Palermo 10 Maggio 2016 N. 4
Antonino Palminteri.
Sua giusta gloria Giovanni Messina sul maestro di Puccini di Giovanni Messina
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Nell’alba rosea d’un giorno del cadente Luglio l’Angelo della Morte, improvviso, inesorabile stendeva su di Lui l’ala gelida. Antonino Palminteri, fra i sorrisi del genio che gli suscitava nell’anima lontana le ultime armonie: nella visione di Menfi lontana e dei suoi cari a cui non dette gli estremi baci, s’addormentava al rezzo dell’aura mattutina spirante dai colli pistoiesi, sognando il Cielo. Il gentiluomo dai modi signorili, l’artista fecondo che aveva affidato alle note i fremiti melodiosi del suo cuore buono; che sapeva i trionfi delle scene e il plauso fascinatore, temprato dalla modestia, giacque inerte, per sempre. Queste pagine, per volere dei fratelli, parleranno ai posteri di questa gloria fulgidissima della loro casa e dell’Italia, non tanto a dimostrazione del dolore che pur sentono atrocissimo; ma affinché quanti son cultori dell’arte apprendano come si fa a divenir grandi.” Con tali, accorate, parole principia la monografia, redatta da Giuseppe Matranga nel 1916 e stampata a Palermo dalla Tipografia Pontificia, sul Maestro Palminteri. Ci piace l’idea di tracciarne un breve ritratto, nelle righe che seguiranno, che renda testimonianza dell’artista ed, insieme, dell’uomo che fu. Per far questo ci serviremo dei documenti epistolari, puntualmente riportati nella bibliografia essenziale dedicata al Maestro, e di lettere più famigliari ed intime custodite fra le carte di famiglia. Il Maestro Palminteri (Menfi 3 X 1846 – Pistoia 31 VII 1915) fu compositore, musicista ed artiere. Artiere senza spregî dall’eco dannunziana ma, dedito e meticoloso artigiano di armonie. Nasce in Menfi prima che l’Italia fosse una, da Baldassare Palminteri, medico, amante di musica e notabile e Donna Paola Ragusa, le cui cifre ed insegne campeggiano a tutt’oggi sul portale di ingresso della casa avita. Manifestata da subito l’attitudine all’armonia, si forma presso il Regio Conservatorio di musica di Palermo. A sintetizzare gli anni di formazione pare d’uopo citare un documento, riportato dal Matranga, rilasciato dal Conservatorio. Ammesso a posto gratuito per concorso il 15 Dicembre 1863. A20 luglio 1870 ne uscì, terminati gli studi. A 12 Maggio 1873 ebbe rilasciato un certificato dal Direttore Platania, rettore forzano e presidente unico Gaetano Daita, lodando il corso completo di armonia e contrapunto da lui fatto, l’assiduità allo studio del pianoforte e valentia nel detto strumento. Occupò
il posto di Maestrino e Concertatore di orchestra nel conservatorio; tenne ottima condotta e fece un corso regolare di studi letterari. A quei tempi non si rilasciavano diplomi. Formatosi a Palermo, si radicò a Milano ove entrò in sintonia col direttore del Conservatorio, Bazzini. La temperie culturale gravitante sulla Milano del tardo Ottocento fu alveo fecondo per la Creatività metodica del Palminteri. Nel 1878, infatti, va in scena al Teatro Sociale di Monza la prima rappresentazione del Suo Arrigo II, tragedia lirica in quattro atti, con libretto di Ramirez ed edita dalla Lucca. Critica e pubblico accolsero l’esordio con giubilo ed esortazioni tantoché l’opera venne presentata nelle stagioni di Ferrara, Novara, Voghera, Bergamo e Casalmonferrato. La rivista Il Trovatore (29 X 1882) descrive così l’atmosfera creatasi al Teatro Sociale di Voghera: Il Maestro Palminteri venne fatto segno di lusinghiere onoranze, mentre davasi il suo Arrigo II. Fu chiamato 22 volte al proscenio e regalato di due magnifiche corone con ricchi nastri. Favorevole fu anche la critica. In un lunghissimo articolo su La Gazzetta provinciale di Bergamo (27 I 1881), il critico Bettoli, ponderando il suo giudizio sullo spartito, assevera che il Palminteri non appartiene per sua ventura a quel novero di giovani maestrucci che sudano e sgobbano a filare un magro pensiero e seguita affermando che basterebbe quindi questo pezzo a rivelare nell’autore un bell’ingegno, ed a consacrare la riputazione di un maestro. Di poco successiva, l’Amazilia, dramma lirico ove, nel libretto di Zanardelli, si sviluppano storie d’odio e d’amore aventi sullo sfondo Cortez e Montezuma. Fu rappresentata per undici sere consecutive al Dal Verme di Milano e consacrò il Palminteri nel firmamento dei compositori. Grandi successi tuttavia non ne produssero ulteriori. Il maestro compositore limitossi a due opere e si volse con passione alla carriera da direttore d’orchestra. Inutile citare i podî ed i palchi calcati. Basti dire che da Madrid a Valencia, da San Pietroburgo a Zara e per tutto l’italico suolo il suo zelo e la sua dedizione furon tributati da apprezzamento e stima. Gustoso è lo scambio di missive (lo ricostruiamo invero) fra Palminteri ed il Puccini in occasione della prima di Manon Lescaut a Sanremo. Siamo nel 1894, Puccini, timoroso per l’esito dell’opera che il Maestro Palminteri s’appressava a condurre ebbe a scrivere: Carissimo Maestro, ieri mi giunse
un giornale di Sanremo dove, a vero dire, non trovai che si preparasse buon terreno per la Manon. Ho saputo inoltre che l’orchestra non è al completo, non so chi siano gli artisti; solo mi è noto che vi è un direttore coscenzioso e vero artista. Ciò mi è arra di buona riuscita… [...] Tanti affettuosi saluti dal vostro G. Puccini- Milano 18-12-94. Il Palminteri ebbe a rassicurarlo e consigliò di discutere con Ricordi riguardo alla completezza dell’orchestra; il Puccini infatti torna a scrivere: Carissimo Maestro, parlai con Ricordi [...]. Adesso tocca a lei a star forte ed esigere l’occorrente. [...] Mille saluti cordiali dal suo aff.o G Puccini- Milano 22-1294. Non ebbe a rammaricarsi il Puccini, anzi; telegrafò: Lietissimo buon esito ringrazioti caldamente, pregoti complimentare esecutori tutti. Auguri. Puccini. Poi precisò in epistola: Milano 29-12-94 carissimo amico, non può credere come sia contento del successo di costì. Temevo molto per il cattivo trattamento fatto a priori a Manon. Devo a Lei, egregio Maestro, devo alla sua valentia ed alla sua fraterna cooperazione, se l’opera è andata bene. Grazie infinite, e si abbia la riconoscenza del suo aff.o G. Puccini. Frammenti di vita come questi composero il mosaico della sua esistenza finché un colpo apoplettico non lo condusse laddove apparteneva: le spoglie custodite dal simulacro della Musica sulla terra natìa, l’anima al Cielo, la musica negli spartiti e nella storia. Ci piace tuttavia concludere con un tassello di mosaico che aprisse uno squarcio nella storia dell’uomo, perché uomini si è prima d’ogni altra cosa. Questo frammento riguarda Sant’Antonino, il casale immerso nella campagna menfitana che il Maestro elesse a suo rifugio. In una lapide posta in suo ricordo, per volere dell’Ing. Baldassare Palminteri – nipote- si legge: Nella quiete solitaria di questo soggiorno campestre che Egli amava chiamare il mio romitaggio, Antonino Palminteri, Musicista 1848 – 1915, onore e gloria della natìa Menfi, trascorreva le vacanze ispirandosi nel comporre, al cinguettio degli uccelletti, al frinire celle cicale, all’accorato richiamo dell’assiuolo ed a tutta l’armonia del creato. Musica, fede, radici. Ecco l’uomo, ecco il Maestro. Giovanni Messina (Discendente)
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TEATRO E MUSICA
Alla volta di Siro Piediscalzi sulle tracce di Siro di Pavia di Cosimo Piediscalzi
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er ragioni che voglio considerare oscure, mi sono ritrovato a vivere presso la città di Pavia. Sono siciliano, nato il 15 agosto, ho un sistema organico che va a fotosintesi, ogni giorno io imiterei quell’Amenofis IV che si volge idolatrante al sole e dice “solo tu sei la vita medesima”, e come lui fonderei una gaia tirannia del sole, Eliolatria pura! Ebbene, un vincolato dell’Hélios come me, anziché ai Caraibi, finisce a Pavia? Ahimè si, sono in una gora al centro dell’Europa, 46.000 chilometri quadrati di pianura alluvionale. Sono nella terra della gens Papilia – l’antica Ticinum dei Romani, infossata in quella ex-palude malarica che riuscì persino a fare secchi gli elefanti di Annibale! Pavia è il mio cenobio e la sua nebbia mi garantisce una buona invisibilità. Ma quando la nebbia si dilegua, debbo ammettere che Pavia è una graziosa cittadina! E se ci scordiamo degli elefanti che ha fatto secchi; senza dubbio Pavia è una gemma del nord Italia. Un piccolo diamante la cui luce è un eco prolungato di una storia eccellente che è indiscutibile. Città barbosa come nessuna. “Quando si ama qualcosa la si vive, quando si odia una cosa allora la si può solo analizzare” – è il mio motto di sopravvivenza. Pavia è piena di chiese, ed è anche piena di torri, quando una città italiana ha molte chiese e molte torri allora avrà anche tanti misteri. Guarda caso già le torri mi fanno scoprire che esse hanno assecondato un arcano, quello di un anziana veggente che aveva annunciato ai pavesi un profezia: “Colui che avrebbe innalzato la torre più alta avrebbe preso il potere della città”, e fu così che anno dopo si mitragliavano al cielo torri su torri. In genere, quando un luogo ha piccole storiografie simili, è prossimo alla benedizione o alla maledizione, chi la vincerà? Oggi questo match di torri è in parte eclissato dalle trasfigurazioni edilizie; spesso falciate o inglobate in altri edifici. Questa leggenda delle torri mi porta dritto alle chiese, bingo! Ho trovato l’analisi da fare: si tratta di un ragazzetto citato pure nei Vangeli e nominato Siro. Mi spiegherà lui la natura bianca o nera di questa città? Iniziamo: io che entro nel Duomo di Pavia e mi tuffo nei quadri seicenteschi di Carlo Sacchi e Filippo Abbiati, e raffiguranti sempre lui, san Siro. Immaginatemi elegantissimo, camicia e cravatta nera, cardiopalmo, scarpe logore. Piacere Siro! Siro è il patrono della città festeggiato qui il 9 dicembre, il 9 dicembre è una data cara anche ai Templari. Mi catapulto nei Vangeli e poi al fratello di Simon Pietro che dice: “C’è qui un ragazzo…”, si è lui! E’ il ragazzetto di origini siriache citato anche da San Giovanni Evangelista, è il ragazzo che tese a Cristo Gesù i pani e i pesci per il miracolo della moltiplicazione. Fu davvero Siro di Paviail ragazzino in questione? Seduto sulle ultime panche mi faccio queste domande. Sopra di me a fare scudo dei miei pensieri c’è una cupola a pianta ottagonale da brivido! Tra le più maestose d’Italia, 97 metri, 20.000 tonnellate di peso. E’ lui? Non è lui? Dunque, Siro da Pavia è per molti quel ragazzino dei 5 pani e 2 pesci, e che poi una volta adulto avrebbe seguito San Pietro alla volta dell’Italia, qui proprio su commissione di Pietro sarebbe stato mandato ad evangelizzare le genti della Pianura Padana, ed eccolo divenire primo vescovo di Pavia. Questo è anche il Siro dell’origine e della leggenda: il Siro del “De laudibus Pa-
