Solitudine e socialità al lavoro

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Abstract Riflessioni sulla socialità e la solitudine nel lavoro con la testimonianza di chi sta dentro e di chi sta fuori all’organizzazione. Sullo sfondo le prime esperienze di coworking.

Solitudine e socialità al lavoro Confronto e condivisione senza capi né “mamme” di Luciana Zanon Pubblicato su 7th floor n.6/2007

E se l’Organizzazione fosse stata inconsapevolmente ideata dagli uomini per rispondere al bisogno fondamentale d’intimità, stare vicini, difendersi e riscaldarsi a vicenda anche durante la più razionale delle attività, quella lavorativa? Certamente non è così, forse…, ma è pur vero che nelle organizzazioni si creano legami, amicizie, competizioni, collaborazioni, conflitti, alleanze, odi, amori, vendette. Nelle organizzazioni ci si identifica, ci si sente oppressi, ci si sente sicuri oppure schiacciati.

Giulia, Direzione HR di una grande azienda italiana dell’energia: “Il mio lavoro in azienda risponde in pieno a un bisogno sociale: è proprio il confronto con gli altri che arricchisce la mia professione e la mia vita. Nei primi anni per me era importante avere amici e colleghi cui appoggiarsi per superare insieme le difficoltà. Col tempo il rapporto è diventato più adulto e maturo ma non per questo privo di soddisfazione”. Anche per Valeria, 15 anni in aziende americane di consulenza Business Transformation, il lavoro di gruppo e il continuo confronto risponde ad un’esigenza profonda di condivisione. “Alcuni dei miei migliori amici li ho conosciuti proprio al lavoro. Con loro ho vissuto esperienze molto intense: lavorare insieme su un progetto per mesi, stessi obiettivi e scadenze, stessi problemi con clienti e con capi, ore ed ore di convivenza, cene coatte quando sei in trasferta.” Di nuovo Giulia: “I rapporti personali in azienda non sono mai banali e a volte possono essere molto intensi e intimi. E poi ci sono i riti: compleanni, caffè offerti alla macchinetta, il pranzo insieme in mensa...”. Naturalmente (Valeria): “Non sempre le relazioni sono facili. Ognuno ha il proprio modo di concepire il lavoro, di vivere la vita in azienda”. Spesso però le esperienze segnano molto come Ruggero, per 15 anni amministratore delegato in una piccola azienda: “Per esperienza credo sia un errore parlare di amicizia in azienda, salvo definire amicizia dei rapporti di comodo limitati nel tempo. Ho rifondato, fatto crescere e prosperare un'azienda e dopo 15 anni al cambio di proprietà sono stato scaricato da tutti. Questo non mi ha tolto il gusto di collaborare con gli altri, ma non parlerei più di amicizia.” Sulla stessa posizione Paolo, coach free lance: “ Il "volemose bene" tiene fino a quando le

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acque sono calme, appena il mare si fa mosso, allora ognuno è per sé.” Insomma per riprendere le parole di Marina, consulente strategica e creativa: “L'azienda è una mamma, affettuosa e normativa. La sua caratteristica più allettante è che ti fa credere che ti darà sempre da mangiare. La peggiore è che non smetterà mai di chiederti: a che ora torni?”. E allora per spirito di libertà, o più prosaicamente per necessità, si fa il salto nella libera professione, finalmente svincolati da legami vischiosi con capi, colleghi e collaboratori; e allora si soffre di solitudine, nessuno con cui confrontarsi, con cui fumare la sigaretta nella pausa davanti alla macchinetta del caffè, nessuno con cui litigare. Così per Robin Good, blogger, ribelle per natura e insofferente ai formalismi aziendali. Si sorprende quando gli chiedo della sua solitudine: “Quando lavori da solo, specialmente se investi tutto nel mondo virtuale, non hai riferimenti, pensi che il problema della solitudine possa essere esclusivamente tuo. La solitudine in azienda è sconosciuta dal punto di vista del contatto umano, sempre in mezzo alla gente, tutti insieme sulle scale di sicurezza a fumare e chiacchierare. Ma poi soffri di solitudine intellettuale, non c’è un confronto vero. Non per le persone in sé ma per il sistema che imbriglia i rapporti.”. La stessa sofferenza che racconta Carmen. “Lavoro in una multinazionale della comunicazione che dopo un’indagine di clima aziendale scoprì molta infelicità fra i dipendenti per, ironia della sorte, cattiva comunicazione. Era un 14 febbraio, pensai che parlare insieme di arte potesse creare intimità fra le persone. Così proposi la Poetry Room, un incontro di un paio d’ore alla settimana durante la pausa pranzo. Ognuno portava qualcosa, una poesia, un racconto, un quadro e ne parlavamo assieme. L’unica regola era non fare commenti negativi.

