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I sofisti e Socrate
Salamina, ma egli si rifiuta di ubbidire. Il governo dei Trenta tiranni dura poco, appena otto mesi: è tanto insopportabile che la stessa Sparta appoggia una controrivoluzione democratica che risulta vincente. La democrazia è restaurata, ma i democratici vincitori ora vivono di sospetti: hanno paura di chi osa disapprovarli, vedono cioè, nei loro critici, pericolosi nemici della pólis. Da qui la diffidenza nei confronti di Socrate il quale, avendo a lungo dialogato con i rampolli più brillanti dell’aristocrazia (tra cui lo stesso Crizia), viene accusato di essere non soltanto il maestro degli antidemocratici, ma anche di Alcibiade, il massimo responsabile della spericolata e disastrosa spedizione ateniese in Sicilia (vedi la scheda La Magna Grecia e la Sicilia: da Pitagora ad Alcibiade, p. 163).
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La condanna
La morte di Socrate T12
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È nel clima di tali sospetti della restaurata democrazia che matura il processo a Socrate (399 a. C.), accusato di corrompere i giovani e di voler introdurre nuove divinità, cioè di essere immorale ed empio. Il processo è narrato da Platone, suo discepolo all’epoca dei fatti, nell’Apologia di Socrate. Anito, un esponente politico del partito democratico, l’ideatore e il promotore del processo, non si propone di farne un martire con la condanna a morte, ma di screditarlo, di togliergli l’aureola di uomo onestissimo: egli, infatti, non ha dubbi che Socrate, pur di salvarsi, scenderà a compromessi con la sua coscienza. Ma l’imputato si comporta in modo del tutto inatteso. Si difende, ma non si preoccupa minimamente di salvarsi. Smonta invece tutte le calunnie, da quella più antica di essere un pericoloso sofista, lanciatagli dal commediografo conservatore Aristofane nella sua commedia Le nuvole, a quelle più recenti. Socrate chiude la difesa chiedendo non pietà, ma giustizia. Si passa alla votazione: 280 sono i voti contrari all’imputato e 220 i favorevoli. A questo punto il condannato ha la facoltà di proporre una pena alternativa alla pena di morte, ad esempio l’esilio, ma Socrate si rifiuta di farlo perché sa di non aver mai commesso alcuna ingiustizia ed è consapevole che anche in esilio continuerebbe a compiere la sua missione e quindi sarebbe destinato a essere via via cacciato dalle città dove si recherebbe. Provoca anzi i giudici chiedendo di essere mantenuto a spese dello Stato perché nessuno, meglio di lui, ha offerto servizi ai suoi concittadini cercando di renderli davvero felici. Alla seconda votazione i voti a lui contrari aumentano: 360 contro 140. Socrate è condannato a morte, ma dimostra di non avere alcuna paura, perché è convinto che a un uomo che si è sempre comportato bene non può capitare nulla di male, né in vita né in morte. La condanna a morte non viene eseguita subito. Mentre Socrate è in carcere Critone, amico nonché discepolo, lo va a trovare con l’intento di proporgli la fuga, ma il filosofo rifiuta categoricamente la proposta: le leggi non vanno mai violate perché è solo grazie ad esse che l’uomo esce dall’animalità e diventa davvero uomo. Mai, dice con forza, si deve commettere ingiustizia, neanche quando si subisce ingiustizia: è un dovere dettato esclusivamente dalla ragione, rispetto alla quale il vivere e il morire sono del tutto secondari. È giunta l’ultima ora (quale è raccontata dal Fedone di Platone). Socrate è in cella circondato dagli amici. Arriva il carceriere con il veleno (la famosa cicuta – vedi la scheda a p. 183). Questi lo porta pestato in una tazza e, rivolto a Socrate, lo informa che deve passeggiare, dopo averlo bevuto, finché non sentirà il peso alle gambe: solo allora dovrà coricarsi e aspettare l’effetto. Socrate, sereno, «senza alterare il colore né l’espressione del viso», prende la tazza, prega gli dèi perché «la migrazione da questo mondo all’altro si compia con propizia fortuna», trattiene il respiro e beve «fino all’ultima goccia, senza alcun segno di disgusto e con facilità», poi cammina per la stanza. Quando sente le gambe pesanti, si sdraia, mentre il suo corpo progressivamente si raffredda. Le sue ultime parole sono: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio [dio della medicina]: dateglielo, non dimenticatevene!».
