologie avanzate, quali il Motovol e l’auto-scafopattino

Valentino Airoldi

L’inventore della Chitarra Elettrica Valentino Airoldi (Galliate, … – …) era un tecnico presso la centrale telefonica di Novara. E’ l’inventore della chitarra elettrica. Nel 1937 (come s’evince dall’articolo pubblicato sul Corriere della Sera di quello stesso anno) costruisce una chitarra e successivamente un mandolino elettrici solid body amplificati con una normale radio.

Guido Monaco

Inventore delle note musicali Guido Monaco, conosciuto anche come Guido d’Arezzo o Guido Pomposiano (Pomposa?, 991 circa – 1050), è stato un monaco e teorico musicale. A lui si deve l’invenzione delle note musicali. Per approfondimenti sulle biografie dei grandi inventori italiani visitate il sito: www.archivioflaviobeninati.com

[1.PsicoNeuroEndocrinoImmunologia]

Signore.

Mi spiega l’importanza di Cagliostro? (glielo chiedo conseguentemente alla nostra conversazione telefonica in cui ha affermato di riconoscere in lui il suo maestro)

Peter Kolosimo?

Cagliostro rappresenta dopo Paracelso il secondo tentativo storico di integrazione tra Scienza Sperimentale e Scienza della Magia, quindi il presentare la scienza dei Magi secondo il miglior linguaggio sapienziale epocale. COSA NE PENSA DI … Pier Luigi Ighina? E’ stato un genio incompreso come dicono in tanti? Se si pechè? Fu uno scienziato poeta e non fu compreso perché neppure oggi l’umanità riesce ancora a unire fra loro in armonia arte e Scienza. Prof. Di Bella senior (Luigi)? Ha intuito l’importanza della ghiandola pineale non solo a livello sperimentale ma anche a livello clinico terapeutico. Mauro Biglino? Ipnotizzatore biblico, lontanissimo dal

Tante ipotesi sulla genesi della specie umana , ma nessuna scientificità. Prof. Tullio Simoncini? L’abominazione della desolazione della Scienza.


In cerca di G.G .

Il libro da quando l’apersi mi chiama, l’occhio ti cerca come altro occhio Petrarca Non sei tu in questi versi? Eppure mi pari sincero Con l’indice il cuore s’inarca e quello che dici so vero. Percorrere il sentiero da te disposto giova? O forse solo ti trova chi dal sentiero si parte per addentrarsi nel folto intrico della tua arte di che ti fai maschera al volto? O è meglio cercarti sul margine bianco di queste pagine da dove tu ancora osservi gli uomini protervi e miseri o giulivi invano e invano vivi? Amico delle crisalidi di ciò che si trasforma lasci beffardo in quest’orma le spoglie tue i resti pallidi? Lo spirito s’invola che informò la parola con sue ali di farfalla e si dilegua l’inganno della favola bella e cessa infine l’affanno? Ancora che sogni mi pare e ti lascerei sognare, io di te curiosa, al ritmo sapiente del verso Ma ti domando una cosa: lo spirito all’Universo od alla Parola hai affidato? In ultimo ti sei perso oppure ti sei trovato? E’ vero che mentre le annunci alle Farfalle rinunci fiero con gesto svagato? Per mano alla Natura non ti riuscì di svanire entro la Letteratura Piuttosto che morire a tutta la vita futura? Che ti sembrò vana anche quella sola consolazione? Era anche quella illusione? Spiato dalla sorella sua più vera e più forte tu invocavi l’Amore. Ah! Chi ne ha colmo il cuore, credi, invoca la Morte! Ma il ritmo mi commuove del tuo ragionare. Le prove m’avvincono della tua mente all’ostacolo del cuore. M’assolve felicemente il tuo gaio stupore della vita, del mondo entrambi senza scopo. Immeritevole in fondo, mi sento lusingata da ogni tua confessione sebbene sempre dopo scopra d’averla ascoltata soltanto per errore o è forse un’impressione? Io pure ho il mio dolore Eppure, beata Illusione! Più dolce m’è l’imperio pur grave del Desiderio se la più bella è davvero L’Isola non trovata Ti cerco e sono grata a te del tuo mistero E quando tristezza incombe cercarti non è vano oh coso con due gambe detto guidigozzano! Ah gelido sofista! - invero non cattivo ingenuo è quel che scrivo? Io me ne andrò non vista senza lasciare il nome vuoto su una rivista: io sono proprio come il commesso farmacista.

