Nubi d'acciaio

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primopiano

nubi D’ACCIAIO La vertenza dell’Ilva racconta la fine di un modello industriale che schiaccia l’ambiente. L’ipotesi della riconversione e l’attesa per le decisioni del governo di Francesco Loiacono

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aranto non può attendere. Il carico di veleni che l’Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, ha riversato per decenni sulla città dei Due Mari ha causato morti, gravi patologie in particolare alle vie respiratorie e inquinamento delle matrici ambientali. È scritto nero su bianco nell’ormai famosa ordinanza del 26 luglio firmata dal giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco. Il provvedimento chiede il sequestro

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dell’impianto e misure cautelari per otto dirigenti dell’azienda, appartenente dal ‘95 al gruppo Riva, con l’accusa di disastro ambientale. Una conferma del danno sanitario subito dalla popolazione è arrivata inoltre alla metà di settembre dallo studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità relativo al periodo 2003-2008: sull’area di Taranto si riscontra un aumento della mortalità di circa il 10% superiore rispetto a quella attesa, un eccesso che conferma le analisi del periodo 1995-2002.


«Più qualità, meno inquinamento» A colloquio con Luciano Gallino, sociologo dell’economia

«Gli studi interdisciplinari che trattano il nesso fra inquinamento e salute hanno fatto progressi enormi, Taranto è stata studiata da diverse prospettive e tutte le evidenze forniscono una misura autentica circa l’impatto sulla salute dell’inquinamento presente in città. E il principio di precauzione porta a chiedere provvedimenti immediati riguardo l’area industriale» spiega Liliana Cori, responsabile per la comunicazione dell’Unità di ricerca di epidemiologia dell’Ifc-Cnr. Come uscire da questa morsa?

Innanzitutto uno sguardo a che cosa sta succedendo all’Ilva di Taranto. Governo e azienda affrontano l’emergenza ambientale nella giusta maniera? La situazione era degradata ed era noto che lo fosse addirittura da decenni, e non si può riparare in pochi mesi o in poche settimane. Ad ogni modo mi pare che finora i problemi non siano stati affrontati con l’energia e con le risorse tecniche necessarie. Quindi cosa andrebbe fatto e invece non si sta facendo? Avremmo dovuto vedere centinaia di tecnici e ingegneri che andavano sul posto per studiare e capire quali interventi fare, e come farli, per ridurre l’inquinamento. Ma non si vede questo via vai di tecnici. L’Ilva e la sua produzione di acciaio hanno ancora un futuro in Italia? Se convertita, l’Ilva un futuro ce l’avrebbe. La domanda di acciaio è alta e buona parte della produzione italiana va all’estero, quindi contribuisce al nostro export. Finché il modello produttivo è quello di oggi, la produzione di acciaio ha una forte domanda e in un paese come l’Italia che ha poche industrie dà un contributo all’economia. L’acciaio è un materiale che ha molte applicazioni, va dalle piccole parti delle mollette alle componenti delle infrastrutture. Ecco, se a Taranto si interviene per ridurre l’inquinamento, si può cominciare anche a produrre altri tipi di acciaio. È anche vero che è possibile farlo impiegando risorse e capitali rilevanti. Operazioni simili potrebbero dare risposta alla crisi che stanno vivendo altre grandi industrie? Certo, bisogna cominciare a parlare di riconversione in generale. La stessa produzione di auto non può tornare ai livelli

precedenti, se scomparisse all’improvviso avremmo la grave perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Ma se parliamo del settore dell’auto dobbiamo parlare di conversione alla mobilità sostenibile: vuol dire che produrremo più autobus. D’altronde costruirne uno equivale a realizzare 10-12 auto di grossa cilindrata. Per non parlare della costruzione delle metropolitane. Anche l’alluminio ha futuro? È un altro prodotto necessario all’industria moderna, e forse ha anche un destino

FOTO: © squillantini/imagoeconomica

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lva e non solo. Fiat, Alcoa e altre produzioni in crisi occupano le cronache di queste settimane. Qual è il futuro delle industrie italiane? Ne parliamo con il professor Luciano Gallino, sociologo dei processi economici e del lavoro.