RELIGIONE
piæ”, XIV secolo. E’ il ragazzino dell’apostolo Andrea: “Vi è qui un fanciullo con cinque pani d’orzo e due pesci, che cos’è mai questo per tanta gente?”. Poi, parallelamente a questo può esservi il Siro discepolo di Sant’Ermagora di Aquileia, che a sua volta fu discepolo di San Marco Evangelista. E la cronostassi inizia a farsi tortuosa: un profano può cominciare a smarrirsi tra una figura di Siro e un’altra. In difesa del Siro giunto qui con Pietro, vi sono però anche fonti particolari, Innocenzo I in una sua Decretale precisa gli “invitati diretti da Pietro”, tra questi spunta Ermagora dopo Marco ad Aquileia e anche lui, Siro mandato a Pavia. Nel XIX secolo, altre fonti ci attestano che nessuno, fuorché coloro consacrati Vescovi da San Pietro, fondarono Chiese in Italia. Se le fonti si faranno lotta spesso, finisci per scoprire che anche i Cataloghi Vescovili hanno tirato qui e là qualche dado – senza malizia vi sarà stato un’ovvio vantaggio per la Sede Vescovile incensare origini apostoliche – qualora Siro incespicasse qui e là con le date, lo si fa morire alla bellezza di 112 anni. Più 56 di Episcopato! Qui è il Siro del I secolo che insomma la vince, o no? Che confusione! Questo santo inizia a tormentarmi. La stessa notte sogno di parlare con un monaco, ci ritroviamo davanti al ponte coperto di Pavia, lì il monaco mi mostra una targa con dei numeri dove mi spiega che la città è maledetta per mano di un eletto. (Nella realtà mi accerterò che non esiste nessuna targa su quel ponte). Mi sveglio contrariato. Di pomeriggio visito la chiesa più antica di Pavia, la basilica di Santi Gervasio e Protasio, edificata proprio da Siro. Questa sorgeva in una zona fuori dall’antica Pavia, qui
venne a rintanarsi anche San Martino e proprio qui per 600 anni furono conservate le spoglie mortali di Siro. Mi piace subito il posto, qui erano di casa i benedettini, poi i francescani, qui vi era una specie di gerocomio per i pellegrini. C’è odore di fiori bagnati, e oltre a me c’è solo un vecchio che se non sta dormendo allora è morto. Esco e penso che capire su due passi l’identità di Siro non mi sarà facile. Recupero fonti a man bassa, finisco per imbattermi persino nei testi di un francescano del ‘600, qui si loda a tutto spiano Siro operante addirittura dei miracoli – un uomo cieco dalla nascita, residente a Lodi, grazie a Siro ritornò a vedere – e poi memorie, tante, più o meno vere, di un Siro ancora nella terra di Cristo, che ha un incontro presso il Monte degli Ulivi con l’apostolo Andrea. Secondo Bernardino da Casteggio, quello era proprio il dì della resurrezione del Messia, e Andrea svelò il futuro a Siro. Costui era ancora giovane e ricordava già con malinconia l’incontro con Gesù avuto da bambino. L’apostolo Andrea rasserena Siro, profetizzando per lui un lungo viaggio di cristianizzazione in Italia. E’ singolare quando l’apostolo descrive Pavia come un paradiso a totale disposizione del giovane Siro – “luogo incantevole ricco di fiumi immacolati e di sorgenti, di campi verdeggianti e di frutti, di soli primaverili e prati ridenti”. Non c’è che dire, un Eldorado! Nel testo è narrato persino il viaggio, l’approdo a Verona, le strade e il percorso sino alle mura pavesi. Vi è pure una descrizione dell’entrata di Siro a Pavia, con i cittadini in festa che lo accolgono bramosi del battesimo. Qui Siro è tutt’altro che malaugurante, egli rinfranca gli astanti con un monito pro2
digioso: “questo luogo è da adesso caro a Dio, gioite”. E’ agiografia estrema o realtà? A Milano per esempio esiste un reperto archeologico di un misterioso personaggio siriano chiamato appunto Sirus-Siro, e parliamo del primo secolo. Il tutto è all’Antiquarium dell’Anfiteatro Romano: sotto il ritratto la scritta – SEX(to) COELIO SEX(ti) F(ilio) SUR(o) MEDIOLANENSI. Torniamo al Siro dei Vangeli? Sorrido quando vengo a sapere che dall’anno 1969 san Siro non è più annoverato nel calendario dei santi della Chiesa cattolica, e perchemmai? Quante impervietà questo santo! Penso. Quasi un “santo maledetto”? Ed eccomi, solito indovino a tempo perso. Capirò di aver detto l’aggettivo giusto solo qualche ora più tardi, dentro una piccola libreria che gestisce un vecchio. Dentro non vi è anima viva, io giro tra gli scaffali contenenti per lo più testi usati e giallo-canarino. Poi tento un dialogo con il proprietario: “Cercavo qualcosa che riguardi san Siro, qualcosa di antico” – “Qualcosa c’è si, puoi guardare qui…” – e gli vado appresso, scombussola un po’ di libri in un ripiano, la polvere è sovrana, poi sbaglia e me ne porge uno con Sant’Ambrogio, io non dico nulla. Tra la sua ricerca poco convinta, sbuca pure un libricino con un titolo che mi incuriosisce. Glielo prendo dalle mani: “Perché dice maledizione? Che significa?” – lui sorride e fa un gesto con la bocca imbronciata – “va là, è una leggenda, poi con la Torre caduta…”. Io annuisco ma non ci capisco granchè. Lì per lì la parola torre non mi aveva suggerito nulla. Il vecchio mi annoia, la polvere dei libri mi rende isterico. Non prendo nulla, memorizzo soltanto alcune pagine. Scannerizzo tutto con gli
occhi. Saluto e filo via. Appena fuori però, realizzo la mia frase azzeccata sul santo – “maledetto” – che sia vero allora? Maledetto e maledizioni? Non bastava già la nebbia? Siro ha persino lanciato esecrazioni? Ha “maledetto la povera Papilia” che a detta di quel frate l’aveva accolto in festa? Giorni dopo inquadro tutto meglio, inclusa quella “torre” a cui si riferiva il libraio. Costui intendeva chiaramente la fine della torre Civica sull’angolo settentrionale della facciata del Duomo! Essa cadde senza alcun apparente motivo, un Venerdì 17 del mese di marzo, era il 1989, crollò alle 9 di mattina e causò addirittura 4 morti. Inutile dire che, immediatamente, ripenso allo strano sogno di una notte fa e la targa funesta sul ponte indicata dal monaco. Inizio quasi a sorprendermi. Effettivamente, un fondo di jettatura c’era – scopro che il misterioso Siro, secondo una nota leggenda, ebbe a dire ai suoi fedeli: “attenti! Perché tutto ciò che costruirete con sacrificio non resterà”, caspita! Il mio sogno! C’è poi Carlo Mo, uno scultore pavese che scovo per caso indagando sui dossier del cedimento, egli conferma: “la Torre era destinata a crollare perché essa era maledetta”. Esco dal Duomo, istintivamente ora volgo lo sguardo lì dove sorgeva la torre, adesso è solo un recinto torbido con le rovine del basamento a ricordare quel venerdì 17. Vi passo davanti. Vado via pensieroso. Il cielo è un inferno. Corso Cavour, l’odioso shopping, vetrine infiorettate a festa, manichini e commesse-zombie, cani al guinzaglio, uno straniero che elemosina suonando Ravel con la fisarmonica, cammino dritto. “Avrà davvero funestato questo posto il santo in questione?” – me lo domando fino a Piazza Minerva. E a rispondermi, è proprio lei, la Minerva! Intanto diciamo che questa colossale statua è la prima cosa vista appena giunto qui – mi spiace essere lagnoso ma, la detesto – l’autore è un mio conterraneo, è colui che ha fatto anche quell’equino verde-gastrico della Rai, quello ormai simbolo di Viale Mazzini, insomma Francesco Messina. Mai sopportato. E fatalità vuole che sia lui a rispondermi? Ha un che di maledetto Pavia? Ho un illuminazione! Mi accorgo che lo scultore ha eretto qui questa Athena Parthenos ma, cos’ha fatto? Ha assecondato i presagi del caro Siro? Vediamo come: la mitica Dea è un icona famosissima, essa è la Dea vittoriosa contro l’ignoranza, insieme a Giove e Giunone è una triade perfetta per i Romani, ed è sempre stata rappresentata con la sua lancia vincente rivolta ovviamente verso l’alto, e così ha fatto anche Fidia nel Partenone ad esempio, ma qui davanti a me cosa vedo? Una Minerva che non impugna la lancia con l’apice rivolto in alto bensì in basso! Proprio così! La punta della lancia mira al suolo, per terra, sulla testa di chi vi passa sotto. Una mossa questa che ribalta, inverte e capovolge l’augurale trionfo della Dea e tutta la sua iconografia. Insomma è una Minerva alla rovescia? Sorrido invasato, quasi vorrei comunicare la cosa al primo passante che incrocio. Ma a che serve? Tra i passanti aguzzo l’occhio; è un attimo, un flash, un tizio con la barba più lunga della mia sembra quel monaco che ho sognato. Rabbrividisco. Lo perdo subito di vista, mi agito, inizia a piovere, di colpo sento che la mia modesta analisi su Siro finisce qui: sarà stato davvero l’eletto maledicente? Spero di no.