Confidenze a Gozzano di Barbara Marras Lo scrivere comporta un senso di colpa. Non solo per l’egotismo che rivela: la scrittura è un delitto perpetrato ai danni della realtà, della vita, del proprio stesso pensiero. Scrivere è, già in sé, tradurre – e tradurre è tradire. Lo scrittore, l’artista in generale, sono tanto più in malafede, quanto più sono consapevoli di questo peccato originale. E tuttavia si tratta di un delitto necessario e trovo che il massimo dell’onestà consista nell’assumere su di sé il peccato, scontarlo nell’opera. Perché se l’arte è uno specchio deformante, lo è proprio per il fatto che la realtà vi si riflette non nella sua apparenza ma nella sua verità. Così l’arte modifica la realtà e, dunque, la realtà non può essere interpretata che culturalmente, attraverso le sue incarnazioni nell’arte, attraverso le metafore in cui l’uomo dice sé stesso e si trascende di volta in volta, di opera in opera – ma, siccome il processo è infinito, potremmo anche dire: di illusione in illusione. Cos’è più illusorio? Scegliere di osservare il mondo (da un punto di vista opportunamente dissimulato) o fissarne il riflesso (fino a riconoscersi, confusi tra le varie immagini rivoltate sulla superficie dello specchio)?

Naturalmente è possibile accettare sé stessi, abbracciarsi, gettarsi nella mischia, divorare la vita nella sua totalità, nella sua assurda immanenza e nella sua vertiginosa trascendenza. Fico. Io però amo Gozzano. Il che, più o meno, vanifica la mia premessa (o no?) il problema di Gozzano essendo la vita e non la scrittura; il suo cruccio essendo l’incapacità a vivere e sentire se non attraverso il filtro della cultura e della tradizione letteraria. Non ha il tempo, Gozzano, di tentare altre esperienze. E non avendo il tempo ha il rimpianto – ma questo rimpianto è proprio sincero? A poter scegliere, cosa farebbe? Rinuncerebbe alla sua musa? Sposerebbe davvero la signorina Felicita? Esiste la signorina Felicita? No che non esiste. Entrata nel poemetto non può che corrompersi e fuori dal poemetto è inattingibile. Non è l’occhio di Gozzano che fa questo a Felicita. Ma è l’occhio di Gozzano che vede questo per noi, è la sua voce che ci dice su Felicita e su noi stessi questa verità che tale non pretende di essere, è il suo sorriso rassegnato e malinconico che ci dice quanto dolorosa questa verità sia per lui. Eppure lui se ne assume la responsabilità: è colpa sua. E’ colpa della malattia se deve andare. E’ colpa del suo sguardo se lui ha già cominciato a intravvedere la crepa e fugge. Non c’è proprio niente che non sia illusorio. Sarà pazzo Gozzano a squarciare il velo proprio mentre ci si nasconde dietro? Sono assurdi il suo tentativo di sparire dentro le parole mentre ci mostra il percorso che le corrompe, il suo desiderio di figurare

