L'Idea - Aprile 2017

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ANNO XXXIII - APRILE 2017 REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI N. 765 DEL 11/10/1984 - PERIODICITÀ ANNUALE - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004) ART. 1, COMMA 1, CNS BA - UNA COPIA 1 EURO

1 L’IDEA

IL TESORO DI SAN BENEDETTO I ritrovamenti archeologici, i culti, i ricami, le vesti

LA CITTÀ DELLE DONNE

L’universo femminile che ha nutrito l’Arte in tutto il suo percorso millenario

ECCE HOMO

IL CAVALIERE DI CASTIGLIONE

SVELATA LA SPLENDIDA RICOSTRUZIONE DEL 1400



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EDITORIALE

Il turismo è fatto anche di racconti unici

ANNO XXXIII - APRILE 2017 REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI N. 765 DEL 11/10/1984 - PERIODICITÀ MENSILE - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004) ART. 1, COMMA 1, CNS BA - UNA COPIA 1 EURO

1 L’IDEA

MICHELE LORUSSO IL TESORO DI SAN BENEDETTO I ritrovamenti archeologici, i culti, i ricami, le vesti

LA CITTÀ DELLE DONNE

L’universo femminile che ha nutrito l’Arte in tutto il suo percorso millenario

ECCE HOMO

IL CAVALIERE DI CASTIGLIONE

SVELATA LA SPLENDIDA RICOSTRUZIONE DEL 1400

Anno XXXIII Aprile 2017 Registrazione Tribunale di Bari n. 765 del 11/10/1984 Direttore Responsabile Michele Lorusso Collaborazione di Archivio Diocesano Conversano Centro Studi “Maria e Francesca Marangelli” Società di Storia Patria per la Puglia Sezione del Sudest Barese Paolo Perfido Vito L’Abbate Cosimo Cardone Editore L’Ideaservice - Conversano Direzione, redazione e amministrazione 70014 Conversano (BA) Via Polignano, 5 Tel. 080.4090217 Fax. 080.4958424 lideaservice@tin.it Foto Rocco De Benedictis Mimmo Guglielmi Paolo Perfido Michele Lorusso Vision snc Andrea Pattaro Stampa CSR - RM

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a Puglia continua a richiamare sempre più turisti. Non solo perché la Puglia è colore: è mare, è trulli, è masserie fortificate. La Puglia è scoperta: è grotte, è castelli, è cattedrali, è ipogei paleolitici. La Puglia è enogastronomia: è custode di un patrimonio di prodotti e di sapori unici d’eccellenza. Ma la Puglia è anche cultura: ogni angolo racchiude qualcosa da raccontare, da presentare, da esibire per chi sceglie di spendere le proprie vacanze in questa meravigliosa regione. Difatti, il volano turistico si sta sempre più affermando in chiave culturale. Si moltiplicano gli eventi di promozione del territorio che risultano assai gremiti. Lo si è visto nei giorni scorsi nel sud est di Bari, precisamente a Conversano, dove è stato svelato al pubblico “il Cavaliere di Castiglione”. A distanza di oltre 500 anni “riprendono vita” i tratti di un uomo d’arme vissuto fra il XIV e il XV secolo, a cui è stato possibile dare un volto a seguito del rigoroso studio antropologico della equipe tecnico-scientifica del Laboratorio di Antropologia dell’Università di Bari, coordinata dal prof. Sandro Sublimi. La ricostruzione fa parte dei risultati della ricerca scientifica sul materiale osteologico rinvenuto nelle sepolture durante l’indagine archeologica svolta alla fine degli anni ‘90 in località Castiglione, nell’agro conversanese, e racchiusi presso il monastero di “San Benedetto” a Conversano. Che volto avevano i

nostri antenati? Con che sguardo osservavano il territorio di Conversano e ciò che accadeva nel paesaggio del sud-est barese a metà del 1400? Grazie alla mostra dal titolo “Una finestra sulla storia - il cavaliere di Castiglione” saranno svelati i misteri degli ultimi abitanti di Castiglione, un sito abbandonato alla fine del XV secolo. Perché la storia non è fatta solo di scoperte ma anche di uomini che ci passano e che continuano a portare alla luce racconti unici. Nello stesso complesso conventuale sono in corso altre due mostre: “Il tesoro di San Benedetto” e “I Volti delle Donne”. La Grande Dea Madre, la Terra appunto, che si riverbera in quelle eroine, sante, martiri e allo stesso tempo donne reali che racchiudono l’universo femminile che ha nutrito l’Arte in tutto il suo percorso millenario. Come Dameta, un nome maschile secondo memoria virgiliana ma che racconta di una donna arrivata dall’Est e destinata a cambiare le sorti del monastero di San Benedetto, abbandonato dai monaci conversanesi. Sacerdotessa di pace e unità, portatrice di un ponte ideale di pace fra l’Oriente e l’Occidente. Una vetero femminista d’antan di oltre sette secoli fa. A cavallo fra vicende storiche e divulgazione scientifica, i percorsi espositivi nella nostra regione sono importanti anche per fare emergere i fili di una storia incredibile e “mitica”, e quindi fortemente attrattiva


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Prossima partenza

Mari tra le Mura, biglietto di sola andata per la Puglia! Pronti a partire, antichi territori ricchi di emozioni e storie da raccontare si predispongono alla migliore accoglienza, benvenuti nel “SAC – Mari Tra le Mura”. Il Sac “Mari tra le Mura” nasce nel 2010 come aggregazione di risorse ambientali e culturali del territorio dei Comuni di Conversano, Polignano a Mare, Rutigliano e Mola di Bari. Il distretto turistico così generatosi offre un immenso patrimonio artistico, culturale e gastronomico di alto livello, adeguatamente organizzato e gestito in ragione della capacità di promuovere percorsi di valorizzazione, sviluppo e cooperazione interistituzionale, sulla base di un’idea forza capace di attivare percorsi avanzati di attrattività regionale, anche attraverso la crescita e la qualificazione dei flussi turistici. L’idea cardine nella strategia di creazione e valorizzazione del SAC è fruire delle sue bellezze, così come del suo patrimonio immateriale, con lentezza sostenibile, la sua realizzazione è l’Ecometrò. Chi sceglierà di raggiungerci potrà godere e scegliere delle diverse e molteplici offer-

te esperienziali e turistiche per esplorare il territorio, potendo lasciare il proprio mezzo di locomozione privato e girare tra i quattro comuni in completa libertà utilizzando bici, risciò e navette. L’offerta turistica si presenta strutturata, integrata e certificata con uno standard di qualità particolarmente alto. L’Ecometrò è una rete di itinerari organizzati come le linee e gli snodi di scambio della metropolitana ma con fruizione lenta: percorsi ciclopedonali, carrozze e risciò. Dieci linee tematiche pensate per seguire percorsi diversi che abbracciano l’arte, l’enogastronomia, la religione, le aree archeologiche, i percorsi naturalistici, le residenze artistiche e le oasi blu con la presenza chiara sul Web e di quattro ecoinfopoint presenti in ogni comune coinvolto per supporto informativo e ticketing all’utente. Tutto è pronto ad accogliervi nel meraviglioso distretto turistico “Mari tra le Mura” grazie all’innovativa esperienza Ecometrò, targata Sac “Mari tra le Mura”!


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Ecco il volto del cavaliere di Castiglione Una finestra sulla storia

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he sembianze avevano i nostri antenati? Con che sguardo osservavano il territorio di Conversano e ciò che accadeva nel paesaggio del sud-est barese a metà del 1400? A questa e a altre domande hanno provato a rispondere l’Associazione Polyxena e il gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Sandro Sublimi del Laboratorio di Antropologia dell’Università di Bari. Grazie ai risultati di uno studio condotto su alcune sepolture ritrovate in località Castiglione, a circa 5 km da Conversano, hanno ripreso vita, dopo quasi 500 anni, i tratti del volto di un uomo d’arme, probabilmente vissuto in Puglia a cavallo fra il XIV e il XV secolo. Il percorso espositivo che racconta il progetto, organizzato dall’Associazione Polyxena, sarà ospitato in modo temporaneo nelle sale appena rese fruibili dal Comune, al primo piano dell’ex-convento di San Benedetto fino al 7 Maggio 2017.

01 POLYXENA E IL GRUPPO DI RICERCA GUIDATO DAL PROF. SUBLIMI HANNO STUDIATO L’INSEDIAMENTO DI CASTIGLIONE


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Castiglione sorge su un’altura e nel corso del tempo è stato più volte abitato e abbandonato, fino all’ultimo insediamento probabilmente risalente proprio alla fine del 1400. Oggi Castiglione ricade all’interno della Riserva Naturale dei Laghi di Conversano e Gravina di Monsignore; la particolarità è la coesistenza, nel medesimo luogo, delle testimonianze del passato di questo territorio con la natura rigogliosa che oggi è l’abitante principale di questa altura. Ai piedi della collina troviamo poi un’importante singolarità geologica: uno dei cosiddetti “laghi” che si trovano nel territorio conversanese. Sin dalla preistoria sono stati fonte di approvvigionamento idrico per la popolazione locale, mentre oggi assumono un ruolo ecologico fondamentale. Nelle doline, l’accumulo e il ristagno dell’acqua ha permesso l’instaurarsi di delicati ecosistemi che vantano flora e fauna caratteristiche. Tale connubio fra storia e natura rende unico questo territorio, dove ambiente e cultura convivono dialogando fra loro. Il progetto di studio su quello che potrebbe essere stato uno degli ultimi abitanti prende il

via dai reperti scheletrici ritrovati alla fine degli anni ‘90 in località Castiglione, a pochi km dalla città di Conversano. Nella prima fase sono stati studiati i reperti ossei, attraverso tecniche di medicina legale e antropologia forense, per comprendere le cause del decesso e delle patologie che avevano colpito il cavaliere durante tutta la sua vita. Si è scoperto che aveva un regime alimentare molto ricco e che durante la sua esistenza, numerose cadute e ferite da colpi d’arma avevano lasciato traccia sul suo corpo. Ci si è concentrati poi sul cranio, in modo da poter rivelare quelle che erano le fattezze del suo viso.

La mostra sarà visitabile fino al prossimo 7 maggio


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Una rigorosa ricostruzione scientifica ha riportato alla luce tutti i particolari Il cranio è stato successivamente scansionato tomograficamente, in modo da ottenere la base per la proiezione virtuale. Una stampante 3D ha costruito quindi la base su cui poi i ricercatori e gli scultori hanno dapprima applicato, utilizzando materie plastiche, i muscoli per poi definire i dettagli del volto. Una rigorosa ricostruzione scientifica che ha riportato alla luce i particolari del viso del cavaliere. In ultimo è stato creato il calco in resina, su cui sono stati posti capelli, sopracciglia per dare maggiore attendibilità alla ricostruzione. Infine, con la consulenza di storici dell’arte ed esperti costumisti è stato vestito, dopo aver valutato gli abiti e i

03 L’APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE HA FORNITO SUPPORTI UTILI

STORICI DELL’ARTE ED ESPERTI COSTUMISTI HANNO RIVESTITO IL CAVALIERE

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tessuti presenti nell’epoca di riferimento, con il supporto delle alcune delle più importanti sartorie italiane. Fra i partner di progetto coinvolti, sono presenti professionalità afferenti all’Università e al Politecnico di Bari, all’Università di Pisa, al dipartimento di Archeologia e storia dell’Università di Melbourne, all’Ente Ospedaliero I.R.C.C.S. “De Bellis” di Castellana Grotte, oltre a docenti di scultura, esperti nei settori dell’innovazione tecnologica, della ricerca storica e in scienze della natura, con il fondamentale ausilio del comparto privato che ha fornito i supporti utili alla ricostruzione del volto. Le diverse discipline, dalla storia dell’arte all’archeologia, dalle scienze della natura alle tecnologie innovative, passando per la storia del costume e le discipline artistiche, hanno messo in luce importanti metodologie in grado di fornirci indicazioni sulla vita quotidiana dei nostri antenati in questo angolo di Puglia. A cavallo fra vicende storiche e divulgazione scientifica, il percorso è importante anche per fornire nuove attrattive in ambito turistico


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Il tesoro di

San Benedetto di Conversano

Un’operazione culturale veramente speciale per conoscere il ricchissimo patrimonio lasciato in eredità LA MOSTRA

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opo aver avviato presso il Polo Museale cittadino un programma di eventi che hanno messo in relazione l’istituto museale di Conversano e il suo patrimonio con ambienti culturali di respiro nazionale e internazionale, si è proseguito nel costante impegno per raggiungere obiettivi importanti per il nostro territorio nel campo delle attività culturali ed espositive”: così ha introdotto il sindaco di Conversano, avv. Giuseppe Lovascio, la sua presentazione nel catalogo della mostra Il “Tesoro” di S. Benedetto. Storia, arte, devozione e vita quotidiana nel Monstrum Apuliae.


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CONVERSANO E LA SUA IDENTITÀ STORICO-CULTURALE E IL SUO PATRIMONIO DI ARTE DEVONO DIVENTARE UNA ‘OFFERTA’ CONTINUA ALLA COLLETTIVITÀ PUBBLICA SENZA CONFINI: la sua riconoscibilità, la sua piena valorizzazione, i suoi nuovi traguardi devono essere costantemente nei propositi di chi opera nel campo delle attività pubbliche.” Su questa linea sono state stabilite alcune importanti collaborazioni nel programmare la mostra Il “Tesoro” di San Benedetto. Ente comunale e Curia Vescovile della Diocesi di Conversano-Monopoli si sono incontrati, nel concreto del complesso monumentale di San Benedetto dove alla parte ecclesiastica si affianca quella pubblica, affrontando impegnativi programmi di sistemazione delle strutture già utilizzate per le attività espositive e avviando restauri che renderanno accessibili nuovi ambienti alla fruizione pubblica. I lavori di restauro in via di completamento nella chiesa e nel monastero di San Benedetto hanno facilitato il coordinamento con il lavoro di indagine e di studio che istituti universitari e qualificati organismi culturali (Politecnico di Bari, Centro Studi “Maria e Francesca Marangelli”, “Sezione Sudest Barese” della Società di Storia Patria per la Puglia) hanno affrontato sul tema San Benedetto: la sua storia, il suo patrimonio artistico e cultuale, la sua vicenda architettonica. “A tutto questo si è voluto dedicare – prosegue il sindaco nella sua presentazione – dopo un intenso impegno di studio, una occasione e insieme una attività di divulgazione. Insomma, al lavoro degli studiosi che hanno prodotto risultati importanti sotto l’aspetto scientifico si affianca l’organizzazione di un articolato percorso espositivo, che va dalla chiesa – bella, grande, restaurata in tante parti – agli spazi dell’ex monastero oggi accessibili, dalle sale della Sezione mostre temporanee nel Castello agli ambienti della Sezione archeologica in San Benedetto. Quella che presentiamo è un’operazione culturale veramente speciale, in cui la mostra fa conoscere il ricchissimo patrimonio lasciatoci in eredità dalla comunità benedettina cistercense, che nel monastero visse per secoli. L’esposizione, infatti, raccoglie aspetti di spettacolare bellezza con gli arredi, le statue lignee, i preziosi abiti della Vergine e dei Santi, con la superba raffinatezza dei parati d’altare, degli argenti liturgici e dei gioielli devozionali. Tutti oggetti che rivelano un profondo legame della istituzione monastica col mondo reale, e manifestano nello stesso tempo un’aspirazione intensa alla spiritualità per il tramite delle pratiche devozionali.”

