L'ago di Clusane numero 7

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Gruppo: L’ago di Clusane

la redazione

Archetti Alessandra, Bianchi Giancarlo, Bianchi Paola, Bianchi Luigi, Bonardi Bruno, Cancelli Nicoletta Ferrari Deborah, Lopizzo Nicola, Pedemonti Giovanni, Sarnico Matteo, Treccani Carloalberto, Viti Benedetta. Grafica: Andrea Sabadini.

C I r C o L o C u Lt u r a L e C L u S a n e S e di Alessandra Archetti

Il nostro giornalino sottoposto all’art. 21 Cronaca di una riunione

L’articolo 21 della nostra Costituzione recita:

“Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

N

ell’ultima riunione di redazione del nostro giornalino, poco prima di definire la bozza conclusiva del numero in uscita (per intenderci quello che avete tra le mani), ci siamo trovati a discutere di censura, punti di vista e opinioni diverse. Nel giornalino che sfoglierete troverete molti spunti adatti a riflessioni più o meno personali e soprattutto troverete temi di carattere generale e quotidiano

che potrebbero rallegrarvi o farvi storcere il naso; fin dall’inizio però il nostro intento è stato e credo rimarrà quello di scrivere facendoci portavoce di pensieri più o meno seri, anche in base alle nostre competenze, che tutti hanno trattato o almeno una volta approfondito anche involontariamente. Non siamo giornalisti professionisti iscritti all’albo, ma anche noi abbiamo discusso di poter cen-

Numero 7 Agosto 2013 surare o tagliare articoli definiti “critici” e ci siamo confrontati con punti di vista contrastanti. Com’è stato per il numero inerente alla campagna elettorale e alle elezioni politiche, attorno ad un tavolo abbiamo letto e poi approvato o no gli articoli scritti e poi proposti liberamente dai “colleghi”. L’articolo 21 della nostra costituzione, senza addentrarci nei meandri del diritto di cronaca e libertà di pensiero, reclama per ogni individuo la possibilità di esprimere la propria opinione e ciò è stato rispettato anche dai partecipanti dell’Ago. Anche noi ci siamo sentiti in dovere di domandarci se certe tematiche fosse bene trattarle così apertamente, ma come ricorda il nome della nostra testata, siamo un pò come un’ago della bilancia: trattiamo argomenti vari, provando a riferire diverse possibili posizioni e soprattutto siamo pronti al dialogo con chiunque non si senta rappresentato dai nostri elaborati, oppure con chi ha apprezzato invece le nostre parole.


di Nicoletta Cancelli

L’abito non fà il monaco ... e nemmeno il fighetto V Se vestiamo di nero ed abbiamo un ciuffo davanti agli occhi, siamo Emo ; se portiamo jeans scuciti e camicie firmate, siamo fighetti; se una donna indossa lussuose scarpe stile Manolo Blahnik, diventa una poco di buono; se portiamo capelli rasta o ci piace un modo più frugale di vivere, diventiamo dei barboni (termine alquanto dispregiativo, fra l’altro); se frequentiamo l’oratorio, siamo dei bravi ragazzi; se preferiamo vestire usato e non abbiamo Hogan ai piedi, siamo degli sfigati , se ci va bene. Se ci va male, nessuno. Così, semplicemente. Eppure la storia, ma anche Clusane, ci insegnano che “l’abito non fa il monaco”, parafrasando i Promessi Sposi. a cura di andrea Sabadini Tuttavia, in alcuni casi è stato proprio l’abito a fare il monaco, meglio ancora, la monaca. “Emozione”, quanta intensità di espressione Tutti noi ce lo domandiamo, ci merain poche lettere... Emo, vigliamo perché non siamo, non agiache sarà mai? Chanel vemo, non sentiamo come gli altri. stiva e amava il nero, lo trovava di “una bellezza I nostri cervelli sono composti dalle assoluta”, eppure nessustesse parti: Corteccia, Ipotalamo, no le ha mai dato della Fornice, Cervelletto, e così via, e ciò depressa ribelle! Mi pare nonostante non esistono due cervelli ne abbia fatta di strada, esattamente uguali. questa donna... Dobbiamo sempre ferQuindi, l’essere “diverso”, l’essere marci alle apparenze, ci “unico”, è un’innegabile e fondamenrifiutiamo di andare oltre tale caratteristica dell’essere umano. ed aggrapparci all’idea obsoleta che “tutte le (cit. Dr. Daniel Pears) cose che non conosciamo ci spaventano” è ampiamente discutibile. Siamo nel Duemilatredici. Dovrebbe essere superata!