Dobbiamo pensare a una produzione diversa, in cui l’industria impiega il lavoro e le tecnologie in maniera più rispettosa dell’ambiente e per realizzare beni più utili alla collettività migliore dell’acciaio perché può contribuire a produzioni molto più leggere. Però è un settore molto energivoro e ciò contrasta con la necessità di abbattere la produzione di energia dal carbone. Se parliamo dell’Alcoa dobbiamo dire che per alimentarla ci vorrebbero parchi eolici grandi parecchi chilometri e non è possibile realizzarli in poche settimane. E allora, come dobbiamo immaginare il futuro dell’industria? In tutti i discorsi che si fanno sembra che all’orizzonte ci sia un ritorno ai livelli di produzione di cinque o sei anni fa. Questo è un ragionamento che si fa per l’auto come per l’acciaio. Invece dobbiamo pensare a una produzione diversa, in cui l’industria impiega il lavoro e le tecnologie in maniera più rispettosa dell’ambiente e per realizzare beni più utili alla collettività.

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primopiano taranto in polvere

Estate bollente

Il problema è esploso durante l’estate, con le proteste in piazza della cittadinanza esasperata dall’idea di dover scegliere fra lavoro e salute, le polemiche fra il ministro Clini e la magistratura sulla necessità di una chiusura immediata degli impianti, il timore di perdere un indotto occupazionale di oltre 20mila persone. «Taranto ha bisogno di voltare pagina rispetto a un passato caratterizzato da un insostenibile inquinamento ambientale e da pesantissime sofferenze per la popolazione – commenta Stefano Ciafani, vicepresidente nazionale di Legambiente – Ma questo sarà possibile soltanto se il ministero dell’Ambiente cambierà passo, chiudendo la stagione delle blande autorizzazioni concordate con l’Ilva e delle bonifiche pianificate ma mai realizzate». Una prima verifica si avrà con l’Aia (l’Autorizzazione integrata ambientale di cui ogni sito industriale deve essere dotato, una sorta di licenza a produrre a patto che si inquini il meno possibile) che un’apposita commissione di esperti ha promesso di presentare entro il 30 settembre in vista della Conferenza dei servizi da tenersi a metà ottobre. Quella vecchia, concessa soltanto un anno fa dall’allora ministro Stefania Prestigiacomo, oltre ad essere piuttosto permissiva nei confronti della proprietà, è stata scritta, dicono le indagini della Guardia di Finanza, in un clima fortemente condizionato dalla proprietà: tanto per dire una l’ingegner Dario Ticali, ancora oggi alla presidenza della commissione Aia, secondo gli inquirenti sarebbe stato sollecitato ad accettare gran parte delle osservazioni fornite a suo tempo dal gruppo industriale. «Le sue dimissioni, che come Legambiente abbiamo già richiesto, ci sembrano doverose per restituire un quadro di chiarezza a questa vicenda» commenta Stefano Ciafani. I giudici del processo in corso per disastro ambientale, 20

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intanto, hanno imposto diverse prescrizioni alla commissione incaricata di redigere il nuovo testo che segnerà, in un modo o nell’altro, il destino del sito. Certo è che per alleggerire il carico ambientale dell’impianto e guardare a un futuro di sostenibilità, come dimostra il piano in 26 punti elaborato da Legambiente (vedi box a lato), occorrono scelte di ampio respiro. E nel mondo gli esempi ai quali ispirarsi per la riconversione non mancano.