A nowhere Man di Jacopo De Bertoldi
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Quando l’ho conosciuto, Nino La Rocca, al secolo Cheid Tijani Sidibe, viveva negli scantinati di una moschea di Roma della quale ancora oggi gestisce le attività. Sono andato a incontrarlo dopo che un amico mi aveva indicato quella moschea come l’abitazione dell’ex campione dei pesi welter. Mi si è presentato un uomo risolto, dall’aria serena, e mi è stato chiaro da subito che tra i tempi della gloria, dei soldi e del matrimonio con la modella Manuela Falorni, e quelli dell’uomo religioso, c’era un vuoto narrativo che nascondeva una vicenda umana straordinaria. Con il tempo siamo diventati amici, lui mi ha dato fiducia e ha accettato di raccontarmi la sua storia. Il nostro obbiettivo è quello di fare un film biografico, con il quale intendiamo ripercorrere anche il contesto storico nel quale si inseriscono gli avvenimenti. La storia di questo campione arrivato dall’Africa, in anni in cui il razzismo non aveva ancora la forma aggressiva che ha oggi, si sovrappone agli anni della popolarizzazione del mezzo televisivo attraverso il quale per la prima volta l’Italia impara a guardare alla realtà nella sua superfice spettacolarizzata. Nino La Rocca è stato in Italia uno dei protagonisti di questa epoca. La sua vita è passata sotto i riflettori televisivi durante l’ascesa, e poi ancora durante il suo veloce e drammatico declino, ma nonostante la grande copertura mediatica, la parte più straordinaria della sua storia non è mai stata raccontata e si tratta di una storia che ha la qualità archetipica e la potenza narrativa del mito. Quando nel 1990 è partito improvvisamente per Roma, dove avrebbe incontrato un amico, Nino La Rocca non sapeva che in quell’appartamento di Montecatini, dove era ospite del sindaco dopo lo sfratto subito dalla ex moglie, non sarebbe mai più tornato. Così, alla fine del 2013, abbiamo deciso di tornare con lui in quei locali di proprietà del comune sparando di trovare ancora tracce del suo passato. Lo abbiamo seguito con la telecamera per-
ché sapevamo che proprio là, 25 anni prima, Nino aveva abbandonato tutta la sua vita. I muri dell’abitazione non vedevano la luce da anni. Una volta aperti i battenti ci siamo ritrovati in un ambiente vuoto e fatiscente, gli intonaci erano in parte caduti e avevano coperto i pochi oggetti rimasti. L’appartamento era stato razziato. Negli anni si erano portati via quasi tutto. Qualcuno però aveva avuto cura di raggruppare nell’angolo di una stanza una ventina dei suoi trofei. Poi, in un’altra stanza, un po’ dentro i cassetti di un mobile, un po’ a terra, Nino ha ritrovato il resto. Centinaia di fotografie, di giornali, decine di cassette video con registrazioni televisive e private, lettere e diari personali hanno rivisto la luce. Attraverso l’analisi di questo materiale siamo stati in grado di ricostruire la storia dimenticata e a tratti oscura di un uomo dal passato complesso e articolato. Nato a Port Etienne da madre marocchina di origini siciliane e da padre del Mali, prima di arrivare in Italia dove ha conosciuto la gloria, Nino La Rocca ha attraversato l’Africa francese, vivendo in Mali e a Marrakech, trasferendosi infine a Parigi, solo e senza un soldo in tasca, dove ha mosso i primi passi nella boxe professionistica. La sua è una storia esemplare di successo, quella di ragazzino povero, apolide e praticamente senza famiglia, che con la sola forza del proprio talento, è stato in grado di trovare la via del riscatto. Si tratta di un mito moderno che nel suo caso, più che in altri, si svolge per intero sulla ribalta televisiva. Siamo nei primi anni ’80, gli anni, come dicevo, dell’esplosione della “televisivizzazzione” del reale, gli anni del craxismo imperante e del nascente impero televisivo di Silvio Berlusconi. Nino ama il mezzo, sembra esserci nato dentro, e ha tutte le caratteristiche che la televisione richiede; è bello, spigliato e simpatico. L’Italia infatti risponde. In pochi anni il pugile nero diventa uno dei personaggi televisivi più amati e seguiti del paese. In quegli anni tutta Italia si svegliava nel cuore della notte
per assistere ai combattimenti del campione in diretta dagli Stati Uniti. Allo stesso modo, mentre aspetta l’incontro che gli avrebbe cambiato la vita, quello con Donald Curry, campione del mondo imbattuto da qualche anno, Nino è ospite fisso delle più importanti trasmissioni nazionali. Attraverso lo schermo televisivo si appella insistentemente all’allora Capo dello Stato Pertini perché gli conceda la cittadinanza italiana, e proprio in diretta televisiva viene chiamato al telefono dal Presidente in persona che lo invitava al Quirinale per consegnargli la nuova carta d’identità italiana. Ed è così che proprio sotto le luci degli studi televisivi si consuma il dramma finale della sua carriera, la sconfitta al titolo mondiale, un matrimonio sbagliato, il tradimento del suo manager, che lo sacrifica per far avanzare il più giovane Oliva, e infine l’alcol e la solitudine. Quella parte dei giornalisti che non avevano mai amato il suo stile pugilistico, si avventano su di lui come avvoltoi su un cadavere ancora caldo. In una serie di rimandi infiniti, le riviste di gossip raccontano la tragedia di un uomo finito, accanendosi con particolare furia sui dettagli della sua vita coniugale. Sua moglie Manuela Falorni, dopo il divorzio e una lotta violenta per l’affidamento del figlio, che occuperà per anni le pagine dei giornali, per via dei suoi aspetti controversi, comincia infatti ad acquistare notorietà dopo aver intrapreso la carriera di pornostar. “Volevo farla finita, volevo morire, scomparire in silenzio.” Nino non riesce ad accettare l’improvvisa e durissima caduta. Dopo lo sfratto ricevuto dalla ex moglie che lo costringe a lasciare la grande casa coniugale, Nino comincia a bere ed entra in una spirale discendente e senza fine. E’ ancora un uomo molto ricco, ma terribilmente solo. Spesso sale ubriaco a bordo delle sue potenti automobili che lancia a velocità paurose sperando in un incidente fortuito, mentre dall’altra parte spende immense somme di denaro nei night o per gli amici che si approfittano della 3
sua evidente carica autolesionista. E’ a questo punto che l’eterno mito della parabola del campione di boxe, nella quale si inscrive perfettamente anche la storia di Nino La Rocca, si arricchisce di una svolta insolita e per alcuni versi straordinaria. Maria è la donna che fa abitualmente le pulizie in casa sua. Con lei Nino comincia ad andare a letto, è solo una delle tante che Nino frequenta in questo periodo di sbando, ma c’è una cosa che fatalmente li lega, l’alcol. I due assieme non fanno che bere e cadere sempre più in basso, agganciati l’uno all’altra in una complicità autodistruttiva. Quando finalmente un giorno Nino le annuncia che non vuole più stare con lei, Maria lo minaccia “se mi lasci mi uccido”. La tragedia ha raggiunto il suo punto più alto, oltre il quale Nino riesce a vedere solo orrore. E’ a questo punto che, forse riuscendo a fare appello al suo forte istinto di sopravvivenza, lo stesso che lo ha guidato fuori dalla povertà dell’Africa, prende una decisione che gli cambierà per sempre la vita. In Africa Nino è nato e là vuole morire. Propone così a Maria di accompagnarlo. I due prendono un aereo per Dakar dove vive una sorella di Nino. A Dakar aprono addirittura un piccolo ristornate che gestisce Maria, ma le cose non vanno meglio. Nino è ingrassato di 30 chili, si trascina per le strade della città gonfio di alcol e medicine. La gente lo tiene a distanza, come un qualsiasi barbone, compresa sua sorella che lo allontana da casa. Poi una notte, mentre sta rientrando a casa, ubriaco come sempre, accade l’inatteso. Nino è semicosciente quando gli si avvicina un uomo che lo conosce di vista e sa della sua storia. Ton Ton Dioup, questo il nome dell’uomo, gli chiede di regalargli l’orologio che porta al polso. Nino, senza chiedere spiegazioni, si toglie l’orologio e glielo consegna. L’uomo allora gli da’ un appuntamento. Si fa promettere che la mattina seguente si farà trovare nello stesso posto sobrio. Ancora oggi Nino non sa’ perché quel giorno ha deciso di dare retta allo sconosciuto, ma la mat-
tina seguente fa quello che gli è stato chiesto, si fa trovare rasato di fresco all’appuntamento. Dioup lo fa salire a bordo di un’auto e parte. Dopo un lungo viaggio i due raggiungono la destinazione, si tratta di una piccola casa isolata nel nulla del deserto dove vive un Marabout. Il santone accoglie Nino e gli pratica un lavaggio sacro, gli recita alcuni brani del Corano e lo congeda. Quello che segue ha qualcosa di miracoloso. Una volta tornato a casa, Nino si rende conto di non aver più voglia di bere. Dal giorno seguente smette gli psicofarmaci e sta bene, anzi non si è mai sentito meglio. Decide così di tornare in Italia. Regala il ristorante a Maria che non ha nessuna intenzione di seguirlo e parte per Roma. Oggi Nino non ha un soldo in tasca, ma sembra non averne bisogno. L’incontro, o meglio il ritrovamento della religione di suo padre, lo ha cambiato profondamente. Sulla sua fronte è apparsa una larga cicatrice, la zibiba, che segna il volto di pochissimi fedeli. La preghiera gli ha regalato quella serenità di cui mai nella sua vita ha potuto godere. Il ‘record’ di Nino La Rocca conta 80 incontri, di cui 74 vinti (54 per k.o.), e solo 6 sconfitte. Ha combattuto e vinto contro avversari di altissimo livello. E’ stato un pugile tra i più veloci che si siano visti in Italia, dotato di potenza e di una particolarissima intelligenza tattica. Il suo stile istrionico, la difesa bassa, i balletti sul ring, le imitazioni alla Muhammad Ali, le scarpette con le frange, i colpi a sorpresa hanno fatto di lui un personaggio unico e memorabile. Il ragazzo povero arrivato dall’Africa che voleva a tutti i costi diventare italiano è ancora oggi un personaggio allo stesso tempo commovente, indecifrabile e a tratti potentemente melodrammatico. Le sue presenza in TV con Rafaella Carrà, Gianni Minà, gli sketch televisivi con Ben Gazzara, il sorriso furbo, la follia narcisistica, ci hanno regalato il ritratto di un uomo che prima di essere un grande campione è stato un grande attore della scena sportiva italiana e internazionale.
DIPORTO
Lo strappamanifesti Mark Kostabi su Mimmo Rotella
A
l secondo piano del MoMA (tutto maiuscolo tranne la ‘o’ della preposizione of ), il celeberrimo Museo di Arte Moderna di New York, alloggia una una nutrita collezione di decollage del catanzarese Domenico Rotella più noto ai più come Mimmo. Chi sa di cosa sto parlando, sono certo, starà pensando « embè, cosa c’è di strano? », dunque corro a precisare che « nulla, non ci trovo assolutamente nulla di strano nel fatto che il più onniscente, aperto e lungimirante museo del mondo ospiti nella sua ricchissima collezione anche quel lavoro di Rotella che tanto ha influenzato moda, mode e costumi con la semplicità di un gesto così diffuso anche tra i bimbi ». Mi piaceva, semmai, ricordarlo, cosicché a chiunque capitasse di perdersi a quelle coordinate possa sorgere il desiderio di vedere il bel colpo d’occhio di manifesti strappati e così bene installati. Questo, almeno, avrei scritto fino a ieri l’altro. Ieri, invece, ho scoperto che del nostro Mimmo di manifesti strappati al MoMA non ve n’è neppure uno. Quelli che ero sicuro fossero dei Rotella al punto da non doverne leggere le didascalie, di altri non erano che di un di-lui emulatore, tale-celebre Jacques de la Villeglé. Che altro dire? Ci provo e chiedo al mio confidente (interno al museo): « Ma… di Rotella ne avete di decollage? » e lui: « Chi è Rotella? ». Io la chiudo lì. Andiamo a cena. Annegherò la frustrazione che m’assale nel vino. Per la cronaca, in verità, di Rotella al MoMA qualcosina c’è. Una sculturina per nulla rappresentativa che trovate quì: Little Monument to Rotella (Petit Monument à Rotella)
Oggi qualcosa m’ha risollevato. Mi sono imbattuto in questo articolo del mio amico Kostabi:
Mark Kostabi on Mimmo Rotella
Mark Kostabi su Mimmo Rotella
Mimmo Rotella invented the technique of using torn posters to make art in the early 1950s. This technique, known as decollage, has subsequently been widely employed by innumerable artists world-wide, including, in recent years, the young Williamsburg artist, Michael Anderson, and the East Village new-expressionist, Rick Prol. 1980s art legend David Salle devoted an entire exhibition at the colossal Larry Gagosian Gallery to works that explicitly and unapolagetically employed wholesale quotations from Rotella’s oeuvre. Rotella’s influence can also be felt in fashion and graphic design—clothing designers have used his “torn poster look” as prints and countless contemporary magazine art directors owe a debt to Rotella’s lacerated posters. Rotella himself invaded the world of fashion by designing a popular Swatch watch in the early 1990s. In the exhibition at Charles Cowles Gallery, Rotella comments on fashion with a series of works from his recent “Flashion” series. He also presents his new lacerated flowers. By focusing on images of fashion and nature, Rotella confronts parallel issues of the cyclical nature of the seasons. His rips and savage gashes transform mechanically reproduced images of promise into unique compositions by revealing layers of related material beneath their surfaces. Rotella’s artificial aging process questions the authenticity of fresh flowers and youthful models as signifiers of the prime of life by bringing attention to their temporary nature. In the fashion images, the addition of painted words addresses the relationship of advertisement and graffiti as urban message bearers. ISince the 1950s, critics have observed the Rotella re-presents, rather than represents his subject matter, investing it with mystery and elegance by fragmentation, juxtaposition and concealment—thus bringing a fresh and personal meaning to mass media. A famous dictum proclaims that the best art changes the way we view the world. As we now walk the streets and see torn posters, which reveal layers of information, we can’t help but think of Rotella’s brilliant invention and his ongoing archeological poetry. Mimmo Rotella is an historian of the street and daily life. At their best, his works are painfully beautiful and easily hold their own among the greatest works of modern or contemporary art.
