Loci Scriptorum - Profilo storico della letteratura latina

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4. Dall’età giulio-claudia all’età flavia praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat inpensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. 5. Quid ergo est? Non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam, ut visum est maioribus nostris, «Sera parsimonia in fundo est»; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale. Lo confesserò candidamente: proprio quello che succede a un uomo amante del lusso, ma scrupoloso: tengo alla perfezione il registro delle spese. Non ho il diritto di affermare che non sperpero nemmeno un poco di tempo, ma dirò quanto ne perdo e perché e in che modo; così renderò ragione della mia povertà. Del resto, mi capita ciò che succede alla maggior parte delle persone in miseria per colpa loro: tutti sono comprensivi, nessuno, però, viene ad aiutarle. 5. E allora? Non considero un poveraccio chi si accontenta di quel poco – non importa quanto – che gli è rimasto. Preferisco tuttavia che tu tenga in serbo le tue risorse e comincerai a farlo nel momento opportuno. Infatti, come giustamente vedevano i nostri vecchi, è troppo tardi risparmiare quando si è giunti in fondo al vaso, perché ciò che rimane è davvero poca cosa e, per giunta, la peggiore. Stammi bene. (Epistulae 1,1; trad. F. Solinas)

Altrettanto celebre è l’epistola 47, nella quale – da buono stoico – Seneca dà dignità umana anche agli schiavi, pur non mettendo in discussione l’istituto giuridico della schiavitù. Infatti, dopo l’affermazione «Servi sunt». Immo homines («“Sono schiavi”. Sì, ma sono esseri umani»), Seneca continua il lungo ragionamento affermando, rivolto a Lucilio: «Usami la cortesia di considerare che costui, che chiami tuo schiavo, è nato dalla stessa umana semenza, gode dello stesso cielo, respira esattamente come te, vive né più né meno come te, muore al tuo stesso modo!» (trad. F. Solinas).

Le tragedie Nove coturnate

Seneca scrisse nove coturnate (tragedie di argomento greco), delle quali non conosciamo la cronologia (D Opere); una decima tragedia attribuitagli, intitolata Octavia, è invece sicuramente di età posteriore. Oltre che dal teatro greco di Sofocle e di Euripide e dalla tragedia romana arcaica, Seneca riprende un’ampia serie di spunti tratti da altri generi letterari, in particolare dalla poesia di Virgilio e Ovidio.

Una testimonianza unica

La produzione tragica di Seneca è importante anche perché ci consegna le uniche opere drammatiche della letteratura latina pervenuteci nella loro interezza. Non si sa però quando siano state scritte e se fossero state concepite per la rappresentazione scenica, oppure, più probabilmente, solo per la declamazione (recitatio) e la lettura.

I caratteri del teatro di Seneca

Dal punto di vista letterario, caratteristiche delle tragedie senecane sono la rappresentazione di passioni sconvolgenti (in particolare il tema della lotta per il potere e lo scontro catastrofico tra il furor, l’«irrazionalità», e la mens bona, la «saggezza»), il gusto del macabro e il linguaggio espressionistico.

L’Apokolokýntosis Il titolo

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L’Apokolokýntosis (D Opere) è una sarcastica dissacrazione del defunto imperatore Claudio, redatta probabilmente entro la fine del 54 d.C., anno della sua morte. Il titolo indicato nei codici è Ludus de morte Claudii oppure Divi Claudii apotheosis Annaei Senecae per saturam; quello di Apokolokýntosis, divenuto di uso comune, si riallaccia al termine kolokýnte, in greco «zucca», forse nel senso di «apoteosi, deificazione della zucca»:


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