D.F.

INTRODUZIONE La mostra D.F. di Vincenzo D’Argenio a cura di Emilia Angelucci e Mario Francesco Simeone, evidenzia le molteplici sfaccettature dei processi di ricostruzione e restituzione dell’identità, orientandoli nei campi pertinenti alla memoria e al ricordo.

L’impianto formale dell’esposizione mette in mostra il racconto epico di D.F. attraverso tre installazioni multimediali e una fotografia. L’attraversamento orale, tra inflessioni, sfumature e inesattezze, è delimitato da fotografie e video ritrovati negli archivi famigliari, fruibili tramite dispositivi digitali, analoghi per funzione a quelli biologici di primaria necessità: tramandare il passato attraverso testimonianze, ergendosi a “monumenta” contemporanei.

L’archivio di famiglia è qui sublimato a strumento analogico di archiviazione della memoria individuale e collettiva, caratterizzate da precise norme di ordine storico e sociale.

Il flusso di voci, un file audio attivabile tramite QR code e contenente quattro interviste rivolte a donne di diverse generazioni che conoscevano D.F. ne ricostruiscono gradualmente l’identità e la vita nell’ordine del ricordo, occupando lo spazio interiore del visitatore, più collegato alla sensibilità personale e alle emozioni.

La fotografia, memoria di una traccia immortale in cui il reale impressiona la realtà, imprime la sua orma nel suolo della memoria filmica come in quella psichica.

I testi critici di Emilia Angelucci e Mario Francesco Simeone, in forma poetica di rêverie, supportano e partecipano la messa in mostra di D.F. evocando frammenti di vita, ricordi e dialoghi tra gli autori e l’artista, in una dimensione in cui ricordo personale e memoria collettiva possono unificarsi in un positivo recupero di archetipi universali e immortali.

Mariarosa Lamanna D.F. #1 interviste audio sonoro, 20' 27’’ Interno n.6 D.F. #2 archivi fotografici analogici e digitali riversati su 5 tablet D.F. #3 (10.VII.2015) stampa lambda applicata su dibond, cm. 100 x 100 Interno n.4 D.F. #4 proiezione su pluriball muto, 15' 55’’ loop

TESTO CRITICO L’album di famiglia Susan Sontag scriveva: “attraverso le fotografie ogni famiglia costruisce una cronaca illustrata di sé stessa, un corredo portatile di immagini che attestano la sua compattezza. […] La fotografia diventa così un rito della vita familiare.”

Ripercorro le pagine in cui, metodicamente, è stato ordinato lo trascorrere del tempo. Al suo interno trovano posto le tracce lasciate dai ricordi di vita quotidiana, scandite dalle immagini simboliche dei passaggi rituali. Un matrimonio, una nuova nascita, una vacanza al mare, una prima comunione, una cena con gli amici, una laurea. Gelosamente vi si conservano le parziali testimonianze dei tanti percorsi individuali, quei fili indissolubilmente intrecciati alla memoria collettiva di ogni famiglia.

Trasmissione L’etimologia del termine “ricordare” deriva dal latino “recordare”, parola composta dal prefisso re- e cor,cordis perché negli antichi trattati medici, anche prima di Ippocrate, il cuore

era ritenuto la sede della vita, dello spirito e della memoria. I ricordi esistono nella misura in cui possono essere espressi attraverso gli strumenti usati per archiviarli, che siano un organo o una penna usb.

Il primo esempio di cloud storage risale al 1983, quando CompuServe, storica società statunitense fornitrice di servizi telematici, offrì ai suoi utenti 128K di spazio su disco per archiviare file tramite upload. Poi è stata la volta di AT&T e quindi di decine di altri provider, da Acronis a Dropbox, passando per Amazon. Da pochi mesi Google ha lanciato One, servizio di storage che arriva alla capacità di 30TB al mese e sostituirà Drive, attualmente usato da circa un miliardo di utenti. Una enorme memoria condivisa da privati e da aziende, per immagazzinare dati sensibili e momenti famigliari. La memoria – perderla e conservarla – è un’ossessione. Siamo ciò che ricordiamo, vale a dire, siamo i dispositivi che usiamo per farlo.