Mimmo Rotella inventò la tecnica di utilizzo di manifesti strappati per fare arte nei primi anni 1950. Questa tecnica, nota come decollage, è stato successivamente ampiamente impiegato da innumerevoli artisti di tutto il mondo, tra cui, negli ultimi anni, il giovane artista Williamsburg, Michael Anderson, e la nuova-espressionista East Village, Rick Prol. 1980 arte legenda David Salle dedicato un intero mostra al colossale Larry Gagosian Gallery di opere che esplicitamente e unapolagetically impiegati quotazioni all’ingrosso da opera di Rotella. L’influenza di Rotella può anche essere sentito in fashion designer e graphic design di abbigliamento hanno usato il suo “strappato sguardo poster”, come stampe e innumerevoli registi rivista d’arte contemporanea un debito per i manifesti lacerati di Rotella. Rotella si ha invaso il mondo della moda disegnando un orologio Swatch popolare nei primi anni 1990. Nella mostra a Charles Cowles Gallery, Rotella commenta moda con una serie di opere dalla sua recente serie “Flashion”. Si presenta anche i suoi nuovi fiori lacerate. Focalizzando l’attenzione sulle immagini di moda e natura, Rotella affronta temi paralleli della ciclicità delle stagioni. I suoi strappi e tagli selvaggi trasformano immagini riprodotte meccanicamente di promessa in composizioni uniche rivelando strati di materiale relativo sotto le loro superfici. Processo di invecchiamento artificiale di Rotella in dubbio l’autenticità di fiori freschi e di modelli giovanili come significanti del fiore della vita, portando l’attenzione sulla loro natura temporanea. Nelle immagini di moda, l’aggiunta di parole dipinte riguarda la relazione di pubblicità e graffiti come portatori di messaggi urbane. ISince 1950, i critici hanno osservato le Rotella ri-presenta, piuttosto che rappresenta la sua materia, investendolo di mistero ed eleganza dalla frammentazione, giustapposizione e portando occultamento, quindi un nuovo significato personale e ai mass media. Un famoso dictum proclama che la migliore arte cambia il modo di vedere il mondo. Come noi oggi camminiamo per le strade e vedere i manifesti strappati, che rivelano strati di informazioni, non possiamo fare a meno di pensare a un’invenzione geniale di Rotella e il suo corso di poesia archeologico. Mimmo Rotella è uno storico della strada e della vita quotidiana. Al loro meglio, le sue opere sono dolorosamente bello e facilmente tenere proprio tra i più grandi opere d’arte moderna o contemporanea.
Mark Kostabi November 2000
Mark Kostabi Novembre 2000
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(Tradotto con Google Translate)
Grazie, Mark e a presto
Manfredi
ARTE
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Una lettura lacunosa di “i quanti
del suicidio”
Barbara Marras su Helle Busacca
Q
uello che Helle Busacca intende con “I quanti del suicidio”, primo volume di una trilogia, auto-pubblicato nel 1972, a sette anni dal suicidio del fratello minore Aldo, lo dice lei stessa nella premessa: “Questo libro è una summa: registrazione dell’impatto di una coscienza, con un medioevo. Presuppone ogni categoria distinta da Aristotele in poi, e non ne esclude nessuna, in quanto io ritengo poesia solo la espressione di una integrale esperienza umana. (…) «Quanti», secondo Einstein, «sono quantità di energia o di materia o di elettricità». La vita intera dell’universo non è in fondo che inter-azione di «quanti»; così quella umana (…) L’atomo che è la coscienza, colpito dalla carica morte-suicidio, in questo caso non solo ha emesso energia, ma si è in certo modo trasformato. La reazione è stata a catena (…) D’altra parte, la coscienza, oltre ad essere campo e strumento di tale processo, ne registra i fenomeni (…) Che lo strumento di misura non possa captare nella loro assoluta obiettività i fenomeni in esame (…) è assioma della fisica (…)” ed altro aggiunge che non sarebbe superfluo riportare. L’operazione è complessa, sofferta, necessaria, anzi inevitabile, ed è estremamente consapevole. É una visione del mondo che nasce dal bisogno di comprendere e dare senso al vissuto traumatico, ad una vita che si è conclusa ed al sopravvivere, al come ed al perché di una parabola umana, al suo significato. É una ribellione al destino di oblio e mancanza di senso di quella parabola che è chiave di lettura del presente. É necessità e valore della testimonianza, quindi vangelo umano dove nell’umano vero è il solo vero divino. É tentativo di ricostruire, attraverso la metafora tratta dalla fisica quantistica, ciò che è accaduto all’anima nell’impatto col trauma e con la verità che esso svela e, contemporaneamente, ciò che ha condotto un’altra anima a scegliere il suicidio; ricostruire il percorso che vede la poeta (e pittrice e insegnante) complice inconsapevole, cieca, fino al risveglio in cui si manifesta la consapevolezza, all’accettazione dolorosa del proprio compito ed alla catarsi. É, perciò, in questo senso, un viaggio dantesco (con il fratello Aldo a fare da Virgilio, supportato da un amplissimo coro di altre voci): una moderna, post-moderna, Divina Commedia - come è sottolineato dall’indentificazione dei componimenti con numeri romani, dai frequenti dantismi, dalla furia dei toni accusatori, dello sdegno civile e morale, dal ricorso alle immagini di animali, insetti ecc., dai neologismi (es. coprocrazia neanderthalense, copropsichi ecc.) da un lessico ed una sintassi ardui, talvolta arcaici (fino al latinismo ed alla traslitterazione dal greco) così stranianti, e quindi ultramoderni, che servono anche a sottolineare il riferimento al medioevo come metafora dell’oscurità in cui si trascina l’uomo moderno ma, anche, come metafora di una situazione psicologica determinata dall’improvvisa devastazione, dall’abrasione di un mondo precedente. Lo stesso, delle minuscole: cui si contrappone la maiuscola usata unicamente per la parola Uomo quando riferita al fratello, rappresentante dell’umanità vera contrapposta alle belve che la fanno a pezzi, la sfruttano e la crocifiggono. Le minuscole provengono dai codici medievali e, contemporaneamente, rovesciano il sistema di valori esterno al libro. In esso, d’altro canto, non sono trascurate le esperienze delle varie avanguardie
del ’900, non solo letterarie e non solo italiane, o quelle, inevitabili, della neoavanguardia: semmai, tutto il libro si pone sotto il segno della sperimentazione. Né ciò inficia il costante riferimento ai classici, latini ma soprattutto greci, ai poemi omerici ed alle tragedie, i cui accenti si confondono talvolta con quelli biblici. In armonia con questi modelli e con l’ispirazione generale dell’opera sono i toni profetici di molti componimenti, tra cui XCV : «E io vi dico da questa vetta / di desolazioni che non c’è più spazio / più tempo più terra per chi può pensare / non ho risposto non ho capito non ho guardato / non ho inteso, siate tali che diciate sempre / e per chiunque ho donato e non mi fu reso, / ma non mai non ho reso e mi fu donato // e vi giuro che è meglio sentirsi in credito / che in debito, che solo il credito va cancellato, / ma non il debito, perché quando non ve lo aspettate / può venire il tempo che il debito non si può pagare. (…)» In poesie come questa citata, il carattere allocutorio consegue all’acquisizione di una verità che è necessario trasmettere, una verità che è la conclusione di un lungo interrogare e che, spesso, smentisce atteggiamenti assunti in precedenza, a caldo. E la risposta può anche essere conforme agli insegnamenti di Cristo, o di Maometto, o di Buddha ecc., ma procede sempre dall’esperienza e dalla maturazione di essa nella coscienza, da una riflessione che la furia non vanifica: non ci sono assunti sfuggiti alla verifica da parte di questo processo. “I quanti del suicidio” è anche, e preminentemente, un colloquio ininterrotto della poeta col fratello, che parla attraverso le sue carte, attraverso il ricordo di parole dette, scritte o taciute, di sguardi, occhiaie livide, guance incavate, mani bellissime. Lo strenuo tentativo d’interpretarne il silenzio, di estrarre Aldo dai suoi libri sottolineati, dalle sue equazioni, dalle lettere non spedite, come dalla creta che egli plasmava, come la volontà ci estrae, a tratti, dal caso, come ci si affanna in sofismi a distinguere fra queste due spinte per capire: che cosa? Che cosa è “sorte”, se non il cieco intrecciarsi di quelli? Testimonia l’impresa di estrarre il destino (in senso heideggeriano) dalla sorte, persino controvoglia: «(…) come credere a una libertà / qualsiasi, non aver voglia di scerpare gli astri / rinfacciando il tuo martirio predestinato (…)» (CXVI) - e, del resto, l’antitesi si risolve nel concetto di Karma – di arrivare al significato del gesto finale che forse è rinuncia ma forse è la conclusione di un percorso, la fuga irrinunciabile verso le stelle, la soluzione di un’equazione: = a 0 oppure = a infinito? E Aldo risponde con un appunto in calce: CATARSI (cfr CXV). Il silenzio nel quale Aldo Busacca è sparito, il silenzio che lascia accanto ad Helle, è qualcosa che si può ancora interrogare, è un silenzio dal quale possono ancora maturare risposte, è lo spazio entro il quale fratello e sorella sono ancora in comunicazione. Aldo, che è oramai in Helle, il cui nucleo si è fuso col suo, è finalmente lo specchio attraverso il quale ella si conosce, così come riconosce il fratello attraverso se stessa, cercando di riportare alle coscienza ciò che prima non ammetteva di sapere, di attingere alle informazioni che sono stratificate nella sua memoria e nelle cose. Organizzati in 12 sezioni (I quanti dell’integrazione, della rottura, della
desolazione, della nostalgia, dell’angoscia, della memoria, del conflitto, del pellegrinaggio, della confusione, della discriminazione, del rifiuto, della visione), i componimenti articolano un lungo discorso inframmezzato al pianto e c’è un sospiro in ogni pausa, un singhiozzo alla fine di ogni verso e mai una tregua, un’orizzonte in qualche modo rassicurante o consolatorio, una rima, neanche a pagarla oro – e in ciò è tanto un segno di modernità quanto una testimonianza dell’influsso dei lirici greci e latini. Alla misura del verso, talvolta regolare, assai di rado corrisponde il ritmo atteso dagli accenti: a dare un’impressione di prosa che più facilmente può accogliere il linguaggio scientifico o quello propagandistico del boom, le interferenze del mondo esterno, o le voci degli amici (anche loro intenti a ricordare ed a cercare un senso, soprattutto con l’intento di confortare la poeta) e che meglio si addice al colloquio, ma anche a rilevare che chi produce il suono è “scordato” – tranne recuperare il ritmo verso la fine, per esempio nei doppi novenari di CXXII, qua e là spezzati, dove alle frasi e ai gesti di Aldo fanno eco le parole di Richard Wright, dei sufi, di Holderlin, del Buddha e degli yoghi e quelle poi di Helle che, ormai in possesso del codice, riassume la vicenda e ne trae l’insegnamento ad ammonire i “suoi”: «(…) E dunque, chi fosse dei / nostri, / lo sappia: se noi li ascoltiamo, perdiamo noi stessi, non solo, / ma, quello che è dannazione, perdiamo il fratello, il compagno / di strada; / né giova che poi, quando lo spirito ansante / ha scelto in un modo o nell’altro l’approdo invisibile a noi, / diciamo, diciate, / era poe, era kleist, era trakl, era aldo.» Il carattere di colloquio dei componimenti è sottolineato continuamente dal ricorrere del pronome alla seconda persona singolare, ma la forma più frequente sembra essere la soggettiva: è Aldo che fa e dice, Helle che ricorda e racconta ad Aldo. Tale forma è mantenuta pure nella