nel quadro di cui ci ha venduto il falso? Come interpretare il silenzio dell’ultimo breve periodo della sua vita? E’ talmente assurdo l’esserci, quanto naturale e logico il non esserci e io proprio non so se l’universo sia emanazione di uno spirito che tutto dissolve e riassorbe e ripartorisce. Tendo a pensare di no – a meno che questo spirito non sia il tempo – ma una cosa la so: Felicita può anche non esistere e intanto ognuno ha la sua (decisamente l’esserci fa la differenza, per me. Le pretese di oggettività mi lasciano sempre perplessa). Gozzano, frammisto ai rimpianti e ai desideri, qualche rimorso lo prova e quasi se ne conforta: “eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: << che male t’ho fatto / o Guido per farmi così?>> “ In effetti, la situazione è patologica: la cosa e l’immagine soffrono dello stesso male, sono inautentiche entrambe, sono l’una lo specchio dell’altra e si corrompono vicendevolmente. E questo genera rabbia e frustrazione nel poeta che solo a posteriori prova pietà, quando le sue stesse parole lo accusano.La chiudo qui, siccome non ha certo bisogno, Gozzano, di essere rispolverato da me – ma mi riservo di dichiarare il mio amore: Che fortuna, Guido, non potendo essere uomini, essere qualcosa di meno e qualcosa di più: che fortuna essere poeti! Regalare un senso a ciò che non ne ha, uno scopo a se stessi, una dignità, un posto, magari defilato: da quale assistere, decodificare e ri-

codificare l’esistenza, comprendervi il proprio sguardo. Che fortuna, non potendo trovare una cura o un nocciolo segreto e sfuggente di salute, di salvezza, in ciò che è insanabile, poter cantare l’incongruenza, la falla, l’impossibilità. Ah! Con la tua voce! Non potendo arrestare il tempo, nel suo erodere e trasformare ed infine votare ogni cosa all’oblio, poter accettare questo destino! Che fortuna poter cogliere – col tuo sguardo, Guido! – lo sforzo di concretezza della vita: tanto più commovente, quanto più inutile e goffo. Che fortuna, non avendo diritto di piangere, poter sorridere, Guido, col tuo sorriso! E che strazio, sapessi, non avere un posto né una voce. Non essere donne e uomini da vivere nel mondo. E non essere poeti per vederlo, per crearlo. Essere così confusi da non sapere quale mondo sia vero. Da non sapere se credere a te, a quelli come te, o agli altri – guardarli muoversi come se sapessero qualcosa che ci sfugge. Essere ciechi. Non avere nessun senso sicuro cui affidarsi. Non potersi trovare in questo stordimento, per muovere un passo, per allungare una mano in una direzione che si possa dire propria, con un intento che ci corrisponda. Non avere un sé, anche labile, da adempiere, da rivendicare, anche debolmente. Che strazio sentire e non sapere! Non avere un nucleo dal quale ergersi o ritrarsi. Dal quale sporgersi e invocare: un senso! Un senso! Un sentimento di sé per raggiungere il mondo, la vita! Ma che bello, che fortuna, ritrovarti! Dopo tanto tempo. Innamorarsi di nuovo di te.

Shakespeare o Crollalanza? Questo è il problema... Si pensa universalmente che l’autore dell’Otello, di Sogno d’una notte di mezza estate e dell’Amleto sia il figlio d’un guantaio inglese cresciuto senza alcuna educazione accademica e senz’alcuna esperienza diretta dei luoghi in cui ambienterà, in maniera assolutamente, dettagliatamente familiare, le sue opere teatrali divenute in questi ultimi cinque secoli le più rappresentate al mondo nonchè l’opera in assoluto più rappresentativa, emblematica della storia del “suo” paese. Tutto, però, senz’alcuna prova certa a suffragarne la veridicità. Mi riferisco alla nazionalità del cosiddetto Bardo, colui che più d’ogni altro, ha incarnato ed incarna l’essere inglesemente genio, William Shakespeare, l’orgoglio delle isole britanniche, colui al quale tutto è concesso, anche l’appropriarsi dell’identità d’un genio vero. Che potrebbe rispondere al nome di Michelangelo Florio Crollalanza, nobiluomo di Messina della cui vita, al contrario di quella del suo alter ego inglese tutto si conosce perchè tutto, o quasi è documentato.Dall’infanzia trascorsa a studiare testi classici e scienza della navigazione e latino, storia e greco in un convento della sua città prima e poi a Padova e Milano e Verona, alle frequentazioni con Giordano Bruno, Galileo Galilei (di cui fu, probabilmente, allievo), dal suo errare col padre e la madre, una nobildonna di origini lombarde di nome Guglielma Crollalanza, entrambi calvinisti e per questo costretti alla fuga dall’inquisizione spagnola. Di questo tale Michelangelo (il cui nome, anzi il cognome – quello materno – può rappre-

