Il nuovo pensiero plurale

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I sofisti e Socrate

I sofisti e Socrate

PER L’APPROFONDIMENTO NODI DI DISCUSSIONE

DIALOGO TRA FILOSOFI

L’intellettualismo etico di Socrate: oltre il paradosso Socrate e Gorgia sulla retorica

Socrate – Esiste qualche cosa che chiami corpo e qualche cosa che chiami anima? Gorgia – E come no? Socrate – E per ciascuno di questi credi tu che ci sia un buon stato di salute? Gorgia – Io sì. Socrate – E ammetti anche che ci sia uno stato di salute apparente e non effettivo? Ti faccio un esempio: molti, in apparenza, sembrano essere sani di corpo e non è facile che qualcuno si accorga che, in effetti, non sono sani, tranne il medico e l’esperto di ginnastica. Gorgia – È vero quello che dici. Socrate – Qualcosa di questo genere dico che si verifica e nel corpo e nell’anima: c’è qualcosa che fa sembrare che il corpo e l’anima siano sani, mentre in realtà non lo sono affatto. Gorgia – È così. Socrate – Se mi riesce, cercherò di spiegarti in modo più chiaro ciò che dico. Dal momento che corpo e anima sono due cose distinte, dico che due sono anche le arti: quella che riguarda l’anima la chiamo politica, quella che riguarda il corpo non te la so indicare così con un nome solo, ma, pur essendo una sola la cura del corpo, dico che ci sono due parti di essa: l’una è la ginnastica, l’altra la medicina. Nella politica, poi, il corrispettivo della ginnastica è l’arte della legislazione, il corrispettivo della medicina è la giustizia. Le arti che formano le due coppie hanno fra di loro uno stretto rapporto, in quanto riguardano il medesimo oggetto: la medicina ha uno stretto rapporto con la ginnastica, l’arte della legislazione con la giustizia; tuttavia, esse hanno anche delle differenze le une rispetto alle altre. Queste arti sono dunque quattro e con le loro cure tendono a procurare sempre il bene maggiore, le une per il corpo, le altre per l’anima. Ora, la lusinga, essendosi accorta di questo, non certo con conoscenza, ma con cieca intuizione, si è di-

visa in quattro, insinuandosi sotto ciascuna di quelle parti, e simula di essere quell’arte sotto cui si è insinuata; e mentre non si dà per nulla pensiero del meglio, attira gli stolti con ciò è più piacevole e li inganna, sì da sembrare cosa di grandissimo valore. Ebbene, sotto la medicina si è insinuata la culinaria, la quale simula di conoscere i cibi migliori per il corpo, al punto che se un cuoco e un medico dovessero sostenere una gara in mezzo ai fanciulli, o in mezzo a uomini senza senno come i fanciulli, al fine di stabilire chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, ossia se il medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame. Perciò io chiamo questa attività lusinga e dico che è una brutta cosa, o Polo1, e questo lo dico in risposta alla tua domanda. Infatti mira al piacere e non al bene. E dico anche che essa non è un’arte ma una pratica, perché non possiede alcuna conoscenza della natura del soggetto cui si rivolge con i suoi consigli, né della natura delle cose che consiglia: perciò non conosce la ragione di ciascuna cosa. E io non chiamo arte una attività irrazionale. E se su queste due affermazioni hai dei dubbi, sono disposto a dartene spiegazione. E sotto la medicina si insinua la lusinga della culinaria; sotto la ginnastica, allo stesso modo, quella dell’agghindarsi, malefica, ingannatrice, ignobile e servile, la quale inganna con esteriori apparenze, colori, lisciature e vesti, al punto da far sì che, tratti a seguire una bellezza falsa, si trascuri la bellezza autentica, quella che si ottiene mediante la ginnastica. Per non andare troppo in lungo, voglio esprimermi come si esprimono i matematici, e, così, forse mi potrai seguire. Ti dirò, dunque, che l’agghindarsi sta alla ginnastica come la culinaria sta alla medicina e, ancora, che la sofistica sta alla legislazione come l’agghindarsi sta alla ginnastica, e che la retorica sta alla giustizia come la culinaria sta alla medicina.