Un’immagine Oltre il vetro temperato del finestrino ben chiuso, scorreva un cielo metallo fuso. Le striature nere dei rami degli alberi emettevano le loro interferenze su quel colossale schermo dai contorni sfumati, già solcato in profondità da diverse tonalità di grigio. Sul cruscotto, una lunga sequenza di numeri arancioni, il

colore delle informazioni delle automobili. I chilometri, il giorno, il mese, l’anno, l’ora, tutto meccanicamente impeccabile.

O, almeno, lo era in quel momento perché, nonostante la precisione, anche quei numeri sono andati perduti nell’anamnesi dell’auto, confusi insieme a migliaia di altri e, adesso, se ne possono intravedere solo le sagome opacizzate della memoria. Comunque, quella era la prima volta che ci saremmo incontrati. Mi aspettava, forse seduto su una panchina rivolta alla strada, nei pressi di un campo da rugby.

In che condizioni era il manto? Qualcuno stava giocando?

O magari era in piedi, giusto qualche passo avanti e indietro per mantenere la temperatura corporea accettabile. Eravamo alla fine di novembre o agli inizi di dicembre del 2013.

Cambiamenti Ho chiesto a Vincenzo D’Argenio se riuscisse a ricordare l’occasione in cui ci conoscemmo. In fondo non è passato poi così tanto tempo e l’immagine è ancora piuttosto vivida. La memoria è una freccia che attraversa uno spazio bianco e illimitato, all’osservatore appare immobile, eppure procede lungo una direzione stabilita. Nel suo tragitto incrocia situazioni e contesti, restituendo, in molti casi, sinestesie più o

meno vivide di quelle esperienze trascorse, codici imperfetti di sensazioni che inevitabilmente si sovrappongono al presente.

In una fotografia rivedo il volto di mio nonno da bambino, 4 o 5 anni. Mi stupisco rendendomi conto di come sia sempre stato uguale a se stesso e sono soprattutto le sue scarpe a ricordarmi il passaggio del tempo.

E così sembra di rivivere certi momenti, anche quelli non vissuti direttamente e solo ascoltati da qualcuno, vicini come se fosse possibile manipolarli e magari cambiare un solo particolare e invece sfuggono. Allora c’è la lancinante intuizione che non è solo la freccia a muoversi ma anche l’osservatore, perché la memoria cambia insieme alla persona che ricorda e il limite con l’immaginazione è una misura da ricontrattare continuamente.

Da bambina Percepisco una certa somiglianza con la bambina con i capelli a caschetto incontrata scorrendo le immagini raccolte nell’archivio della famiglia di Vincenzo D’Argenio. Era il mio quinto compleanno e anch’io sedevo dietro un tavolo circondata dai parenti. Mio nonno era vicino a me, alla mia destra come il signore della foto.

Ho iniziato a pensare le fotografie di famiglia come un ponte tra il personale, l’intimo e il comune, il collettivo. Era come se quelle pose, quelle espressioni e quelle situazioni rappresentassero un modello condiviso. Le avevo già viste, forse già vissute.

Le fotografie del matrimonio: con i parenti di lui, con i parenti di lei, con gli amici, con i testimoni.

Le fotografie della vacanza al mare: la casa di villeggiatura, in posa sulla battigia, al ristorante.

Parlare dell’album di famiglia è come raccontare una storia in cui, con qualche sfumatura, ognuno si può immedesimare.

Queste fotografie creano uno spazio di condivisione collettivo anche all’interno dei ricordi più intimi, rievocano memorie e diventano familiari.

Riflessioni La psicanalista una volta mi ha detto che siamo i ricordi del nostro passato, quelle immagini che hanno segnato la nostra crescita e che, tutt’ora, sono indelebili nella nostra memoria.

Sarebbe semplice rievocare le tappe della propria vita e disegnare un chiaro ritratto di se stessi, se i ricordi non venissero continuamente rielaborati dalla nostra esperienza con l’altro.

Siamo legati e continuamente plasmati dalla relazione con le persone che ci vivono a fianco e che, con le loro voci, delineano molteplici rappresentazioni della nostra sfaccettata individualità. Siamo l’instabile protagonista di un racconto corale. La cosa, quindi, si complica alquanto: l’errore sta nel credere che si possa pervenire a un’unica definizione d’identità.

Chi siamo? E chi è D.F.?