iviamo in un mondo dove tutti, persino certi ministri, hanno bisogno di definire le persone attraverso un’etichetta. Qualcuno trova forse questo un modo alternativo di approcciarsi alla vita, io penso invece sia sciocco, oltre che inutile. Può diventare anche discriminante e ce lo spiega una non meno famosa Nonciclopedia. Ci ritroviamo a fare parte di destra, di sinistra, di centro, il posto più scomodo, probabilmente, solo per come ci mostriamo esteriormente. Dopodiché arriva il timbro, che ci viene imposto come fossimo pacchi postali.

L’aneddoto

“C’è qualcosa di sbagliato in noi?”

pag. 2 L’ago di Clusane

La maggior parte della gente è ancora così radicata nella propria convinzione mostrandosi, in tal modo, incapace di aprirsi veramente a nuovi e più reali pensieri. Nel sessantanove qualcuno è riuscito a raggiungere la Luna, altri lo hanno messo in dubbio, ma abbiamo fatto progressi in campo medico, scientifico, ambientale. Tale sviluppo è stato, ed è, inversamente proporzionale a quello della propria mente. È un dato di fatto, abbiamo continuamente bisogno di etichettare qualunque cosa. C’è questa mania di catalogare, collocare qualcuno/qualcosa in un determinato posto, con un determinato nome in base all’apparenza. Non sarebbe un modo più semplice di vivere quello di smetterla di darci nomi che, fondamentalmente, non ci appartengono se non in abiti cuciti addosso? E cosa sono questi abiti cuciti addosso se non stoffe colorate che coprono il nostro corpo, senza per forza svelare ciò che siamo di fatto? Non è sempre tutto come si presenta, sta a noi stessi scoprirlo, sta a noi volerlo fare. Dimentichiamo forse che la caratura di una persona si dimostra, prima di ogni altra cosa, dall’interno, mai il contrario. L’impatto visivo non può essere limitante, eppure ancora troppe volte oggi lo è. Cristopher McCandless, soprattutto noto come Alexander Supertramp, un profondo detto ce l’ha lasciato: “Chiama le cose con il loro vero nome”. Non è difficile.


di Nicola Lopizzo

“Open” Un’autobiografia S

ul primo numero di questo giornalino, avevo esordito con una premessa che poi ho mantenuto solo parzialmente. Nella mia recensione de “Le avventure di Tin Tin”, avevo inaugurato il mio articolo con una introduzione in cui spiegavo come mi sarebbe piaciuto essere il curatore di una rubrica culturale di stampo cinematografico, letterario, musicale, con le mie personali recensioni di quanto di più interessante ci fosse stato in quel particolare momento in questi campi. Nei numeri seguenti, invece, sono stato rapito dall’impulso di scrivere di altre passioni e di altre delusioni come il teatro, il torneo di portine, il mio rapporto con le biotecnologie, la ricerca scientifica e il mondo del lavoro, il distacco dalla politica. Questo mese ho finalmente avuto tempo di leggere un libro che avevo sulla mia scrivania da qualche tempo: “Open - La mia storia” di Andre Agassi. Il libro è l’autobiografia del celebre campione di tennis, ritiratosi dalle competizioni ufficiali nel 2006, dopo essere stato a lungo, durante una carriera da professionista durata circa vent’anni, numero uno del mondo. Solitamente mi tengo alla larga dalle biografie dei campioni dello sport, poichè, ogni volta che ho tentato di leggerne una, ho provato la spiacevole sensazione di trovarmi davanti a libri superficiali e chiaramente scritti su commissione da autori non accreditati (i cosiddetti “Ghost writer”) con ben poco di personale e di emozionante tra le loro pagine. Questo libro è esattamente il contrario, perchè Agassi, avvalendosi della collaborazione del premio Pulitzer, J.R. Moehringer, si prende circa 500 pagine di spazio per raccontare tutta la sua vita, partendo dalla fine, dall’avvincente cronaca del suo ultimo incontro agli US open, per raccontare il rapporto conflittuale con il padre, i suoi due matrimoni, gli incontri più belli e appassionanti della sua carriera, la solitudine, la voglia di ribellarsi al suo destino, il suo rapporto con alcolici e stupefacenti e l’odio-amore nei confronti del tennis. Tutti i nodi cruciali dell’esistenza del grande fuori-

