Vita senza limiti

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Nick Vujicic

Vita senza limiti Per una vita assurdamente felice


Titolo originale dell’opera: Life Without Limits: Inspiration for Ridiculously Good Life Nick Vujicic Copyright © 2010 by Nicholas James Vujicic. All rights reserved. This translation published by arrangement with WaterBrook Press, an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House LLC. Edizione italiana: Vita senza limiti. Per una vita assurdamente felice Nick Vujicic Copyright © La Casa della Bibbia, 2017 Tutti i diritti riservati. Traduzione di Loredana Bottaccini Revisione a cura di Luisa Artini e Daniela Benevelli Progetto grafico a cura di Letteraelle (TO) Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte da La Sacra Bibbia –Nuova Riveduta, 2006 standard © Società Biblica di Ginevra – CH–1032 Romanel-sur-Lausanne.

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, inserita in circuiti informatici o trasmessa in alcuna forma o mezzo (elettronico, fotocopia, registrazione) senza la preventiva autorizzazione scritta degli Editori. La sola eccezione permessa è un breve commento per recensioni librarie.

Diffusione: La Casa della Bibbia Via Giuseppe Massari, 189/A 10148 Torino Tel. 011 2052386 | Fax 011 2051566 ordini@lacasadellabibbia.it | www.lacasadellabibbia.it ISBN 978-88-8469-064-7


A Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Dedico inoltre questo libro alla famiglia Toth di San Diego, per sempre grato della pietra angolare che Phil ha posato nella mia vita: il suo entusiasmo per il vangelo mi ha contagiato, suscitando in me il desiderio di annunciarlo a mia volta.



Introduzione

Mi chiamo Nick Vujicic (si pronuncia Voi-i-cich, con la c dolce), ho trentaquattro anni e sono nato del tutto sprovvisto di arti. Tengo subito a precisare, però, che la mia condizione non è più una limitazione per me. Infatti, giro il mondo in lungo e in largo per incoraggiare migliaia di persone a superare le contrarietà con fede, speranza, amore e coraggio, in modo che possano realizzare i propri sogni. In questo libro vi voglio raccontare come sono riuscito ad affrontare e a superare i disagi e gli ostacoli che si sono presentati sul mio cammino. Certo, alcune problematiche sono proprie della mia condizione, ma altre sono decisamente comuni a tutti noi. Il mio obiettivo è quello di spronarvi ad affrontare e a superare le sfide e le difficoltà, per trovare la vostra strada e vivere quella che amo definire una vita assurdamente felice! Sovente abbiamo l’impressione che la vita sia ingiusta: problemi e avversità possono scatenare dubbi, insicurezze e disperazione (lo dico con cognizione di causa). Ma la Bibbia ci invita a guardare alle prove come a delle occasioni di gioia1. Ci ho messo parecchi anni per capire questa lezione! Ora, grazie all’esperienza che ho vissuto, vorrei mostrarvi che le sfide possono rivelarsi delle straordinarie opportunità per scoprire chi siamo, qual è il nostro posto e come possiamo impiegare i doni che abbiamo ricevuto per il bene di altre persone. Sono nato in una famiglia di cristiani osservanti; eppure, nel vedermi senza braccia né gambe, i miei genitori si cono chie1. Giacomo 1:1-4.

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sti perché Dio mi avesse fatto venire al mondo. Temevano che per uno come me non ci sarebbero stati né speranza né avvenire e che non avrei mai avuto un’esistenza normale e produttiva. Eppure oggi la vita mi offre ben più di quanto i miei genitori e io avremmo mai potuto sperare. Ogni giorno sono in contatto con persone che mi telefonano o mi scrivono e-mail, sms e messaggi su Twitter. Quante volte in aeroporto, in albergo o al ristorante le persone si avvicinano per abbracciarmi e dirmi che in qualche modo ho cambiato la loro vita! Mi considero fortunato e sono esageratamente felice! La mia famiglia e io non avremmo mai immaginato che la mia disabilità, il mio “fardello”, avrebbe portato tante benedizioni, offrendomi occasioni uniche di incontrare altre persone, comprendere la loro sofferenza e confortarle. Certo, ho le mie evidenti difficoltà, ma Dio mi ha benedetto dandomi una famiglia amorevole, dalla mente piuttosto aperta e con una fede solida e profonda. In questo libro sarò sincero con voi e non farò mistero del fatto che la mia fede e la scoperta del vero scopo della mia vita siano maturate solamente dopo un percorso di crescita personale alquanto accidentato e, per molti versi, drammatico. Durante gli anni problematici dell’adolescenza, quelli in cui ci si domanda quale sia il nostro posto nel mondo, la mia condizione mi ha procurato un’angoscia terribile: avevo la netta sensazione che non sarei mai stato “normale”. Non potevo certo ignorare che il mio corpo fosse diverso da quello dei miei compagni di scuola. Per quanto mi applicassi in attività comuni come il nuoto o lo skateboard, non potevo fare altro che convincermi che alcune cose sarebbero rimaste semplicemente fuori della mia portata. E naturalmente il fatto che alcuni bulli mi appioppassero epiteti come “mostro” o “alieno” non contribuiva a migliorare la mia autostima... Volevo disperatamente essere come gli altri, senza alcuna speranza di riuscirci. Cercavo l’approvazione degli altri, ma non mi sentivo adeguato né accettato. Desideravo trovare la mia strada, ma questa era apparenVI


Introduzione

temente lontana. Mi sembrava di cozzare continuamente contro un muro di gomma. Ero infelice, depresso, oppresso da pensieri negativi e non riuscivo a trovare alcun senso nella mia vita. Mi sentivo solo anche quando ero circondato dalla famiglia e dagli amici più cari. Temevo che sarei sempre stato un peso per coloro che amavo. Quanto mi sbagliavo! Con tutte le cose che all’epoca ignoravo potrei riempire un intero libro, che è poi quello che avete in mano... In queste pagine vi proporrò alcuni spunti utili a farvi ritrovare la speranza persino nelle prove più difficili, per superare le barriere della disperazione. Vi aiuterò ad attraversare il fiume profondo e impetuoso delle vostre difficoltà: sull’altra riva riemergerete più forti e determinati, finalmente in grado di raggiungere i vostri ideali e vivere un’esistenza che non avreste mai immaginato. Se desideri qualcosa con passione, e questo qualcosa corrisponde alla volontà di Dio, lo avrai. Questa sì che è un’affermazione forte! In realtà non ne sono sempre stato convinto... Certo, se guardate uno dei miei video su internet mi vedrete raggiante di gioia. Tanta gioia, però, è il frutto di un lungo e talvolta drammatico percorso. All’inizio non avevo l’occorrente per raggiungere quel traguardo: lungo il cammino ho dovuto raccogliere alcuni elementi importanti. Ho scoperto che per vivere senza limiti avrei avuto bisogno di: • • • • • • • • • • •

uno scopo, un obiettivo importante e ben definito; una speranza a prova di bomba; la fede in Dio e nelle sue infinite risorse; amore e autostima; il desiderio di migliorarmi e puntare in alto; uno spirito risoluto; la volontà di cambiare; un cuore fiducioso; il desiderio di riconoscere e cogliere le occasioni; la capacità di valutare i rischi e di sorridere della vita; la missione di servire, in primo luogo, gli altri. VII