Il coro Vincenzo D’Argenio ha ricostruito l’identità di D.F. affidandosi all’instabilità di un processo narrativo condiviso tra più voci. Le parole rinnovano l’azione erosiva dei corpi sulla materia, la gioventù e le malattie, le occasioni trascorse insieme e gli eventi che hanno segnato passaggi rituali. I capitoli di questo archivio orale sono scanditi da inflessioni del linguaggio, solecismi, ridondanze e stilemi individuali. Assimilabili a certe figure poietiche del teatro classico, le donne che raccontano D.F. diventano esse stesse D.F., annullando, nella cavea scavata dalle loro emissioni sonore, la distanza tra il narratore e l’oggetto della narrazione. Ed è in questa vertigine che la voce può diventare olfatto, tatto, vista. Dunque, chi è D.F.?

Il punto Il vocabolario ci dice che il vissuto è quanto si è sperimentato nel passato e che conserva una sua presenza attuale nella memoria e nella coscienza.

Nostalgicamente, viene evocato ciò che è stato nella speranza che gli eventi abbiano lasciato una traccia persistente. E’ una continua lotta tra il transitorio e il desiderio d’eterno.

Emilia Angelucci Mario Francesco Simeone

VINCENZO D’ARGENIO bit.ly/portfolio_dargenio Da sempre appassionato di arti visive, fin da giovanissimo si avvicina al writing. Dopo alcuni anni apre i suoi orizzonti ai linguaggi della street art con lo pseudonimo di LAST22, dal lettering dei graffiti passa allo stencil e alla poster art. A seguito di stimoli e confronti con la scena artistica contemporanea, intraprende un nuovo percorso sperimentando la fotografia, il video e le tecniche digitali, lavorando in particolar modo con le matrici normografiche applicate al segno, alla forma e alle geometrie pure, fino alla modellazione e all’installazione ambientale. I suoi lavori cercano, attraverso linguaggi versatili, di esprimere stati d’animo intimi che traggono ispirazione da letteratura e filosofia, spiritualità e neuroscienze. Il sottotesto narrativo della sua ricerca è spesso riconducibile a esperienze strettamente personali che racchiudono il reale messaggio della sua produzione.

Nato a Benevento nel 1982, si è laureato in Scienze dello Spettacolo e della Produzione Multimediale all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli nel 2010. E' giornalista pubblicista e contributor per la rivista Exibart, grafico, webdesigner e si occupa di organizzazione di eventi artistico-culturali.

I suoi lavori hanno partecipato a mostre nazionali e internazionali. Attualmente vive e lavora a Bologna.

MAISON VENTIDUE www.maisonventidue.com Maison Ventidue è l’associazione culturale fondata nel 2014 da Mariarosa Lamanna e Marco Mastroianni, specializzata in Residenze Artistiche Site-Specific.

Nel cuore della città di Bologna, tra le case di via Indipendenza, ospita artisti locali e internazionali e le loro ricerche in ambito performativo, installativo e di interior design. Le residenze prendono il nome di HOMEMADE in dialogo con lo spazio abitativo e la città attraverso studi site-specific e collaborazioni con istituzioni nazionali e internazionali.

Masion Ventidue inaugura L’Appartamento, un luogo mutevole, aperto ad artisti, curatori, ricercatori e abitanti della città, che ha l’obiettivo di instaurare una relazione autentica tra ricerca artistica e comunità. Il progetto, ideato da Mariarosa Lamanna, nasce dal desiderio di creare un luogo di inclusione, di relazione e di crescita professionale e personale, tramite la valorizzazione dei linguaggi dell’arte e la collaborazione attiva tra i membri dell’associazione, le figure professionali e le realtà locali.

TAZ TEMPORARY ART ZONE www.casataz.it TAZ Temporary Art Zone è un’associazione culturale nata dall’unione di tre progetti attivi nella città di Bologna: AD Arte a Domicilio, collettivo #ACAD e CoLa. L’obiettivo comune è la diffusione della cultura in tutte le sue forme, con particolare attenzione all’ambito artistico, attraverso la promozione, la produzione e la ricerca. Attraverso queste attività, rivolte sia agli artisti che al pubblico, TAZ propone di vivere e conoscere l’arte in modo originale e sperimentale. Gli spazi sono creati e pensati per essere agiti diversamente, perché ogni luogo può trasformarsi in una zona d’arte temporanea.