classe vengono trattati con una cura per i dettagli non convenzionale per un’opera di questo tipo e corredati dalle fotografie dei momenti più significativi. Ogni incontro di tennis è narrato con un livello di tensione e di partecipazione emotiva molto alto e per il lettore, anche quello meno interessato allo sport in questione, risulta facile partecipare emotivamente al racconto. Ogni match è una battaglia e si riflette sulla vita e sui pensieri dell’atleta che riesce molto bene a narrare la solitudine del suo mestiere, soffocato sin da piccolo da un padre con ambizioni più grandi di lui, severo e violento, in grado di decidere tutto della vita del figlio dalla sua nascita, rubandogli l’infanzia e portandolo ad odiare lo sport per cui è stato baciato da un enorme talento. Agassi si permette suggestivi paragoni tra il tennis e la vita reale e tali similitudini sono uno dei punti di forza del libro ed aumentano la sensazione di trovarsi davanti ad un romanzo che trascende lo sport e parla invece di vita vissuta, dell’altra faccia della medaglia del successo. Questa autobiografia fa riflettere su temi importanti come fama, ambizione, predestinazione, amicizia e libero arbitrio e lo fa in modo non banale, creando un piccolo grande mosaico della vita di un campione, fatta di tantissime persone, di luci e molte ombre ed è proprio il lato oscuro del carattere di Agassi quello che colpisce ed affascina di più. Voglio chiudere con una citazione che mi è rimbalzata in testa come una pallina da tennis per parecchi giorni, dopo aver concluso la lettura del libro: “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perchè non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita”. Quanti di voi riescono a riconoscersi in questo stato d’animo, anche senza aver mai preso in mano una racchetta da tennis? pag. 3 L’ago di Clusane


di Benedetta Viti

L’Angolo dell’Educazione …

“L’alfabeto educativo” M

i verrebbe spontaneo in questo articolo dedicare l’intero pezzo all’Educazione, quale scienza propria, visto che la lettera che mi si propone ora è proprio la “E”, ma verrei meno al mio intento di passare diversi messaggi, diversi flash, tutti unici ed importanti. Lascio quindi da parte un lungo sermone accademico sull’Educazione, per spezzare con voi alcune parole, aggettivi, verbi che possano ricondurci all’importanza di questa lettera. Inizio con l’affrontare un tema spigoloso, pungente, che rappresenta però l’inizio di ogni cosa: Embrione! Tutti noi in origine lo eravamo, è stato il nostro esordio primordiale e qualcuno ha deciso per noi che eravamo degni di proseguire lo sviluppo, per poi venire al mondo, Esserci! Sono consapevole di entrare in un argomento che troverà opinioni favorevoli e non, ma non posso permettermi di tacere solo per non trovare pareri contrari. Embrione: un piccolo esserino che, a un certo punto, compare nell’essere di una donna, si fa presente e cambia la vita a tutti! Spesso si ritiene che la gravidanza sia una fatto privato, un evento che riguarda la coppia, o peggio ancora, la donna di quella coppia! Pensiero Egoistico, Egocentrico! La gravidanza, o meglio, l’Embrione ha in sé una potente ricchezza da scoprire, da accudire, da avvolgere, da portare a compimento! E tutto ciò non si realizza solo attraverso i genitori, ma attraverso tutte le persone che faranno parte della vita di quell’Essere che pag. 4 L’ago di Clusane

è solo agli esordi. Perché privare al mondo la possibilità di essere cambiato, migliorato, abbellito o anche rovinato e sporcato proprio da questo embrione? Qualche riga sopra scrivevo che l’Embrione poi diventa Essere. Errore!!! Provocazione! L’Embrione è già Essere! È già presenza. È già vita! Dare alla luce un Embrione significa arricchire l’esistenza umana di un contributo tanto misterioso quanto sconvolgente. Significa dare la vita all’Essere, ed Essere significa avere la possibilità di vivere, con tutto ciò che la parola Vita comporta. Avere la possibilità di Esserci significa poter fare Esperienze e la vita ce ne regala molte. A volte gioiose, altre volte meno. È importante fare in modo che i nostri bambini abbiano la possibilità di vivere molte esperienze, le più svariate. Dalle esperienze fisiche tramite il gioco, la natura, gli spazi educativi, per poi passare alle esperienze relazionali, amicali, familiari che riempiono il cuore e donano quella ricchezza interiore che li accompagna tutta la vita! A tal proposito mi viene in mente la bellezza e l’unicità che si sperimenta quando in una relazione c’è quell’Empatia che consente agli individui di comprendere appieno lo stato d’animo altrui, significa sentire dentro un’altra persona ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana. Come è possibile vivere questa esperienza se ancora ci troviamo ingarbugliati nei meandri delle nostre convinzioni che ci consen-