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I capitoli di questo libro trattano tutti questi elementi uno alla volta. Spero che troverete informazioni utili per un percorso che vi porti alla vita piena di soddisfazioni e di significato che desiderate. Con tutto il cuore vi offro il frutto della mia personale ricerca, perché condivido lo stesso amore di Dio per ciascuno di voi. Vorrei che provaste la gioia e l’appagamento che Dio ha da sempre in serbo per voi. Se anche per voi ogni giorno è una lotta, ricordatevi che, al di là delle mille sfide che dovrete affrontare, vi attende il vero senso della vita: un obiettivo che supera di molto, ma proprio di gran lunga, la vostra più fervida immaginazione. Così è stato per me. Forse attraverserete momenti difficili. Forse cadrete e vi sentirete privi di forze. Forse arriverete a credere di non potervi più rialzare. Cari amici, conosco quella sensazione... tutti noi la conosciamo bene. La vita non è facile, ma ogni volta che accettiamo una sfida e superiamo una prova diventiamo più forti e riusciamo ad apprezzare le occasioni di crescita. Alla fine, ciò che conta davvero è l’impatto che abbiamo sulle vite di quanti incrociano la nostra strada. E il modo in cui si concluderà il nostro viaggio. Io amo la mia vita, esattamente come mi sta a cuore la vostra. Insieme disponiamo di possibilità inimmaginabili. Allora, che ne dite? Ci vogliamo provare?

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Se non ricevi un miracolo, diventalo!

In uno dei miei video più popolari su YouTube mi vedrete sfrecciare su uno skateboard, fare surf, suonare uno strumento musicale, colpire una pallina con una mazza da golf, cadere, rialzarmi, tenere conferenze e, soprattutto, ricevere l’abbraccio di frotte di persone meravigliose. Tutto sommato, si tratta di attività ordinarie che chiunque riuscirebbe a svolgere, giusto? Dunque perché credete che quel video abbia ottenuto milioni di visualizzazioni? Secondo me la gente è portata a guardarlo perché, nonostante il mio handicap fisico, vivo come se non avessi alcuna limitazione. Di solito pensiamo che chi convive con una disabilità importante sia una persona inattiva, magari addirittura astiosa e introversa. E così mi piace sorprendere chi la pensa in questo modo dimostrando che io, invece, conduco un’esistenza avventurosa e gratificante. Il leit-motiv che accomuna le centinaia di commenti a proposito di quel video è più o meno sempre lo stesso: “Quando vedo che qualcuno come lui riesce a essere felice mi domando perché continuo a commiserarmi... o perché non mi sento abbastanza attraente o simpatico... Come posso continuare a pensare a queste cose quando vedo che una persona senza braccia e senza gambe riesce a essere FELICE?” “Nick, come fai a essere così felice?” Molti mi chiedono il motivo di questa mia contentezza. Probabilmente avete anche voi i vostri problemi da risolvere e quindi vi rispondo 1


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subito: ho trovato la felicità quando ho scoperto che, pur nella mia imperfezione, sono il perfetto Nick Vujicic. Sono una creatura di Dio, concepita per essere conforme al suo progetto. Con ciò non intendo dire che in me non ci sia nulla da migliorare: al contrario, cerco sempre di progredire per servire sempre meglio Dio e il mondo. Sono davvero convinto che la mia esistenza non ha limiti. Desidero che sappiate che ciò vale anche per voi e per la vostra vita, a prescindere dalle sfide che dovete affrontare ogni giorno. Prima di iniziare il nostro viaggio vi prego di soffermarvi un istante a riflettere sui limiti che vi siete autoimposti o che avete permesso ad altri di imporvi. Fatto? E adesso pensate a come potrebbe essere la vostra esistenza senza tutti quei limiti, come se qualunque cosa fosse possibile. Sono disabile, questo è un dato di fatto, ma in realtà l’assenza di arti mi ha reso abile per molti altri aspetti. Le singolari sfide che mi sono state lanciate mi hanno offerto la possibilità altrettanto eccezionale di entrare in contatto con moltissime persone bisognose di aiuto e talvolta di cambiare addirittura la loro vita o, perlomeno, la loro prospettiva. Immaginate se ciò fosse possibile anche a voi! Tendiamo troppo spesso a ripeterci che non siamo abbastanza intelligenti, o attraenti, o che non abbiamo le doti per realizzare i nostri sogni. Accettiamo supinamente le etichette appioppateci da altri, oppure ci imponiamo noi stessi delle limitazioni. Ma il peggio è che quando non ci consideriamo all’altezza, noi poniamo dei limiti a ciò che Dio potrebbe operare per nostro tramite! Ogni volta che rinunciamo ai nostri sogni, noi rinchiudiamo Dio in una scatola. Eppure siamo parte della sua creazione e siamo stati creati da lui per un motivo. Di conseguenza non si può porre dei limiti alla vita, proprio come non si può contenere l’amore sconfinato di Dio. Io posso scegliere. Tu puoi scegliere. Noi possiamo scegliere di rimanere imprigionati nei nostri fallimenti e nelle nostre delusioni, di vivere nell’amarezza, nel rancore, nell’indigna2


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zione e nella tristezza. Oppure possiamo scegliere di trarre una lezione dalle esperienze negative (le difficoltà che abbiamo incontrato o le persone che ci hanno danneggiato) e poi voltare pagina, assumendoci la responsabilità della nostra felicità futura. Come figli di Dio, siamo belli e preziosi e valiamo più di tutti i diamanti del mondo. Voi e io siamo perfettamente adatti allo scopo per cui siamo stati creati! Nondimeno dovremmo porci l’obiettivo di continuare a progredire ed espandere i nostri confini sognando in grande. Durante il percorso potrà essere necessario aggiustare il tiro, perché la vita non è tutta rose e fiori… ma è sempre degna di essere vissuta. Io sono qui per assicurarvi che poco importa la condizione in cui vi trovate: fintanto che respirate siete in grado di dare il vostro contributo al mondo. Non posso darvi una pacca sulla spalla per incoraggiarvi, ma posso parlarvi dal profondo del mio cuore. Per quanto la vostra vita possa sembrare disperata, c’è sempre una speranza. Per quanto le circostanze vi appaiano insormontabili, vi attendono giorni migliori. Anche le peggiori avversità si possono superare. Il semplice desiderio di cambiamento non cambierà le cose ma la decisione di entrare subito in azione cambierà tutto! Sono assolutamente convinto che tutte le cose cooperino al bene. Ne sono convinto perché l’ho sperimentato di persona. A cosa può servire la vita di una persona priva di arti? Alle persone basta guardarmi per capire che devo aver affrontato e superato ogni genere di ostacoli e difficoltà. E ciò le rende disponibili ad ascoltarmi e a lasciarsi motivare. Mi danno la possibilità di parlare della mia fede, dire loro che sono amate e dare loro una speranza. Questo è il mio contributo alla vita. È importante riconoscere il nostro valore e in che modo possiamo contribuire alla vita. Se in questo momento vi sentite frustrati non vi preoccupate: il vostro senso di frustrazione dimostra che aspirate a qualcosa di più di ciò che avete ora. E questo è un bene. Non di rado sono proprio le sfide della vita a indicarci 3


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ciò che siamo chiamati a essere.