PIATTO ARALDICO E FRAMMENTI DI MAIOLICA CON DECORAZIONE POLICROMA, PRODUZIONE DI LATERZA (sec. XVII)

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ALLE ORIGINI DELL’INSEDIAMENTO MONASTICO BENEDETTINO

I RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI

a chiesa e il monastero di San Benedetto si insediarono nell’area prossima al lato orientale dell’antica muraglia costruita con grandi massi calcarei (la cinta in “opera poligonale” del V-IV secolo a.C.), che aveva fortificato l’acropoli di Norba, il centro antico scomparso in età tardoantica. Qui la frequentazione umana cominciata in età classica proseguirà, quasi senza soluzione di continuità, fino all’età moderna. In realtà, su quella che era stata l’acropoli del centro antico, cioè la parte alta della collina conversanese, sono sporadici i segni delle fasi più antiche, anche a causa della sovrapposizione di edifici di epoche diverse. Proprio al di sotto degli ambienti del monastero si possono vedere oggi le sole aree di scavo archeologico che documentano, per il centro storico cittadino, la presenza di strutture murarie e di reperti di natura archeologica.


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PIATTO E FRAMMENTI DI MAIOLICA DI PRODUZIONE PUGLIESE E CAMPANA (sec. XVII)

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ANTONELLA CAPRIO E ANNALISA MELILLO

Alcuni interventi di scavo archeologico, infatti, effettuati all’interno del monastero di S. Benedetto negli anni 1989, 1997-98 e 2006-07 nell’ambito di lavori di sistemazione dell’attuale sezione archeologica del Polo museale di Conversano, permisero di individuare alcuni tratti di murature, una cisterna, vasche di vario utilizzo, pertinenti a spazi scoperti e ad alcuni vani di abitazione di cui però non è possibile precisare la tipologia e la destinazione. Gli scavi hanno inoltre permesso il recupero di reperti ceramici che offrono un contributo di conoscenza sulla storia della frequentazione umana nell’area occupata dal monastero. Alcuni frammenti di vasi apuli a figure rosse e a vernice nera e di grandi contenitori in ceramica grezza si riferiscono all’inizio della frequentazione in quest’area, tra IV e III sec. a. C. Altri frammenti in ceramica fine da mensa

appartengono vasi di età romana repubblicana, come la ceramica a pasta grigia, e a vasi di età imperiale, come le ceramiche sigillate italica e africana. Pochi frammenti sono riferibili a coppe in vetro, mentre numerosi sono i frammenti di orli e pareti pertinenti a grossi contenitori. I reperti testimoniano un periodo di vita, quello dell’età romana, scarsamente documentato a Conversano. Della fase altomedievale relativa ai secoli VII-VIII mancano testimonianze materiali, che risultano, invece, numerose in relazione a una fase di frequentazione dell’area compresa tra IX e XI secolo, orizzonte cronologico a cui rimandano con più certezza alcuni frammenti di ceramica acroma, incisa e dipinta. Tra le classi ceramiche medievali attestate, la comune acroma costituisce il nucleo più numeroso; in essa si evidenziano molti frammenti di


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FRAMMENTI DI CERAMICA INVETRIATA POLICROMA DI MATRICE ISLAMICA E BIZANTINA (sec. XII-XIII)

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ceramica a decorazione incisa e più raramente a impressione. Un cospicuo numero di frammenti analizzati appartiene alla classe della ceramica dipinta, in particolare al tipo della cosiddetta ceramica a bande di colore rosso e con minor frequenza in bruno, che può considerarsi un fossile guida nello studio della ceramica altomedievale. I frammenti di vasi esaminati sono riconducibili quasi uni-

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San Benedetto di Conversano

ALLE ORIGINI DELL’INSEDIAMENTO MONASTICO BENEDETTINO

I RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI

camente a forme chiuse (anfore da dispensa, brocche/anfore da mensa e da dispensa) e riferibili più propriamente a un orizzonte cronologico compreso tra IX e XI secolo. Nel basso Medioevo l’area continua ad essere frequentata, come dimostra la presenza di ceramiche proprie di quest’epoca, caratterizzate dal rivestimento vetroso monocromo, comune sia ai servizi da mensa che alla ceramica da cucina, e policromo. La ceramica invetriata e la ceramica comune acroma prevalgono quantitativamente, rispetto alla ceramica da fuoco, alla dipinta e ai grandi contenitori. Dall’analisi della ceramica monocroma verde, più numerosa rispetto alla monocroma gialla e marrone, emerge un repertorio vascolare piuttosto vario, all’interno del quale prevalgono in maniera netta le forme aperte (coppe, ciotole, bacini o catini), rispetto alle forme chiuse (brocche, bottiglie).

04 ANFORETTA IN MAIOLICA DECORATA CON MEDAGLIONE E SIGLA “SB” (primi decenni sec. XVII), E ANFORA CON COPERCHIO (1786)


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FRAMMENTI DI CERAMICA APULA A FIGURE ROSSE E VERNICE NERA (sec. IV a.C.)

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Dagli scavi nel monastero un contributo di conoscenza sulla frequentazione dell’area in età classica e romana

06 FRAMMENTI DI GROSSI CONTENITORI IN CERAMICA GREZZA (sec. IV-III a.C.)

Tra i frammenti di invetriata policroma si segnalano due reperti caratterizzati da una vetrina verde con dipintura in bruno, i quali rimandano ad orizzonti culturali di matrice islamica. Potrebbero appartenere alle ceramiche importate dette maghrebine o siculo-maghrebine. Tra le ceramiche graffite, databili tra XII e XIII secolo, risulta di particolare importanza la presenza di alcuni frammenti di richiamo orientale bizantino. Tra la ceramica tardo medievale di San Benedetto si individuano diversi frammenti appartenenti alla classe “Doppio Bagno” o Double dipped ware.

Sulla base del materiale esaminato si è notata una prevalenza di classi che afferiscono all’ambito della cottura, conservazione e consumazione dei cibi; il dato che emerge, dunque, sembra riferirsi a un contesto costituito da ambienti di uso domestico, sia in età antica che in epoca medievale, coerentemente con quanto si evince dall’intervento di scavo del 2006-2007 nella stessa area di San Benedetto. Maggiori informazioni e dati stratigrafici derivano da quest’ultimo intervento, avendo interessato un’area più ampia, ancora visibile, inglobata nell’esposizione museale. In questo caso lo scavo ha rivelato come l’allargamento seicentesco del lato nord del monastero abbia interessato un’area già occupata da edifici preesistenti, anche d’età classica e romana. Sotto le strutture più recenti sono emersi, infatti, strati e ambienti riferibili ad età classica, riutilizzati in età romano-imperiale. Il materiale ceramico proveniente dalle indagini più recenti rimanda, allo stesso modo, a un orizzonte cronologico compreso tra l’età classica e l’età moderna


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01 MICHELE DAMASCENO, VERGINE DEL ROSARIO E SANTI (1574) Particolare

LA CAPPELLA E IL CULTO DELLA

VERGINE DEL ROSARIO IN S. BENEDETTO


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ALTARE SEICENTESCO DELLA VERGINE DEL ROSARIO E VESTE DELLA STATUA

Il domenicanio Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, insieme alla potente famiglia Acquaviva d’Aragona, promosse cappelle e confraternite del Rosario nel Salento e a Conversano

Il tesoro di

San Benedetto di Conversano

LA CAPPELLA E IL CULTO DELLA

VERGINE DEL ROSARIO IN S. BENEDETTO

Ad accreditare il culto anche la chiamata in campo dell’autorevole poetessa Dorotea Acquaviva d’Aragona ella chiesa monastica di San Benedetto un importante dipinto cinquecentesco raffigurante la Vergine del Rosario richiama la grande devozione che la comunità monastica benedettina, l’antica confraternita e l’intero popolo conversanese hanno intensamente manifestato e alimentato con continuità dal secolo XVI in poi. Quel dipinto, opera del cretese Michele Damasceno, era entrato in chiesa intorno al 1574. Gli studiosi ritennero che fosse il risultato dell’iniziativa confraternale, attribuendo appunto alla confraternita del SS. Rosario la committenza del

VITO L’ABBATE

quadro e forse anche dell’altare su cui esso venne innalzato: la storiografia locale aveva fornito una indicazione cronologica, il 1572, citando un documento di fondazione che in realtà è rimasto a lungo inedito. Le raffigurazioni artistiche della Madonna del Rosario si diffusero negli anni successivi alla vittoria di Lepanto, famosa battaglia del 7 ottobre 1571, in cui la coalizione dei principali Stati europei insieme al papato riuscì vincitrice sulla flotta turca che minacciava l’Occidente. Il papa Pio V, attribuendo la vittoria alla intercessione dell’augusta Madre del Salvatore, intitolò il giorno 7 ottobre a “Nostra Signora della Vittoria”, rinominata poi Nostra Signora del Rosario. Il clima celebrativo propagato dalla Chiesa e dall’ordine domenicano portò sugli altari l’immagine della Vergine col Bambino che consegna la corona del rosario a s. Domenico e a s. Caterina da Siena, intorno ai quali si sviluppa la corona di rose con le scene dei quindici misteri. Questa immagine si fuse anche con aspetti e devozioni locali, che non potevano prescindere dalle volontà e dalle richieste dei committenti. Così avvenne anche per la chiesa di San Benedetto in Conversano,


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ma non si tratta di committenza confraternale. Un personaggio è necessario qui richiamare, il domenicano Ambrogio Salvio vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, che in sintonia con la politica perseguita dall’ordine domenicano e per una evidente intesa con la potente famiglia degli Acquaviva d’Aragona, promosse la fondazione di confraternite rosariane nelle località di Castro e Monterone nel Salento e di Conversano in Terra di Bari, tutte rientranti nei possessi di quella famiglia feudale. Nella pergamena cinquecentesca prima citata il vescovo Salvio autorizza la fondazione della cappella del Rosario in S. Benedetto e chiama direttamente in campo un autorevole personaggio, Dorotea Acquaviva d’Aragona, ai suoi tempi celebrata col titolo di poetessa.

03 STEMMA DELLA FAMIGLIA ACQUAVIVA D’ARAGONA DIPINTO SULL’ALTARE

La committenza degli Acquaviva d’Aragona, evidenziata dallo stemma del casato, si deve a due donne: Isabella Filomarino, moglie del conte Giangirolamo II, e Maria di Capua, moglie del duca Cosimo

Il seicentesco altare del Rosario: una grande macchina lignea, intagliata, dorata e con dettagli pittorici di straordinaria varietà e originalità Appunto Dorotea, figlia di Giovanni Antonio duca di Atri e conte di Conversano, sorella di Giangirolamo, entrambi amanti delle lettere e apprezzati da umanisti e poeti, manifesta l’interesse a fondare nella chiesa conversanese una cappella del Rosario. A rinforzare la devozione mariana c’era anche il ricordo che nel 1571 alla battaglia di Lepanto aveva preso parte il conte di Conversano Giangirolamo I (1555-75) con i figli Orazio e Adriano, e questo fatto storico doveva aver suscitato a livello locale il bisogno di aderire alle suggestioni religiose alimentate da quella circostanza. Dorotea, che nel 1573 nel suo testamento chiedeva di essere sepolta nella chiesa delle benedettine di Conversano, ci pare debba essere ragionevolmente considerata – da sola ovvero insieme alla sorella, la badessa Isabella, e all’intera comunità monastica benedettina – la committente del primo altare intitolato alla Madonna del Rosario. Il dipinto del Damasceno deve considerarsi la concreta testimonianza di un atto di devozione, che coinvolgeva insieme a Dorotea la famiglia Acquaviva di Conversano e, in maniera più estesa, le monache di S. Benedetto. Il Damasceno non a caso colloca ai piedi della Madonna del Rosario, nel dipinto eseguito per la chiesa di S. Benedetto, solo santi e sante in abito monastico: domenicani, benedettine e francescani; non figure regali o alti personaggi del mondo politico, non papi o cardinali, e tanto meno figure di confratelli. La confraternita rosariana al momento è inesistente e non può avere alcun nesso con quella importante committenza. La nascita della

confraternita, infatti, avverrà solo a giugno del 1584 e per iniziativa di laici, a cui la badessa Vittoria Palagano in quella data concesse la sua autorizzazione. L’altare cinquecentesco, sulla cui esatta collocazione nella chiesa gli studiosi finora non hanno potuto aggiungere molto a quanto contenuto nella descrizione della chiesa del 1619 (al corno destro è la cappella del S.mo Rosario, et dietro è la cappella del Monte della Pietà verso oriente e austro), sarà sostituito nella fase del rinnovamento di metà Seicento, quando l’intero corpo interno della chiesa verrà interessato da profonde trasformazioni. Il ‘nuovo’ altare del Rosario, cioè quello attuale risalente al pieno Seicento, è una grande macchina lignea, intagliata, dorata e soprattutto decorata con dettagli pittorici di straordinaria varietà e originalità (fiori, frutti e volatili di cui i recenti restauri hanno svelato una insospettata naturalezza), a cui una ulteriore aggiunta di elementi decorativi e devozionali viene porta-


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04 STATUA IN LEGNO INTAGLIATO E DIPINTO, PROBABILMENTE RAFFIGURANTE SANTA LUCIA

05 DECORAZIONE PITTORICA DELL’ALTARE RAFFIGURANTE UCCELLI

ta dalle statue lignee: due sante vestite di abiti eleganti, di cui però è difficile ormai dare una esatta identificazione a causa della perdita degli originari attributi iconografici, e una Crocifissione posta in alto sul fastigio, a cui si accompagnano lateralmente le statue di s. Benedetto e s. Bernardo. Questa grande macchina d’altare, che accoglie la pala del Damasceno, si deve alla committenza degli Acquaviva d’Aragona e ancora una volta a due donne, che infatti fecero dipingere il proprio stemma su quell’altare: la contessa Isabella Filomarino e la nuora Maria di Capua, moglie del figlio Cosimo deceduto nel 1665. In quello stesso anno era morto in Spagna il conte Giangirolamo II, e le due signore riconfermavano con questa opera commissionata per la chiesa di S. Benedetto il ruolo politico di casa Acquaviva d’Aragona e la loro personale devozione religiosa. Già nel 1607 il conte Adriano – della cui partecipazione alla battaglia di Lepanto s’è detto – ave-