tono e permettono di essere noi stessi coloro che possono decidere se è giusto o meno che alcune persone, alcuni Embrioni, non siano idonei a vivere e farci vivere tali Emozioni? Voglio essere franca! Non ho figli, ma vanto la ricchezza di essere zia. È un’esperienza straordinaria.


E non dal momento del parto. Non dal momento in cui mi è data la possibilità di avere tra le braccia per la prima volta Luca, Alessio, Giacomo, Lorenzo, Francesco, Isabella o Carlotta. È un’esperienza che inizia nel momento in cui una persona amata ti guarda negli occhi e ti dice che presto nascerà una nuova vita. Fisicamente non c’è nulla, non vedi, non senti... ma c’è! È già così parte di te che non ne puoi fare a meno. E quell’attesa, quei mesi sono istanti indimenticabili, non solo per chi accoglie la nuova vita, per chi dovrà mantenerla, ma per tutti quelli che circondano quella pancia. L’attesa nasce e si alimenta in tutti, le aspettative, i desideri, la gioia nel vederli spuntare al mondo e il desiderio di essere presente nelle loro vite, di poter essere utile, di poter far qualcosa per loro, anche se nella maggior parte dei casi sono loro che mi insegnano tanto. A volte questa attesa si trasforma in un dolore lacerante, perché non sempre la natura porta a compimento ciò

che aveva iniziato ed è lì che l’empatia, la vicinanza, l’affetto devono entrare in gioco. Ma questo è un altro tema! Ringrazio infinitamente coloro che hanno dato la possibilità ai miei nipoti di venire al mondo, di Esserci, perché con loro ho vissuto, sto vivendo e vivrò Emozioni uniche, irripetibili, che Elevano, perché ti portano all’Essenziale. Vivere le relazioni quotidiane cercando di portarle all’Essenziale. Questo dovremmo insegnare ai nostri bambini: l’Essenziale. Non ho, purtroppo, una definizione concreta che sia esaustiva. Essenziale. Andare oltre ogni cosa per giungere all’Essenziale. Credo che per ogni persona umana l’Essenziale sia qualcosa di talmente unico e profondo che non troveremo mai due persone che hanno la stessa opinione dell’Essenziale. Per me l’Essenziale è l’amore. Potrei vivere senza una casa, senza un lavoro, ma non potrei vivere senza le persone che mi amano e che amo. C’è chi fa della ricchezza il suo Essenziale, chi il

IL PICCOLO PENSIERO di Carloalberto Treccani

H

o appena letto un piccolo post pubblicato da un mio vecchio professore di filosofia del Liceo, del quale porto ancora un vivo ed ottimo ricordo. L’argomento del post riguarda l’ormai chiusa avventura del governo Monti e ciò che di positivo questo ci abbia lasciato, ad esempio, in tema di serietà nella politica (abbiamo smesso di parlare di festini e di escort e di vari scandali da entrambe le parti politiche), il non nascondere una crisi finanziaria ed economica in Italia, ma soprattutto, come riportato nell’articolo dal quale ho preso spunto per queste mie righe, una crisi intellettuale e morale; infine il forte messaggio di legalità, messaggio purtroppo spesso assente nelle dichiarazioni dei politici, e credo che tale assenza sia in parte causa dell’insoddisfacente crescita economica e dello scarso credito a livello internazionale.

lavoro, chi lo sport... Ma se dovessimo spiegare a dei bambini della scuola materna cosa è l’Essenziale, non cercheremmo forse di trasmettergli che nulla è più essenziale dell’amore della propria mamma e del proprio papà? Perché allora quando crescono li riempiamo di tante cose, di tanti oggetti così inutili e dannosi che fanno dimenticare l’Essenziale? Una cosa credo sia veramente essenziale per poter vivere, l’Embrione! Perché ci priviamo di tale possibilità? Perché ancora ci imbattiamo in guerre e scontri per stabilire se un Embrione è degno o meno di venire al mondo? Perché riteniamo che Embrioni disabili siano meno degni di sperimentare questa vita? Avete mai avuto la fortuna di vivere accanto a una persona disabile? Vi siete mai sentiti letti dentro da una persona disabile? Ve lo auguro, è un’Esperienza ricca di Emozioni, dove si sperimenta un’Empatia Essenziale! L’Embrione è vita, è Essenziale.