UNA VITA PREZIOSA Mi ci è voluto del bello e del buono per riconoscere il lato positivo della mia particolare condizione. Mia madre aveva venticinque anni quando ha scoperto di essere incinta. Sapeva bene come comportarsi in gravidanza, perché era ostetrica e infermiera pediatrica in sala parto, dove si prendeva cura di centinaia di puerpere e neonati. Curava l’alimentazione, era attenta nell’assumere medicine, niente aspirina o analgesici, soprattutto niente alcol. Aveva consultato i migliori ginecologi, i quali le avevano assicurato che la gestazione procedeva nel migliore dei modi. Malgrado tutte le precauzioni, la mamma continuava però a nutrire dell’apprensione. Mentre il parto si avvicinava, aveva espresso più volte le proprie preoccupazioni a papà: “Speriamo che il bambino sia sano”. Dalle due ecografie eseguite durante la gravidanza i medici non avevano rilevato alcuna anomalia; avevano informato i miei genitori che aspettavano un maschietto, ma non avevano fatto alcun accenno alla mancanza di braccia e gambe! Quando mi ha dato alla luce, il 4 dicembre 1982, mia madre ha subito chiesto ai dottori: “Il bambino sta bene?”. Silenzio. Mentre i secondi passavano senza vedermi, la mamma ha capito che qualcosa era andato storto. Anziché mettermi fra le sue braccia, i dottori avevano chiamato un pediatra e si erano appartati in un angolo della stanza, discutendo mentre mi esaminavano. La mamma si era rasserenata sentendo il mio primo forte vagito di neonato sano. Ma mio padre, che durante il parto mi aveva visto uscire senza un braccio, è stato accompagnato fuori dalla stanza. Sconvolti, medici e infermiere si sono affrettati a coprirmi. Ma la manovra non è sfuggita a mia madre, che aveva assistito a centinaia di parti: vedeva l’affanno nelle espressioni 4


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del personale medico e sapeva che era successo qualcosa di grave. Li incalzava: “Cos’è successo? Cos’ha il mio bambino?” Siccome il ginecologo taceva, la mamma insisteva per avere una risposta precisa. Il dottore alla fine ha pronunciato soltanto un termine tecnico: “Focomelia”. Mia madre sapeva che con quel termine si definisce la patologia da cui sono affetti i bambini che nascono con arti malformati o mancanti. E non riusciva a crederci, né ad accettare che tutto questo stesse accadendo a lei. Nel frattempo, fuori dalla sala parto, papà era frastornato e si domandava se era vero ciò che gli pareva di aver visto. Quando il pediatra uscì dalla sala per parlargli, papà gli urlò: “A mio figlio manca un braccio!” “In realtà”, lo informò il pediatra con tutto il tatto possibile, date le circostanze, “suo figlio è sprovvisto sia degli arti superiori che di quelli inferiori”. È stato uno choc terribile. Mio padre si è accasciato sulla sedia, sconvolto e senza parole. Ma il suo istinto di protezione ha prevalso. Si è precipitato in sala parto per avvertire mia madre prima che mi vedesse ma, con sua gran costernazione, l’ha trovata in lacrime. Il personale medico l’aveva già informata. I medici le avevano chiesto se voleva vedere il bambino, ma lei si era rifiutata di prendermi in braccio e aveva ordinato di portarmi via. Le infermiere piangevano. L’ostetrica piangeva. E naturalmente anch’io piangevo! Infine mi hanno disteso sul letto accanto alla mamma, ancora tutto coperto. Mia madre non riusciva a scendere a patti con ciò che avrebbe visto: suo figlio privo di braccia e di gambe. “Portatemelo via”, mormorò, “non ce la faccio a guardarlo e a toccarlo”. Ancora oggi mio padre si rammarica del fatto che i medici non gli abbiano lasciato il tempo di preparare la mamma alla notizia in modo adeguato. Mentre mia madre dormiva, papà è venuto a trovarmi al nido. Tornato da lei le ha detto: “Sembra davvero un bel bambino” e le ha chiesto se voleva vedermi. La mamma, ancora troppo scossa, gli ha risposto di 5


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no. Lui ha capito e ha rispettato i suoi sentimenti. Invece di festeggiare il mio arrivo, i miei genitori e la chiesa si tormentavano, domandandosi: “Se Dio è un Dio d’amore, perché permette che accadano cose del genere?”

LO SGOMENTO DI MIA MADRE Ai miei genitori era nato il primo figlio. In qualsiasi altra famiglia quella sarebbe stata un’occasione di gioia e di festa... ma alla mia nascita nessuno ha portato dei fiori alla mamma in ospedale. Questo l’ha ferita e ha aumentato la sua disperazione. Con gli occhi pieni di lacrime ha domandato al mio papà: “Niente fiori per me? Non me li merito?” “Mi dispiace, tesoro”, le ha risposto papà, “certo che li meriti!”, precipitandosi dal fioraio all’interno dell’ospedale per ripresentarsi poco dopo con un bel bouquet. Io ho saputo tutta la storia verso i tredici anni, quando ho cominciato a fare delle domande ai miei genitori sulla mia nascita e sulla loro prima impressione nel vedermi. Avevo avuto una brutta giornata a scuola e quando mi sono confidato con la mamma lei ha pianto con me. Le ho detto che non ne potevo più di essere senza braccia né gambe. Con le lacrime agli occhi, la mamma mi ha raccontato di come lei e papà erano certi che Dio avesse un piano per me e che un giorno o l’altro me lo avrebbe rivelato. Nel tempo ho continuato a fare altre domande, qualche volta al papà, qualche volta alla mamma, talvolta a entrambi. Volevo delle risposte, sia per via del mio naturale desiderio di sapere, sia a causa dell’insistente curiosità dei miei compagni di classe. Inizialmente avevo un po’ paura delle risposte che avrei ricevuto dai miei genitori e, sapendo che per loro era difficile approfondire certi argomenti, non insistevo. Nelle nostre prime conversazioni “serie” papà e mamma erano prudenti 6


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e protettivi; soppesavano bene le loro parole. Crescendo, ho iniziato a indagare più a fondo e a ricevere risposte sempre più esaurienti: i miei genitori sono stati sinceri con me e mi hanno reso partecipe dei loro sentimenti e dei loro timori, perché sapevano che ormai ero in grado di comprenderli e di metabolizzarli. Tuttavia, il fatto di sapere che dopo avermi partorito mia madre non aveva voluto prendermi in braccio è stato a dir poco difficile da accettare. Potete immaginare cos’abbia provato, già insicuro e angosciato com’ero, quando ho capito che mia madre non era neppure riuscita a guardarmi in faccia. Mi sono sentito ferito e rifiutato, ma poi ho iniziato a pensare a tutto quello che i miei genitori avevano fatto per me fin da quel giorno. Mi avevano dimostrato il loro amore in ogni occasione! All’epoca di quelle conversazioni ero già abbastanza maturo da capire e cercare di immedesimarmi nel disorientamento di mia madre e vedere la situazione dalla sua prospettiva. A parte i suoi presentimenti, durante la gravidanza non c’erano state particolari avvisaglie: nulla lasciava supporre una tale eventualità. La mamma era sconvolta e spaventata. Come avrei reagito io, da genitore? Non credo che avrei saputo fare di meglio. Confessati questi sentimenti, col tempo siamo riusciti a instaurare un dialogo più profondo e a scendere nei dettagli, necessari, ma anche dolorosi. Sono contento che abbiano aspettato il momento giusto, quando ero già più sicuro di me stesso e intimamente consapevole di essere amato. Non abbiamo più smesso di dialogare e di sviscerare i nostri sentimenti e i nostri timori. Papà e mamma mi hanno spiegato che, grazie alla loro fede, avevano capito che ero destinato a servire un piano divino. Sono sempre stato un bambino particolarmente determinato e ottimista. Spesso accadeva che i miei insegnanti, i miei parenti e persino dei perfetti sconosciuti riferissero ai miei genitori quanto il mio atteggiamento li avesse incoraggiati. E io, pur con tutte le mie difficoltà, riconosco che ci sono persone costrette a portare un fardello assai più pesante del mio. Oggi, nel corso dei miei viaggi in giro per il mondo, vedo 7