sentare un ulteriore indizio per coloro i quali accetteranno di prendere in considerazione questa tesi, essendone shakespeare la traduzione letterale) si sa, inoltre che terminò in Inghilterra ed adottò, con molta probabilità il nome tradotto della madre (William Shakespeare) e fu un fertile scrittore e drammaturgo A Messina si conoscono dei manoscritti in siciliano a lui attribuiti che mostrano molti punti di connessione con quelli celebri dell’icona inglese. Ed inoltre in quegli anni un tale letterato dal nome di John Florio era attivo oltremanica. Costui frequentava il circolo degli attori di Shaftsbury nei cui registri appare oltre al suo nome anche quello di tale Michel Agnolo Florio mentre non si trovo quello di Shakespeare nonostante fonti storiche importanti ci riferiscano che il Bardo ne fosse socio e frequentatore. Altre fonti considerate attendibilissime dalla storiografia ufficiale della casa reale britannica (a proposito di loro: chissà come mai hanno sempre impedito l’accesso agli archivi shakespeariani a chiunque ne abbia fatto richiesta ufficiale?!), ci dicono anche che l’autore di Romeo e Giulietta parlava l’inglese abbastanza fluentemente ma con un marcato accento mediterraneo. Eccetera, eccetera, eccetera. Gli “indizi” sono infiniti e portano tutti alla stessa conclusione come ben sa il prof. Martino Juvara che questa tesi ha esposto estensivamente ed esaustivamente investigato senza mai ricevere la ben chè minima attenzione da parte d’alcuna istituzione. E di nuovo mi chiedo: chissà come mai?! A Voi la parola! Manfredi Beninati

(Continua nel terzo numero de “I quaderni di Eccegrammi”)

Barbara Marras

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POESIA


Viaggio “in groppa alla scomoda schiena dell’incantevole mondo” di Alli Traina Con Angelo Maria Ripellino ci siamo conosciuti tardi. O forse al momento giusto. Quel giorno stavo cercando la mia Musa. Non c’è nulla che riesca a concedermi la giusta predisposizione d’animo per scrivere come una buona poesia o della buona musica. Per ispirarmi frugo tra le parole e le immagini di scrittori, poeti, musicisti, fotografi. Indipendentemente dal loro significato complessivo, certi frammenti hanno la capacità di fare nascere in me idee e stati d’animo: quelli necessari per dispormi bene a scrivere. Dovevo raccontare di Ballarò, il celebre mercato palermitano e cercavo la mia Musa in biblioteca, tra migliaia di libri. La cercavo come si cerca un incontro quando si è soli, tra mille possibili incontri. Come si cerca uno sguardo di sera, tra mille sconosciuti. Senza sapere cosa stessi cercando veramente, sperando di trovare in un gesto in una parola il significato stesso del mio cercare. «Che cos’è che mi manca? Lo troverò mai questo qualcosa che non so?» mi ripeto ogni volta che mi immergo nella ricerca di significati – i miei, quelli delle cose che vorrei raccontare – pensando ai versi di Sylvia Plath. Ma altri versi mi sono venuti in soccorso questa volta. Ho sfogliato libri di racconti e guide, saggi e romanzi. Poi per caso ho incontrato una raccolta di versi di Ripellino, Lo splendido violino verde (Einaudi, 1976), e mi sono imbattuta in una poesia, la numero 82:“C’era un paese che conteneva tutti i paesi del mondo,/e nel paese un villaggio che racchiudeva tutti i villaggi del paese,/e nel villaggio una via che