Il tesoro di

San Benedetto di Conversano

LA CAPPELLA E IL CULTO DELLA

VERGINE DEL ROSARIO IN S. BENEDETTO


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Preziosi parati d’altare e gioielli aristocratici divennero doni votivi per la Vergine del Rosario no assenti da Conversano, oppure dopo il 1665 data della morte dei due personaggi, la Filomarino abbia concorso con la nuora alla creazione in S. Benedetto del fastoso altare della Vergine del Rosario, forse entrambe partecipi del sodalizio rosariano o piuttosto interessate alla sepoltura in S. Benedetto in cui conservare le spoglie dei propri congiunti, certo confermando le relazioni sempre intense con la comunità benedettina. Accolta in chiesa per le funzioni religiose e per gli atti devozionali normalmente svolti presso la cappella e l’altare della Vergine del Rosario, la confraternita del S. Rosario condusse la propria attività sotto la continua e attenta sorveglianza della badessa benedettina, che riservava a sé la nomina del cappellano. Di fatto, la cappella del SS. Rosario col suo patrimonio e la confraternita, per come appaiono dai documenti che le riguardano, sembrano associarsi e condividere compiti e impegni. La confraternita raccoglieva donazioni e lasciti indirizzati alla cappella del S. Rosario, ma ciò non influiva sulle scelte di natura estetica o sulla produzione di nuovi oggetti destinati al culto, in genere decisi dai rettori e responsabili ecclesiastici delle chiese. A maggior ragione ci pare difficile pensare che nella chiesa di S. Benedetto, dove la committenza badessale e della famiglia Acquaviva aveva prodotto opere di elevato valore artistico, potessero operarsi occasionali e provvisori interventi

Il tesoro di

San Benedetto di Conversano 06 DECORAZIONE PITTORICA DELL’ALTARE DEL ROSARIO: FRUTTI, UCCELLI ED ELEMENTI VEGETALI

va manifestato la sua devozione alla cappella del SS. Rosario con un importante donativo, consistente in un prezioso parato d’altare in seta intessuta di fili d’oro. Ugualmente donna Anna Maria di Capua donava al monastero nel 1663 alcune sacre reliquie ricevute da papa Alessandro VII, lasciando così una ulteriore traccia di quei continui rapporti tra casa Acquaviva e monastero benedettino, che ora suggeriscono committenze artistiche, ora scaturiscono da intenti devozionali. Dunque è probabile che intorno al 1662, quando il duca Cosimo e il padre Giangirolamo era-

IL CULTO MARIANO NELLA CHIESA DI SAN BENEDETTO

e finalità devozionali perseguite dal monastero e gli evidenti obiettivi di coinvolgimento della comunità conversanese motivarono fin dall’origine la celebrazione della festa della Madonna del Rosario presso la chiesa di S. Benedetto. Ne fu artefice la badessa Caterina Acquaviva d’Aragona, che il 10 ottobre 1633 destinava 40 ducati per solennizza-


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STATUA VESTITA DELLA VERGINE DEL ROSARIO (sec. XVIII), particolare

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Abiti ornati di ricami in oro e sete policrome, preziosi gioielli trasformati in doni votivi, dipinti e statue commissionati per la chiesa di San Benedetto costituiscono oggi un patrimonio culturale di grandissimo valore

Rosario, divenuti il punto focale delle comuni attenzioni, erano l’oggetto principale della devozione delle claustrali: particolarmente curata era l’esposizione della statua della Vergine del Rosario entro la suggestiva cornice della chiesa benedettina. Liturgia e ritualità, orazioni e panegirici coinvolgevano il popolo, che non è difficile immaginare emotivamente partecipe, e che si lasciava trasportare dalle ripetute manifestazioni che cadenzavano le giornate della festa, non solo religiosa ma anche civile e comunitaria.

re nella prima domenica di ottobre di ogni anno questa festività, richiedendo la partecipazione del capitolo e clero e la celebrazione dei vespri e della messa in canto. A questa iniziativa si aggiunse nel 1660, per devozione alla gloriosissima Vergine del Rosario, il beneficio creato dalla eccellentissima Casa Acquaviva d’Aragona di Conversano in occasione della festa celebrata quell’anno. Al clero conversanese, a cui furono stati assegnati 190 ducati, venivano richiesti gli obblighi cultuali da celebrarsi nella chiesa di S. Benedetto. Anche in questo caso l’iniziativa veniva presa dalla Filomarino, che gestiva la politica comitale in assenza del consorte Giangirolamo. Alla cappella del S. Rosario facevano riferimento i devoti conversanesi e gli associati alla confraternita,

che con celebrazioni di messe, con piccoli donativi e con l’uso del sepolcro assicuravano l’esercizio continuativo e intenso del culto mariano. Ma certamente la stessa comunità monastica doveva essere intensamente coinvolta in quel programma di cure continue per la cappella della Vergine del Rosario, accompagnando la propria devozione con atti concreti. Particolare e larga partecipazione popolare doveva suscitare la festa annuale che si svolgeva nella prima settimana di ottobre. Come per la maggioranza delle feste religiose celebrate in Conversano, anche quella del SS. Rosario aveva come momento centrale lo svolgimento dell’ottava. Diversi sacerdoti si succedevano nelle celebrazioni, nella chiesa certamente abbellita con paramenti di occasione; la cappella e l’altare del

La festa, poi, si concludeva e si esaltava con la processione: la sfilata dei chierici, dei confratelli, del clero capitolare, del vicario badessale e, in fine, il simulacro della Vergine col Bambino portato a spalla su un’alta base, esibito e offerto alle preghiere, ai voti e alle richieste di tutto il popolo. Per l’occasione sull’immagine sacra dovevano essere esibiti anche i doni di tanti devoti e devote, ma soprattutto dei nobili signori locali: alle antiche committenze, ancora a fine ‘600 e poi nel XVIII secolo le donne di casa Acquaviva aggiunsero importanti donazioni. Abiti ricchi e bellissimi, ornati di ricami in oro e in sete policrome, divenuti la veste per la festa della Vergine; una serie considerevole di oggetti preziosi, trasformati in gioielli da far indossare alla statua: questo patrimonio, conservato gelosamente dalla comunità monastica e dai rettori ecclesiastici di San Benedetto, è tra gli oggetti esposti nella mostra “Il Tesoro di San Benedetto in Conversano”


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01 RITUALE MUSICALE, MANOSCRITTO DEL XVII secolo

Grandi altari dorati, dipinti di rinomati artisti, arredi e preziosi arricchiscono e rinnovano la chiesa di San Benedetto nel secolo XVII FRANCESCO LOFANO

La veste decorativa seicentesca nella chiesa di San Benedetto

A

partire dal quinto decennio del XVII secolo il monastero di San Benedetto fu oggetto di un articolato rinnovamento che interessò le strutture architettoniche e la veste decorativa in particolare dell’edificio ecclesiastico. È possibile scorgere un fitto legame tra le scelte in campo artistico compiute dalla comunità cistercense e quelle della corte Acquaviva d’Aragona, alla quale peraltro appartenevano alcune importanti badesse che governarono il monastero nel corso del Seicento. Infatti, tra il 1641 e il 1645 al pittore napoletano Paolo Finoglio, largamente attivo per la corte acquaviviana, la comunità monastica commissiona la grande pala d’altare raffigurante i Santi Benedetto e Biagio.


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02 NICOLA GLIRI, CROCIFISSIONE (metà del sec. XVII)


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PITTORE DELLA SAMARITANA, CRISTO E LA SAMARITANA AL POZZO (sec. XVII) Pinacoteca Metropolitana di Bari

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03 NICOLA GLIRI, SANTA GERTRUDA (sec. XVII)

A due pittori bitontini, Carlo Rosa e Nicola Gliri, si deve il programma iconografico introdotto nel monastero di San Benedetto nel secolo XVII

Entrava così in San Benedetto, per l’altare maggiore della chiesa, una delle opere più eccelse del pittore napoletano, che in Conversano già aveva dato grande prova di sé presso la dimora dei conti Acquaviva con l’esecuzione del ciclo pittorico sulla Gerusalemme liberata, nonché nella chiesa del seicentesco monastero intitolato ai santi Cosma e Damiano, autentico tempio comitale dei feudatari locali. Negli anni seguenti saranno due pittori di Bitonto a ricevere gli incarichi maggiori: Carlo Rosa e Nicola Gliri. Il primo dipinse la pala raffigurante il Battesimo di Cristo affiancata dalle piccole tele raffiguranti Episodi della vita del Battista. Qui il pittore si misura con la lezione di Paolo Finoglio, producendo un testo figurativo di grande interesse, nel quale accanto alla componente lessicale finogliesca, pare potersi scorgere un significativo interesse verso la cultura pretiana. A Nicola Gliri, operoso anche per il vicino monastero dei SS. Medici, spetta un posto di primo piano nel rinnovamento della veste decorativa della chiesa. Sono sue opere la Crocefissione tra i santi Antonio abate e Antonio da Padova, collocata sul primo altare della navatella sinistra, e il gruppo di quattro dipinti con episodi della via Crucis oggi depositato nella sacrestia della chie-

sa. Inoltre, le ricerche svolte in occasione della mostra hanno permesso di ricondurre al pittore un’inedita Pietà, rinvenuta negli ambienti annessi alla sacrestia. Allo stesso autore è stata attribuita, infine, l’antiporta di un Rituale proveniente dal monastero e attualmente conservato presso il locale Archivio Diocesano, recante nel recto lo stemma della casata Acquaviva d’Aragona e nel verso la Vergine in gloria tra le sante Elisabetta e Margherita. L’opera più importante realizzata dal pittore per il cenobio benedettino è, tuttavia, costituita dagli affreschi disposti sulle tre cupole che scandiscono l’edificio. Sulla cupola prossima all’ingresso medievale, caduto in disuso a partire dalla prima età moderna, l’artista dipinge quattro Sante dell’ordine benedettino: Scolastica, Lutgarda, Aldegundis e Gertruda, e, nell’intradosso, quattro episodi relativi alla Vita di San Bernardo. Nell’intradosso della seconda cupoletta, in corrispondenza dell’area presbiteriale, trovano posto quattro riquadri mistilinei che presentano episodi della Vita di San Benedetto, mentre sui pennacchi figurano quattro pontefici dell’ordine benedettino: Leone IV, Gregorio Magno, Celestino V e Bonifacio IV. I pennacchi della cupola centrale, infine, presentano le quattro Virtù cardinali. Considerando il pro-


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NICOLA GLIRI, SCENE DELLA VITA DI SAN BERNARDO (sec. XVII)

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gramma iconografico sviluppato nella decorazione eseguita sulla navata centrale della chiesa, è evidente che questo prevedeva la celebrazione del più rappresentativo esponente dell’ordine cistercense, san Bernardo, al quale appartiene la comunità monastica femminile che abita il monastero, e del santo fondatore dell’ordine che aveva dato vita all’insediamento, san Benedetto. Ancora, la committenza intese celebrare i pontefici dell’ordine benedettino, non casualmente raffigurati in prossimità dell’area presbiteriale, ai quali si volle aggiungere la presenza delle quattro sante benedettine, dipinte nei pennacchi della prima cupola: la vistosa esibizione del pastorale delle quattro sante, che furono tutte badesse, non può che essere letta come l’esplicito richiamo dell’autorità delle “badesse mitrate” e della loro giurisdizione quasi-vescovile sulla terra e sul clero di Castellana. Appena fuori dall’antico portale d’ingresso alla chiesa, su un baldacchino attentamente addobbato per una solenne e rituale cerimonia, la badessa riceveva l’atto del “baciamano” dovuto dal clero castellanese. Sarà tuttavia il caso di porre in evidenza quanto dall’esame stilistico dei dipinti eseguiti dal pittore nella chiesa mo-

nastica emergano segni di un’attività protratta nel tempo. Se si confronta, infatti, la severa e fosca Crocefissione commissionata dalla comunità monastica, con gli affreschi eseguiti dal pittore, si vedrà come essa presenti un singolare andamento linearistico: le figure allungate e parossisticamente atteggiate sembrano piuttosto lontane dalle ampie e ammantate figure femminili delle menzionate pitture murali. In queste ultime il pittore pare invece manifestare un più sensibile approfondimento del proprio lessico in chiave classicista, laddove si debba intendere soprattutto una cordiale meditazione sui testi figurativi stanzioneschi. All’équipe del bitontino è attribuibile il soffitto della camera della badessa recante al sommo un’insolita raffigurazione allegorica dell’amore virginale. Essa è accompagnata dal motto:

ARS EST ARTIUM ARS AMORIS AMOUR EST L’ART DES ARTS, CAR EN SON IARTEFICE / L’ESPRIT LE PLUS SCAVANT, SE TREUVE ETRE NOVICE

Le indagini hanno consentito di rintracciare la fonte del motto e della stessa raffigurazione, identificabile in un’incisione tratta dal volume di Ludovicus van Leuven, Amoris divini et humani antipathia, pubblicato ad Anversa nel 1629. Infatti, nella sezione dedicata all’amore e in corrispondenza dei versi citati, compare un emblema del tutto sovrapponibile a quello effigiato nel soffitto dall’anonimo artista. È peraltro interessante notare come, nel volume, il motto venga attribuito allo stesso Bernardo di Chiaravalle: lo attesta l’abbreviazione «Bern» che figura in corrispondenza dei versi. Se si pone il soffitto in relazione alla porta raffigurante il Gigante Argo, risulta chiaro che il breve programma iconografico del piccolo ambiente era relativo alla celebrazione dell’amore religioso, di cui Argo e i due putti armati di frecce finiscono per essere i severi e vigili custodi


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02 NICOLA DE FALCO, OSTENSORIO (1716)

Il tesoro di

San Benedetto di Conversano 01

ARGENTIERE NAPOLETANO, PASTORALE (primo decennio sec. XVII)

IL COMPLESSO DEGLI ARGENTI DEL MONASTERO DI SAN BENEDETTO

Argenteria napoletana e romana prodotta da artisti di buona fama GIOVANNI BORACCESI

I

l monastero femminile di San Benedetto di Conversano, importante sede di culto nel corso di tutta la sua storia, fu sì un centro di vita ritirata ma anche un luogo che accolse splendori d’arte d’ogni tipo. Offre in questo senso indicazioni probanti la gran mole di argenti, ovviamente quelli superstiti, la cui cronologia è compresa fra il XVII e il XIX secolo. La mostra attualmente in corso e il relativo catalogo diventano dunque occasione unica e irripetibile per vedere e divulgare nella sua interezza la collezione, fino a ieri inaccessibile, dei manufatti ecclesiastici del monastero conversanese.

nasticamente agli Acquaviva d’Aragona conti di Conversano, il cui mecenatismo fu forza propulsiva delle arti e più in generale della cultura cittadina. Accanto alla massiccia presenza di argenteria napoletana prodotta da artisti di buona fama, non mancano alcune suppellettili provenienti da Roma, la cui identificazione è stata possibile grazie al riconoscimento dei relativi punzoni. Ai primordi del Seicento nel cenobio benedettino pervennero diversi reperti quasi tutti connotati dall’alta perizia tecnica e dai costi di realizzazione, e ciò anche in forza delle cospicue entrate rivenienti dal proprio patrimonio immobiliare urbano e rurale, dai censi e dai legati pii.