Dal 20 al 22 Settembre 2013

Clusane

CULTURE WEEK Appuntamenti culturali di arte, musica e teatro nella cornice del nostro piccolo borgo. A breve il programma dettagliato. pag. 5 L’ago di Clusane


di Deborah Ferrari

“Buttano le cose che bastava riparare… Buttano le cose per poterle ricomprare, chissà perché?!” (da “Apecar” - Mercanti di liquore)

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i sono interrogata, a causa della professione che esercito, sul tempo libero dei bambini e dei ragazzi, in particolare sui giocattoli a loro disposizione. Oggi nessuno mette in dubbio la necessità di andare avanti, di guardare oltre, di progredire, di anticipare il futuro, ma ho scelto di partire dal passato. Esistono libri, giochi, giocattoli o altro che, provenendo dal passato, possano aiutare chi li usa (e chi li dona) a comprendere meglio il futuro? Ci sono giocattoli che possiamo considerare universali e attuali, con una forte valenza educativa, anche in epoca di virtualizzazione e smaterializzazione delle esperienze? Sì, sono i giocattoli della tradizione popolare, quelli con cui hanno giocato intere generazioni di bambini, trasmessi da mente a cuore, costruiti con le proprie mani e sottoposti alla prova dell’efficienza e dell’uso. Sono oggetti perfetti, equilibrati, ben calibrati per l’età infantile. Si direbbero progettati da un designer geniale se non fosse che non sono stati progettati a tavolino come tecno-oggetti da una sola persona, ma sono frutto di incontri casuali, di passaparola e ingegnosità occasionale. Se dovessimo leggere i giocattoli di tradizione con i parametri di un oggetto progettato da un designer di oggi, dei suoi criteri di completezza, diremmo che hanno qualità didattiche e animative, qualità narrative, una storia, una funzione e un uso, un costo e un ambiente di riferimento, inoltre un percorso perfetto che va, a monte, dal reperimento al riutilizzo dei materiali, all’uso per il gioco, fino alla distruzione che riporta i materiali nell’ambiente senza creare problemi di inquinamento (chiedere ai nostri nonni per credere!). I giocattoli sono da sempre portatori di idee universali, di sperimentazioni senza fine; costruendoli si scoprono nuovi modi di realizzarli e nuove possibilità. pag. 6 L’ago di Clusane

Possiamo quindi convenire che i giocattoli della tradizione popolare provenienti dal passato sono caratterizzati da tre prerogative fondamentali per il mercato etico globale: l’ECO-COMPATIBILITÀ dell’oggetto, l’ECO-SOSTENIBILITÀ della sua produzione, e l’ORIGINALITÀ del suo progetto. Ma... perché oggi nella lista dei desideri dei bambini non compaiono questi giocattoli? Perché le loro preferenze sono così suscettibili e ricadono su oggetti per nulla versatili? Perché i giochi tecnologici attraggono sempre più i più piccoli? Cosa vuol dire essere bambini oggi? Che cosa significa crescere nella società di oggi? Una cosa che mi colpisce nel mondo dei bambini di oggi è il controllo ansiogeno esercitato dagli adulti sugli spazi e sui tempi di vita. Aree protette all’interno dei centri commerciali, ludo bus, ludoteche, organizzatori di feste di compleanno, diffusione di pratiche di animazione e di gioco come pronto soccorso sociale. Pensare che un gruppo di bambine e bambini non sia in grado di giocare e divertirsi senza qualcuno che li aiuti a farlo sembra assurdo! Un noto pedagogista afferma che “se un gruppo di bambini ha bisogno di un animatore per divertirsi ad una festa, vuol dire che qualcosa non va”. E a pensarci bene è paradossale, come se si dovesse cominciare ad insegnare ai bambini come si cammina, come si corre. Eppure questo bisogno di controllo da parte degli adulti, di ogni frammento della vita infantile, per cui bambini e bambine devono essere continuamente circondati da animatori e facilitatori, s’è andato diffondendo in modo straordinario, parallelamente al moltiplicarsi di giochi tecnologici sofisticati e incredibilmente attraenti, come la Playstation che non è altro che un solitario di lunga durata. Se ci si diverte (e con la Playstation si possono divertire molto grandi e