sequenza “io e tu”, che era forse già un arcaismo all’epoca e che evidenzia, perciò, l’alterità di Aldo, la sua individualità irriducibile, l’impossibilità relazionale, l’assenza e, insieme, paradossalmente, la compresenza delle voci sua e di Helle come espressione della stessa coscienza che in sé contiene entrambi, in cui Aldo sopravvive e che il suicidio di Aldo ha fatta nuova. Fratello e sorella sono due individui, spesso in contrasto, in lotta, insieme eppure soli, anche mentre, nella fantasia della poeta, condividono la fuga e attraversano le dimensioni dell’universo, perdendo il corpo strato dopo strato, per essere una sola cosa: spirito, polvere, aria, “enigma irridente”, ormai e per sempre invisibili agli altri che non possono più perseguitarli, che si accorgono della beffa – e nell’opposizione a questi e nella conquista di questo stato, tornano ad essere “io e te”, finalmente complici e in accordo (cfr CXXIII). Così veniamo a conoscere il rapporto fra la poeta e suo fratello: un rapporto sofferto, difficile, vissuto forse nel modo sbagliato, condizionato e contaminato da energie esterne, negative, che si frappongono e cui viene concesso di usurpare lo spazio del rapporto – ma, del resto, tutti i rapporti sono assimilabili ad uno scontro fra atomi che implica lo spostamento di elettroni e dunque la trasformazione degli atomi stessi (oppure ciascuno è un elettrone la cui fuga rispetto all’orbitale di appartenenza originario muta l’atomo). Verso dopo verso, siamo messi a parte delle abitudini dell’uno e dell’altra, delle dinamiche interne alla coppia, di tensioni, incomprensioni, pianti, litigi quasi sempre indotti dalle difficoltà economiche, pasti miseri, visite, conversazioni, degli incubi di Aldo, della lampada che egli direziona sul proprio viso e lascia accesa tutta la notte per cercare di contrastarli, dell’ossessione di Helle per le bollette della luce, delle sigarette con le quali cerca di bruciare la propria rabbia ecc. La concretezza dei dettagli è straziante: rimpianto e rimorso si annidano in ogni angolo della casa in cui la poeta ha accolto il fratello e nella quale questi è stato ritrovato morto con la canna del gas fra i denti. Questa casa, rifugio e prigione, da cui la poeta verrà poi sfrat5
tata, si fa specchio del suo io e subisce il destino di chi la ha abitata. Dapprima piena delle cose di Helle e delle sue speranze, diventa poi il luogo di una convivenza forzata, ingombra delle cose di Aldo, dei classificatori, delle carte, dei libri, del suo disordine, dei suoi sogni e del suo dolore, per essere infine abitata da un fantasma, di nuovo sgombra ma colma di quanto vi è stato vissuto. Ogni oggetto, ogni parete vi sono testimoni muti dei pensieri e delle azioni di Aldo vivo, ne sono stati trasformati, ne trattengono l’impronta, ne conservano l’energia e rompono a tratti il silenzio, riportando immagini e voci dal passato che custodiscono. Questa non è più casa alla poeta: casa era la vita col fratello, casa è ciò che fratello e sorella avrebbero potuto essere l’uno per l’altra e forse, in qualche modo, sono stati o sono adesso. Verso dopo verso veniamo, soprattutto, a conoscere Aldo Busacca: l’ingegnere tessile, lo scienziato e il poeta, l’uomo ridotto alla miseria dall’avidità altrui e costretto ad emigrare, a vagare di città in città e di paese in paese, saltando i pasti per rimediare agli errori altrui ed anche per portare aiuto (o gioia e bellezza) a chi pretendesse di averne bisogno; costretto da sempre a rinunce via via più gravose, a lavorare 18 ore al giorno o a cercare lavoro inutilmente perché troppo qualificato, ad elemosinare ciò che avrebbe potuto guadagnarsi e che gli spettava; bello, dai modi regali per dignità e grazia, la sua mente ed il suo cuore perfetti ma del tutto inadeguati alla società ed al tempo, che la società ed il tempo non poterono corrompere ma che ammalarono e poi uccisero; braccato da sveglio e nel sonno, timido e gentile, sempre pronto a comprendere, a dare e che nessuno comprese, cui nessuno rese mai; Aldo che non aveva niente e non risparmiava se stesso, che non smetteva di cercare perché finché c’è speranza c’è vita, disposto a fidarsi e sempre tradito. Il suo suicidio istituisce una colpa collettiva, ricade su tutti coloro che l’hanno ingannato, ferito o che, semplicemente, sono venuti in contatto con lui senza riconoscerlo, su tutte le generazioni che hanno contribuito a creare il meccanismo che lo ha soffocato. La maledizione è scagliata su tutti i discendenti di costoro fino all’ultima generazione, fino alla fine del mondo. Non solo per vendetta: il male va estirpato alla radice e chi risparmia i carnefici sacrifica nuovi innocenti, perché il potere si tramanda e il potere del denaro, della violenza, sbagliato, illusorio, che ignora la complessità dell’universo, che priva l’umanità del suo potenziale, che si fa beffe della vita, questo potere ridicolo e falso, distruggerà tutto. Eppure, verso la fine, ricordando le parole dei nonni, Helle Busacca si chiede: «(…) di chi, veramente, siamo noi i figli?» (CXXXVIII) e, riferendosi a se stessa, osserva: «(…) in tanti altri modi / figlia del saggio, può essere, chi non è saggio, delirio / e attonitaggine e tenebra a chi ama… » (ivi) Che cosa ha ucciso Aldo? La fatica di una vita che è lotta vana dal principio alla fine, l’ingratitudine, la mancanza di riconoscimento e d’amore, la consapevolezza di sé e l’impossibilità di essere sé e sopravvivere nella società dell’epoca, nell’Italia ipocrita e spietata del Boom, corrotta, borbonica, provinciale e gretta, oggi giunta alle sue estreme conseguenze. Per sottrarsi ai torturatori si è ucciso, agli automi ed agli aguzzini con i quali non aveva nulla a che fare, per affermare la sua differenza, per esaurimento di ogni energia e motivazione, per stanchezza di sentirsi peso con tutto quello che aveva da dare, per darsi finalmente riposo e pace. É stato ucciso dal padre e dalla matrigna avidi, ingrati e privi di scrupoli, dalle banche, dal fisco che chiede sempre a chi non ha, da un sistema fondato su un potere che è funzione biunivoca del denaro e in nessuna relazione con la responsabilità, che si regge sullo sfruttamento e sul consumo, che spinge la classe operaia a desiderare l’elettrodomestico, che deruba e deride il genio, che misura gli uomini in base a quel che guadagnano, che li svuota della loro umanità e ne fa insetti o zombies o vittime sacrificali. É stato ucciso da tutti quelli che non si oppongono a questo sistema, da tutte le kristhe, sally e giselle
che, indegne, lo hanno sacrificato a più solidi partiti e anche da Helle: che non ha potuto rispondere ad Aldo nel modo che lui chiedeva, di cui aveva bisogno, che è stata prima madre per essere, poi, figlia, che gli lasciava cioccolatini anziché fiori sul comodino, che pensava di avere qualcosa cui rinunciare e perciò non era libera di amare nel modo giusto, non era ricca, non era cosciente; Helle che prestava orecchio agli “altri” lasciandosene assimilare senza avvedersene, che pensava di desiderare ciò che non desiderava affatto, tutta intenta a fuggire dalla famiglia e che, arredata la casa per l’Atteso, non lo riconobbe; Helle che non si sapeva nucleo, che resisteva, che si sobbarcava di responsabilità superflue e marginali e non aveva ancora imparato ad assumersi l’amore, a scegliere, libera, di non esserlo, a considerare le conseguenze delle sue decisioni per la vita altrui, perché tutto è interconnesso e vivere è accettare la responsabilità di questa trama, proteggerla da ciò che la minaccia, che non si è scelto, che non ci appartiene e che va rifiutato – e amare è riconoscere l’altro, vederne l’anima, avere il coraggio di abbracciarne l’abisso interiore che si riflette nello spazio profondo, seguirne la mente mentre lo sonda, esserci insieme, sempre: « (…) Lui lo sapeva, il cieco nato, / che non ti è amico chi non partecipa del tuo appassire (…) » (CXXVI). È anche accettare che l’altro ci riveli, che ci veda e ci ami per quello che siamo ed è anche lasciarsi cambiare. In LVII l’anima dell’amante è il cristallo che ci riflette e ci svela diversi dalle stelle: mostri; il cristallo che va in frantumi, distrutto dall’odio di chi non vuole vedersi quale è e si rifiuta all’amore. Nell’accusare gli assassini del fratello e nel riferire le circostanze che lo hanno condotto alla morte, la poeta ritrae e denuncia tutto il sistema, la razza umana che nella sua evoluzione ha scelto una strada perversa, rivendica la sua appartenenza ad un’altra specie, esorta i suoi simili alla resistenza ed alla rivolta, indica loro gli strumenti della lotta. Nel libro, l’Italia appare come il più corrotto e feroce tra tutti i paesi. A leggere quest’Italia dei “Quanti” mi viene in mente tanta letteratura dell’epoca ed anche antecedente. Mi viene in mente, per esempio, guarda caso, Bianciardi – soprattutto “L’integrazione” e “La vita agra”, che precede i QdS di dieci anni. Mi viene in mente che “La vita agra”, la quale rovescia tutto ciò che ingloba e che la costituisce, sarebbe di nuovo rovesciata se il protagonista facesse finalmente saltare in aria il Pirellone. Perché così ci si disfa dei fantasmi: i nemici si mettono nell’inferno! A Berlioz si taglia la testa! Com’è che quando Dante o Bulgakov si liberano, noi pure ci sentiamo così liberati? Ma la catarsi toglie forza alla denuncia e disinnesca la vendetta. Amleto scrive un appunto sul suo taccuino e con ciò ha bell’e sistemato lo zio già al primo atto, scena V. Helle Busacca si libra tra sentenza ed esecuzione, si erge a puntare il dito e pronuncia maledizioni da compiersi, perché il suo dire è irreversibile, ma non già perfettamente compiute col dire o, meglio, non già avverate sulla pagina. Così la poesia mantiene la vibrazione potente della sua furia e l’effetto è certo perché non siamo nella metafora, non si tratta solo di un’immagine poetica ma di fisica e tra le due cose non c’è distinzione sostanziale: quella di Helle Busacca è tanto una fede nella parola quanto una fede scientifica ed è fede nell’umanità, volontà di recuperare l’uomo in tutti gli aspetti e aldilà delle separazioni che lo impoveriscono e lo rendono impotente, recuperarlo in ogni sua espressione che contiene il tutto, ove s’incarna ed effonde lo spirito dell’universo. La poesia dei “Quanti” è tesa fra rabbia e catarsi, è il percorso che va dall’uno all’altro polo, ma senza posa. Nei versi sono raggiunte e scolpite le trasformazioni dell’io lungo il percorso, è acquisita la consapevolezza che permette lo scatto da un livello al successivo, è registrato lo scatto. É un percorso che non può essere lineare: un’orbita. É La coscienza che gira intorno al nucleo buio dell’io. Gli stessi elementi girano e rigirano ossessivamente intorno, acquisendo man mano un senso sempre più profondo, sempre più vicino alla verità. Il ragionamento torna costantemente sui