In tale raccolta, oltre ai consueti argenti liturgici, sono presenti oggetti legati alle cerimonie solenni, alla venerazione delle reliquie e alla vita interna del complesso monasteriale; si pensi, a tal proposito, alla serie di gesti rituali e ai relativi arredi, utilizzati per la monacazione delle professe. In generale tali manufatti rispecchiano l’inclinazione culturale delle religiose, in particolare delle badesse mitrate, talune legate di-

L’esempio più magniloquente di tale grandiosità decorativa è dato sia dal Pastorale, sia dal Servizio da lavabo. Il primo, simbolo del potere spirituale e temporale delle “badesse mitrate” (è nota la giurisdizione sulla Terra di Castellana) acquisito per antiche concessioni papali, fu richiesto a Napoli attorno al secondo decennio del Seicento, verosimilmente per l’investitura di una badessa: forse Donata Acquaviva (1612-1617


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03 ARGENTIERE NAPOLETANO, RELIQUIARIO DELLA SACRA SPINA (primo tentennio sec. XVII)

Il monastero conversanese può orgogliosamente vantare l’Ostensorio del 1717 e poi 1623) o Caterina Acquaviva d’Aragona (1618-1623; 1627-1638), quest’ultima sorella di Giulio I, conte di Conversano (1607-1626). L’asta del pastorale, con nodo a cilindro e figure cesellate, termina con una curvatura a spirale che accoglie l’effigie di San Benedetto. Sotto gli auspici di Barbara Tarsia, badessa dal 1638 al 1641, fu confezionato invece il notevolissimo Servizio da lavabo, corredato da bacile e brocca accuratamente cesellati; nel mezzo del bacile sono riportati il nome e lo stemma della donatrice. L’opera, da riferire a un argentiere napoletano d’indiscutibile capacità, è sicuramente il pezzo più rimarchevole dell’intera collezione. In ragione dell’imperante gusto estetico e di taluni rinnovamenti edilizi effettuati all’interno della chiesa, ancor più massiccia è qui la presenza di argenti del Settecento connotati da esuberanti decori e da virtuosistiche forme. Nel luminoso percorso dell’argenteria partenopea di quest’epoca, il monastero conversanese può orgogliosamente vantare l’Ostensorio del 1717, in realtà del 1716, sovrabbondante di fregi e tempestato di pietre preziose e semipreziose. L’impugnatura del manufatto è costituta da una microscultura in argento fuso raffigurante San Benedetto dal cui capo s’innalza la raggiera.

04 ARGENTIERE NAPOLETANO, LAVABO (1638-1641)


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ANIELLO D’APUZZO, NAVICELLA E CUCCHIAINO (metà sec. XVIII)

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ANIELLO D’APUZZO, TURIBOLO (metà sec. XVIII)

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Di manifattura romana è invece l’elegante Calice in argento dorato, di cui è autore Filippo Galassi, probabilmente acquistato durante il Giubileo del 1725. Nella varietà delle tipologie che connotano i numerosi pezzi del XIX secolo, inizialmente ispirati alla cultura archeologica, vale annoverare il Calice di Saverio Salzano commissionato nel 1819 dalla monaca Generosa Troylo, appartenente a una famiglia aristocratica di Putignano. Più tardi lo stesso Salzano, evidentemente gradito alla committenza, realizzerà un Turibolo e una Navicella, entrambi ligi ai modi del neoclassicismo. Tuttavia, se si considera l’entità dei manufatti liturgici giunti sino a noi, essa appare stridente con quanto emerso dal materiale documentario, indicativo di ben altre consistenze: a metà ‘700 figuravano nel patrimonio della chiesa un Tabernacolo vestito di lamine d’argento abbellito con pietre e finimenti vari d’argento indorato, un busto argenteo di San Benedetto, ma anche un sontuoso Tronetto per l’esposizione eucaristica, quest’ultimo realizzato dall’argentiere napoletano Francesco Manzone.


30 L’IDEA

07 ARGENTIERE NAPOLETANO, LEGATURA DI LIBRO LITURGICO (primo decennio sec. XVIII)

Tali manufatti risultano fusi nel 1798, assieme ad altri preziosi, dalla Zecca di Napoli per ricavarne moneta corrente per causa della guerra de’ Francesi, così come disponeva un dispaccio di Ferdinando IV di Borbone valido per tutte le città del Regno.

pitale partenopea, di formulare inedite proposte attributive rispetto a quanto già asserito in passato. Insomma, utili tasselli da inserire in un più ampio e finora disatteso aggiornamento dei punzoni napoletani, ben lungi dal dirsi completato

Gli argenti superstiti – importanti sia per quantità e varietà di tipologie, sia perché legati a particolari riti di affiliazione all’ordine monastico femminile – non solo testimoniano lo sviluppo dell’arte orafa napoletana in un arco cronologico compreso tra il XVII e il XIX secolo, ma allo stesso tempo accrescono le informazioni circa gli artefici.

08 ARGENTIERE NAPOLETANO, RICCIO DI PASTORALE (primo decennio sec. XVII)

Il riconoscimento dei punzoni impressi sulla gran parte di questa raccolta, in specie quelli relativi ai secoli XVIII e XIX, ha permesso di identificare artigiani fino a ieri sconosciuti, di definire meglio le conoscenze dei maestri orafi noti, spesso tra i più qualificati della ca-

Gli argenti superstiti non solo testimoniano lo sviluppo dell’arte orafa napoletana, ma accrescono le informazioni circa gli artefici


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01 SPILLA A FORMA DI FIOCCO IN ARGENTO CON SMERALDI E DOPPIETTE, DI MANIFATTURA NAPOLETANA (metà sec. XVIII)

RITA MAVELLI

Sacri Splendori IL “TESORO” DELLA MADONNA DEL ROSARIO

I

l culto della Madonna del Rosario a Conversano é intimamente legato alle vicende della famiglia Acquaviva d’Aragona e al monastero di San Benedetto. Dopo la battaglia di Lepanto fu istituita la festa del Rosario, per commemorare la vittoria cristiana avvenuta sotto la speciale protezione mariana, ed i papi Pio V e Gregorio XIII si impegnarono a divulgarne la devozione. Patrocinando questo culto in età post-tridentina, i conti di Conversano si proposero come paladini della cristianità, vantando un capostipite, Giulio Antonio, morto combattendo contro i Turchi ad Otranto nel 1481, Adriano che nel 1571 aveva partecipato alla battaglia di Lepanto e Giangirolamo II che, giovanissimo, aveva combattuto in difesa di Manfredonia nel 1617. Fu Dorotea Acquaviva ad introdurre nella chiesa di San Benedetto il culto mariano, ottenendo già nel 1572 dal vescovo di Nardò la fondazione della cappella del Rosario nella chiesa conventuale, di cui era badessa un’altra Acquaviva, Isabella.


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02

PENDENTE IN CORALLO DI PRODUZIONE TRAPANESE (seconda metà sec. XVII)


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03 GOLIERA CON PENDENTE IN ARGENTO, SMERALDI E DIAMANTI DI FATTURA NAPOLETANA (prima metà sec. XVIII)

Nella stessa chiesa più tardi sarebbe stata istituita la confraternita del Santissimo Rosario, soggetta all’autorità della badessa benedettina. Dopo la peste del 1690, per la speciale protezione riservata alla città durante l’infuriare dell’epidemia, probabilmente cominciarono ad affluire i primi doni preziosi che costituiranno il tesoro votivo della Madonna del Rosario. Questo “tesoro” risulta composto da un nucleo più antico di gioielli con pietre di alto pregio, databili ai secoli XVII e XVIII, da medaglioni e corone di rosario di uso devozionale del XVIII secolo e da molte oreficerie popolari offerte, fra XIX e XX secolo, dai fedeli devoti alla Madonna.

La contessa Dorotea Acquaviva d’Aragona fu autrice dei primi doni alla Madonna del Rosario, consolidando il legame con il monastero di San Benedetto

I gioielli più antichi sono doni che svelano il rango sociale degli offerenti, rappresentandone il prestigio nelle cerimonie religiose solenni, esibiti sulle statue della Madonna e del Bambino insieme alle vesti più sfarzose. Molti gioielli sono stati adattati a collarine e polsetti in tessuto o alla scollatura della veste settecentesca della Madonna, con alterazioni dell’aspetto originario. Tuttavia queste modalità, comuni ai tesori votivi indossati dalle statue dei santi patroni durante le pratiche devozionali, hanno permesso la conservazione dei gioielli antichi, perchè la valenza devozionale li ha salvati dalle dispersioni. Fra i gioielli più delicati del tesoro compare un pendente in corallo del Mediterraneo, databile alla fine del Seicento, prodotto a Trapani, città dove il corallo fu lavorato da artigiani ebrei a partire dal XV secolo. Materiale fortemente simbolico e dalle proprietà apotropaiche, il corallo era molto diffuso nella gioielleria profana e fu utilizzato ampiamente per realizzare i grani delle corone di rosario, sgranati durante la recita della preghiera, che risale agli inizi del XIII secolo e fu resa popolare da San Domenico. Il termine, derivato dal latino rosarium, allude al fatto che le preghiere che compongono questa devozione simboleggiano un mistico serto di rose in onore di Maria. Ne troviamo riscontro nella bella tavola con la Madonna del Rosario, dipinta da Michele Damasceno fra il 1572 e il 1574 per l’altare fon-


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ORECCHINI A GIRANDOLES, IN ARGENTO CON SMERALDI E DIAMANTI (seconda metà sec. XVIII)

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04 SPILLA A FORMA DI UCCELLO, IN ARGENTO CON SMERALDI E DIAMANTI DI MANIFATTURA NAPOLETANA (primi decenni sec. XVIII)

dato nella chiesa di San Benedetto. Nel tesoro votivo, fino ai primi decenni del Novecento, figuravano altri gioielli di corallo che sono attualmente dispersi. Nei corredi delle nobili famiglie, a partire dalla fine del Cinquecento, sono presenti corone di rosario delle materie più varie, intercalate a pater nostri aurei: le filze hanno grani in cristallo di rocca, corniola, corallo, lapislazzuli, diaspro. Anche i Medici a Firenze possedevano corone e decine di rosario in pietre dure, come quelle “d’eliotropia con rosette d’oro smaltato ad ogni grano”, che facevano parte del corredo della Cappella Palatina di Palazzo Pitti. Particolarmente simili nella lavorazione sono le corone conservate nel “tesoro” delle benedettine di Conversano, che dunque furono realizzate probabilmente da botteghe fiorentine di corte, dove operavano maestri specializzati provenienti anche da altre regioni. Documentano pellegrinaggi a Roma i medaglioni d’argento, attualmente associati a corone di rosario con grani in agata o in legno, di fattura più recente; un solo medaglione custodisce la reliquia di San Benedetto, che nel 1641 era stato proclamato patrono di Conversano. La maggior parte degli ornamenti offerti alla Madonna erano in origine gioielli profani, con ogni probabilità donati da membri della famiglia Acquaviva d’Aragona, per la qualità e quantità di smeraldi e diamanti che li impreziosiscono. Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona amava circondarsi di oggetti preziosi in materiali rari e possedeva un ricco patrimonio di gioielli con smeraldi, molti dei quali furono impegnati per far fronte alle burrascose vicende della sua vita. La passione per gli smeraldi, d’altra parte, era diffusa fra l’aristocrazia spagnola, che per ostentare la propria ricchezza investiva nell’acquisto di queste pietre, provenienti dalle miniere scoperte in Perù e in Colombia.

Sui polsetti, sulla collarina e sulla goliera della Madonna del Rosario sono cuciti pezzi di varia lunghezza di “cintiglio”, dallo spagnolo cintillo, termine che indica negli inventari antichi le cinture o catene di lunghezza variabile, in oro, pietre e perle, spesso smalti. Si tratta di gioielli dalla struttura modulare, con maglie agganciate fra loro, che potevano comporre catene da portare sul busto, catene da cappello, collane e collari, cinture e bordi, bottoni o singole decorazioni per il tessuto delle vesti. I pezzi di cintiglio nel tesoro votivo hanno maglie molto più semplici, che rispecchiano infatti il gusto della prima metà del Settecento: sono in argento, con una struttura molto leggera e traforata. Le maglie sono di due tipi diversi, agganciati tra loro, a tratti completamente nascoste dai castoni, che valorizzano lo splendore degli smeraldi, maggiori per dimensione rispetto ai diamanti presenti sulle maglie minori. Ben diversa é la datazione di un altro pezzo di cintiglio, applicato alla collarina della Madonna: di fattura molto raffinata, questo risponde ad un gusto tardo seicentesco. Il disegno delle maglie, in oro, é più compatto, il taglio delle gemme, probabilmente diamanti, più accurato per valorizzarne la lucentezza. Il gioiello é reso gradevolmente policromo dalla presenza di una smaltatura nei colori del bianco, azzurro chiaro e nero, che si distende con grande finezza anche sulla parte posteriore, secondo una tecnica perfezionata nei primi decenni del Seicento dal francese Jean Toutin. Opera di maestri napoletani é invece la più preziosa delle spille da corpetto (devant de corsage), che viene indicata come dono degli Acquaviva d’Aragona e che ricorda nel disegno complessivo l’apertura alare di un uccello di grandi dimensioni. Un’aquila é infatti pendente sotto il gioiello. Le aquile, presenti su due ornamenti da corsetto, alludono al casato del principe


35 L’IDEA

SPILLA IN ORO CON RUBINI E DIAMANTI DI FATTURA NAPOLETANA (prima metà sec. XVIII)