piccoli giocandoci a lungo) perché si deve compiere la fatica di CONDIVIDERE dei giochi con qualcun altro? Un videogioco come la Playstation, se annoia lo si può spegnere, o addirittura cambiare. Ma l’altro non lo si può spegnere, e tantomeno cambiare. Il grande problema degli esseri umani è che non si possono spegnere o modificarli a proprio piacimento. Il consumare tutto e molto rapidamente a seconda delle proprie aspettative è un imperativo nel mondo attuale, nel quale ricopriamo il ruolo di consumatori, prima che di cittadini. E il consumo rapido e incontrollato implica un altrettanto rapido accumularsi di una quantità infinita di scarti e materiali di rifiuto. Inoltre, i materiali di cui parliamo sono sempre più dispendiosi da smaltire: plastici, elettronici, elettromagnetici. Sarebbe veramente importante interrogare i bambini, portando alla luce i loro desideri più profondi e liberi, e non i desideri indotti, i falsi desideri. I bambini obbligano ad un quotidiano spietato esercizio di serietà e autenticità. Sento che aver fiducia nel mondo, per noi adulti e per loro, è ciò che manca maggiormente. Nei giocattoli c’è sempre qualcosa che ci riguarda, come in tutte le cose. Nonostante il mondo in cui viviamo, che non concede molto spazio alla speranza e alla fiducia, crediamo nel mondo e sperimentiamo. Quando sto con i bambini durante il loro tempo libero, faccio cose di poco conto, costruisco, gioco, non capisco bene se queste cose sono davvero importanti, anche se mi accorgo che nascono da piccoli eventi come modi di fiducia nel mondo. Ogni giocattolo donato ai bambini, così come ogni attività svolta con loro nel periodo delle vacanze e nel tempo libero, dovrebbe essere ispirato da buon senso etico e la scelta dovrebbe tenere conto


delle attitudini e dei desideri profondi del bambino. Il fascino esercitato dai giocattoli sui bambini e sugli adulti è determinato nella loro intensità dal fatto che essi lasciano sempre inesplorate

infinite possibilità di altri e alti godimenti, e di occasione di scoprire qualcosa su noi stessi. Grazie ad Enzo Jannacci che, con la sua poesia e il suo sguardo semplice, attento, ironico e intelligente,

mi ha sempre suggerito di cercare l’autenticità e la verità nelle persone e nelle cose. Quelli che... come lui, quando se ne sono andati, lasciano un enorme vuoto.

Fenomenologia dello Smartphone di Luigi Bianchi

M

età anni 90. In Italia cominciano a fare la loro comparsa i primi telefoni cellulari, comunemente chiamati “cellulari” o “telefonini”. Sono degli apparecchi radio-mobili che consentono di comunicare telefonicamente in mobilità e che, a pensarci adesso, per peso e dimensioni, hanno ben poco del facilmente maneggevole. Sono grandi più o meno come una cornetta di un telefono fisso, hanno un’antenna che più lunga non si può e paiono destinati a pochi eletti, agli uomini d’affari che proprio non possono fare a meno di essere al corrente sulle ultime news nel loro campo. Sembrano uno strumento elitario che non può avere un futuro a livello popolare; il telefonino va a rappresentare uno status symbol che indica potere. I prezzi non sono accessibili a tutti e il cellulare rappresenta un di più che la maggioranza delle persone non si può permettere. Quando si sente suonare un cellulare, ci si gira a guardare colui che risponde, come fosse una specie di alieno. La gente comincia comunque, in un modo o nell’altro, a entrare in contatto con il nuovo apparecchio. Chi ha avuto la possibilità di farlo, ricorderà certamente l’ingombro non indifferente dei primi esemplari e non può dimenticarne alcune caratteristiche, come la ricezione sempre al top anche nei bunker più blindati. Passano gli anni. Si affinano le tecnologie. Una, in particolare, risulta determinante per la diffusione dei telefonini: la funzionalità che permette di inviare SMS, brevi messaggi di testo che consentono, con un costo non troppo elevato, di fare una piccola comunicazione scritta al destinatario. Nel 2000, si registra un vero e proprio boom di vendite e nel 2007, metà della popolazione mondiale ha un cellulare. La grandissima richiesta fa abbassare i prezzi che diventano più accessibili. Una crescita vertiginosa. Il cellulare passa da strumento d’élite ad apparecchio di uso comune, che non può mancare nelle tasche delle persone. Sì, nelle tasche, perché se prima si trattava di strumenti ingombranti, adesso la corsa dei principali marchi sta proprio nel cercare di progettare nuovi modelli via via più piccoli, dotati di display sempre più essenziali. Si parlava di 2007. Il 2007 è un anno di svolta per i cellulari. Infatti, viene presentato al mondo un nuovo dispositivo: l’iPhone. È la svolta, nel senso che i telefoni