Soluzioni alternative

Tanto per cominciare, le tecnologie utili a produrre ghisa da carbone e minerale grezzo senza ricorrere ai processi di cokeria, abbattendo notevolmente le emissioni, esistono e si chiamano Corex e Finex. In Austria, a Linz, un impianto basato sul processo Corex è stato realizzato già 15 anni fa da Voest Alpine, altri sono in funzione in Cina e in India. La Siemens ha aperto nel 2007 un altro impianto a Shangai basato su questa tecnologia che produce soltanto 40 grammi di anidride solforosa per ogni tonnellata di ghisa prodotta contro 1,4 Kg del processo tradizionale basato sulla filiera cokeria-sinte-

La proposta di Legambiente

La riconversione dell’Ilva, secondo Legambiente, passa attraverso 26 punti irrinunciabili: un elenco di interventi tecnici che l’associazione propone al ministero dell’Ambiente dalla primavera scorsa, da quando ha chiesto al ministro Corrado Clini di riaprire la procedura dell’Aia rilasciata ad agosto 2011. Richieste in gran parte già contenute nelle osservazioni che Legambiente ha presentato sui tre pareri istruttori conclusivi (Pic) redatti dalla Commissione Ippc (ottobre 2009, dicembre 2010, maggio 2011). Fra queste spiccano la copertura dei parchi minerali, la riduzione del livello di produzione, il campionamento in continuo delle emissioni di diossina dal camino E312, l’utilizzo dei reflui dei depuratori evitando così il prelievo d’acqua dai fiumi, la chiusura delle procedure di analisi e dell’accordo di programma per la bonifica delle aree rientranti nel Sin (Sito d’interesse nazionale).

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www.legambientetaranto.eu

In alto, un blitz di Legambiente davanti alla sede dell’Ilva. Qui sopra, l’economista Guido Viale

rizzazione-altoforno: «È l’acciaieria a minor impatto ambientale – spiega il professor Giuseppe Silva, del laboratorio di metallurgia al Politecnico di Milano – Richiede però dimensioni enormi, basti dire che l’impianto di Shangai produce un milione e mezzo di tonnellate d’acciaio l’anno, contro i nove dell’Ilva, utilizzando una superficie pari a circa un quarto del sito pugliese». Come dire, a parità d’estensione a Taranto si potrebbero produrre circa 6 milioni di tonnellate d’ac-


il coraggio di parlare di Alessandro Langiu*

ciaio salvaguardando al contempo buona parte dei posti di lavoro (assorbibili anche per le operazioni di bonifica) e la salute pubblica. Certo, una metamorfosi di questo genere non sarebbe facile da gestire: «La riconversione potrebbe durare diversi anni e comporterebbe un drastico decremento della produzione, con tanto di cassa integrazione e ricorso alla mobilità. In più l’acciaio necessario al nostro sistema produttivo andrebbe importato dall’estero – avverte Guido Viale,

La grande rivoluzione è rappresentata dagli operai dell’acciaieria, che dal 1995 (anno della privatizzazione) sembravano essere diventati Invisibili, come dice il titolo del libro di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno, sottotitolo “vivere e morire all’Ilva di Taranto”. Oggi gli operai manifestano la paura per il lavoro e condividono È stato un coming out lento da parte dei cittadini, il dolore per le malattie. I cittadini per pudore del proprio dolore, per la paura di Taranto chiedono di toccare una fonte di reddito importante il ripristino del diritto, che in Italia trova nei contesti persone. Da questo momento il dolore legati all’inquinamento ambientale una individuale può essere condiviso, diviene sorta di latenza. È un percorso lungo reale, ma al contempo diviene reale la e complesso quello che si è avviato, necessità di fare ordine, di rimettere ma la sua conclusione positiva, cioè le cose nel sentiero del diritto, unico coniugare salute e lavoro, non può che modo per sconfiggere la paura, legittima, essere l’unica via percorribile. Come del futuro. Quindi non più solo gli due maratoneti che affrontano una gara ambientalisti ma ogni cittadino ha il complessa, con sfortune e difficoltà. coraggio di parlare. Nelle manifestazioni Nessuno taglia il traguardo per primo, ma che si sono avvicendate nel mese di uniti tagliano il traguardo insieme. agosto, i cittadini hanno portato in strada e sotto le lenti dei media le storie di ordinario disagio: pediatri, giovani famiglie, operai (sindacalizzati e non) * Drammaturgo e attore tarantino. Sul rapporto anziani, studenti. Ognuno con la sua fra Taranto e l’Ilva ha scritto due testi,“25 mila storia, la sua rabbia per le malattie dei granelli di sabbia” e “Otto mesi in residence”, familiari, la paura di esserne toccato nei quali mette in scena la vita nel quartiere direttamente, il dramma dell’eventuale Tamburi e le vicende degli operai vittime di perdita del lavoro. mobbing.