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Spinelli di Tarsia, che, insieme al titolo di marchese del Sacro Romano Impero, aveva ricevuto da Ferdinando II d’Austria il privilegio di inserire nello stemma l’aquila imperiale. Poiché anche il ramo femminile poteva fregiarsi dell’emblema, si ritiene che i gioielli siano appartenuti a Maria Teresa Spinelli, andata sposa a Giulio Antonio III Acquaviva d’Aragona, il 24 gennaio 1711 a Portici. Stilisticamente la spilla d’argento é databile al secondo decennio del Settecento, negli stessi anni (1713) in cui Matteo Treglia coordinava il lavoro dei migliori artigiani del Borgo degli Orefici in Napoli per la realizzazione della splendida mitria di San Gennaro. Il lavoro orafo del Treglia si distingue per il raffinato senso della forma plastica, cui contribuisce il ruolo giocato dai diamanti, utilizzati per accendere di luce il partito vegetale, e per la morbidezza stessa dei racemi d’argento, nei quali si realizza una mimesi perfetta con i giardini fioriti dispiegati sui tessuti coevi. Gli stessi caratteri sono ravvisabili anche nel gioiello della Madonna del Rosario, che allo stato attuale delle conoscenze si propone di attribuire a questo maestro, in attesa di futuri approfondimenti delle ricerche. Di poco successiva é invece la realizzazione della seconda, più piccola, spilla in oro con rubini e diamanti. La fattura dei castoni e il leggero effetto sfrangiato delle foglioline sono analoghi a quelli dell’ornamento in argento e anche qui domina in alto en tremblant l’aquila a volo. La terza spilla da corpetto propone la forma del fiocco, ma presenta molte doppiette, pietre composite, risultato dell’unione di due materiali diversi saldati insieme, a simulare l’effetto di una pietra pregiata. Il disegno del gioiello é un’evoluzione seicentesca del fiocco di nastro e fettuccia che guarniva le vesti femminili. Il nodo con asole ricurve, in metallo e gemme, che imita la naturalezza del

tessuto, diventò di moda in tutta Europa, fino alla seconda metà del XVIII secolo, grazie anche alla marchesa di Sévigné che legò il suo nome a questo tipo di ornamento. Le nobildonne napoletane e le regine di casa Borbone nel Settecento indossavano “ciappe”, ossia spille, alla scollatura dell’abito di dimensione via via più ridotta fino alla vita, mentre altre gioie trattenevano i lembi delle maniche o fissavano l’orlo del mantello e particolari bracciali fermavano sul braccio pizzi e tessuti della manica, legato posteriormente con dei nastri. Anche l’orecchino a girandoles sembra abbia un’origine parigina; infatti con questo disegno compaiono numerosi gioielli nelle tavole con modelli per orafi di Gilles Légaré, gioielliere di Luigi XIV attivo presso il Palazzo del Louvre. I gioielli otto-novecenteschi del tesoro, se pur significativi per le mode del tempo e la meccanizzazione delle tecniche orafe, hanno un valore intrinseco più contenuto, commisurato alla classe borghese, che ne era acquirente destinataria, desiderosa di poter adeguare l’ornamento sia maschile che femminile al rapido mutare della moda. Resta da immaginare chi possa aver donato i gioielli più antichi e preziosi del tesoro. Dorotea, rimasta vedova di Giulio II, resse la contea di Conversano ed il ducato di Nardò fino alla maggiore età del figlio Giulio Antonio, occupandosi, dopo gli anni della peste, della causa di dissequestro dei beni di famiglia e del recupero degli argenti e oggetti preziosi depositati dal defunto marito presso le sorelle, monache in San Benedetto. Verosimilmente fu lei autrice dei primi doni alla Madonna del Rosario, stabilendo una consuetudine poi seguita dalla nuora Maria Teresa Spinelli e, forse, dalle successive contesse dello stesso casato, per consolidare una volta di più il legame con il monastero benedettino e con la Madonna del Rosario


36 L’IDEA

STENDARDO DI SAN BENEDETTO, TAFFETAS DI COLORE ROSSO RICAMATO CON SETE POLICROME (sec. XVII)

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Il tesoro di

San Benedetto di Conversano

I TESSUTI, I RICAMI, LE VESTI

Il patrimonio tessile di San Benedetto rimarca il ruolo delle badesse nello splendore della loro chiesa MARIA PIA PETTINAU VESCINA

l patrimonio tessile di San Benedetto, databile tra la fine del Cinquecento e la seconda metà dell’Ottocento, soltanto parzialmente riesce a dare l’idea del ricco tesoro di arredi e paramenti sacri costituitosi nei secoli. Quanto rimane è comunque sufficiente a rimarcare il ruolo delle badesse nello splendore della loro chiesa vestita delle sete più pregiate nei riti di monacazione, nelle festività dell’anno liturgico, nelle ricorrenze dedicate principalmente a san Benedetto, alla santa Croce e alla Madonna del Rosario. È plausibile ipotizzare che stoffe e ricami della corte degli Acquaviva d’Aragona abbiano avuto un’appendice nel monastero quando le badesse provenivano dalla famiglia comitale. I paramenti selezionati per l’esposizione sono, per la maggior parte, confezionati con sontuosi tessuti di destinazione abbigliamentaria, ricavati probabilmente da vesti dismesse, offerte come doni devozionali. Ma non mancano esemplari in damaschi di arredo o in tessuti uniti, impreziositi di ricami in sete e oro a profusione.

I damaschi per la loro struttura tecnica hanno resistito al tempo meglio di altre armature. Alcuni esemplari scelti per la mostra sono caratterizzati dal disegno “a mazze”, motivo che nella seconda metà del Cinquecento segnala per forma e dimensioni modulari il definitivo differenziarsi tra tessili per abbigliamento e per arredamento; altri evidenziano girali polilobati, disposti a orientamento contrapposto per imprimere un effetto dinamico all’impaginato; altri ancora presentano maglie che incorniciano elementi florealvegetali. Quest’ultimo schema si riscontra in un parato di damasco rosso, broccato in oro à liage repris, probabilmente affine a quello, purtroppo non sopravvissuto, che i documenti d’archivio descrivono “in seta intessuta a fili d’oro”, donato dal conte Adriano Acquaviva d’Aragona nel 1607 alla badessa Vittoria Palagano, per la cappella del Rosario. Più sofisticato appare un tessuto già destinato a una preziosa veste degli anni quaranta del Seicento, prima di essere impiegato in un parato, un luminosissimo taffetas di colore viola operato in argento lamellare, in cui i motivi floreali, tanti e diversi fra loro, si affollano in un horror vacui mosso da più direttrici del disegno. Uno scialle in seta, di provenienza spagnola, collocabile nella seconda metà dello stesso secolo, utilizzato come velo omerale, inserisce, fra le sue bande orizzontali, motivi di animali in movimento, di ascendenza medievale.


37 L’IDEA

02 CONOPEO DI TABERNACOLO, RASO DI SETA RICAMATO (gilet maschile riutilizzato, 1770-1780)

Al nucleo secentesco va ascritto anche lo stendardo ricamato con l’immagine di San Benedetto, titolare di chiesa e convento. Notevole è l’impatto visivo per il contrasto fra la figura severa e la chiara fabbrica di chiesa e convento, che il Santo sorregge con la mano sinistra. Ai suoi piedi le immancabili insegne badessali, la mitra decorata in oro e il pastorale. Il ricamo fu,

insieme alla lavorazione del merletto a fuselli, sia in lino che in argento e in oro, una delle principali attività praticate nel chiuso del convento; se ne conservano esempi in una pianeta a vivaci motivi florealvegetali, eseguiti a fili stesi in seta floscia e nei pizzilli con cui sono stati guarniti camici, cotte e rocchetti e panni liturgici come corporali e tovaglie d’altare.


38 L’IDEA

DALMATICA, DAMASCO CLASSICO BROCCATO, DECORATO CON DISEGNO BIZARRE (primo decennio sec. XVIII)

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Nel corso del Settecento i continui mutamenti delle mode e del gusto si riverberano nitidamente e presentano le loro forme astratte, come ad esempio nel damasco broccato di colore giallo brillante del parato della badessa Giuditta Pascale. È lei a richiedere durante il suo mandato, nel 1712, alla Sacra Congregazione per i Negozi e le Consultazioni dei religiosi, un decreto che vieti alla chiesa di San Benedetto il prestito di argenti, parati e altre suppellettili per evitare perdite di preziosi manufatti. In Puglia la diffusione dei tessuti bizarre è stata notevole, se ne trovano ovunque nelle chiese, dal Gargano a Santa Maria di Leuca. La reinvenzione delle fantasie decorative delle sete dell’estremo Oriente, alle quali sono improntate queste magnifiche stoffe dai disegni spesso indecifrabili, affascinò l’Europa tra fine Seicento e primi decenni del Settecento. Se ne producevano soprattutto in Italia, Francia, Inghilterra. Spesso le composizioni decorative si fondevano con quelle della coeva tipologia à dentelle, ispirata ai merletti. Esemplificativo di questa combinazione è l’ampio decoro di un telo da rivestimento in damasco rosso, da includere fra gli apparati delle cerimonie solenni, tra i drappi del baldacchino o tra quelli posti alle spalle del trono badessale. Lo splendido disegno a grande rapporto, articolato nella complessità della sua

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PIANETA, GROS DE TOURS LAMINATO IN ARGENTO CON RICAMO IN ORO E SETE POLICROME (primi decenni sec. XVIII)

La magnificenza barocca trova espressione in un parato ricamato in sete policrome e fili metallici pregiati

invenzione, è davvero insolito per un damasco. La magnificenza barocca trova espressione in un parato ricamato in sete policrome e fili metallici pregiati: un trionfo di luci modulate e di colore, di astrazione e naturalismo. Gli echi della moda rococò affiorano nei paramenti della metà del Settecento, nei tessuti abbigliamentari alleggeriti, taffetas semplici e doublés, broccati in sete policrome e filati metallici, animati da motivi che corrono in verticale sinuoso, “a meandro”, in un dettato decorativo che in numerosissime varianti segnerà la storia del tessuto e della moda in Europa sino agli anni Settanta dello stesso secolo. Il tessuto di una pianeta, una primizia della nuova linea serpentinata, coniuga in un amalgama di indubbio fascino i colori delle porcellane cinesi con le astrazioni ereditate dalle fantasie bizarres e la vaghezza dei motivi floreali. Altre varianti della impostazione “a meandro” percorrono con la loro fluidità i fondi bianchi o in tonalità pastello di alcuni paramenti. Poi prevalgono le soluzioni compositive più distillate e più rigide, di gusto neoclassico: leggeri pekin sommano il minimalismo delle spartiture verticali a raffinati effetti chiné à la branche. Le ultime divagazioni settecentesche da “mondo alla rovescia” compongono immagini di scimmie cacciatrici munite di fucili tra i ricami di alcuni gilet di habit à la française, sorprendentemente riciclati in un conopeo di tabernacolo. Se il bellissimo abito della Vergine, corredato di magnifiche gioie e concepito in tutta la sua magnificenza come una veste regale, rammenta l’importanza del culto mariano nato sulla vittoria di Lepanto e sintetizza l’irripetibile stagione della ricerca stilistica ed esecutiva del ricamo settecentesco, un magnifico “merletto” di contorno all’altare consegna ai posteri la storia delle badesse mitrate di San Benedetto, raccontata per simboli. In realtà si tratta di un ricamo su tulle, eseguito magistralmente da Maria Micucci di Casamassima nel 1857 su un progetto disegnativo raffinato e colto (Napoli? Roma?). Accoglie nostalgicamente, al centro, l’antico emblema del potere badessale, irrimediabilmente perduto


39 L’IDEA

01 GUANTI BADESSALI IN SETA E ORO FILATO (sec. XVIII)

Tra storia e tradizioni

Il baciamano alla badessa ANTONIO FANIZZI

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a badessa del monastero di San Benedetto di Conversano era investita della giurisdizione feudale e di quella ecclesiastica sulla cittadina di Castellana, originariamente concesse all’abate del monastero benedettino. Le cistercensi, infatti, che nel 1266 erano entrate in possesso del monastero conversanese, ne ereditarono le antiche giurisdizioni e i diritti: le badesse divennero il “vescovo” di Castellana ed esercitarono tale potere ininterrottamente, pur tra controversie e contestazioni, fino al 1810. La giurisdizione spirituale, che però non fu un caso eccezionale nella storia del monachesimo femminile, valse al monastero conversanese l’appellativo di Monstrum Apuliae. La soggezione del clero

castellanese e l’attestazione della sua dipendenza dall’autorità della badessa venivano manifestate con il rito del baciamano, che pare sia stato introdotto solo nel 1577, in occasione della elezione della badessa donna Isabella Acquaviva d’Aragona: il clero di Castellana era chiamato presso la chiesa di S. Benedetto di Conversano e prestava il proprio omaggio alla badessa neoeletta. Da documenti posteriori si ricava che il clero castellanese era infastidito non tanto dalla soggezione canonica alla badessa, quanto dalle modalità con cui si svolgeva il rito del baciamano: esso avveniva in pubblico, alla presenza di personaggi appartenenti alla famiglia comitale, dei nobili della città di Conversano e delle cittadine vicine.


40 L’IDEA

MITRA BADESSALE, TELA RICAMATA E DECORATA CON PIETRE COLORATE (sec. XVIII)

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PERGAMENA MINIATA, RELATIVA ALLA ELEZIONE DELLA BADESSA ISABELLA TOMMASA ACQUAVIVA D’ARAGONA (1695)

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Il 23 dicembre 1638, per esempio, quando fu eletta badessa Barbara Tarsia, il Capitolo di Castellana presentò il proprio omaggio offrendo alla nuova badessa venti ducati come cattedratico, per compensare le spese affrontate dal monastero nell’allestire il pranzo per i capitolari. In più i capitolari si impegnarono a far arrivare da Noci il “soprano” don Leone Rinaldi per il giorno 2 gennaio 1639, per “cantare a due cori” nella chiesa di San Benedetto. Quel giorno, che era domenica, i capitolari furono obbligati ad “andare tutti a dare l’obbedienza alla Signora Abbadessa”. Il baciamano a donna Barbara Tarsia fu, come al solito, seguito da un regolare atto notarile rogato da notar Francesco Giuliani seniore. L’atto descrive lo svolgimento della cerimonia: dopo la messa solenne celebrata sull’altare maggiore della chiesa di San Benedetto con la presenza del clero di Castellana, tutti gli intervenuti (ciascun primicerio, sacerdote, diacono, suddiacono e chierico, nominalmente individuato nell’atto) si trasferirono dinanzi alla porta del chiostro grande dove si trovava la badessa, seduta in trono con baldacchino; ai suoi lati erano le monache decane, una delle quali reggeva la mitra dorata e un’altra il pastorale d’argento. I sacerdoti prestarono il giuramento di fedeltà ed obbedienza alla badessa,

SEGGIO BADESSALE, LEGNO INTAGLIATO E DIPINTO E IMBOTTITURA IN VELLUTO (primi decenni sec. XIX)

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attestarono di essere sottomessi al vicario generale e a quello foraneo, di pagare le decime e gli altri diritti del monastero e quindi, singolarmente, baciarono la mano della badessa che era coperta da un lembo della cocolla grande, bianca secondo l’uso dei Cistercensi. Nel corso del secolo XVII anche i vescovi conversanesi misero in atto una forte opposizione nei confronti del monastero, tentando, senza riuscirci, di esercitare su di esso il proprio controllo e di riportare nella diocesi la terra di Castellana. Nel 1705 il clero di Castellana, a sua volta, volendosi sottrarre al rito del baciamano, protestò solennemente dinanzi alla Congregazione dei vescovi e regolari, la quale il 15 luglio 1709 portò solo alcune modifiche formali all’atto del baciamano: sostituì la genuflessione, fino ad allora richiesta ai sacerdoti, con un inchino profondo, e prescrisse che la mitra e il pastorale, in precedenza tenuti dalle decane al fianco della badessa, fossero collocati su un tavolino a lato del trono badessale. Le cerimonie proseguirono per tutto il secolo, sebbene in modo stentato e controverso. L’ultimo baciamano fu prestato, il 1° settembre 1809, a donna Aurora Accolti Gil, ultima badessa a esercitare giurisdizione vescovile, morta durante munere. Dopo la morte di donna Aurora la vita del monastero fu sconvolta dalla decisione di re Gioacchino Murat: il ministro della Giustizia e del culto, Francesco Ricciardi, il 2 maggio 1810 comunicò al vescovo di Conversano, monsignor Gennaro Carelli, che il re aveva deciso di abolire la giurisdizione vescovile del monastero di S. Benedetto e ordinava di aggregarlo, con la conseguente cura delle anime, alla sua diocesi: finì così il cosiddetto Monstrum Apuliae