cellulari cessano praticamente di esistere. A poco a poco, prende vita un’altra idea di telefonino, il cui termine non traduciamo nemmeno più dall’inglese. Adesso si parla di smartphone, letteralmente un “telefono intelligente”, con le funzionalità di un cellulare, in aggiunta a tutte le caratteristiche di gestione di dati e di applicazioni che può avere un computer. I primi smartphone erano già presenti nella metà degli anni novanta e, a dire il vero, gli schermi touch, che permettono all’utente di interagire con una interfaccia grafica mediante le dita, esistevano già da molto tempo. Ma, come al solito, la diffusione di una tecnologia piuttosto che un’altra va di pari passo con la domanda dei consumatori, con le mode del momento, con le richieste della massa. La diffusione degli smartphone determina un nuovo cambio di rotta e scatena l’ennesima competizione tra i produttori, impegnati nella realizzazione dello smartphone più grosso, con lo schermo più grande. No, adesso piccolo, maneggevole e facilmente portabile non è di nuovo più di moda. Ora, la corsa dei produttori di telefonini è nuovamente alla ricerca di un apparecchio di considerevoli dimensioni che sia in grado di telefonare. Fanno la loro comparsa i tablet, computer con schermo touch, e ultimamente si parla di phablet: tablet che telefonano. Il telefono cellulare è passato da strumento d’élite, grande per necessità, con la funzionalità principale che rispondeva alla propria definizione, ovvero alla possibilità di telefonare da qualsiasi luogo, ad apparecchio tascabile accessibile ai più. Lo ritroviamo oggi smartphone, sempre più grande, sempre più ricco di tecnologie, sempre più potente, sempre più diffuso. Cosa ci riserverà il futuro? Quali tecnologie troveremo a bordo dei prossimi modelli? Si seguirà l’ultimo trend alla ricerca dello smartphone più grande o ci sarà di nuovo una controtendenza che porterà ancora a dispositivi più piccoli e maneggevoli? È notizia di qualche settimana fa infatti il lancio da parte di un’azienda giapponese, la “Willcom”, di un dispositivo con dimensioni di 70x32x10,7 mm (più piccolo di un pacchetto di sigarette) e dal peso di 32 grammi. Si chiama Phone Strap 2 WX06A e ha funzionalità basilari. Quale sarà la strada da percorrere per i produttori di smartphone?

pag. 7 L’ago di Clusane


di Veronica Piccinelli

Perchè cambiare? per diventare farfalle! - “Maestra... io ho pensato che non voglio cambiare!” - Perché non vuoi cambiare? - Perché io mi piaccio così come sono! - Ma tu crescerai, e allora in qualche modo cambierai. Dovrai solo cercare di cambiare sempre in meglio, e trasformarti ogni giorno in qualcosa di più bello! - Mi spieghi meglio? - Vedi... un bruco, da bruco si piace, e vive bene dentro la sua mela, ma poi succede che per qualche motivo cresce e quindi si trasforma; quando si sveglierà dal sonno, si accorgerà di essere cambiato, di essersi trasformato in una bella farfalla! E allora sarà contento, anche se non sarà più un bruco! - Mmm... allora cambiare non è poi così male...