Socrate è, senza dubbio, un personaggio affascinante e, nello stesso tempo, inquietante. Così parla di lui Alcibiade, nel Simposio di Platone: «A viva forza [...], come dalle Sirene, io me ne allontano, turandomi le orecchie e dandomi alla fuga [...]. Solo di fronte a lui, in verità, io mi vergogno. Infatti, io sono ben consapevole di non essere in grado di contraddirlo, mostrandogli che non bisogna fare le cose che egli mi esorta a fare. Ma, poi, non appena io mi allontano da lui, mi lascio avvincere dagli onori che la moltitudine tributa. Perciò mi sottraggo a lui e lo rifuggo. E quando lo rivedo, mi vergogno per quelle cose che mi aveva fatto ammettere. E più volte mi viene voglia di non vederlo più fra i vivi. Ma se questo, poi, si verificasse, so bene che proverei un dolore molto maggiore: e, allora, io non so proprio come regolarmi con quest’uomo» (Platone, Simposio, 216a-216c).
Socrate, la torpedine marina
L’eredità di Socrate Un’icona
Socrate, grazie alla idealizzazione che ne ha fatto il discepolo Platone, è diventato nella storia del pensiero occidentale un’icona, un simbolo, e lo è tuttora: l’emblema dell’autentico filosofo (non il sapiente, ma il ricercatore della verità), l’eroe che giganteggia per il suo rigore morale e la sua coerenza, il libero pensatore che osa sfidare il potere politico e ne rimane brutalmente schiacciato.
Istanze universali
Non vi è dubbio che Socrate sia stato portatore di istanze che trascendono il suo tempo: la consapevolezza dei limiti del sapere umano; la morale come una conquista personale; il primato della coscienza; l’esaltazione della bellezza interiore; il principio secondo cui non si deve mai commettere ingiustizia anche quando la si subisce; l’educazione intesa come auto-educazione.
Un uomo radicato nella sua Atene
È altrettanto indubbio però che Socrate sia stato un uomo del suo tempo, ben radicato nella sua Atene: un libero pensatore ma anche profondamente religioso, un intellettuale contro-corrente ma anche immerso nella cultura a lui contemporanea (non a caso conser-
LA STORIA E LA CULTURA DEL TEMPO
La cicuta
Siamo in presenza – proprio grazie alla morte di Socrate – di uno dei veleni più celebri della storia. Il suo potere è quello di provocare la cosiddetta «morte fredda», mediante cioè un raffreddamento progressivo del corpo a partire dai piedi. Una morte «dolce»? Secondo la testimonianza di Platone, sì, ma non è escluso che l’illustre discepolo abbia voluto idealizzare la morte del maestro: vi sono, infatti, altre fonti che ne danno descrizioni più realistiche. Dolce o meno, un fatto è certo: si tratta di una morte di gran lunga preferibile alle morti violente a cui si è condannati, nel periodo in questione, per altri reati. Un atto di «umanità»? Alcuni storici sono convinti di sì: si sarebbe cioè di fronte alla prova più alta di umanità da parte di un popolo che non ha saputo cancellare la pena capitale. Se-
condo altri, invece, non c’entra la generosità degli Ateniesi, ma il calcolo politico: non è un caso che un largo uso della cicuta venga effettuato dai Trenta tiranni con l’obiettivo di sbarazzarsi, in silenzio, senza il clamore dei processi, degli avversari politici. Il costo della cicuta, poi, considerata la rarità della pianta ad Atene, è tale che non può essere concessa a tutti i condannati a morte: è equivalente, grosso modo, all’alimentazione di un uomo adulto per alcuni mesi. È per questa ragione che, quando viene introdotta, non sostituisce automaticamente la morte per precipitazione, ma diventa un privilegio di chi può permettersi di sobbarcarsene la spesa. Se ti interessa saperne di più, leggi, di Eva Cantarella, I supplizi capitali, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 82-92.
PROFILO
I capi di imputazione e la difesa di Socrate
8. Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
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