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propri passi a ripercorrere infinitamente la memoria ed a cercare il nodo da sciogliere. Perché si tratta, in fondo, di elaborare il lutto, attraversare il dolore, trovare la maniera di metabolizzarlo, di conviverci in qualche modo, di dargli un senso che non può essere esclusivamente privato, che non può essere se non universale. In questo contesto è inevitabile che privato e pubblico s’intreccino; del resto, tutto s’interseca nel medesimo punto: l’individuale con l’universale, la sfera psichica con la sociale, il terrestre e il cosmico, lo storico e il mitologico, lo scientifico e il filosofico. S’incontrano nell’istante e quindi coincidono nel tempo, s’incontrano nella coscienza e quindi nell’uomo, s’incontrano nel libro che non può non rilevarne la compresenza ed anzi l’unità. E la lingua può solo alludervi, tanto più che l’universo si rivela via via più misterioso di quanto non crediamo e molto di ciò che appare incongruente è solo l’effetto d’ignote cause. La parola è limitata, come lo è il numero: la matematica esprime per simboli l’universo, è musica (la lingua dell’eden), è, anch’essa, scala per le stelle – per Aldo Dio era “Astratto Assoluto” – ma il simbolo non dice intera la cosa e la fisica contravviene. Rifletteva inoltre Aldo, che i numeri sono ripetizione dell’1 (quantità arbitrariamente definita) più una sequenza infinita di 0 (quantità nulle), sicché «un numero indefinito di quantità nulle, / (…) è il simbolo dell’universo e la sua realtà, / lo zero che è inconcretezza ne è la trama e il filo…» per concludere che se Dio è l’essere, assunto che sia immutabile e senza causa, allora il tutto è non essere. (cfr CXVIII). Riflette poi Helle che i numeri ci beffano, sono segni di cui non abbiamo il codice se non a posteriori: le date che scandiscono i suoi lutti, per esempio, ripetono il numero 11, e l’11, numero primo, a volerlo scomporre è, magari, 1 e 1, ma non 1 più 1, è solitudine, doppia: la solitudine ineluttabile dell’uomo e del fiore, di tutto ciò che nasce solo per morire. La vicenda umana di Aldo Busacca è tanto più paradigmatica in quanto storicamente determinata ed allo stesso tempo segnata da una sorte che rende riconoscibile in essa il modello universale e non mai smentito dell’Uomo. Destino e Storia, da Heidegger in poi, non sono concetti in contraddizione e nei “Quanti”, mi pare, la Storia verifica il Destino, la Storia è tela ed il Destino è ragno, annunciato ad ogni incontrarsi dei fili: in ogni torto subito, in ogni errore di Helle, in ogni rifiuto di amata, negli specchi rotti, nei lutti passati, nella morte per gioco di Helle bambina, nei dischi di Aldo che tornano a suonare sul giradischi che lui non ha conosciuto, nei quadri di Helle pieni di croci antiche che prefigurano la croce in attesa. Perché in effetti non possiamo interpretare se non a partire dalla fine. È il finale che determina il significato di una vicenda e il cristianesimo non esisterebbe senza resurrezione. Il finale svela il senso degli accadimenti che lo hanno preceduto, conferma le etimologie (in XXXVIII: “(…) diverso. Da di-vertere.”), mette in luce gli elementi coerenti con esso, rivela le tappe di un destino, i nodi significativi, le svolte apparenti, le occasioni sprecate che mai avrebbero potuto essere colte, se non da un attante onnisciente, da un uomo o da una donna così perfettamente consapevoli e lucidi, come se si trovassero a rivivere la situazione per l’ennesima volta – ma sapendo che si tratta proprio della stessa. La morte di Aldo Busacca è questo finale in virtù del quale si riorganizza non solo il racconto, non solo la vita di Aldo stesso e di Helle, ma tutta la vicenda umana; è l’evento centrale della storia che si ripete a riavvolgere il tempo e ad invertirlo, collocando la speranza nel passato e la memoria nel futuro, come dal domani non si può attendere più nulla altro che la replica di ciò che è già accaduto, il compimento di ciò che è stato annunciato tante e tante volte, in così tanti modi, con i segni che ora sappiamo leggere. Così passato e futuro sono compresenti in ogni istante ed Helle, vedova e profeta, se ne assume la responsabilità. Contemporaneamente il suicidio è finale che lascia aperto il discorso, l’eterno incompiuto, lo sguardo da decifrare, il seme da cui deve germogliare la nuova
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coscienza. Ogni atto compiuto si rivela ora per le sue conseguenze, la pietà per il padre è ferita inferta al fratello e, se fosse morta Helle, sarebbe forse vivo Aldo – ma sarebbe Aldo? Colui che non fu riconosciuto e che fu perso in vita, è riconosciuto e ritrovato nell’assenza insopportabile ed inconcepibile e non vorrebbe, Helle, riportarlo indietro dove non potrebbe che morire di nuovo, sulla terra dove è solo dolore e tormento e ingiustizia, non vorrebbe che, per sopravvivere, fosse costretto a rinunciare a se stesso, a darla vinta alla genetica. Sa, adesso, di essere stata l’ultima possibilità di Aldo, sa che egli era la sua sola possibilità e, adesso che nulla ha più sapore, ha ancora un senso, regalato da lui. Perciò acconsente a ritardare il ricongiungimento, la morte che è madre, patria vera, la sposa non mai trovata nel mondo, la pace mai conosciuta, il riposo eterno (e meno non basterebbe dopo l’orrore della vita). E se per l’uno la morte era assorbimento di luce, simbolizzato dal panno bianco con cui si coprì il volto nel morire,
gli emarginati; per immaginare la fuga di Aldo e vedere l’Alahambra farsi fantasma nella sua dimensione per essere vera in quella di lui, dalla quale certo proviene; per maledire il mondo dalle colonne d’Ercole e per intuire, oltre quelle, le isole felici: «(…) Così, se l’odio / è “la parola” come l’amore, e ha minato sempre / le tane dei ben pasciuti per ogni dove (…) uragani d’odio dai picchi / ho scatenato delle canarie da ovest a est / e da nadir a zenith perché dirocci / in su e in giù dal cerchio che traversa l’africa-isola, // e dai quattro angoli e nei quattro angoli non ci sia suolo / non ci sia aria non ci sia acqua che non lo incroci / e lo convogli sugli usurai e sui loro figli // e implorino di morire restando vivi / e siano restando vivi lezzo e carogne, / e aspiri odio finché in cancrena sputi i polmoni // chiunque io cito da questa tomba al giudizio di Dio.» (C) Ma anche parte alla ricerca del sole, di un motivo per tornare ad amare, e trova nebbia e vento, perché il mondo “si fa più opaco e sempre più si risolve in cenere” quan-
che non sopravvive alla ferocia degli uomini: come gli uccelli, come i pesci, come l’Uomo. E nulla è casuale: i se e i ma sono vano rimpianto perché l’Uomo, il poeta, lo scienziato, il saggio, il profeta, non hanno alcuna possibilità di sopravvivere, di evitare il sacrificio di sé che la società parassita pretende da loro per prosperare. Perché la famiglia è il luogo degli abusi in cui sin dall’infanzia si sperimentano l’ingiustizia e la violenza proprio per mano di coloro che amiamo e che dovrebbero amarci, che non abbiamo scelto e cui siamo legati, dei quali portiamo il peso e l’eredità, la maledizione che possiamo restituire o condonare ma che dobbiamo scontare comunque – ed è scritto che il santo nasca dal mostro per il suo martirio ed a maggior soddisfazione di questi. Nulla è casuale e tutto è già nelle circostanze della nascita, nel nome stesso, nel meccanismo sociale e nelle stelle. Tutto è determinato siccome irreversibile e destinato ad una fine precisa ed inevitabile, dall’incrociarsi delle traiettorie cosmiche, del tempo
nell’esperienza dell’altra, vita e morte si scambiano segno e valore: se la vita è una tale sofferenza, è un tale rovello insolubile di energie imbrigliate inutilmente e se la morte è liberazione, fuga di energie liberate, allora è l’una buco nero e l’altra è luce. Per questo non è la morte di Aldo che la poeta piange, ma il tormento e lo spreco della sua esistenza. Il cammino della coscienza si fa concretamente pellegrinaggio ed ecco, allora, la Spagna, la Grecia, i viaggi sognati sognati insieme, cui entrambi avevano rinunciato. A cercare Aldo, Helle va nei luoghi dove egli non è stato e cui appartiene, e lo porta con sé, perché li veda, e lo porta con sé per vederli. Dove non è stato ferito e ripudiato, lì può sederle accanto ad ascoltare la voce dell’acqua, a guardare una rosa: accanto a lei e, immenso, a lei intorno. E va nei luoghi di cui le ha raccontato: il cielo, la luce; per scoprire che essi non esistono affatto, che è stato lui ad inventarli. Perciò essi non saranno più, perché con ogni uomo muore un mondo, perché è l’uomo a vedere il mondo, a crearlo, come un dio, senza poter mai raggiungere la meta che fissa, che è solo dentro se stesso, che chiuderà sotto le palpebre e porterà con sé nella terra umida della propria sepoltura (cfr CXXIX e CXXXI). La poeta parte per trovare il fratello negli occhi di altri poveri, di altri re in lacere vesti, di altri innocenti sognatori, di coloro che pagano, dai quali sempre, con interesse assurdo, si esige il debito; per riconoscere il dio con la mano protesa; per implorare di rinascere fra i miseri e
do “ne trapassa il cerchio/ una grande anima per tornare al suo paese” (CIII). La morte di Aldo è lo spartiacque della sua coscienza, l’evento in forza del quale ella riconosce il volto vero delle cose e delle esperienze. C’è un prima e c’è un dopo: l’istante zero costringe a ripensare tutto ciò che lo precede e priva di senso ciò che lo segue. La poeta deve ricostruire questo senso alla luce della sua esperienza, concedersi un orizzonte e uno scopo, ma solo per amore di Aldo, per amore dell’Uomo. Del resto è inevitabile che il trauma getti la psiche nella confusione ma, altrettanto inevitabilmente, a tale confusione segue la necessità di elaborare il trauma. Il confronto con la morte estremizza il sentimento delle cose, del confine tra il bene e il male, tra luce e buio, e spinge a schierarsi, a prendere una posizione netta. L’istante zero dà luogo, momentaneamente, ad una bipartizione del mondo, dell’esistenza, del tempo, della psiche, dell’anima, genera le opposizioni: tra “noi” e “loro”, uomini e automi, Cro-Magnon e Neanderthal, ricchi (arricchiti per sfruttamento) e poveri (sfruttati e perseguitati), vittime e carnefici, Spirito e Parola, eden e inferno – dove l’inferno è la vita degli Uomini nella società degli zombies ma anche, e soprattutto, la vita in un mondo dove Aldo non c’è più, e l’eden è collocato sempre dove non può essere riconosciuto al presente: l’eden sprecato della vita con Aldo, l’eden dell’infanzia nella casa dei nonni, nonostante i funesti presagi, e nell’infanzia dell’umanità, in un’ Atlantide prima dell’”ubris”: lo stesso eden è qualcosa
con lo spazio; tutto precipita col precipitare delle stelle e dei pianeti nell’universo. Quello che si ha il dovere di fare, per opporsi a ciò, è recuperare la propria umanità, svegliarsi (in un senso assimilabile a quello zen) e parlare: perché lo spazio non è vuoto, perché il pensiero e la parola sono energia: come l’odio, come il dolore, come ogni altra cosa nell’universo. Perché tutto è, allo stesso tempo, relativo dacché tutto è soggettivo e quindi influenzabile: è questione di coscienza, di sottrarsi all’influenza negativa e prossima per vibrare in consonanza col cosmo – bisogna però rinunciare agli “spettri”. Nel tentativo di comprendere il senso della sorte del fratello, di tramandarne il ritratto e gli insegnamenti, di additarne gli assassini, di accusare la famiglia e la società contemporanea, il sistema capitalistico che fagocita gli uomini, li spolpa, li denigra, li umilia e li condanna a morte, Helle Busacca traccia dunque le coordinate di una mappa astrale, filma l’universo nella sua fuga, i sistemi nel loro vertiginoso ed impercettibile precipitare, il tempo nel suo implacabile fluire per mai tornare indietro, come ogni cosa in ogni istante cambia, ma anche nel suo riannodarsi, perché ogni evento ne ribadisce altri remotissimi e li presentifica e ne amplifica il significato; legge i sintomi, i presagi trascurati e si fa profeta presso quelli che sono ancora innocenti, i giovani, non coinvolti nella tragedia del fratello, e presso le generazioni future – perché possa quella tragedia servire a qualcosa. Aldo è venuto come il cristo ad insegnare la via e, quindi, a dividere.