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intorno a me sofferenze indicibili. Io posso solo essere riconoscente per quello che ho e concentrarmi meno su ciò che mi manca. Ho visto bambini orfani divorati dalla malattia, giovani donne vittime di sfruttamento sessuale, uomini buttati in prigione perché troppo poveri per ripagare un debito... La sofferenza è universale e troppo spesso indescrivibilmente crudele. Eppure, anche nelle più luride baraccopoli e all’indomani delle tragedie più spaventose, ho visto gente che non si limitava a sopravvivere, ma tornava a vivere. La gioia era l’ultima cosa in cui mi sarei aspettato di imbattermi in una località soprannominata “la città dei rifiuti”, infima baraccopoli alle porte del Cairo, in Egitto. Questo quartiere, ufficialmente conosciuto come Manshiyat Nasser, si trova alla periferia della città ed è circondato da alte pareti rocciose, sul limitare del deserto. L’infelice, seppur azzeccato, appellativo trae origine dall’odore nauseabondo che si leva dall’insediamento: la maggior parte dei suoi cinquantamila1 abitanti trova sostentamento passando al setaccio la città del Cairo raccogliendone i rifiuti urbani. Nel quartiere confluiscono quotidianamente montagne di immondizia proveniente da una metropoli che conta diciotto milioni di abitanti. Qui si provvede poi alla cernita degli oggetti da vendere, riciclare o utilizzare in un modo o nell’altro. In mezzo a quelle strade costeggiate da cataste di spazzatura, porcilaie e rifiuti puzzolenti ci si aspetterebbe di trovare gente disperata... Eppure durante la mia visita del 2009 ho visto proprio l’opposto. Quella gente conduce un’esistenza durissima – questo è un dato di fatto –, tuttavia le persone che ho avuto modo di incontrare erano gentili, premurose, apparentemente appagate e animate da una fede profonda. L’Egitto è una nazione di religione musulmana; “la città dei rifiuti”, invece, è un quartiere di religione cristiana (copta). Ho visitato diverse periferie poverissime nei quattro angoli 1. Questi dati risalgono al 2010 (nde).

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della terra. In quanto a condizioni ambientali, quella è senz’altro una delle peggiori. Eppure vi ho trovato le anime più calorose: pensate che in una minuscola costruzione di cemento adibita a chiesa siamo riusciti a stipare centocinquanta persone! Quando ho incominciato a parlare, sono stato sommerso dalla gioia e dalla contentezza che scaturivano da quel pubblico. Quelle care persone mi sorridevano, irradiando luce e amore. Raramente mi sono sentito altrettanto benedetto. Mentre raccontavo loro che Gesù aveva trasformato la mia vita, ho ringraziato il Signore perché la fede aveva aiutato anche tutte quelle persone a elevarsi dalle loro difficoltà. I responsabili della chiesa mi hanno raccontato che in quel villaggio molte vite sono state trasformate dalla potenza di Dio. La speranza di quelle persone non riposava sulle cose terrene, ma era protesa verso l’eternità. Nell’attesa, confidano nei miracoli e ringraziano Dio semplicemente perché è Dio e perché, grazie a lui, hanno la salvezza. Prima di partire abbiamo distribuito alcuni generi di conforto alle famiglie più bisognose: riso, tè, una piccola somma in denaro sufficiente per la spesa alimentare di alcune settimane. Ai bambini abbiamo dato anche articoli sportivi, palloni da calcio e corde per saltare. I piccini ci hanno subito invitati a giocare con loro. Abbiamo giocato a pallone, abbiamo riso e scherzato e tutti insieme abbiamo trascorso un po’ di tempo in allegria, nonostante l’estrema povertà di quel luogo. Non scorderò mai quei bambini e i loro sorrisi. Ancora una volta ho avuto la conferma che, se si confida totalmente in Dio, la gioia arriva ovunque e in qualsiasi momento. Come riuscivano a ridere quei ragazzi così poveri? Come si fa a cantare di gioia quando si è in prigione? Quella gente ha saputo trascendere la propria condizione, accettando il fatto che certi eventi sfuggono al controllo e alla comprensione e concentrandosi su ciò che si può controllare e comprendere. Questo è quanto hanno fatto anche i miei genitori: sono andati avanti decidendo di fidarsi della Parola di Dio 9


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secondo cui “tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno”2.

UNA FAMIGLIA CON UNA FEDE SOLIDA Mamma e papà, originari della regione dell’ex Yugoslavia che oggi si chiama Serbia, provengono entrambi da famiglie di radicata tradizione cristiana. A causa della repressione del regime comunista le rispettive famiglie erano emigrate in Australia quando loro erano ancora bambini. I loro genitori erano cristiani apostolici, obiettori di coscienza e contrari all’uso delle armi. Erano discriminati e perseguitati dai comunisti per via della loro fede ed erano costretti a frequentare le riunioni cristiane in segreto. All’epoca versavano in difficoltà economiche perché si erano rifiutati di iscriversi al Partito Comunista, che esercitava il controllo su tutti gli ambiti della vita dei cittadini. Per questo motivo da giovane mio padre ha patito la fame. Dopo la seconda guerra mondiale migliaia di cristiani serbi sono emigrati in Australia, negli Stati Uniti e in Canada. Le famiglie dei miei genitori si sono trasferite in Australia, dove potevano esprimere e praticare liberamente la propria fede. In quello stesso periodo molti altri membri delle loro famiglie sono emigrati negli Stati Uniti e in Canada, quindi ho tanti parenti anche laggiù. I miei genitori si sono conosciuti in una chiesa di Melbourne. La mia mamma, Dushka, frequentava il secondo anno della scuola per infermieri presso il Royal Children’s Hospital di Victoria. Il mio papà, Boris, lavorava nel campo amministrativo e finanziario. In seguito, senza lasciare il lavoro, è diventato predicatore laico. Quando avevo circa sette anni, i miei genitori hanno iniziato a pensare di trasferirsi negli Stati Uniti, convinti che avremmo avuto maggiori possibilità di gestire la mia disabilità con l’accesso a cure mediche più 2. Cfr. Romani 8:28.