C

hissà quante volte ci è capitato di incontrare persone che per un motivo o per l’altro ci hanno detto: “Sono sicuro! non cambierò mai”. Chissà quante volte ci è capitato di riflettere su tale considerazione e quante interpretazioni diverse, ogni volta, ne siano scaturite. Potremmo aver giustificato, giudicato, replicato, esserci discostati... aver nutrito dubbi riguardo la convinzione che quelle persone non sarebbero mai cambiate. Io, personalmente, ho sempre pensato che la paura di tentare vincesse, con un buono scarto, su tutto quanto, persino sul pericolo insito nel restare immobili e immutati. Ho sempre pensato che tali soggetti sarebbero cambiati, solo quando, si fossero resi conto che il cambiamento sarebbe stato utile e importante per loro stessi. Ho sempre creduto che persone con quella convinzione stessero andando semplicemente contro ad una legge naturale! Perché il cambiamento è l’unica costante di tutta la scienza; energia e materia cambiano in continuazione, si trasformano, si fondono. Innaturale è il modo in cui modifichiamo a nostro piacimento le regole delle cose che ci sono, invece di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi, il modo in cui insistiamo nel credere, malgrado qualsiasi indipag. 8 L’ago di Clusane

cazione, che nella vita tutto sia per sempre. Non ci rendiamo conto che il cambiamento è costante; capiamo invece, più che bene, che cambiare costa fatica. Siamo talmente radicati nelle nostre convinzioni che non sappiamo più distinguere quello che siamo da quello che potremmo essere! Cristallizzarsi in abitudini per timore di abbandonarle è un modo nevrotico, magico e irreale per fermare il tempo. Non capiamo che il cambiamento è necessità, che per migliorarsi, si deve necessariamente cambiare! Cambia la storia, cambiano le generazioni, cambiamo noi. A volte i cambiamenti sono tanto piccoli che non li vediamo neanche, altre volte hanno una portata così intensa che ci si chiede come abbiamo potuto non rendercene conto prima; alcune volte sono positivi e ce ne compiacciamo, altre volte negativi e preferiamo ignorarli per non doverci fare i conti. Alcune volte sono voluti, altre volte per niente. Insomma, cambiare è nell’ordine naturale delle cose, come altrettanto naturale è averne paura. Di fronte a un cambiamento, spesso, ciò che di primo acchito emerge è il rifiuto, il secco “no”, la spontaneità con cui ci si chiede: “Perché cambiare se son sempre stato così, se ho sempre fatto così?” Subito dopo appare il dubbio: “Qualcuno mi ha detto che forse è meglio cambiare, ma sarà positivo? Ne sarò capace? Ce la farò?” Ed ecco che

infine arriva la rassegnazione: “È troppo per me, lo so già, se cambiassi non sarei più io, meglio che lasci perdere”. Non sempre le trasformazioni sono positive e quasi, anzi praticamente mai, ci portano dove avevamo pensato. Spesso temiamo di perdere ciò che di certo già possediamo, ciò che di sicuro abbiamo conquistato, ciò che con tanta fatica siamo diventati; così, mossi da queste paure, non proviamo neanche a cambiare; non ci accorgiamo invece che sarebbe meglio essere ottimisti e avere torto, piuttosto che pessimisti e avere ragione. Non ci accorgiamo che se non cambiamo non cresciamo e che se non cresciamo non possiamo apprezzare con la giusta maturità ciò che ci viene proposto. In un’altra realtà, forse le cose vanno diversamente, ma quaggiù vivere significa cambiare... e allora smettiamo di dire: “Tanto non cambieremo, se siamo così, saremo così per sempre”. Il mondo cambia e noi con esso, che lo vogliamo oppure no, che siamo pronti oppure no. Il cambiamento, di qualunque portata, con qualsiasi intensità, bussa alla porta di tutti, prima o poi. A noi non spetta giudicarlo, sarà buono? sarà cattivo? Dobbiamo solo imparare a coglierlo e accettarlo come meglio, il nostro essere, ci consente di fare. Non dobbiamo, davanti alle trasformazioni, essere rassegnati, ma accettarle in quanto “ordine naturale delle cose”; impariamo a non sentirci “arrivati”, a comprendere che il viaggio verso la crescita è un viaggio che non finisce. Cerchiamo, seriamente e sinceramente coinvolti, di far nascere in noi una convinzione sul perché è necessario cambiare. Solo allora cambieremo davvero e cambieremo in meglio, accorgendoci ben presto che la “comprensione” del perché, è avvenuta in modo immediato e improvviso. Impegnamoci quindi a vivere il cambiamento, qualunque esso sia, a sentirlo come se fosse una seconda occasione di vita, come se in ogni momento, potessimo nascere, ancora una volta... magari sottoforma di farfalla!


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