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Ma se Aldo è il cristo, vessato e crocifisso, il capro espiatorio che prende su di sé i peccati e le pene del mondo senza deviare dalla verità e da se stesso e, in ciò, capace di redenzione per gli altri, se Aldo è testimone e insieme Dio, il Dio in cenci, colui nella cui morte è una sentenza ma anche una possibilità, se Aldo è l’agnello di un Dio che non esiste se non in lui stesso, è anche Ipazia scarnificata per la sua scienza e bellezza, è “abele-dionisio-orfeo” (contrapposto a “edipo-testa-di-bietola erede di “adamo-coccodrillo-verme” cavalcato dal serpente-ada – cfr XVIII – e qui Helle è Antigone che lo seppellisce e canta l’epinicio: perché la vittoria sarà loro e il suo poema è già vendetta e riscatto, è messaggio verso le stelle che annuncia la fine del mondo in bilioni di anni luce o in un baleno) è il buddha – il perfettamente risvegliato all’armonia dell’universo – è il popolo Inca sterminato dai conquistadores, Achille tormentato da Tersite e schiavo di Agamennone. Naturalmente anche la poeta è coinvolta nelle metamorfosi, sin dall’inizio, dal primo componimento ed a partire dal proprio nome, che consente l’identificazione con la leggenda di Helle e Frisso, speculare alla vicenda sua e di Aldo e chiave di lettura della stessa. Conviene qui riportare intera la nota di Helle Busacca che riassume efficacemente: “ (…) il re Atamante e la regina Nefele Avevano due figli, Helle e Frisso. Morta Nefele, Atamante si risposò e la matrigna fu così bestiale che Frisso invocò l’aiuto di Apollo. Il dio inviò loro, perché fuggissero, un montone alato, dal vello d’oro. Passando sul mare che da lei si chiamo Ellesponto, Helle ebbe il capogiro e precipitò. Frisso giunse nella Colchide, terra di favola e di magia.” Se nella realtà è la donna a sopravvivere, è tuttavia evidente che le cose vanno proprio nello stesso modo: è proprio l’uomo a raggiungere la Colchide, mentre la sorella precipita nell’abisso. La morte di Aldo Busacca ripete quella di Empedocle, di Giordano Bruno, di Ataualpa, Pitagora, Socrate, Demostene, Cristo, Lao-Tse. Attraverso le citazioni continue, inesauste, egli non è trasfigurato: è annunciato dalla storia, dalla letteratura di tutti i tempi, da leggende, mitologie, metafore e rivelazioni, da codici luminosi provenienti da stelle morte millenni fa: ricompreso in questo orizzonte e svelato nella verità della sua essenza. A costruire questo orizzonte sono chiamati in causa Einstein, Omero, Leibniz, Machiavelli, Platone, Dante, Virgilio, Eisenstein, Ichikawa, Shakespeare, Seneca, Lucrezio, Orazio, Saffo, Leonardo da Vinci, Kipling, Leopardi, Kafka, Wells, Egiziani e Sumeri, Gotamo Buddho, i Maya, Goya, Eschilo, Sofocle, Euripide, i Sufi, il principio d’indeterminazione di Heisenberg, Novalis, Holderlin, Maometto, Erasmo, Spinoza, Luca, Buddha, Krishnamurti ed altri – insieme agli amici, italiani e non (tra cui Margot Einstein), insieme a qualcuno che telefona, all’intestazione dei fogli antichi, testimonianza della carriera di Aldo Busacca negli USA, insieme alla sue carte, insieme ai racconti della zia morta giovanissima, alle parole dei nonni (parole da saggi, da illuminati, con cui quelle di Aldo si confondono, che potrebbero essere le sue o quelle di Buddha), insieme agli inviti ai convegni cui non aveva soldi per andare, alle attestazioni di stima di scienziati statunitensi. E queste voci s’intrecciano con quelle dei medici esosi ed inconcludenti, con quelle di scherno dei colleghi invidiosi, dei capintesta boriosi ed ignoranti, dei burocrati ottusi e vili, con le réclames alla televisione, con le parole stupide e crudeli del padre e della matrigna ecc. Nei due collages (LXXIV e CXLVIII) frasi e periodi tratti da libri altrui, posti in relazione fra loro ed inseriti all’interno della cornice dei “Quanti”, parlano di Aldo, parlano per Helle, acquistano un senso nuovo, il senso, appunto, che Helle riceve da Aldo. E La matassa si srotola, Il discorso si allarga all’infinito fino a comprendere, all’altro capo del filo, qualcuno non ancora nato. Nell’ultima sezione dell’opera, intitolata “I quanti della visione”, il nodo si scioglie e si delinea, finalmente, una prospettiva capace di confortare. Que-
sta visione, ancora una volta, dipende dall’accettazione del senso emerso con l’elaborazione del trauma. Come si è detto, il significato può essere affermato solo a conclusione del processo che l’ha sin qui messo in discussione, argomentato, rifiutato, verificato, reinterpretato, e così via: solo dopo essere stato ripulito delle scorie, messo alla prova nello scontro con istanze ed elementi coesistenti nella coscienza della poeta, averli inglobati in sé, giro dopo giro. A questo punto Helle Busacca può rallegrarsi che Il fratello non debba invecchiare, né mai venire corrotto dal tempo o dalla vita, né più soffrire, ma possa per sempre restare “l’essenza più intatta e pura, l’infanzia e il sogno” di ciò che ella fu (cfr CXXXV). Può sentirlo in un “morire d’autunno”, nelle nuvole che attraversano il cielo leggere, nei venti “gentili”, nel silenzio, e pensarlo fuso con “l’Astratto Assoluto” (cfr CXLII). Ormai può tacitare il risentimento e l’angoscia e fargli gli auguri per il suo viaggio: «che quanto hai scelto sia prospero / buono e felice (…)» (CXXXVI) Può persino dire, con gli amici: «Sembrava che dormisse (…) il sorriso / beato di chi alfine è giunto in porto, / a casa, tra i suoi cari» e: Se «è così, / aldo, come dev’essere gentile / la morte a chi non ebbe ultimo dono / da offrire, che, la propria vita, / e come / dev’essere abbagliato e senza limite / lume a chi a un tratto vi si desta attonito… » (CXXXVII) senza che in ciò sia perdono, né oblio, né vana consolazione. È piuttosto che il mondo in cui la poeta vive è, ormai, una dimensione meno reale dell’altra in cui il fratello è andato e che ne assorbe la realtà, rendendone labili le coordinate e confusi i contorni ed i piani. Perciò: tutto quel che è stato, di cui non restano che carte, sarà poi stato davvero? Ed esistiamo noi quando la nostra esistenza non importa a nessuno? E qual è la direzione vera del tempo, se l’istante non è misurabile né avvertibile? E qual è il senso di una vita: nel suo trascorrere o nelle tracce che lascia dietro di sé? Non è più la furia che sola resta (cfr XIV), ma l’amore: il significato ultimo della vita il cui scopo è, dunque, imparare ad amare. Ecco cosa trova la poeta alla fine, ecco di cosa si scopre capace: ella ama, d’amore: Aldo e in Aldo l’uomo «(…) che vive e non muore, / mai, che è prima e che è dopo, che è luce, che è alito / che è fame che è sete che è morte che è Dio; (…)» (CXXXVIII), l’Assoluto che esiste nelle parole di Aldo, che Aldo crea col nominarlo, che Aldo è essendo l’uomo – e anche il mondo, la terra riscattata dal suo esservi nato e morto, dal suo esserci stato (cfr CXXXIX). Trova il principio riarmonizzante delle dicotomie che riproducevano la sua scissione interiore e trova, con esso, una speranza: quella di poter attraversare i secoli per giungere alle generazioni future, da secoli in attesa di raccogliere il messaggio. Più che di speranza, si tratta di certezza e la profezia è già confermata mentre scrive, mentre lei stessa, ed altri come lei, sollevano il capo e si scorgono l’un l’altro, intenti ai messaggi provenienti da tempi remoti: tutti archeologi, tutti astronomi e tutti poeti, le cui mani si sfiorano attraverso i millenni, le cui voci si ricongiungono nel silenzio, nel cercare, ancora e sempre, l’umano, il senso della vita, la via del risveglio, l’armonia col tutto. Quando il mondo sarà stato devastato dagli uomini e nulla sarà sopravvissuto e non l’Uomo e non Dio (cioè l’essenza delle cose, la meraviglia che nell’uomo ha sede), allora i giovani si rivolgeranno ad Helle, che sarà lì con loro, invisibile, per immaginare – e forse, con ciò, cominciare a ricreare – ciò di cui saranno stati privati (cfr CXLIX). Proprio nello stesso modo in cui la luce ci giunge di stelle morte, così squarcia il tempo la voce di Helle Busacca. E questo non sarà meno vero un giorno di quanto lo sia oggi, adesso: mentre leggo le sue parole – e forse non sono sola.
Lo Chef Italiano
Cesare Cardini
[24 Febbraio 1896/ 3 Novembre 1956]
I
l 3 di novembre del 1956 moriva in quel di Los Angeles un illustre emigrato italiano tanto poco conosciuto nel nostro paese quanto famosa ed amata è, da sempre, la sua insalata oltreoceano. L’inventore della celebratissima Ceasar Salad, altri non era, infatti, che quel Cesare Cardini che, in cerca di fortuna, dal suo Lago Maggiore salpò, ventenne, per le Americhe stabilendosi tra le due Californie (quella statunitense e quella messicana, la Baja) che ancor’oggi continuano a contendersi la paternità della squisita ricetta. Cardini morì il 3 novembre 1956 nella sua abitazione di Los Angeles a seguito di un ictus, e fu sepolto nel cimitero di Inglewood Park.