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avanzate e alle nuove tecnologie protesiche. Mio zio, Batta Vujicic, era titolare di un’impresa di costruzioni e di gestione immobiliare ad Agoura Hills, a soli 55 km da Los Angeles. Lo zio Batta aveva promesso di assumere mio padre alle proprie dipendenze non appena questi avesse ottenuto un visto per lavoro. Nei pressi di Los Angeles viveva una vasta comunità di cristiani serbi e sorgevano parecchie chiese, cosa che aveva impressionato favorevolmente i miei genitori. Ottenere un visto per lavoro era una faccenda lunga e macchinosa, ma papà si era deciso a richiederlo. Nel frattempo ci siamo trasferiti 1.600 km più a nord (e precisamente nel Queensland, a Brisbane), dove il clima era più adatto al mio stato di salute; infatti, oltre ai miei vari problemi, soffrivo anche di allergia. Avevo quasi dieci anni e frequentavo la quarta elementare quando finalmente le cose si sono sistemate ed è arrivato il momento del nostro trasferimento negli Stati Uniti. I miei genitori erano persuasi che i miei fratelli più giovani (Aaron e Michelle) e io avessimo l’età giusta per integrarci nel sistema scolastico statunitense. Siamo rimasti nel Queensland per un anno e mezzo, in attesa del visto di lavoro per papà valido per tre anni. Finalmente nel 1994 siamo partiti per l’America. Purtroppo quella di trasferirci in California non si è rivelata una buona mossa. E questo per diverse ragioni. Quando abbiamo lasciato l’Australia avevo già iniziato a frequentare la prima media. La mia nuova scuola di Agoura Hills era sovraffollata: a stento erano riusciti a inserirmi, ma soltanto in una classe superiore. Inoltre il programma di studi era diverso. Ero sempre stato bravo a scuola, ma ho fatto fatica ad adattarmi al cambiamento. In California anche il calendario scolastico era diverso e io mi sono ritrovato indietro con il programma ancor prima di iniziare la scuola. Ho dovuto sforzarmi moltissimo per recuperare. Inoltre, a differenza di quanto avveniva in Australia, nelle scuole americane gli studenti devono cambiare aula al termine di ogni lezione e ciò mi rendeva ancora più difficile ambientarmi. Siamo andati ad abitare con lo zio Batta, sua moglie Rita e i 11


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loro sei figli. Sebbene il loro appartamento ad Agoura Hills fosse molto grande, ci siamo ritrovati a vivere allo stretto. Avevamo previsto di cercare casa non appena possibile, ma i prezzi degli immobili erano proibitivi, molto più alti rispetto a quelli dell’Australia. Mio padre lavorava per la compagnia di gestione immobiliare dello zio Batta. Mia madre non ha nemmeno tentato di conseguire il diploma di infermiera professionale, che le avrebbe permesso di lavorare in California, perché si doveva occupare principalmente del nostro inserimento nel nuovo ambiente e nella nuova scuola. Dopo tre mesi di convivenza con la famiglia dello zio Batta, i miei genitori hanno capito che quella di trasferirsi negli Stati Uniti non era stata una buona idea. Avevo delle difficoltà a scuola e a causa del costo della vita in California i miei genitori non riuscivano a ottenere un’adeguata copertura sanitaria per me. Ci preoccupavano inoltre le scarse probabilità di ottenere la residenza permanente negli Stati Uniti. Un avvocato aveva spiegato che il mio handicap avrebbe costituito un ostacolo: la mia famiglia sarebbe stata in grado di sostenere le spese mediche e farsi carico dei costi legati alla mia disabilità? I miei genitori hanno quindi deciso di tornare a Brisbane dopo soli quattro mesi di permanenza negli Stati Uniti. Hanno poi trovato casa nella stessa via dove avevamo abitato prima del trasloco e così noi ragazzi abbiamo potuto ritornare nella stessa scuola e ai nostri amici di prima. Papà ha ripreso a insegnare al “College of Technical and Further Education”. Mamma si è dedicata interamente ai figli e, soprattutto, a me.

UN FIGLIO “IMPEGNATIVO” Negli ultimi anni i miei genitori mi hanno parlato a cuore aperto delle paure e dei tormenti che li avevano assillati subito dopo la mia nascita. Naturalmente, prima di allora non avevano mai lasciato trasparire il fatto che non fossi 12


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esattamente il figlio che avevano sempre sognato. Quando sono nato, mamma temeva di non essere in grado di prendersi cura di me e papà non riusciva a immaginare un avvenire felice per me. Che tipo di esistenza avrei mai potuto condurre? Indifeso com’ero, e impossibilitato a vivere in autonomia, forse sarei stato meglio con il Signore... Avevano vagliato tutte le possibilità, compresa quella di darmi in adozione a un’altra coppia. Sia i nonni materni che quelli paterni si erano offerti di prendermi con sé e occuparsi di me. I miei genitori hanno declinato l’offerta, decidendo che spettava a loro crescermi nel miglior modo possibile. Passato il tempo della tristezza, si sono dedicati a crescere il loro figlio disabile nel modo più “normale” possibile, convinti com’erano, nella loro incrollabile fede, che Dio avesse avuto le sue ragioni per donarglielo. Alcuni traumi guariscono più in fretta senza immobilizzazione: talvolta la guarigione è accelerata se ci si rialza e si riprendono le attività. Lo stesso avviene con gli ostacoli e le battute d’arresto della vita: la perdita del lavoro, una relazione che non funziona, i debiti che si accumulano... Non si può smettere di vivere, non bisogna cristallizzarsi e continuare a rimuginare sulle ingiustizie e su vecchie ferite. Occorre, invece, cercare il modo di voltare pagina e andare avanti. Forse ci attende un lavoro migliore e meglio retribuito. Forse quel rapporto ha bisogno di una scossa oppure dobbiamo ancora incontrare la persona giusta. Forse i problemi economici ci serviranno come stimolo per trovare modi più creativi di risparmiare, guadagnare e valorizzarci. Non è possibile esercitare il controllo su tutto ciò che accade. Nella vita accadono cose che non dipendono da noi e contro le quali non c’è nulla da fare. In casi come questi si può scegliere di arrendersi oppure si può continuare a lottare per una vita migliore. Vi esorto a tenere a mente che nulla accade senza motivo e che alla fine ne uscirà sempre qualcosa di buono. Quand’ero un bambino pensavo di essere la creatura più adorabile, affascinante e simpatica del mondo. Beata ignoranza! A quell’epoca non mi rendevo conto di essere diverso 13


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dagli altri né immaginavo le difficoltà che avrei incontrato. Sono persuaso che non ci vengano date prove più grandi di quelle che siamo in grado di gestire. Posso assicurarvi che a ogni incapacità o disabilità si accompagnano capacità o abilità più che sufficienti per permetterci di affrontare e superare tutte le nostre prove. Dio mi ha dotato di una forte determinazione e di molte altre capacità. Ben presto dimostrai a tutti che, anche senza arti, ero robusto e i miei movimenti erano ben coordinati. Ero tutto tronco, ma ero anche tutto monello: un piccolo scavezzacollo che rotolava e si tuffava a pesce qua a là. Avevo imparato a sollevarmi in posizione eretta sostenendomi con la fronte alla parete e sollevandomi pian piano con la testa puntandomi sul piedino sinistro. Papà e mamma hanno cercato a lungo di aiutarmi a elaborare un metodo più pratico, ma io ho sempre voluto fare di testa mia! Mamma cercava di agevolarmi disseminando il pavimento di cuscini in modo da permettermi di usarli per sostenermi ma io, per qualche oscura ragione, avevo deciso che preferivo alzarmi appoggiando la fronte al muro e sollevandomi un centimetro alla volta. “Fare le cose a modo mio”, anche se nel modo più difficile, è diventato il mio marchio di fabbrica. Allora non potevo fare altro che usare la testa e ciò ha contribuito a fare di me un... cervellone (scherzo!), oltre che a conferire ai muscoli del mio collo la forza di un toro e alla mia fronte la durezza della pietra. Naturalmente i miei genitori erano costantemente in pensiero per me. Essere genitori è già di per sé una missione logorante: i bambini non vengono al mondo con le istruzioni per l’uso! Lo stesso dottor Benjamin Spock non ha mai trattato il caso di un bambino come me. Eppure sono diventato sempre più forte e audace: all’età di due anni la mia “fase del no” procurò ai miei genitori più panico e filo da torcere di quanti non gliene avrebbero procurati otto gemelli! Riuscirà a nutrirsi da solo? Come andrà a scuola? Chi penserà a lui quando noi non ci saremo più? Riuscirà a essere autosufficiente? L’umana capacità di ragionamento può essere una bene14


