PERCORSI ANTOLOGICI
FIGURE TEMI MOTIVI
Il moralismo nella storiografia latina (Sallustio, Livio, Tacito) Per «moralismo» nella storiografia romana si intende la tendenza a interpretare la storia secondo le categorie di vizio e virtù. Radicate nella forma mentis dell’uomo romano, queste due categorie influenzano la riflessione storica formalizzandosi in una serie di topoi ed espressioni ricorrenti, una sorta di «linguaggio» comune che si tramanda da un autore all’altro. Il primo e più diffuso di questi topoi è senza dubbio il declino inarrestabile della storia, che vista da momenti diversi mostra comunque il suo andamento discendente: la società è sempre più corrotta. Il secondo (e conseguenza del primo) è che non si dà alcuna possibilità di cambiamento se non nel deterioramento stesso della società. È quel comune senso di pessimismo che, pur nelle diversità delle loro esperienze, accomuna i tre grandi storici della letteratura latina: Sallustio, Livio e Tacito.
SALLUSTIO
Sallustio è il primo «moralista» della storiografia latina. La sua opera si contraddistingue sin dall’inizio per un certo «catonismo dello stile» (A. La Penna), ovvero, come abbiamo avuto modo di notare, per la tendenza a radicalizzare il linguaggio in senso retorico, esasperando i chiaroscuri e semplificando il racconto storico a fini drammatici. L’etica di Sallustio, se paragonata per esempio a quella di Cicerone, è più stereotipica, formalizzata. La caratterizzazione dei personaggi ne fissa la psicologia in forme tendenzialmente rigide, così un pur ricco e contraddittorio personaggio come Catilina sembra infine vittima delle sue contraddizioni e dei suoi vizi. Il moralismo di Sallustio affonda le sue radici nell’ideologia rurale-militare del ceto provinciale da cui proviene, avverso tanto alla corrotta élite senatoria quanto alla plebe urbana. Al momento di indagare la cause che hanno portato al declino di Roma, Sallustio riconduce tutto alla perdita di quella dimensione che ha fatto grande la storia di Roma. La distruzione di Cartagine ha eliminato il metus hostilis; le campagne asiatiche di Silla hanno prodotto amore per il lusso sfrenato, invidia e avidità: tutto è sintomo di una perdita, di una scissione tra le antiche leggi e i bisogni della vita associata. Questa deformazione patologica ha il suo fulcro, nella visione dello storico, nella violenza che serpeggia in seno alla società. Testimone diretto di mezzo secolo di guerre civili, egli vede nella violenza e nella discordia un pericolo letale per le istituzioni. Il suo moralismo è una reazione di difesa, una sorta di istinto di protezione: per lui, «come effetto più drammatico, attuato via via, e presente sempre alla mente quale incubo di una consumazione finale, [la violenza] si determina in aggressione allo Stato» (Sandra Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano, Pisa, Giardini, 1991, p. 96).
LIVIO
Il caso di Livio, letterato e non uomo politico, anch’egli di estrazione provinciale, è interessante per intendere la direzione in cui si sviluppa il moralismo sallustiano. Sin dalla Praefatio, Livio indica nella corruzione dei costumi la causa della decadenza di Roma («le ricchezze hanno trascinato con sé l’avidità, e i soverchi piaceri hanno condotto alla bramosia di rovinarsi e di rovinare ogni cosa tra il lusso e le libidini», 12; trad. L. Perelli). Livio mostra di aver fatto proprio l’insegnamento di Sallustio: nella sua lettura della realtà, il fatto morale fornisce la chiave interpretativa per intendere la storia romana, dalle origini (Ab Urbe condita), all’inarrestabile ascesa della città, sino al suo attuale declino. È a questa visione d’insieme che si possono ascrivere gli exempla morali liviani, cioè gli esempi di virtù di quei personaggi che con le loro gesta e con il loro sacrificio hanno incarnato i principi del mos maiorum. Per Livio – ed è questa la prima differenza notevole rispetto a Sallustio – la storia ha un valore pedagogico: «questo soprattutto è utile e salutare nello studio della storia, l’avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradizione; di qui potrai prendere ciò che devi imitare per il bene tuo e del tuo Stato, di qui ciò che devi evitare, perché turpe nei moventi e negli effetti» (Praefatio 10; trad. L. Perelli). Nell’apertura del moralismo liviano, tuttavia, noi vediamo pure il banalizzarsi delle motivazioni autentiche che informavano l’opera di Sallustio. Estraneo tanto alla politica dello
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