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olo il sapiente è virtuoso. Chi fa il male, di conseguenza, lo fa perché è ignorante: nessuno fa il male volontariamente sapendo che è male. È questo uno dei celebri paradossi di Socrate su cui si è fondata l’interpretazione «intellettualistica» dell’etica socratica. Socrate è tanto ingenuo da credere che basti conoscere il bene per farlo? Conoscere il bene significa conoscere la virtù. Ora, che cos’è la virtù? Che cosa significa agire bene? Secondo Socrate non significa comportarsi in sintonia con la tradizione, con i costumi, con le abitudini, ma scegliere dopo aver riflettuto, dopo aver interrogato la propria ragione. Ecco perché Socrate sostiene che la virtù è «conoscenza». Non si tratta di una conoscenza tecnica e neppure di quella tecnica speciale di cui sono maestri i sofisti, ma di un sapere decisamente superiore: sapere ciò che è bene e vantaggioso per l’uomo, sapere ciò che vale e ciò che non vale. E ciò che vale, secondo il filosofo ateniese, sono i «valori» dell’anima. Solo, quindi, chi ha questo tipo di conoscenza, chi conosce cioè i valori dell’uomo, agisce bene. Chi, di conseguenza, si comporta male, lo fa perché scambia il male per il bene. Nessuno, quindi, può peccare volontariamente?

Nell’Ippia minore di Platone Socrate (naturalmente è Platone che mette in bocca a Socrate tale affermazione) arriva a sostenere che, paradossalmente, è preferibile chi fa il male consapevolmente a chi fa il bene solo per abitudine, senza averlo scelto. Si può, quindi, fare il male sapendo di farlo? Siamo in presenza di una contraddizione? Il punto di vista di Socrate è lo stesso: è preferibile chi «sa» a chi «non sa», chi ha ricercato seguendo la guida della ragione prima di agire a chi non l’ha fatto. Il primato della ragione, della riflessione critica, dell’esame: questo è il cuore dell’etica socratica. La via da seguire non è quella dei modelli precostituiti (vuoi della tradizione, vuoi delle mode del momento): ciò che occorre fare è, invece, sottoporre sempre ogni comportamento al vaglio della ragione. È in questo orizzonte culturale, quindi, che il paradosso secondo cui la virtù è sapere (e che, di conseguenza, il vizio è ignoranza) appare più comprensibile. E ancora meno paradossale appare se si tiene presente che per Socrate, proprio perché è impensabile che un uomo desideri l’infelicità, è impensabile che voglia il male intenzionalmente sapendo che questo non può che procurargli conseguenze negative.

PER L’APPROFONDIMENTO

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latone individua la differenza sostanziale tra i sofisti e Socrate: i primi restano fermi ai fenomeni, alle apparenze, mentre il secondo cerca di raggiungere la conoscenza scientifica, quella che è dietro ai fenomeni o, nella prospettiva di Platone, la conoscenza delle essenze. La proporzione matematica che stabilisce in chiusura illustra bene questa differenza: ginnastica e medicina sono le scienze del corpo, perché mirano a renderlo forte e sano, mentre la cosmesi e la culinaria hanno come oggetto l’apparenza. Allo stesso modo, la sofistica e la retorica colgono l’opinione, nell’ambito della politica e della giustizia, mentre la filosofia cerca l’essenza, cioè, per Socrate, il concetto di virtù in generale e della giustizia in particolare.

Il demone socratico: siamo in presenza della religiosità di Socrate?

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ocrate è stato accusato, tra l’altro, di aver introdotto nuove «divinità». Un’accusa fondata? Il termine greco è daimónia. Gli accusatori, indubbiamente, si riferivano a ciò che Socrate aveva affermato ripetutamente, di avvertire cioè qualcosa di soprannaturale da lui chiamato daimónion. Siamo, allora, in presenza di un demone-intermediario di un dio? Il termine platonico è neutro: non si tratta di una realtà avente una natura personale, ma siamo, tuttavia, in presenza di una voce che ha del soprannaturale. Che cosa avevano gli dèi da rivelare all’uomo buono? Giovanni Reale cita Senofonte (Memorabili): ciò che nelle attività umane è più importante «gli dèi se lo sono riservato per loro e, quindi, non è affatto manifesto

agli uomini». Il daimónion, di conseguenza, rivela all’uomo virtuoso ciò che è patrimonio esclusivo degli dèi: una sorta di oracolo interiore. Jan Patoĉka vede nel daimónion sia qualcosa di «razionale» (la coscienza morale) sia qualcosa di «irrazionale» (il salto nell’ignoto). Prende, perciò, le distanze da chi, sottolineando il fatto che il demone socratico parla spesso di cose apparentemente banali, esclude che abbia a che fare con la sfera morale. Nello stesso tempo, però, non nega il carattere anche contingente del demone (il suo essere legato alla vita concreta del filosofo di Atene), come non nega il suo carattere divino: è esso che, quando Socrate si trova di fronte alla morte, lo accompagna sulla via dell’ignoto.

(Platone, Gorgia, 464a-465c, in Tutti gli scritti, Milano, Bompiani pp. 877-78)

1. Polo: giovane discepolo di Gorgia, nel dialogo interlocutore di Socrate.

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