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dizione ma anche una maledizione. Probabilmente anche voi, come i miei genitori, siete stati in ansia per il domani. Il fatto è che, in genere, i nostri timori si rivelano infondati. Non c’è nulla di male nel guardare avanti e fare progetti per il futuro; tuttavia, ciò che ci fa tanta paura potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa. Molto spesso le cose finiscono coll’andare per il verso giusto. Una delle più belle sorprese della mia infanzia è stata la mia incredibile capacità di controllare il mio piedino sinistro. Istintivamente lo usavo per rotolarmi di qua e di là, scalciare, colpire, spostare oggetti, spingermi e appoggiarmi. Sia i miei genitori che i medici pensavano che avrei potuto fare un uso anche migliore di quel provvidenziale piedino, provvisto di due dita, benché fuse insieme. La separazione chirurgica delle due dita avrebbe conferito una certa prensilità al mio piede, permettendomi di usarlo anche come una mano per afferrare una penna, sfogliare un libro e per fare tante altre cose. All’epoca vivevamo a Melbourne, una città che offriva le migliori cure mediche di tutta l’Australia. Il mio caso rappresentava una sfida che andava ben oltre le competenze mediche della maggior parte dei professionisti sanitari. Il giorno dell’operazione, mentre mi preparavano all’intervento del piede, mia mamma raccomandava ai dottori di tener sotto controllo la mia temperatura corporea, spiegando che tendevo ad accaldarmi, e non la smetteva di ripetere loro di fare particolare attenzione e di evitare che il mio corpo si surriscaldasse. Mia madre aveva sentito parlare di un altro bambino privo di arti che aveva avuto lo stesso mio problema durante un’operazione e aveva riportato lesioni cerebrali in seguito a una crisi. A causa di questa mia tendenza all’“autocombustione” in famiglia è nato, per scherzo, il tormentone: “Quando Nicky ha freddo i pinguini battono i denti”. Scherzi a parte, è vero che se faccio troppi sforzi, o sono sotto stress, o rimango a lungo sotto i riflettori, la temperatura del mio corpo si alza pericolosamente. Devo fare costantemente attenzione a non accaldarmi. 15


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“Per favore, fate attenzione e controllate la temperatura”, si è raccomandata ancora la mia mamma. Pur sapendo che mia madre era infermiera, i medici non diedero peso alle sue raccomandazioni. L’operazione di separazione delle due dita è stata un successo, ma purtroppo i timori della mamma erano fondati. Sono uscito dalla sala operatoria sudato fradicio perché non avevano preso le necessarie precauzioni per mantenere bassa la mia temperatura. Siccome la febbre aumentava, i medici cercavano di raffreddarmi con delle pezze bagnate e mi hanno ricoperto addirittura di ghiaccio per evitare le convulsioni. La mamma era furibonda... Fu così che i medici conobbero l’ira funesta di Dushka! Nonostante ciò, a mente fredda (letteralmente!) tutti hanno potuto constatare che la mia vita ha ricevuto un nuovo impulso dopo la separazione delle mie due dita. Non hanno funzionato esattamente come avevano sperato i medici, ma io mi ci sono adattato alla grande. È sorprendente quello che riesce a fare un piedino con due dita per un tizio che non ha né braccia né gambe. Quell’operazione e le nuove tecnologie mi hanno fatto acquisire una certa indipendenza, dandomi la possibilità di servirmi di carrozzine elettriche, computer e persino di un telefono cellulare realizzati su misura per me. Io non so quale sia il peso che ti opprime e non pretendo di aver vissuto una crisi come quella che stai vivendo tu. Però ti chiedo di immaginare per un attimo che cosa hanno passato i miei genitori quando io sono nato, come si sono sentiti... Immagina quanto tetro deve essergli sembrato il futuro. Forse in questo momento non sei in grado di vedere la luce in fondo al tunnel... Del resto, neppure i miei genitori avrebbero mai immaginato l’esistenza meravigliosa che mi attendeva. Non immaginavano che quel loro figlio menomato sarebbe diventato una persona autonoma, che avrebbe trovato lavoro, uno scopo nella vita e sarebbe addirittura stato felice! Le sciagure tanto temute da mamma e papà non si sono mai verificate. Certo, crescermi non è stata un’impresa facile, 16


Se non ricevi un miracolo, diventalo!

ma ogni difficoltà è sempre stata compensata da altrettanti momenti di gioia e di leggerezza. Ho avuto un’infanzia sorprendentemente normale, durante la quale ho persino dato il tormento a miei fratellini (Aaron e Michelle) come un normalissimo dispotico fratello maggiore! Forse in questo momento la vita è dura per te e magari ti stai domandando se le cose potranno mai migliorare. Ma io ti assicuro che non puoi nemmeno immaginare il bene che ti aspetta, se solo rinunci ad arrenderti. Continua a concentrarti sul tuo sogno! Fa’ tutto ciò che è necessario per rimanere in corsa: tu hai il potere di cambiare la tua situazione. Insegui tenacemente ciò che vuoi ottenere! La mia vita è un’avventura ancora tutta da scrivere, e così anche la tua. Inizia adesso a scrivere il primo capitolo! Mettici un po’ di avventura, di amore, di gioia. Vivi la tua storia mentre la scrivi!

CERCARE UN SENSO E UNO SCOPO Riconosco che mi ci è voluto un bel po’ prima di convincermi che avevo il potere di decidere la direzione che avrebbe preso la mia vita. Cercavo disperatamente di capire quale fosse il mio posto nel mondo e quale fosse la mia strada. Crescendo, ho incominciato a convincermi che non c’era nulla di positivo in quel mio corpo troncato. Oh, certo, nessuno mi ha mai chiesto di alzarmi da tavola per andarmi a lavare le mani e neppure mi ha mai pestato un piede... ma questi pochi vantaggi non erano di nessuna consolazione. Grazie al cielo, mio fratello, mia sorella e quei pazzoidi dei miei cugini non mi hanno mai permesso di piangermi addosso. Non mi hanno mai riservato trattamenti di favore. Mi hanno accettato così come sono; con i loro scherzi e le loro ragazzate mi hanno temprato, e ora riesco a trovare sempre il lato divertente invece di quello amaro, anche nella mia situazione. Come quella volta che al centro commerciale i miei cugini mi hanno additato ai passanti urlando: “Guardate quel bambino 17