riuniva tutte le vie del villaggio,/ e in questa via purulenta una casa che comprendeva tutte le case,/ e nella casa una povera stanza, e nella stanza un’enorme sedia,/ e sulla sedia, sparuto, un minuscolo omino in bombetta,/ e questo omino era tutti gli uomini di tutti i paesi,/ e questo omino rideva, rideva sino alle lacrime”. Così ho scritto il mio capitolo, grazie al poeta che avevo appena conosciuto. Pensando a Ballarò come un mercato che contiene tutti i paesi del mondo, fatto di strade che contengono tutti i volti del mondo. Il concetto era un bel po’ diverso, m a questo ¬– io credo – è il mistero meraviglioso che definisce i versi: tra le parole, lungo i loro vuoti, ognuno può immaginare tutti i significati che vuole e a sua volta g e nerare qualcosa di diverso. Ho conosciuto Angelo Maria Ripellino, dunque, un paio di anni fa, nella maniera in cui si conoscono i poeti. Attraverso i suoi versi. I poeti, se toccano le corde giuste, possono davvero diventare i tuoi migliori amici, i tuoi consiglieri, gli appigli nei giorni in cui non sai più dove sbattere la testa. Così ho comprato i suoi libri e, leggendo i suoi versi, ho scoperto la sua storia: «di libro in libro le mie liriche, costituiscono un diario nel quale la storia privata si intreccia con i fatti del mondo». Ripellino era nato a Palermo, la mia città, nel 1923. L’aveva lasciata presto, ma sempre nelle sue poesie tornava a farle visita. «Nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie radici», nello sradicamento «dall’isola amara, irrorata di luce e di agrumi» sta «la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico». E allora il poeta la lega con una fune immaginaria all’altra città che ama eternamente: Praga. Già da studente alla facoltà

di Lettere di Roma si era innamorato del continente slavo. La letteratura slava era diventa la sua famiglia, Praga la sua seconda casa. È qui che incontra sua moglie, Ela Hlochová, con cui collaborerà sempre nella traduzione e nella scoperta di scrittori cecoslovacchi. Il suo libro, Praga magica, pub- blicato nel 1973, mi ha svelato una maniera nuova di raccontare le città. Un libro scritto «con pentimenti continui, con l’infinito ri-

morso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa». Un libro in cui realtà e invenzione si intrecciano e il passato ritorna sempre nel presente perché, come dice il poeta, «non esistono cose lontane, tutto è racchiuso nel globo degli occhi». Ripellino fu anche un grande slavista, il primo a portare in Italia le poesie di Pasternak, uno dei migliori traduttori di Majakovskij. E non solo: critico teatrale, saggista, giornalista, professore universitario. Ma in ogni suo lavoro, in ogni suo scritto – che fosse un saggio o un articolo, una critica teatrale o una lezione – c’era la poesia. Ripellino rivendicava il fatto di essere poeta. I suoi versi sono come un palcoscenico sul quale ogni volta si mischiano

la musica, il balletto, il teatro soprattutto. Si inizia a leggere, il sipario si apre ed entrano in scena i suoi personaggi: «pagliacci, venditori di oroscopi, garzoni fornai, menestrelli, pupazzi di trucioli, larve febbrili ed altri campioni di un’arca che va alla banda». In sottofondo una perfetta sinfonia, suonata da un violino «anche se storto, se guercio e perciò chagalliano», mentre il poeta avanza come un funambolo «in groppa alla scomoda schiena dell’incantevole mondo». Avanza in «un’eterna altalena tra l’ebbrezza e il malore». Perché oltre alle sue passioni è la sua «malsanìa» – ammalato fin da giovanissimo di tubercolosi – a essere fondamento per la sua crescita di scrittore, essenziale per la sua vocazione. La morte, arrivata troppo presto, nel 1978, è immaginata continuamente. Il poeta la elude travestendosi con «stracci di versi», la affronta immaginando di portare a Dio «una copia del mio ultimo libro,/ sebbene io sappia che più gradirebbe/ un canestro di fragole di Nemi».

VOCABOLARIO

eccegrammi Direttore Manfredi Beninati Progetto Grafico Manfredi Beninati e Roberto D’Angelo Impaginazione Roberto D’Angelo per: Archivio Flavio Beninati ©Tutti i diritti riservati

Associazione Flavio Beninati

Via Q. Sella 35- 90139 Palermo- P. IVA: 05995240826 Presidente: Avv. Carla Garofalo

www.archivioflaviobeninati.com

LETTERE

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