Studio al Salviatino – Firenze 18 ottobre 2013 – h 16,30/19,00 8 novembre 2013 – 16,00/18,30
Il Salviatino è una terra di mezzo, dove il piano su cui è costruita Firenze s’impenna e sale verso Fiesole con un brusco passaggio. Appena all’inizio di una dritta salita con grandi platani su un lato si apre lo studio di Adolfo Natalini. Ma per arrivarvi bisogna passare piegati in una stretta porticina. Una volta dentro solidi mobili di legno chiaro e grandi quadri sulle pareti illuminati dalla campagna.
MN: Nel libro “Figure di pietra” c’è un tentativo di sistematizzare i temi su cui hai lavorato tra ’78 all’84. I titoli dei cinque capitoli –“I luoghi”, “Gli elementi”, “Le figure”, “La costruzione”, “Il tempo e la memoria”– sintetizzano le sperimentazione che stavi facendo in quegli anni ma anche la proiezione di quello che volevi fare.
AN: “Figure di pietra” è l’unico libro che ho scritto. Se oggi dovessi riscrivere un libro di questo genere, cosa che non mi riuscirebbe assolutamente, la parte centrale sarebbe dedicata alla costruzione, perché quello che ho fatto dalla metà degli anni 80 in poi è stata soprattutto una riflessione sul costruire. Ho lavorato su alcune città storiche italiane Ferrara, Bergamo, Vicenza, Rimini, piccole capitali con un passato fantastico. Il lavoro in luoghi più lontani, la Germania e l’Olanda, mi ha costretto a un esercizio di modestia e a un lungo apprendimento, cercando di comprendere il più possibile culture diverse dalla mia. Ho cercato di imparare una lingua locale che non era solo l’idioma ma era molto altro: le tradizioni, le storie, l’arte del costruire, cercando di acquisire le capacità tecniche di quelle società.
Il titolo “Figure di pietra” è quasi un ossimoro che mette in tensione due mondi: le figure, con il loro richiamo al racconto e alla scrittura, e la pietra direttamente legata alla pratica del costruire.
“Figure di Pietra” è costruito su alcuni artifici retorici, a partire proprio dal titolo. C’è una storia buffa a proposito: mia moglie, madrelingua, traducendo il testo, mi ripeteva che il titolo scelto, in inglese, aveva poco senso. In effetti, il libro gioca molto su figure retoriche. C’è un intero capitolo, le figure, che parla appunto della retorica.
Nella premessa c’è una nota metodologica in cui dici che “il progetto di architettura cerca di comprendere la maggiore quantità possibile di dati significanti, assume poi la responsabilità di sceglierne alcuni come generatori e lavorando su questi sia razionalmente che poeticamente (potrei dire intuitivamente per non spaventare nessuno) corre infine il rischio di ogni creazione.” Cosa pensi oggi di questa definizione?
È una visione del progetto che penso di avere ancora, nonostante abbia acquisito altri strumenti e cognizioni per cui ritengo di non poter più assumermi rischi. Il lavoro d’architettura impegna una tale quantità di tempo, di energie, di denaro e di vite umane che il rischio deve essere ridotto al minimo e questo vuol dire rinunciare alla sperimentazione inutile per concentrarsi sull’indispensabile. Non mi interessa cercare l’originalità, come spesso accade nell’architettura contemporanea, ma tutt’al più l’originarietà: un modo per tornare alle radici delle nostre esperienze, nel tentativo di far coincidere la memoria individuale con quella collettiva.
Ritieni che questo atteggiamento possa dare risposte anche alle rapide mutazioni di questi anni? Considera ad esempio i nuovi strumenti digitali e il mondo del web che, come nuove protesi umane, stanno modificando radicalmente la cultura materiale della nostra società. La ricerca dell’originarietà può dare risposte utili anche a queste nuove trasformazioni?
Secondo me sì. Il bisogno di un ritorno alle origini c’è per tutti. Ognuno di noi ha delle pulsioni nascoste che affondano le radici in un passato plurimillenario. Progettare e costruire un’architettura oggi vuol dire avere coscienza di tutte le possibilità tecniche che abbiamo a disposizione per poterle usare quando sono necessarie. Spesso ho l’impressione che oggi qualsiasi costruzione viene affrontata come se dovesse essere una stazione spaziale da mandare sulla luna. Non è così, non c’è un grande bisogno di sofisticazione o di modernità.