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sulla sedia a rotelle! È un alieno!” Abbiamo riso a crepapelle davanti alle reazioni indignate di tutte quelle persone ignare del fatto che i ragazzini che se la prendevano con il bimbo disabile fossero, in realtà, i suoi complici, i suoi migliori amici! Più crescevo, più mi rendevo conto che il fatto di essere stato così tanto amato era un dono inestimabile. Anche se qualche volta ti capita di soffrire la solitudine, devi sapere che anche tu sei amato/a: non puoi fare altro che riconoscere che Dio ti ha creato per amore. Di conseguenza, non sei mai solo/a. L’amore di Dio per te è incondizionato. Dio non ti ama “a condizione che...”. No. Dio ti ama sempre e “a prescindere”. Tienilo bene a mente nel giorno in cui ti senti sopraffatto dalla solitudine o dalla disperazione. Ricorda che queste non sono altro che sensazioni. Non sono la realtà. Reale è, invece, l’amore di Dio: Dio ti ha creato per poterti dimostrare il suo amore. È importante conservare tutto questo amore nel nostro cuore, perché non mancheranno momenti in cui ci sentiremo più vulnerabili. La mia famiglia non poteva proteggermi sempre e ovunque. Quando ho incominciato ad andare a scuola, non mi è più stato possibile ignorare la mia diversità. Papà continuava ad assicurarmi che Dio non commette errori, ma qualche volta non riuscivo a scrollarmi di dosso l’impressione di essere l’eccezione alla regola... “Ma perché non mi hai dato almeno un braccio?”, domandavo a Dio. “Pensa a quante cose potrei fare con un braccio!” Sono certo che anche a te è capitato di vivere momenti come questi, oppure di desiderare un cambiamento radicale nella tua vita. Non c’è motivo di preoccuparsi se il miracolo non arriva o se i nostri desideri non si realizzano all’istante. Ricorda che Dio aiuta chi si dà da fare (“bussa e ti sarà aperto... chiedi e ti sarà dato”). Spetta pur sempre a te fare del tuo meglio per mettere le tue doti e i tuoi sogni al servizio della causa migliore nell’ambiente che ti circonda. Ho pensato a lungo che se fossi stato “normale”, la mia vita sarebbe stata facilissima. Non avevo ancora capito che non 18


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c’era bisogno di essere normale: bastava che io fossi me stesso, il figlio di mio padre, e che facessi la volontà di Dio. All’inizio non volevo ammettere che il problema non era il mio corpo, ma i limiti che gli (e mi) attribuivo e la mia visione miope della vita e delle mie possibilità. Se non siamo dove vorremmo essere o se non abbiamo realizzato tutte le nostre speranze, probabilmente la causa non è da ricercarsi fuori ma dentro di noi. Prendiamoci dunque le nostre responsabilità e poi agiamo. Per cominciare, però, dobbiamo credere nel nostro valore e nel nostro potenziale. Non possiamo aspettare che il miracolo ci piova dall’alto, né che siano gli altri a venirci a cercare, né che si presenti “l’occasione giusta”. Immaginiamo dunque di essere un cucchiaio e che il mondo sia una pentola dove cuoce la nostra pietanza. Iniziamo a mescolare! Da ragazzo passavo notti intere a pregare di avere braccia e gambe. Mi addormentavo piangendo e sognavo di risvegliarmi e scoprire che mi erano cresciute. Questo sogno chiaramente non si è avverato. Poiché non accettavo me stesso, avevo molte difficoltà a farmi accettare dai miei compagni di scuola. Come la maggior parte dei ragazzi, sono stato più vulnerabile nella preadolescenza, in quell’età in cui cerchiamo la nostra identità, il nostro posto e un’idea del futuro. Sovente chi mi feriva non lo faceva per offendermi, ma semplicemente per mancanza di tatto. “Come mai sei senza braccia e senza gambe?” mi domandavano. Come tutti i miei compagni di classe, anch’io desideravo integrarmi ed essere accettato. Quando andava bene, riuscivo a conquistarli con il mio senso dell’umorismo, la mia autoironia e con le mie acrobazie durante la ricreazione. Nelle giornate “no”, invece, mi nascondevo dietro i cespugli o in un’aula vuota per evitare di essere ferito o preso in giro. In parte il problema era dovuto al fatto che trascorrevo molto più tempo con gli adulti e con i miei cugini più grandi che con i miei coetanei. Avevo un modo più maturo di vedere la vita e talvolta i miei pensieri, troppo seri, mi conducevano in luoghi tenebrosi. Non mi vorrà mai nessuno. Non avrò mai una ragazza. 19


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Non sono neppure in grado di abbracciarla, una ragazza. E, se avrò dei figli, non potrò mai tenerli in braccio o per mano. Che razza di lavoro potrò mai trovare? Chi mi assumerebbe? Dovrebbero assumere un’altra persona da affiancarmi. Chi pagherebbe due persone per fare il lavoro di una sola? Il mio handicap era principalmente fisico, ma ovviamente incideva anche sul piano emotivo. Da ragazzo ho attraversato un periodo di tremenda depressione. Ma con mia enorme sorpresa e gratitudine, durante l’adolescenza, ho incominciato ad accettarmi e, di conseguenza, a essere accettato dagli altri. Tutti noi attraversiamo periodi in cui ci sentiamo esclusi, rifiutati o non amati. Tutti abbiamo le nostre angosce, le nostre insicurezze. I bambini temono di essere presi in giro perché hanno il naso grosso oppure i capelli crespi o le orecchie a sventola... Gli adulti temono di non riuscire a far fronte agli impegni presi o di non essere all’altezza delle aspettative altrui. A ciascuno di noi capita di avere dubbi e timori. La tristezza è un sentimento naturale e perfettamente umano: costituisce un pericolo soltanto se permettiamo a noi stessi di indugiare sui pensieri negativi anziché lasciarli andare così come sono arrivati. Quando incominciamo a credere di avere dei doni – capacità, conoscenza, amore – da spartire con il prossimo, siamo sulla strada giusta per l’autoaccettazione (anche se i nostri doni non sono ancora “maturi”). Quando avremo iniziato il nostro percorso, altri ci tenderanno la mano e inizieranno a camminare con noi.

FARSI SENTIRE Ho trovato la mia strada e la mia vocazione cercando di farmi accettare dai miei compagni di classe. Chiunque si sia trovato spaesato in un ambiente nuovo, mangiando da solo in un angolo, può immaginare che trovarsi da soli in un am20


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biente nuovo a mangiare da solo in un angolo su una sedia a rotelle può essere ancora più difficile. A causa dei vari trasferimenti della mia famiglia da Brisbane agli Stati Uniti e successivamente dagli Stati Uniti a Brisbane, ho dovuto dar fondo alle mie capacità di adattamento. Non è stato semplice, viste le mie condizioni. Alcuni dei miei nuovi compagni di classe erano convinti che avessi un handicap mentale, oltre che fisico. Di solito si tenevano a una certa distanza, salvo quando prendevo il coraggio di iniziare una conversazione in sala mensa oppure nei corridoi. Più mi sforzavo di andare loro incontro, più accettavano l’idea che, tutto sommato, non ero poi così strano. Sapete, talvolta Dio si aspetta che proviamo a fare la nostra parte. Possiamo desiderare, sognare, sperare, ma poi dobbiamo anche agire in base a questi desideri, sogni e speranze. Per arrivare dove vogliamo dobbiamo superare le barriere che ci trattengono dove siamo. Io desideravo che i miei compagni di scuola e i miei insegnanti si accorgessero che intimamente ero uguale a loro ma, per raggiungere tale scopo, dovevo uscire dal mio guscio, fare il primo passo verso di loro. Così facendo ho ricevuto delle gratificazioni straordinarie. A un certo punto ho incominciato a confrontarmi con i miei compagni sulle difficoltà di vivere in un mondo fatto per i normodotati. Grazie a queste conversazioni mi sono arrivati un sacco di inviti a tenere discorsi a studenti, gruppi giovanili delle chiese e nei ritrovi degli adolescenti. Ecco una meravigliosa verità che, pur essendo fondamentale, non viene insegnata a scuola: ciascuno di noi ha un dono, un talento, una capacità, un’arte, un’inclinazione che ci appassiona e da cui ricaviamo le maggiori soddisfazioni. Non di rado la strada per la felicità passa proprio attraverso quel dono. Se devi ancora capire quale sia il tuo posto nel mondo o che cosa ti entusiasma davvero, ti consiglio di fare un’autovalutazione. Siediti, prendi carta e penna oppure il tuo tablet e stila una lista delle tue attività preferite. Che cosa ti piace? Che cosa ti appassiona tanto da riuscire a tenerti impe21