A Taranto la cittadinanza si è mobilitata per chiedere impegni concreti alla proprietà. Dietro, i parchi minerali coperti nell’acciaieria della Hyundai in Corea e gli impianti della Tyssen Krupp a Duisburg, in Germania

FOTO: © francesco loiacono

Quello che ci fa capire la stampa è che la città di Taranto, come nel film Matrix, si sia risvegliata all’improvviso da un grande sonno e abbia preso consapevolezza. Ovviamente così non è, ma nulla si può verso la stampa generalista che non attende altro che drammi per riempire palinsesti o pagine, sperando di aumentare audience e vendite. La consapevolezza nella città c’è in pratica da sempre. Che l’inquinamento fosse causa di tanti mali è l’amara realtà domestica del golfo ionico. È stato un coming out lento da parte dei cittadini, per pudore del proprio dolore, per la paura di toccare una fonte di reddito importante, per la paura stessa di aver ragione sull’ipotesi di malattia del territorio. Dal 2001 in avanti quando l’organizzazione mondiale della sanità mise nero su bianco che al rione Tamburi si registrava una mortalità per patologie tumorali anomala e due volte superiore al resto d’Italia, è stato un susseguirsi di dati e accadimenti che confermavano la gravità della situazione. L’incidente probatorio del febbraio 2012 ha fatto chiarezza. I periti nominati dalla procura hanno depositato ed esposto le ricerche svolte e i risultati. L’acciaieria inquina ed è causa di malattia e decessi. Il giro di boa arriva con la sentenza del gip del 26 luglio 2012 che dispone il sequestro degli impianti. La procura dà certezza a quello che non si aveva il coraggio di ammettere: il danno ambientale che coinvolge territorio e

economista e autore fra gli altri del libro La conversione ecologica (Nda press, 2012) – Ma si sta giocando il futuro di un’intera città e non si può dare spazio a giochi al ribasso. Servono investimenti importanti e soprattutto che gli abitanti di Taranto partecipino alla discussione sulle misure da adottare».

Polveri killer

Un’altra soluzione, che prescinde dal cambiamento del modello produttivo, è stata sviluppata in Ger-

mania, primo produttore di acciaio nel Vecchio continente, dalla Tyssen Krupp che ha sostituito integralmente le cokerie di Duisburg ottenendo buone performance ambientali in un sito collocato, come quello tarantino, a ridosso della città. Un esempio che rappresenta una speranza per il quartiere Tamburi di Taranto, dove sono più frequenti i casi di tumore e le leucemie e dove si avvertono di più le conseguenze dei famigerati parchi minerali, cresciuti negli anni insieottobre 2012 / La nuova ecologia

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primopiano

La nostra sfida

taranto in polvere

FOTO: © bozman/ flickr

di Lunetta Franco*

colosso dell’impiantistica per la siderurgia, per coprire i parchi con l’obiettivo di ridurre le polveri del 70-90%. Un piano che però è stato bocciato dai custodi nominati dalla Procura. «La spesa complessiva per la riconversione è certamente più alta, parliamo di svariati miliardi di euro – riprende Viale – Chi dovrà spenderli?».