41 L’IDEA

01 CORO LIGNEO, NEL MONASTERO DI SAN BENEDETTO (1728)

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STEMMA DEL MONASTERO, SUL CORO LIGNEO (1728)

Il tesoro di

San Benedetto di Conversano

LA VITA NEL MONASTERO MARISA CACCIAPAGLIA

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ul trono abbaziale di San Benedetto, monastero di clausura che accoglieva monache benedettine del ramo cistercense, si sono succedute dal 1266 in poi le badesse, donne di sangue aristocratico, cui toccava per antichi privilegi concessi da re, principi e papi, di esercitare un potere feudale e spirituale su un villaggio, il vico Castellano, i cui abitanti, ecclesiastici e laici, erano tenuti al giuramento di fedeltà, di sottomissione e di obbedienza. In particolare, la giurisdizione quasi vescovile delle “badesse mitrate” derivava dal fatto che l’istituzione monastica, per una concessione fat-

ta dal papa Pasquale II nel 1110 – poi più volte confermata dai pontefici successivi – aveva un territorio separato dal resto della diocesi e, quindi, su quel territorio la badessa di S. Benedetto esercitava le funzioni di “quasi vescovo”. Il monastero, con le caratteristiche di “prelatura nullius”, dipendeva direttamente dalla Santa Sede Apostolica, e le badesse che lo governavano godevano di autonomia dal vescovo ordinario e si insignivano di mitria, pastorale e anello. Vera “insula sacra”, il monastero era delimitato materialmente da un’alta cortina muraria che racchiudeva la chiesa intitolata a San Be-


42 L’IDEA

nedetto e l’edificio monastico, una costruzione articolata su diversi livelli e gravitante su due chiostri, quello più piccolo di epoca medievale e quello più grande seicentesco. La badessa, le monache coriste, le novizie e le educande, occupavano le celle e gli spazi secondo la nobiltà di nascita, la carica ricoperta, le attività di studio e di lavoro. Ai servizi e alle mansioni più umili erano addette le converse, le oblate, le serventi. Le fanciulle del ceto più alto, in primis quelle di casa Acquaviva d’Aragona, entravano giovanissime nell’educandato, “causa educationis”, e al termine di questa scuola, dopo due anni di noviziato che comportava il taglio dei capelli e

vescovo delegato che assisteva alle operazioni di voto e di scrutinio al di là della grata di ferro che indicava l’inizio della clausura, durava in carica per un triennio, secondo le disposizioni del Concilio di Trento, salvo deroga per la rielezione. Essa, chiusa nel cenobio, era rappresentata nella terra di Castellana dal vicario generale, di stanza a Conversano, e dal vicario foraneo lì residente. Indiceva le sante visite pastorali per il controllo del regolare esercizio religioso del clero, nominava i rettori delle chiese dipendenti, assegnava cariche e benefici ecclesiastici, deliberava sulle cause civili, criminali e miste, esercitando tutte le prerogative che le competevano. Gestiva l’immenso patrimonio fondiario con il supporto di avvocati, notai e procuratori che redigevano atti amministrativi, rogiti notarili per le donazioni, le vendite, le permute, la riscossione di canoni annui e censi e gli inventari dei beni posseduti. Era affidata a lei la cura della chiesa e la manutenzione dell’edificio su cui interveniva facendo eseguire restauri, pregevoli arredi artistici, ampliamenti e trasformazioni. Si deve p. e. alla badessa Vittoria Palagano la

LA VITA NEL

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MATRONEO IN LEGNO INTAGLIATO E DORATO RISERVATO ALLE MONACHE BENEDETTINE (sec. XVII)

la vestizione dell’abito bianco, accedevano alla professione e alla consacrazione. Le monache consacrate con l’abito dell’ordine (la tonaca bianca, lo scapolare nero, la cocolla bianca e il velo nero) entravano a far parte del coro, luogo eletto per le riunioni del Capitolo, ovvero del consiglio grande, convocato, secondo un antico costume, col suono della campanella. La badessa, seduta sul trono capitolare, e le monache negli stalli trattavano le questioni più importanti di carattere generale; per i problemi più urgenti e correnti veniva riunito il “consiglio della badessa”, costituito, oltre che dalla reverenda madre, dalla priora e dalle decane, monache scelte tra le più sagge e competenti. La badessa, capo e guida della comunità religiosa, occupava il primo posto sempre e ovunque. Eletta dalle monache a votazione segreta e alla presenza di un

committenza per l’acquisto a Napoli di un nuovo organo, a fine Cinquecento. Nel corso dei secoli il potere giurisdizionale e spirituale esercitato dalla badessa divenne causa di continue tensioni con l’ordinario locale, il vescovo di Conversano, e i riottosi preti castellanesi, che mal digerivano la sudditanza al monastero, ma di più ad una donna, cui spettava, una volta eletta o rieletta, l’ossequio del baciamano nonché il versamento del cattedratico, una strenna di 20 o più ducati. Piegare il ginocchio dinanzi alla badessa, seduta sul trono ricoperto di prezioso damasco e con i segni della sua regalità, per baciarle l’anello sulla mano inguantata, era atto divenuto intollerabile. Nel corso del XVIII secolo, un’infinità di liti oppose il monastero delle benedettine al renitente clero di Castellana, che a suon di denunce, ricorsi e quesiti alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, tentava di sottrarsi al giogo che lo umiliava. Soltanto nel 1810, con il decreto di Gioacchino Murat, re di Napoli, fu abolita quella che era stata ritenuta a torto una illegittima usurpazione.


43 L’IDEA

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a vita quotidiana, disciplinata dalla Regola di San Benedetto e dalle Costituzioni dell’Ordine cistercense, prevedeva l’alternanza di preghiera e di lavoro. Gli uffici divini diurni e notturni, la partecipazione ai riti liturgici, la meditazione quotidiana, la confessione, la recita del rosario, i ritiri spirituali erano tra le pratiche irrinunciabili per scalare i dodici gradini dell’ascesi indicati nella Regola per incontrare Dio. Accanto alla vita contemplativa, la vita attiva, fatta di lavoro e di esercizi utili al buon andamento della comunità, riguardava, tranne la badessa e la priora, tutte le religiose. Nei laboratori e nelle celle alcune monache tessevano, filavano, lavoravano con i ferri la lana per confezionare magliette intime, calzette, mantelline, mentre le altre cucivano la biancheria da cucina e da letto, i panni per l’infermeria e anche le sacchette per la biada degli animali. Le monache più abili realizzavano tovaglie d’altare con preziosi filati di seta e d’oro che raffiguravano fiori e frutti di richiamo simbolico. Era nota la perizia nell’esecuzione dei ricami delle monache benedettine di Conversano, tanto che venivano commissionati lavori da privati. La nobiltà del casato della maggior parte delle Signore religiose, che entrando nel monastero avevano portato con sé mentalità, modi di essere, sistemi di linguaggio legati al loro mondo di origine, esigeva la divisione dei luoghi e la sostitu-

officiali di cucina e mensa: la celleraria, la refettoraria, la dispensiera, la cantiniera, la panificatrice (la fornaia). Erano dette “settimanarie”, perché la prestazione prevedeva turni di sette giorni. Il servizio di mensa doveva funzionare alla perfezione ad evitare insoddisfazione nelle recluse, che proprio nel cibo trovavano il risarcimento a tante privazioni. Nonostante la Regola prescrivesse che si doveva dare a tutte in eguale misura e senza distinzioni, le particolarità provenivano dai donativi dei familiari, che, almeno in teoria, dovevano essere consegnati alla badessa per distribuirli alla comunità. A pranzo e a cena venivano servite pietanze che variavano nei generi e nella frequenza. Ordinariamente il menu prevedeva un primo di pasta semplice o all’uovo, due secondi di carne, contorno di insalata e il sopratavola, a base di salumi tagliati o di formaggi. La cena, servita al tramonto, dopo i Vespri, era più frugale: verdure, uova fritte o a frittata e il consueto sopratavola. Il livello cibario delle monache cistercensi era per quantità e per qualità molto alto se messo in relazione a quello degli altri ordini regolari, ma non se rapportato al patrimonio e alle rendite del monastero. Cereali, legumi, carne, olio, vino, formaggi freschi, ortaggi e verdure facevano parte dei prodotti delle terre, delle masserie

MONASTERO ASPETTI DELLA VITA QUOTIDIANA zione negli impegni manuali, compito svolto dalle persone a loro servizio. Vivevano nelle proprie celle con gli arredi e le suppellettili portate dai loro palazzi, e lì pregavano, mangiavano i cibi preparati dalle converse nella cucina delle Signore, ricevevano visite, accoglievano le nipoti pronte ad entrare in convento. La disponibilità economica derivante dalla dote versata dalla famiglia per l’ingresso nell’ordine monastico e autonomamente gestita, fino a quando fu tollerato, permetteva di usare quel denaro per l’acquisto di dipinti, reliquie conservate in teche di cristallo, statuine di santi e madonne con vesti di seta e di perle, o per l’esecuzione di affreschi votivi e parati liturgici. Il ‘reggimento’ delle monache, il cui numero oscillava da 90 a 45/50 residenti, era gerarchicamente strutturato in “officiali,” che operavano nella amministrazione (le deputate), nell’insegnamento alle educande e alle novizie, per avviarle alla conoscenza della Regola e delle Sacre Scritture, nella esecuzione di musica e di canto (le cantrici), nella organizzazione delle cerimonie (le maestre di cerimonie). Officiali di peso erano le lettrici, che dispensavano spiritualità recitando le vite dei santi; le uditrici, tenute ad accompagnare al parlatorio le monache che dovevano colloquiare in loro presenza con i parenti più stretti; le infermiere, che, seguendo il libro dei medicamenti, intervenivano per gli improvvisi malesseri; le portinaie, che con le numerose chiavi appese al cingolo, aprivano e chiudevano porte e lucchetti; le sacrestane, e le tante

tenute a colonia e degli orti, che venivano portati al monastero dai relativi conduttori. Se le quantità previste non risultavano sufficienti, la badessa e la deputata programmavano i rifornimenti per la dispensa invernale acquistando i generi di maggiore consumo nella stagione di più alta produzione, quando i costi erano più convenienti. L’alternativa era la “compra” al mercato del paese. Alle monache erano permessi anche cibi voluttuari, p.e. la cioccolata al gusto di vaniglia, il caffè e soprattutto i dolci che si producevano in quantità industriale con mandorle, miele, zucchero fino, aromi di cannella, chiodi di garofano e pezzetti di cioccolato. Con incredibile maestria le monache pasticciere confezionavano bocconotti, torte ‘rosate’, mostaccioli, graffioli, pizze dolci di ricotta e tante altre leccornìe. A movimentare la vita di clausura era l’arrivo delle feste, quelle canoniche di Natale, Capodanno e Pasqua, e quelle per le solenni celebrazioni dei santi fondatori, Benedetto e Bernardo, con processione, accompagnamento musicale, spari e distribuzione di dolci a cena. Ma a dare un senso più lieve alla vita delle religiose erano le elezioni delle badesse, quando si intravvedevano spiragli del mondo esterno a loro negato, e soprattutto le feste delle monacazioni, quando a pagare il lauto banchetto erano i parenti delle monacande e il clima di convivialità metteva in secondo piano il severo monito benedettino a farsi estranei ai costumi del mondo con l’animo votato a Dio


44 L’IDEA

STEMMA DEL MONASTERO DI SAN BENEDETTO SUL MURO DI CINTA DELLA MASSERIA CARBONELLI (sec. XVIII)

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PERGAMENA RELATIVA ALLE CONFESSIONI DEL CONTE NORMANNO GOFFREDO AL MONASTERO DI SAN BENEDETTO (1098)

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IL PATRIMONIO DEL MONASTERO

Le rendite prodotte dai possedimenti urbani e rurali facevano del monastero di San Benedetto una vera potenza economica

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trettamente connesse con le vicende religiose del monastero conversanese sono le vicende economiche, collegate con i numerosi e vasti possessi patrimoniali e con la gestione delle relative rendite. Al valore degli immobili urbani e rurali, frutto in gran parte di donazioni da parte di privati, alla disponibilità delle loro rendite, ai diritti goduti nei confronti del clero di Castellana, si aggiungeva la disponibilità di denaro derivante dalle doti delle monache, nel XVII secolo fissata a seicento ducati per ciascuna.

I documenti superstiti dell’archivio del monastero di San Benedetto consentono di avere notizie relative ai beni immobili e mobili pervenuti nel patrimonio monastico, dalle importanti concessioni effettuate dal conte Goffredo di Conversano nell’XI secolo (il feudo di Castellana, la masseria di Sisignano posta in territorio di Martina) alle numerose donazioni dei privati che si aggiunsero a lungo nei secoli. Il monastero poté disporre di larghi introiti provenienti dalle decime dei prodotti raccolti dagli abitanti del villaggio di Castellana, rifondato nel 1171 per iniziativa dell’abate Eustasio nel territorio della comunità. Dai bilanci stilati dai procuratori del monastero si apprende che i censi bollari, i canoni enfiteutici, gli affitti di terre e masserie, le prestazioni dovute dai preti di Castellana ed altre entrate davano una rendita annua di molte migliaia di ducati che facevano del monastero conversanese una vera potenza economica. Un quadro complessivo delle proprietà e delle rendite del monastero nel territorio di Conversano ci è offerto dalla partita intestata, nel catasto onciario (1754) della città di Conversano, al Venerabile


45 L’IDEA


46 L’IDEA

Agli antichi possessi, frutto di donazioni da parte di privati, si aggiungeva la disponibilità di denaro proveniente dalle doti delle monache

PLANIMETRIA DELLA MASSERIA CANALE DI PILO NEL TERRITORIO DI ALBEROBELLO (1846)

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immobili in enfiteusi dal monastero e perciò erano obbligati a pagare un censo annuo e in perpetuo. Vi è poi l’elenco degli immobili urbani (case, botteghe, sottani) e la quantità di cereali ottenuti dal monastero dalle terre soggette alla decima. Nella partita è compreso anche un debito dovuto dall’Università di Conversano per 4.396 ducati e 97 grana.