Quello che succedeva era che ci riconoscevamo per le scale e ci salutavamo. Anche il lavoro fra noi funzionava molto meglio. Può sembrare poco, ma invece era molto bello perché si parlava di più”. Ma una volta cambiata la direzione, la regola diventò quella di non perdere tempo in chiacchiere e così pian piano la Poetry Room scomparve. La solitudine può essere anche vissuta come condizione creativa, come possibilità per impegnarsi più a fondo. Racconta Duilio, consulente di direzione strategica: “Dopo aver abbandonato l’università, dove ero ricercatore, ho sempre lavorato da solo. Un grosso aiuto per la mia condizione di solitudine lo trovo nel rapporto analitico. Col tempo ho imparato ad usare la solitudine per la riflessione, lo studio e l’approfondimento. Ogni tanto succede che qualche organizzazione mi proponga di collaborare stabilmente, ma la mia prima reazione è l’angoscia. Quello che meno tollero nel mondo del business è la poca attenzione per l’etica, la scarsa capacità di scambio di saperi, l’incapacità di dare lo spazio a dei rapporti umani di qualità.”. Di nuovo Robin: “La mia scelta di solitudine è stata fatta di buon grado, forse è proprio la solitudine che mi ha permesso di concentrarmi e di impegnarmi a fondo per rendermi indipendente.”. Certo la solitudine può essere creativa, ma in alcuni momenti capita di desiderare intorno a sé qualcuno. Come fare allora per ritessere dei contatti umani, quali le forme di coworking per scambiarsi intimità? Anche dentro alle aziende si scoprono isole di coworking, come in una multinazionale farmaceutica che ha creato un appuntamento settimanale di scambio per gli informatori medico scientifici attraverso una call-conference. Maurizio: “Nel nostro lavoro ti trovi molto spesso da solo, viaggi per

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chilometri da solo, mangi da solo e quando devi prendere una decisione nessuno con cui confrontarti”. Rosa: “No, non mi piacerebbe lavorare in ufficio, l’indipendenza del mio lavoro mi piace, ma spesso la solitudine pesa.”. Mario: “Da quando c’è la call-conference tutti i venerdì, ci sentiamo di più fra colleghi. Spesso si iniziano dei discorsi che poi non si riescono a concludere. Così diventa un’occasione per richiamarsi durante la settimana, per finire i discorsi, per approfondirli.”. Marina: “Nella mia decisione di lasciare il mondo aziendale, più che il conflitto, poté la noia: a un certo punto un direttore creativo, con l’inventiva e la personalità di un questurino, ha accelerato la mia tendenza centrifuga. Ora per me la solitudine è quella del non poter condividere la responsabilità, decidi, scegli, fai e non ci sarà nessuno con cui prendertela se sbagli. Ma dal punto di vista pratico no, pratico il coworking prima che ci fosse una parola a definirlo: da anni divido lo studio in cui lavoro con un gruppo di amici, un illustratore e tre fotografi con cui capita di condividere gioie e dolori, dubbi e idee e anche, a volte, progetti professionali.” Robin: “Mi sono costruito come una piccola famiglia con gli amici che lavorano con me; il rapporto è di fiducia totale, siamo in contatto tutto il giorno su Skype, anche se viviamo in parti diverse del mondo. E alla sera vado a fare un giro su BarCamp, la trovo gente disponibile al dialogo….” Paolo: “Il fatto di non avere una struttura in cui riconoscermi mi manca un po', ma nello stesso tempo ho sempre fatto fatica a riconoscermi in istituzioni. A volte soffro di solitudine, ma spesso è una compagna gradita e cercata. Se ho bisogno di parlare con qualcuno, ho il bar sotto casa, dove conosco i ragazzi che ci lavorano, e allora vado a prendere un caffè e scambiare due chiacchiere. Lavoro

in casa da solo, anche mia moglie lavora in casa, in un'altra stanza. Quindi direi che abbiamo trovato un bel modo di cowork.” www.lucianazanon.it

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