La Cesar Salad La Caesar salad è una celebre insalata creata dallo chef italiano Cesare Cardini, emigrato negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale e vissuto a San Diego; nel 1924 Cesare apre e gestisce un ristorante a Tijuana, in Messico, dove crea questa insalata che diverrà molto famosa negli Stati Uniti e in seguito anche in Europa. Nella Caesar salad Cardini vuole unire sapori tipici italiani come il parmigiano, la lattuga romana e l’olio extravergine di oliva, e sapori americani come la salsa Worcestershire che viene usata per il condimento dell’insalata.
Ingredienti Lattuga romana 4 cespi medi Pane casareccio 2 fette Parmigiano reggiano a scaglie 100 gr Aglio 2 spicchi Worcestershire sauce 1 cucchiaino Uova 1 Sale q.b. Aceto di vino bianco 1 cucchiaio Limoni succo 2 cucchiai Pepe macinato a piacere Olio di oliva 150 m
Preparazione Per preparare la Caesar Salad iniziate scegliendo le foglie più tenere e interne della lattuga romana; lavatele e asciugatele senza spezzarle. Tagliate il pane a fette alte 1 cm, eliminate la crosta e tagliatelo a quadretti; mettete un cucchiaio di olio aromatizzato all’aglio (oppure frullate uno spicchio di aglio e unitelo all’olio) in una pentola antiaderente e fate tostare i quadretti di pane a fuoco moderato. Proseguite preparando la salsa: mettete nel bicchiere del robot il succo di limone, l’uovo freschissimo (la ricetta originale dice che l’uovo deve cuocere nell’acqua bollente per 1 minuto), l’aceto, l’aglio, la salsa worcestershire, il sale, il pepe macinato fresco e cominciate a frullare il composto, unendo poco alla volta l’olio, fino ad ottenere una salsa densa simile alla maionese. Servite la Caesar Salad mettendo le foglie di lattuga romana sul fondo, unendo i crostini di pane, le scaglie di parmigiano reggiano e infine condendo il tutto con la salsa ottenuta. (Ricetta: Giallo zafferano)
Giovanni Achille Gaggia Inventore del caffè espresso
G
iovanni Achille Gaggia (Milano, 1895 – Milano, 1961) è stato un inventore ed imprendittore. Nel 1938, mentre lavorava da barista, presentò un brevetto di un primo modello di macchina da caffè. Nel 1948, l’azienda da lui fondata – Gaggia S.p.A – realizzò la prima macchina da caffè con il funzionamento a leva.
Barbara Marras
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CUCINA
Clipeologia Italiani e vecchi ufo L
a clipeologia (o paleoufologia) è la branca dell’ufologia che si occupa di presunti contatti con oggetti volanti non identificati che sarebbero avvenuti nel passato, anche remoto, dell’umanità. L’ufologia (o anche, e più correttamente, ovniologia da OVNI = Oggetto Volante Non Identificato), infatti, ha origini ben più remote di quanto siamo abituati a pensare. La sua origine viene comunemente fatta risalire al 1947, l’anno del primo avvistamento riportato del pilota americano Kenneth Arnold nonché dell’arcifamoso Incidente di Roswell. Per esempio, già nel 1933, secondo molte fonti – e certamente non meno documentate di quelle di Roswell – un avvenimento straordinario ebbe luogo nei pressi di Milano: un disco volante si sarebbe schiantato al suolo ed i suoi resti sottoposti a scrupolosi studi affidati da Benito Mussolini ad un gabinetto d’indagine scientifica (Gabinetto RS/33) composta dai più validi ricercatori italiani dell’epoca capeggiati da Guglielmo Marconi e coordinati dell’OVRA (i servizi segreti dell’epoca).
La Clipeologia Il termine clipeologia fu coniato nel 1959 da Umberto Corazzi, che lo fece derivare dalla parola “clypeus”, nome dello scudo dei legionari dell’Antica Roma, in riferimento ai racconti di apparizioni di “clypei ardentes” (scudi di fuoco) riferiti da vari autori latini. In Italia le idee inerenti alla clipeologia vennero diffuse dalla rivista Clypeus, fondata a Torino nel 1964 dal giornalista Gianni Settimo mentre al di fuori dell’Italia il termine clipeologia non ebbe fortuna e si preferì quello di paleoufologia.
Progettato il primo
Pene Robotico
Può essere controllato col Pensiero
È
pronto il progetto del primo pene robotico. Al suo interno è integrato un meccanismo che simula l’erezione e che viene attivato in modo naturale. Potrebbe diventare una realtà fra qualche anno ed è l’obiettivo al quale stanno lavorando tre dottorandi della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Sergio Tarantino, Andrea Cafarelli e Alessandro Diodato hanno illustrato il loro ‘Robot Penis’ agli investitori, nella giornata conclusiva del corso High-tech business venturing, finanziato dalla Regione Toscana e coordinato dall’ateneo pisano. Secondo i suoi progettisti, il pene robotico “potrebbe rivelarsi dominante nel campo chirurgico già dal prossimo futuro”. “Gli strumenti forniti dalla biorobotica – spiegano i tre studiosi – possono consentire di dotare la protesi di un sistema di movimento e di un si-
stema di sensorizzazione accurati. L’obiettivo è rendere il funzionamento della protesi il più vicino possibile rispetto a quello dell’organo naturale. La possibilità di controllare la protesi tramite il pensiero e gli stimoli nervosi, garantendo alla persona che la ‘indossa’ il piacere sessuale, grazie al sistema di sensorizzazione, rendono questo sistema particolarmente innovativo rispetto alle soluzioni attuali”. Nella ricostruzione chirurgica del pene invece il paziente recupera la percezione del piacere solo in maniera limitata e l’erezione avviene tramite controllo manuale e non come nel caso del ‘Robot Penis’, quando si manifesta il desiderio sessuale. Lo sfruttamento innovativo di principi di attuazione, materiali smart e di materiali elastici biocompatibili, permetterà lo sviluppo della protesi. Fonte: ANSA
Riferimenti in Letteratura Secondo i sostenitori delle teorie clipeologiche, nella letteratura antica vi sarebbero numerose segnalazioni di oggetti volanti che si muovevano nel cielo. Spesso tali fenomeni sono stati attribuiti a divinità o entità soprannaturali, ma in altri casi, come nelle cronache o in altri testi storici, gli autori avrebbero cercato di descrivere ciò che vedevano senza confonderlo con immagini mitiche o religiose. Diodoro Siculo ha raccontato che nell’Antica Grecia il condottiero Timoleone avvistò una torcia volante durante un viaggio in mare tra la Grecia e la Sicilia. Nell’Antica Roma, autori come Plinio il Vecchio, Tito Livio e Giulio Ossequente hanno raccontato l’apparizio-
ne nel cielo di torce, fiaccole e scudi ardenti e riferito anche l’apparizione di due soli o due lune, mentre Seneca nelle Naturales quaestiones ha riferito dell’apparizione di travi luminose; Cicerone, nel De divinatione, ha riferito anche di un’apparizione del sole di notte. Anche nelle cronache del Medioevo si trovano riferimenti a scudi ardenti, come quelli comparsi in cielo a Sigiburg nel 776 e descritti negli Annales Laurissenses, all’epoca di Carlo Magno, ma anche a croci luminose, come quella comparsa a Firenze nel 1301 e descritta dallo storico Dino Compagni nella Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi. Nel Rinascimento vi sono riferimenti
a travi volanti infuocate, come quella segnalata da Leone Cobelli nel 1487 a Forlì e quella segnalata da Benvenuto Cellini vicino Firenze intorno al 1550. Le cronache del Cinquecento hanno tramandato due famosi eventi, il Fenomeno celeste di Norimberga del 1561 e il Fenomeno celeste di Basilea del 1566. Nel 1680 il cronista Erasmus Francisci nel libro Der Wunder ha riferito di avvistamenti di navi volanti avvenuti nei paesi del Nord Europa sul Mar Baltico nella seconda metà dei Seicento e in un caso avvenuto nel 1665 sarebbe apparso tra le navi un oggetto circolare avente la forma di “un cappello da prete”.
Riferimenti nella pittura Italiana Secondo alcuni ufologi, una delle possibili testimonianze del possibile passaggio di UFO in passato sull’Italia verrebbe dalla dall’arte del XIV-XVI secolo. Infatti, secondo i sostenitori di tali teorie, alcuni dipinti sembrerebbero raffigurare corpi volanti le cui caratteristiche ricorderebbero da vicino quelle descritti dai testimoni di presunti avvistamenti o dai cosiddetti contattisti. Gli storici dell’arte forniscono per tali presunti UFO interpretazioni tradizionali.
Tra i principali vanno ricordate: • • • • • •
la Tebaide di Paolo Uccello, per la presenza di un oggetto volante “a cappello da prete”; la Madonna con Bambino e San Giovannino esposta nella “Sala di Ercole” di Palazzo Vecchio a Firenze, in cui pare apparire un oggetto somigliante ad una nave volante; l’Annunciazione di Carlo Crivelli, in cui Maria viene illuminata da un raggio ‘sparato’ da una nuvoletta che ricorda in tutto e per tutto un disco volante; la Glorificazione dell’Eucarestia di Ventura Salimbeni, dove sembra essere rappresentato un globo simile ad un moderno satellite; la Natività di Pinturicchio a Spello dove appare un globo luminoso dall’aspetto metallico; la Madonna di Foligno di Raffaello dove compare un grosso corpo luminoso che cade sul tetto di un edificio.
Il ‘Superaereo’ Roma-New York in 2ore Si chiama Hyplane
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n Italia si lavora a un ‘supervelivolo’ in grado di percorrere Roma –New York in due ore, volando fino a 70 chilometri di quota: si chiama Hyplane ed è un aereo di 26 metri in grado di trasportare 6 persone più due piloti. Il progetto è coordinato dall’università Federico II di Napoli e trovare investitori disposti a realizzarlo è uno dei primi obiettivi del Centro per lo spazio vicino (Center for Near Space, Cns). Con sede a Napoli, il Cns è il primo dei centri di competenza dell’associazione no profit Italian Institute for the Future e punta ad avvicinare lo spazio alle persone e a potenziare le attività di ricerca, formazione e divulgazione nell’ambiente dei voli suborbitali, cioè spaziali ma con traiettoria inferiore a quella necessaria per entrare nell’orbita terrestre. Fra le prime attività programmate si punta a cercare investitori e risorse umane per il progetto Hyplane che ”prevede un velivolo che può essere
utilizzato anche come spazioplano ipersonico per collegare più velocemente punti distanti della Terra, sfruttando il volo parabolico” spiega Gennaro Russo, ingegnere aerospaziale e direttore del Cns. Il progetto, prosegue, prevede un aereo che parte e atterra da normali aeroporti, come un volo di linea e non necessita dunque di infrastrutture dedicate. ”L’aereo – aggiunge Russo – è in grado di volare alla quota di 30 chilometri e di arrivare alla quota di 70 chilometri con 3 ‘salti’ parabolici che fanno provare l’esperienza della microgravità”. Il confronto, spiega, è quello con SpaceShipTwo di Virgin Galactic che al momento è il precursore del turismo spaziale e che si compone i un aereo madre che arriva a 15 chilometri dove sgancia un secondo stadio che arriva a 100 chilometri. Ma a differenza SpaceShipTwo, Hyplane prevede un solo aereo. Fonte: ANSA
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