Monistero di Donne Monache dell’ordine di S. Benedetto di Conversano. In essa sono elencate le proprietà immobiliari del monastero, in primis le terre estese per complessivi 1270 “tomoli” e 49 “stoppelli”. Le vigne erano estese per complessivi 275,5 “quartieri” e di esse sono elencate le rendite annue, con i nomi delle persone e degli enti obbligati nei confronti del monastero. Segue l’elenco dei canoni enfiteutici, cioè le persone che avevano ottenuto beni

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PLANIMETRIA DELLA MASSERIA GUADIANO NEL TERRITORIO DI MONOPOLI (1846)

Numerose masserie e parchi il monastero poi possedeva in agro di Monopoli, Noci, Alberobello, Mottola, Martina Franca, Castellaneta, Rutigliano e Turi, come risulta da una ricca documentazione quasi tutta ottocentesca e da un gruppo di disegni acquerellati recentemente rinvenuti. Tutta la imponente massa di beni immobili fu compresa nella soppressione degli enti religiosi effettuata dal neonato Stato italiano con decreto del 17 febbraio 1861, a cui seguirono la legge del 7 luglio 1866 e quella del 15 agosto 1867 “per la liquidazione dell’asse ecclesiastico”


47 L’IDEA

La città delle donne 750° di Dameta prima badessa mitrata di Conversano

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i chiama Dameta. Come il poeta-pastore delle Bucoliche di Virgilio. Ma è una donna pia e devota. Arrivata dall’Est e destinata a cambiare le sorti del monastero di San Benedetto, abbandonato dai monaci conversanesi e investito di nuova luce. Di Dameta si è favoleggiato a lungo. Illustri storici del Seicento e Settecento (fra i quali Tarsia e Tarsia Morisco) le hanno attribuito sangue nobiliare, per una presunta parentela con l’imperatore di Costantinopoli. Da qui l’attribuzione del cognome Paleologo, o Paleologa (al femmi-

nile, secondo gli usi del tempo), riconducibile all’imperatore d’Oriente Michele Paleologo VIII. A Dameta Paleologo, peraltro, è intitolata oggi la via che conduce all’ingresso della chiesa e del monastero di San Benedetto. Ma la vicenda di Dameta va ben oltre la toponomastica. La mostra storico-letteraria allestita dall’Archivio Diocesano nel chiostro di San Benedetto non solo ricostruisce l’epopea delle badesse cistercensi insediatesi a Conversano dal 1266 al 1810, ma fornisce una suggestiva tesi sui reali motivi del loro approdo a Conversano.


48 L’IDEA

Donna pia e devota arrivata dall’Est e destinata a cambiare le sorti del monastero di San Benedetto Dameta non è stata una semplice profuga, cacciata con le sue consorelle dal monastero benedettino della Vergine di Metone, in Grecia, per l’odio e la violenza delle popolazioni locali di rito greco. Dameta - secondo la tesi sostenuta da don Angelo Fanelli, direttore dell’Archivio Diocesano - fu in realtà messaggera di unità delle due Chiese, quella d’Occidente di Roma e quella d’Oriente di Costantinopoli, da sempre in conflitto e ancora oggi impegnate in un dialogo ecumenico interminabile. Come confermato dalla recente visita del patriarca Bartolomeo I a Bari in occasione della festa di San Nicola, vescovo di Myra

MESSAGGERA DI UNITÀ

Dameta, non solo fuggiasca. Il primo germoglio di unione tra le due Chiese

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e Dameta sbarcò sulle nostre coste pugliesi e se il cardinale Rodolfo non trovò altro luogo più consono che indicarle la prestigiosa abbazia benedettina di Conversano per la preghiera, non fu un caso. Dameta e le altre fuggitive non cercavano una nuova patria né nuove adepte. La loro presenza sul territorio latino rilanciava l’intento di conciliazione delle due Chiese voluto dall’imperatore Paleologo, e non per motivi religiosi, che gli erano indifferenti, ma per una precisa real-politik: doveva conservare l’impero sottratto ai latini, accattivarsi il Papa Clemente IV, domare l’opposizione dei greci intransigenti e frenare le istanze restauratrici di Carlo d’Angiò, che voleva ripristinare un impero mediterraneo con capitale Napoli. “In Dameta – come scrive don Angelo Fanelli – non vedrei solo la prima badessa che inaugura la secolare storia della giurisdizione femminile, né soltanto una migrazione orientale quasi a saldare la memoria storica dell’impero bizantino nell’Italia meridionale, ma soprattutto il primo concreto germoglio di unione delle due Chiese trapiantato proprio a Conversano e che resta luminoso nella nostra storia”


49 L’IDEA

LE BADESSE MITRATE

Dameta e le badesse: il potere maldigerito dai preti ancano solo i documenti ufficiali per corroborare questa sottile tesi, ma anche le precedenti ricostruzioni storiche si basano solo su congetture e ipotesi. In tale contesto è presumibile attribuire a Dameta l’approdo dell’icona bizantina della Madonna della Fonte, tuttora venerata a Conversano, che gli storici dell’arte fanno datare proprio intorno al XIII secolo. La tradizione orale ne fa invece risalire lo sbarco al vescovo Simplicio almeno 400 anni prima, sulla spiaggia di Cozze. Tornando a Dameta, il suo badessato durò poco più di cinque anni, e ci volle tempo perché l’elezione della nuova badessa Isabella venisse confermata (nel luglio del 1272) dal nuovo Papa Gregorio X, insediatosi dopo tre anni di vacatio per le rivalità e gli sgambetti cardinalizi dell’epoca. Mai Dameta, l’ancilla, la messaggera, avrebbe immaginato lo straordinario e unico in Europa potere religioso (un caso simile si verificò solo a Canterbury) esercitato da quel 1266 dalle badesse di San Benedetto. Badesse - si badi bene - mitrate, vale a dire dotate di prerogative simili a quelle dei vescovi e per questo munite di mitra e pastorale, i simboli del potere dei capi delle diocesi, dinanzi alle quali i preti di Castellana erano costretti anche a un imbarazzante e mai digerito baciamano. Badesse che rispondevano della loro fedeltà al verbo di Cristo solo davanti al Pontefice e che dal Papa ricevevano benevolenza e gratitudine, amministrandone i beni ecclesiastici e non, che restavano dunque di proprietà benedettina


50 L’IDEA

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TUTTO IL BORGO DI CASTELLANA APPARTENEVA ALLE BADESSE DI SAN BENEDETTO

I CASATI E LE PROPRIETÀ

Solo nobildonne potevano aspirare alla funzione di “badessa”

L 02 L’ARALDICA PER RICOSTRUIRE LA STORIE DELLE BENEDETTINE

a ricerca di Fanelli, attraverso lo studio dell’araldica, arriva a ricostruire il lungo elenco delle badesse che si sono avvicendate alla guida del monastero di San Benedetto, che vantava privilegi spirituali e temporali già riconosciuti agli abati benedettini Vincenzo e Guimondo con due bolle pontificie datate 1110 e 1117. Diventavano badesse, democraticamente elette dalle consorelle e confermate dai Papi, solo le nobildonne dei prestigiosi casati della Puglia e del Sud. Basta citarne alcune: d’Angiò, d’Enghien, Orsini, Acquaviva, Tarsia, Indelli, Sforza, Therami, Palmieri, Pascali, Accolti, Bassi, Martucci. Tutte famiglie che hanno segnato, nel bene e forse anche nel male, la storia di queste terre. Anche le badesse però avevano possedimenti di non poco conto: non solo chiese nel territorio di Conversano, ma anche a Monopoli e Rutigliano, e in più terreni, pascoli, vigne, boschi, mulini, case, e - cosa particolarmente inconsueta - tutto il borgo di Castellana (all’epoca chiamato Castellano), compresi i loro abitanti


51 L’IDEA

I CONFLITTI CON I VESCOVI

Aspre le controversie giurisdizionali e di potere con le “ricche” benedettine

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on furono comunque le ricchezze accumulate nel tempo dalle benedettine (si parla anche di un tesoro in oggetti sacri di inestimabile valore custodito nella Basilica Cattedrale) a suscitare le gelosie dei vescovi. Le controversie insorte già dai tempi di Isabella, seconda badessa mitrata, furono soprattutto di carattere giurisdizionale. Un’ingerenza canonica insopportabile, tanto più perché esercitata da una comunità di donne. Il conflitto, in particolare già acuito nel 1274, si protrasse per secoli e riguardava una semplice questione: toccava alle badesse presentare ai vescovi i chierici di Castellana candidati agli ordini sacri, oppure i vescovi potevano procedere in autonomia, senza chiedere il permesso alle badesse? E per tutti i secoli esse risultarono vincenti. E così la faccenda del cattedratico, ovvero il tributo che tutte le chiese dovevano pagare al vescovo del luogo. Tutte le chiese sì, ma non quella di San Nicola del Porto Aspro, a Monopoli, di pertinenza del monastero di San Benedetto, immediatamente soggetto solo alla Chiesa di Roma

PREZIOSE LE PERGAMENE CUSTODITE A SAN BENEDETTO, DOPO IL SACCO SPAGNOLO DEL 1503

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LIBERTINE E LITIGIOSE

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lla fine del Seicento si arrivò ai ferri corti. Prima il vescovo di Conversano Giuseppe Palermo - secondo i documenti recuperati dall’Archivio Segreto Vaticano - mette in cattiva luce le monache cistercensi (nel 1665 ce n’erano ben 90 nel monastero) perché sottoponevano la contabilità dei redditi del monastero pari a 10.000 scudi a laici designati dal conte Acquaviva d’Aragona, escludendo l’autorità vescovile, né ammettevano il vescovo alla visita sulla clausura. Un altro vescovo conversanese sul finire del secolo, Andrea Brancaccio, denuncia a Roma il li-

bertinismo delle benedettine, colpevoli di aver costruito nel parlatoio cancelli di ferro troppo larghi per aver frequenti colloqui con i laici, di giorno e di notte. Colloqui che si moltiplicano sulla torre del Belvedere, da cui comodamente si ha la vista panoramica verso il mare Adriatico. Le stesse consorelle, come ampiamente descritto dal Fanelli attraverso una pergamena del 1350, dimenticavano a volte la propria consacrazione a Dio e si lasciavano andare ad una manesca litigiosità. Per questo ci fu un intervento di Papa Clemente VI perché fossero rimosse le scomuniche verso monache e converse, a patto che effettuassero una salutare penitenza e sempre che gli spergiuri, la simonia e l’omissione delle Ore non fossero così gravi da giustificare l’intervento della Sede Apostolica


I LASCITI DELLE BADESSE utti questi aspetti, e altri di altrettanto notevole interesse storico-sociale, sono affrontati nella ricerca di don Angelo Fanelli, trasferita in 20 pannelli di grandi dimensioni che danno vita alla mostra ribattezzata “Dameta” e che si potrà visitare fino al termine degli eventi de “La Città delle donne”, in pratica fino alla prossima estate. Alle benedettine Conversano deve molto. Dopo il sacco della città ad opera degli spagnoli nel 1503 che bruciarono tutte le antiche pergamene per farne micce ai loro cannoni, andarono distrutti tutti i documenti dell’antichissima storia della città. Restarono invece al loro posto, intoccabili, le pergamene custodite a San Benedetto a cominciare dall’ottobre 901, oggi preziose come non mai per rimettere a posto i tasselli di una comunità orgogliosa e vivacissima. Un’ultima annotazione la merita l’invenzione letteraria immaginata dallo stesso don Angelo, che ha elaborato in forma quasi teatrale lettere, commenti e dialoghi tra i primi protagonisti di questa vicenda umana, Dameta e Michele Paleologo, quasi per avvicinarli a noi e coglierne i tormenti, le ansie, le speranze. Dopo 750 anni di semi-oblio la memoria torna a galla. Con una sceneggiatura perfetta

PREZIOSE LE PERGAMENE CUSTODITE A SAN BENEDETTO, DOPO IL SACCO SPAGNOLO DEL 1503

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I PRIVILEGI CONCESSI ALLE BADESSE DAI PONTEFICI a badessa Dameta e le consorelle hanno un dubbio: ma quali sono i privilegi di cui si parla tanto e che erediterebbero dai benedettini? Si tratta di privilegi spirituali, ben illustrati dal Papa Alessandro IV all’abate Nicola II in una lettera datata 23 maggio 1258. Questi privilegi vengono riassunti dal vescovo Bartolomeo, che cita quella bolla: “Noi accogliamo benevolmente le vostre richieste e, associandoci a quanto concesso dal nostro predecessore di felice memoria Pasquale, decretiamo che il monastero di San Benedetto di Conversano, in cui attendete al culto divino, e tutte le altre chiese e luoghi a esso soggetti rimangano in perpetuo sotto il diritto e la proprietà della Chiesa di Roma, e in forza del presente privilegio stabiliamo che esso sia così del tutto libero da ogni persona ecclesiastica e secolare in modo da essere soggetto soltanto alla Chiesa di Roma. Qualunque possedimento ecclesiastico e qualunque bene che il monastero legittimamente ora possiede ovvero potrà ottenere nel futuro per concessione dei papi, per donazione dei re e principi o dei fedeli o in altro modo giusto permanga fermo e intoccabile a voi e ai vostri successori”. Per rimuovere poi ogni possibile equivoco interpretativo, Bartolomeo specifica i possedimenti e i redditi: quelli esistenti in Conversano e nel territorio, San

Leucio, la chiesa di Santo Stefano, la chiesa di San Salvatore, la chiesa di San Leone, il borgo di Castellano, con tutti gli uomini, redditi e possedimenti, la chiesa di San Pietro nel territorio di Monopoli e la chiesa di San Nicola nella città, la case e i beni in Rutigliano, e poi terre, prati, vigne, boschi, diritti di pascolo, acque, mulini ecc. E per questo privilegio concesso, ogni anno le monache devono versare ai Papi e ai loro successori un’oncia d’oro

AL TERMINE DELLA MESSA TUTTI I SACERDOTI DOVEVANO FARE IL RITO DEL BACIAMANO

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LA MESSA DOMENICALE DEL 1695 E IL BACIAMANO

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RICOSTRUITA L’AMBIENTAZIONE DI UNA MESSA DEL 1695 GRAZIE ALLA PERGAMENA

ttraverso una straordinaria pergamena, doviziosa di greca floreale, disegni, stemmi e dell’immagine in cauda di San Benedetto, si è potuta ricostruire l’ambientazione di una santa messa celebrata di domenica il 3 novembre 1695, nella chiesa di San Benedetto. Eccone i dettagli: “Il notaio Vitantonio Bonasora con il giudice regio Stefano Saltarelli e con i testi si reca al monastero di San Benedetto, soggetto direttamente alla sede apostolica e con giurisdizione su Castellana, ove dalla parte interna della porta d’ingresso sotto il baldacchino siede la neobadessa Isabella Tommasa Acquaviva d’Aragona, assistita da due decane reggenti l’una il pastorale e l’altra la mitra badessale e circondata da moltissime monache in cocolla bianca. Dalla parte esteriore è presente tutto il capitolo e clero di Castellana, costituito dal vicario generale

don Giuseppe la Nera, dai primiceri don Carlo Baldassarro e don Donato Mastromattei, da 41 preti, da un suddiacono e da cinque chierici. Quindi il vicario celebra all’altare maggiore la messa solenne con coro, musica e organo. Al termine tutti i sacerdoti, compresi il vicario e i primiceri, in mozzetta di pelliccia uno dopo l’altro si accostano al baldacchino e baciano la mano guantata di damasco rosso della neobadessa in segno di riverenza e obbedienza, secondo l’antica consuetudine per i privilegi concessi dai Papi nel 1266. Sono presenti anche: la contessa madre, Dorotea, rimasta vedova, Francesca Caracciolo duchessa di Atri con il suo giovanissimo figlio Michele, Carlo Carafa, duca di Noicattaro e sua madre Teresa Del Giudice, duchessa di Noicattaro, e i nobili Rodolfo e Pompeo Carafa”