Intervento europeo me all’acciaieria a ridosso dei palazzi. È da lì che si alzano le polveri rosse che ricoprono tetti e balconi e s’infilano nei polmoni delle persone, tanto che il sindaco nel 2010 ha emesso un’ordinanza che vieta ai bambini di giocare nelle aree verdi del quartiere perché contaminate. Il nodo dei parchi minerali, infine, è forse quello più difficile da affrontare. La soluzione migliore sarebbe quella di allontanarli dal quartiere e coprirli, la Hyundai nella propria acciaieria in Corea l’ha fatto abbattendo quasi del tutto la dispersione delle polveri. Il minerale arriva dalle stive delle navi trasportato su nastri che corrono al chiuso di tubature lunghe i 36 chilometri che dividono l’acciaieria dal porto. Su questo capitolo il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, ha presentato alla Procura di Taranto (contestualmente alla richiesta di riprendere la produzione) un piano di risanamento che prevede 400 milioni d’investimento e un incarico alla Paul Wurth, 22

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Già, chi metterà mani al portafoglio? Le casse dello Stato in questo periodo piangono. «E poi lo Stato non può sostenere un’azienda per ammodernare gli impianti, infrangendo le norme sulla concorrenza – chiarisce Monica Frassoni, presidente del partito Verde europeo – Per di più sarei personalmente contraria a una scelta di questo genere verso un’impresa che ha avuto durante gli anni un atteggiamento assai discutibile. Piuttosto questa sia l’occasione per rimettere al centro dell’agenda il tema delle bonifiche. Ci sono aree, anche fuori dallo stabilimento, che devono essere bonificate e per questi interventi si possono utilizzare i fondi strutturali europei. Ci sarebbero anche finanziamenti Ue per rinnovare le tecnologie – aggiunge Frassoni – Ma non sono a fondo perduto e soprattutto per poter attingervi bisogna predisporre progetti di qualità». Gli unici, del resto, che potrebbero aiutare Taranto ad uscire dal tunnel. Perché qui o si cambia o si muore. n

La contrapposizione tra il lavoro, l’ambiente e la salute, a Taranto, tocca nel vivo ogni persona sensibile, oltre alle migliaia di lavoratori dell’Ilva. Una contrapposizione difficile da superare anche in questo primo scorcio del III millennio, quando si penserebbe che il progresso scientifico e tecnologico possa risolvere tutti o quasi tutti i problemi. Legambiente, che forse è l’associazione ambientalista più consapevole dell’ineludibile interconnessione tra questione ambientale e questione sociale, sta facendo una scommessa molto difficile: credere che questa angosciante dicotomia possa trovare una sintesi positiva per cui nessuno più a Taranto (ma non solo) sia costretto a scegliere tra salute Non e lavoro, ma che tutti accetteremo abbiano diritto a lavorare accordi in un ambiente sicuro in al ribasso né cui non ci si ammali o si autorizzazioni muoia. La magistratura, con prescrizioni che è stata per troppi anni blande l’unico presidio contro gli inquinatori, con l’ultima inchiesta in cui tra le ipotesi di reato a carico dell’Ilva vi è quella gravissima di disastro ambientale doloso e colposo, ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora di silenzi, acquiescenze, corruzioni e complicità. Molti credono che in quest’azienda non si possano attuare interventi tali da abbatterne drasticamente il micidiale impatto ambientale. Questo per due motivi: il primo è l’obsolescenza di molti impianti e il secondo è l’assoluta sfiducia nelle istituzioni. Queste, silenti o complici per troppi anni, ora, sotto la spada di Damocle della magistratura, devono imporre all’azienda quel radicale ammodernamento tecnologico, nonché i controlli e i monitoraggi più serrati e rigorosi, che la città tutta chiede e a cui ha diritto. Noi siamo invece “costretti” a crederci e a scommettere, perché questo territorio ha bisogno di lavoro (120.000 disoccupati solo nella provincia di Taranto), perché l’acciaio è strategico anche per quella green economy cui affidiamo tante speranze, perché non riteniamo eticamente accettabile che le lavorazioni più sporche siano spostate in paesi poveri dove il regime di controlli e divieti è vago o inesistente, e infine perché crediamo che solo questi interventi potranno garantire un futuro all’Ilva consentendole di essere competitiva con il meglio della siderurgia mondiale. Ma sia chiaro: non accetteremo accordi al ribasso, autorizzazioni ambientali con prescrizioni blande e dilazionate nel tempo, non accetteremo baratti tra salute e lavoro. Noi vogliamo vincere la nostra scommessa. * presidente del circolo di Legambiente Taranto


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