55 L’IDEA

I volti dell’anima Il riflesso della Dea Madre: Tutte le donne che hanno fatto grande la Storia e l’Arte CANDIDA DE TOMA


SCULTURE ANTONELLA GIANNUZZI

Volti di donna: occhi ridenti, lacrimosi, malinconici, colmi di tenerezza stupita, sguardi fieri e impavidi o invece assorti, persi in un altrove negato ad altri, labbra appena schiuse nella piega di un sorriso o di una sofferenza muta, e aperte a gridare un dolore incontenibile. Donna: amica preziosa o incompresa nemica, amante o madre, forte e tenera, tentatrice e vergine. Scorrono così, sotto i nostri occhi queste immagini, simulacri antichi di eroine, sante, martiri e al contempo donne vere,

reali intente a raccontare quell’universo femminile che ha nutrito l’Arte in tutto il suo percorso millenario. Un universo guardato dagli uomini lungo un filo che si è dipanato nel tempo, restituendoci corpi, volti, sguardi di donne angeliche e demoniache, madri e matrigne, amanti e amate, regine e ancelle, nell’ instancabile tentativo di fissare, chiudere, bloccare entro schemi e stereotipi l’inafferabilità del “femminile”, il suo sottrarsi alle certezze illusoriamente inossidabili di una logica incatenante, la sua capacità di muta-


FOTO ROCCO DE BENEDICTIS

re rimanendo sempre se stesso, il suo saper percorrere l’infinita gamma del sentire per cui non teme di mostrarsi fragile ed esitante poiché si sa capace di una forza quasi sovrumana, poiché sa di essere il luogo del tutto, ove gli opposti non sono ancora stati separati. Il mondo degli umani cominciò con la Grande Madre, amorosa e terribile, in cui risiedevano la saggezza e l’elevatezza spirituale, la fecondità e la nutrizione, la benevolenza e la tolleranza, l’istinto e l’impulso soccorrevole e al contempo l’occulto, il tenebroso, l’abisso, il mondo dei

morti; ciò che divora e seduce; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile….Poi arrivò il patriarca che la spodestò dal suo trono, arrivarono gli dei maschi che separarono il giorno dalla notte, il male dal bene, la vita dalla morte, decretando la superiorità del logos rispetto all’istinto. E poi venne l’artista, arrogante, forse, nel suo sogno di raggiungere l’irraggiungibile, inquieto, saturnino, curioso, indagatore, capace di leggere oltre, talvolta, insoddisfatto del banale e dell’ovvio, capace, spesso, di mandare in frantumi le


certezze; l’artista che in questo suo andare, in questo suo tendere verso una forma capace di esprimere il tutto l’ha cercata nel corpo, nelle forme, nell’anima delle donne. Lui, per vocazione, creatore non poteva che unirsi a lei, per natura, creatrice. Consapevole che la “forma”(approdo finale del processo estetico), ovvero il caos ricondotto a cosmos, non esclude nulla, ma include tutto, conciliando gli opposti per arrivare ad un uno capace di contenere in sé la dualità, l’artista fissò il suo sguardo nella Grande Madre. Nelle tele della Gerusalemme Liberata, la morbida sensualità dell’ammaliatrice Armida e la fierezza dell’algida Clorinda si stemperano nella fragilità dell’amante abbandonata e della guerriera morente, la mitezza di Erminia nell’impeto del suo coraggio di donna innamorata, così come nei soggetti sacri, la

Verginità feconda di Maria è compagna della forza silenziosa delle vergini e della vitalità, gioiosa e pensosa ad un tempo, delle fanciulle “virtuose”. Oggi, plasmate sapientemente dall’ argilla informe, che restituisce all’artista le doti del Demiurgo, esse ci guardano ancora. Sono i volti di quel tutto cui l’arte tende, fissati nei dipinti delle chiese, dei monasteri, dei palazzi di questa città, immagini che troppo spesso abbiamo sfiorato appena con lo sguardo, fruitori passivi e distratti. Spogliandole di manti, trine, sete, velluti, l’obiettivo fotografico ci restituisce l’anima di quelle figure, le “ri-genera”, mettendone a fuoco l’essenza ultima, aiutandoci ad afferrarne l’incanto, non più immagini “costrette” entro uno spazio e un tempo, ma creature che percorrono il tempo e lo spazio. Recuperandone l’anima e il volto, ci riconsegna i volti dell’anima


59 L’IDEA

Castellana Grotte Capitale europea delle grotte


60 L’IDEA

I NON SOLO GROTTE

La storia di Castellana affonda le sue origini a prima dell’anno mille. Nel 1171, l’ abate Eustasio concesse la chiesa semidistrutta di Santo Magno e le terre circostanti.

01 CHIESA DEL PURGATORIO ALTARE MAGGIORE

02 LE VIE DEL CENTRO STORICO

l 23 gennaio del 1938 ha cambiato la storia di Castellana Grotte. La prima discesa di Franco Anelli dalla bocca della Grave, coadiuvato anche nei giorni successivi da Vito Matarrese, ha portato a conoscenza di tutto il mondo del meraviglioso patrimonio sotterraneo, facendo diventare Castellana la capitale europea delle Grotte. Infatti la città, presentata altre numerose cavità sottorreane in altre zone del territorio, tra le quali le grotte dell’Abate Eustasio, rinvenute poco meno di due anni fa vicino il centro abitato nei pressi di Largo Porta Grande. Castellana però, non è solo grotte e la sua storia affonda le sue origini a prima dell’anno mille. Un primo documento nel quale si parla di vicus Castellano, rinvenuto in antiche carte benedettine di Conversano, è datato 901. La data più importante della città è sicuramente quella legata al dicembre del 1171, quando l’allora abate Eustasio concesse ai due coloni otrantini Nicola e Costa la chiesa semidistrutta di Santo Magno e le terre circostanti. I due, insieme ad altri coloni, iniziarono a popolare il feudo benedettino di Castellano garantendo ai monaci nuove rendite. Nel 1226 Papa Clemente IV offrì il monastero conversanese di San Benedetto e anche i territori di Castellana alle monache Benedettine, affidando loro anche la giurisdizione ecclesiastica con poteri vescovili che mantennero fino al 1810. Era nato il Monstrum Apulie, lo stupore di Puglia. La giurisdizione feudale, invece, poco dopo passò dapprima agli Orsini di Taranto e successivamente agli Acquaviva d’Aragona, che mantennero la loro influenza su Castellana fino al 1806, anno in cui venne abolita la feudalità. Un’altra data importante della storia della città è quella dell’11 gennaio 1691, giorno in cui si verificò la prodigiosa intercessione della Madonna della Vetrana che preservò la città dall’epidemia di peste, che aveva colpito tutta la zona. A Castellana si verificarono pochi decessi, si evitò l’estendersi del contagio e, dopo l’apparizione della Madonna a due preti che furono invitavi a ungere gli appestati con l’olio miracoloso della lampada della Madonna, guarirono anche gli appestati presenti al Lazzaretto. Per ricordare quell’evento ogni anno l’11 gennaio si rinnova la festa più sentita e partecipata della nostra città, la notte delle fanove. Per tutta la notte, fino all’alba della mattina seguente, ardono in tutto il territorio cittadino centinaia di falò, cataste di legno a forma conica dalle diverse dimensioni, da quelle più piccole a quelle che superano la decina di metri in altezza. Festeggiamenti che vengono poi riproposti in occasione della festa patronale, in forma ben più sfarzosa e solenne, l’ultima domenica del mese di aprile.

Un’altra grande peculiarità di Castellana è la sua posizione geografica. Situata a pochi chilometri dalla costa, la città può essere considerata la porta d’ingresso di una delle zone più belle di Puglia: la Valle d’Itria. Un pezzo di paradiso della nostra regione, dove è ancora viva la civiltà contadina e della pietra. I centri storici, le marine, la campagne, le chiese, l’arte, le tradizioni e l’enogastronomia dei paesi della Valle d’Itria meritano di essere vissuti. In questo si inserisce anche Castellana con il suo nucleo antico sviluppatosi intorno alla sua Chiesa Matrice con la sua antica torre normanna. Costruita intorno al 1200, nel corso degli anni ha subito ampliamenti e tanti restauri, il più imponente nel periodo angioino. L’ultimo in ordine di tempo nel 1970, quando vennero portati alla luce alcuni muri dell’antica costruzione angioina. Tante le opere decorative al suo interno. Di livello le sculture di fine cinquecento di Aurelio Persio, scultore lucano, che si trasferì nella nostra città, e fratello del più


61 L’IDEA

famoso scultore Altobello Persio, le cui opere si possono ammirare nella cattedrale di Matera. Ad impreziosire il centro storico anche tanti piccoli scorci che si completano con le altre chiese cittadine. La chiesa di San Leonardo, la chiesa di Sant’Onofrio e la chiesa del Purgatorio. Quest’ultima un autentico scrigno d’arte, pieno delle opere del più famoso pittore cittadino Vincenzo Fato appartenente alla scuola napoletana del 1700. Da non perdere anche le viuzze lastricate di chianche, i caratteristici archi e gli antichi palazzi. Fuori dal nucleo antico, i palazzi patrizi di fine ottocento e degli inizi del ‘900 che danno lustro a piazza Garibaldi, via XX Settembre, via Roma, corso Italia e piazza Nicola Costa, dove si affaccia il Palazzo Comunale con la sua caratterista torre con l’orologio. Il Palazzo Municipale, ricavato da un antico convento francescano, merita di essere visitato perché oltre ad essere il luogo dove si svolge la vita amministrativa e politica della città è ricco di opere d’arte dei mag-

A pochi chilomentri dalla costa, la città può essere considerata la porta d’ingresso alla Valle d’Itria.

giori artisti castellanesi. La più imponente è la quadreria del pittore castellanese contemporaneo Sergio Nicolò De Bellis. Facente parte dello stesso complesso architettonico è la chiesa di San Francesco d’Assisi, al cui interno spiccano i tanti altari e le innumerevoli sculture che ha lasciato Fra Luca Principino, vissuto tra la fine del 1600 e la prima metà del 1700, per tutta la sua vita, all’interno del convento. La chiesa settecentesca della Madonna del Caroseno, invece, chiude idealmente la bella via Roma, con la sua facciata movimentata con stile barocco, ripreso nel presbitero dove le decorazioni scultoree sono anche qui sono impreziosite da opere del Fato. Non possono poi non essere menzionati i conventi e i monasteri. In largo Porta Grande l’ex convento dei Paolotti con l’annessa chiesa di Santa Lucia. Fuori dal centro abitato, sulla via che porta ad Alberobello, l’imponente convento dei frati francescani, dove si venera la nostra Patrona Maria SS. della Vetrana. Nella tranquillità della campagna,


compresa tra le contrade di Pozzo Stramazzo, San Nicola di Genna e Cucumo, sorge il monastero dell’Immacolata, attualmente affidato a un gruppo di monache benedettine. La tranquillità che si respira nella campagne castellanese, che può godere del particolare clima temperato della zona, ne fa un luogo da favola. Il panorama è poi abbellito da casine in pietra, trulli, masserie fortificate e antiche cappelle religiose, circondate dai caratteristici muretti a secco e dalla variegata vegetazione, dove gli ulivi secolari la fanno da padrone. Dimostrazione di questa particolare peculiarità l’incremento che in questi anni hanno avuto i bed & breakfast. Sempre

più, infatti, sono i turisti che decidono di trascorrere le loro vacanze nelle città della Valle d’Itria, che pian piano stanno trasformando il turismo della città, che in passato era solo di passaggio, visita alle Grotte e via, in turismo stanziale. Con tutto questo poi ben si coniugano i grandi eventi, organizzati nel corso di tutto l’anno e che spiazzano su tutti i generi culturali, e la buona tavola. La riscoperta degli antichi piatti poveri, che sono alla base della dieta mediterranea, sono ormai entrati nel novero di succulenti percorsi enogastronomici, nei quali i prodotti tipici della nostra terra sembrano non aver eguali, e sui quali svetta il nostro unico e genuino olio extravergine d’oliva


COMUNE DI CASTELLANA GROTTE BARI

LADOGANA

GUGLIELMI

GUGLIELMI

CASTELLANA GROTTE

Una città da scoprire Il patrimonio carsico più bello d’Europa. La Grotta Bianca, scrigno naturale di rara purezza. Ma Castellana sorprende oltre le Grotte. In una campagna ricamata da filari di muretti a secco, trulli ed ulivi secolari, è la porta d’ingresso della Valle d’Itria. Un fazzoletto di terra nel cuore della Puglia in cui l’ospitalità e la gastronomia sono eccellenti. Tradizione e folklore animano la Città delle Grotte tutto l’anno. Evento imperdibile è la centenaria notte dei Falò, una spettacolare manifestazione in cui devozione religiosa e tradizione popolare si fondono nella notte dell’undici gennaio di ogni anno. Grandiose cataste di legna ardono sino all’alba, rischiarando e riscaldando la Città delle Grotte, fortificando di anno in anno lo stretto sentimento religioso che lega Castellana alla propria Patrona. L’atmosfera di cordialità irradiata dal tepore che diffondono queste maestose cataste di legna, da vita ad un’eccezionale celebrazione in cui godere di gastronomia tipica, canti popolari e del calore della tradizione. Perdersi nei vicoli del centro storico, ammirare la ricchezza di un patrimonio artistico e culturale tutto da scoprire, fra cui spiccano le preziose tele settecentesche di Vincenzo Fato e le sculture di Fra Luca Principino. D’estate la Città si trasforma in un palcoscenico a cielo aperto. Per tre settimane danzatori e coreografi provenienti da tutto il mondo danno vita ad un grande villaggio della danza di respiro internazionale con il World dance Movement. La Grave, cavità di accesso al complesso speleologico, l’unica connessa con il mondo esterno, ospita dal 2011 Hell in the Cave, uno spettacolo sensoriale, unico al mondo, che mette in scena la prima cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri. Le figure infernali, interagiscono con il pubblico che diviene parte dello spettacolo, vivendo una suggestione visiva e tattile di forte impatto. Castellana Grotte, una città da scoprire e vivere tutto l’anno.

www.comune.castellanagrotte.ba.it

www.viaggiareinpuglia.it



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