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gnato/a per ore e ore, a farti perdere la nozione del tempo e dello spazio e a farti desiderare di non smettere mai? È questo che gli altri vedono in te? Ammirano le tue doti organizzative o la tua capacità di analisi? Se desideri sapere ciò che gli altri vedono in te, domanda alla tua famiglia e ai tuoi amici che cosa pensano ti riesca meglio. Questi sono gli indizi che ci aiutano a trovare la nostra strada nella vita, che si diparte dal nostro intimo come un piccolo sentiero. Tutti noi nasciamo nudi e pieni di promesse. Tutti arriviamo su questa terra con diverse qualità, diversi doni che attendono di essere scoperti e aperti. Quando scopriamo qualcosa che ci appassiona a tal punto che siamo disposti a dedicargli gratis le nostre giornate, siamo sulla strada giusta. Se poi troviamo qualcuno disposto a pagarci per questo, ecco che abbiamo trovato il lavoro della nostra vita! Le mie prime conversazioni informali con gli altri giovani erano un modo di presentarmi a loro e di dimostrare che ero esattamente come loro. Dopo una vita di introspezione ero felice di avere la possibilità di far conoscere il mio mondo e di instaurare dei legami: sapevo che mi faceva bene parlarne. Ma ancora non sapevo che le mie parole avrebbero influenzato altre persone e avrebbero lasciato un segno.

TROVARE LA PROPRIA STRADA Un giorno mi sono ritrovato a parlare davanti a un gruppo di trecento adolescenti, forse il pubblico più vasto che avessi affrontato fino a quel momento. Mentre parlavo dei miei sentimenti e della mia fede, è accaduto qualcosa di meraviglioso. Era già capitato che alcuni studenti o insegnanti si commovessero al racconto delle sfide che ho dovuto affrontare. Durante quella conferenza, però, una ragazzina ha iniziato a piangere e a singhiozzare. Non capivo che cosa le fosse successo... Forse avevo toccato una corda dolente, risvegliando in lei un ricordo penoso. Che sorpresa quando la 22


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piccola ha trovato il coraggio di alzare la mano per prendere la parola, nonostante la tristezza e le lacrime.... Poi si è fatta coraggio e mi ha chiesto il permesso di venire ad abbracciarmi. Sono rimasto senza parole! L’ho invitata ad avvicinarsi e lei, asciugandosi le lacrime, mi ha stretto in un forte abbraccio, una delle manifestazioni d’affetto più toccanti che mi siano state tributate. Ormai in quella sala quasi tutti avevano le lacrime agli occhi, io per primo. L’emozione mi ha sopraffatto quando mi ha sussurrato: “Nessuno mi ha mai detto che sono bella così come sono. Nessuno mi ha mai detto di amarmi. Mi hai cambiato la vita, lo sai? E anche tu sei bello”. Fino a quel momento avevo dubitato del mio valore. Mi consideravo semplicemente un tizio che teneva discorsi per avvicinarsi ai suoi coetanei. Intanto quella ragazza mi diceva che ero “bello” (un apprezzamento che non guasta mai) e, ciò che più conta, è stata la prima persona a farmi balenare l’idea che con i miei discorsi avrei potuto aiutare altre persone. Quella ragazzina ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Forse anch’io ho qualcosa da dare agli altri, ho pensato. Esperienze come quella mi hanno fatto capire che proprio la mia “diversità” mi avrebbe aiutato a dare il mio speciale contributo al mondo. Ho scoperto che le persone mi ascoltavano perché gli era sufficiente guardarmi per capire che avevo combattuto e vinto tante battaglie: per questo ero credibile. Istintivamente capivano che ciò che avevo da dire avrebbe potuto aiutarli a risolvere i loro problemi. Dio si è servito di me per parlare a tantissime persone nei luoghi più disparati: scuole, chiese, carceri, orfanotrofi, ospedali, stadi, auditorium. E, soprattutto, mi ha fatto incontrare personalmente migliaia di persone per abbracciarle e far sapere loro quanto siano preziose, concedendomi il piacere e l’onore di assicurare loro che ha dei progetti per la loro vita. Dio ha voluto usare questo mio singolare involucro riversandovi la capacità di sostenere e incoraggiare gli altri, così come ha promesso nella Bibbia: “Io so i pensieri che 23


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medito per voi... pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza”3.

DARSI DA FARE Indubbiamente la vita può essere crudele. Talvolta le disgrazie si susseguono una dietro l’altra, impedendoci di vedere una via di uscita. Probabilmente non vi piacerà ciò che sto per dirvi, ma può darsi che non siate ancora convinti del fatto che tutto questo potrebbe capitare anche a voi in qualsiasi momento. Come esseri mortali, abbiamo una visione limitata: non possiamo vedere ciò che ci attende dietro l’angolo. Questa è sia la buona che la cattiva notizia. Vi voglio però incoraggiare assicurandovi che, se lo volete, ciò che vi attende può rivelarsi estremamente positivo e superiore alle vostre più rosee aspettative. Ma sta a voi prendere coraggio, alzarvi e uscire allo scoperto! Se desiderate migliorare un’esistenza già dignitosa, o se siete talmente schiacciati dalla vita da essere sul punto di arrendervi, dovete sapere che quanto vi accadrà a partire da questo momento dipende da voi e dal vostro Creatore. Certo, non possiamo avere tutto sotto controllo. Le cose brutte accadono sovente anche alle persone buone. Forse non vi sembrerà giusto non essere nati con la camicia, ma se questa è la vostra realtà non vi resta che accettarla e usare al meglio ciò che avete. Forse commetterete degli errori. Forse qualcuno dubiterà di voi e non vi prenderà sul serio. Quando ho incominciato a concentrarmi sull’attività di conferenziere, persino i miei genitori hanno espresso qualche riserva sulla mia decisione. “Non pensi che, date le tue condizioni, un lavoro di concetto, magari nella contabilità, sarebbe più adatto e ti assicurerebbe un avvenire migliore?” osservava mio padre. Certo, aveva ragione su quasi tutti i fronti: un lavoro come 3. Geremia 29:11.

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ragioniere avrebbe avuto maggior senso, considerata la mia particolare predisposizione per la computisteria. Ma fin da ragazzo ho avuto questo desiderio totalizzante di comunicare ad altri la mia fede e la mia speranza in una vita migliore. Quando scopriamo la nostra vocazione, questa diventa la nostra passione e noi viviamo esclusivamente in funzione di essa. Se sei ancora alla ricerca della tua strada, sappi che sulle prime sarà normale avvertire un senso di spaesamento e di frustrazione: stai per intraprendere una maratona, non lo sprint finale. Il tuo desiderio di dare maggior senso alla tua vita è segno che stai crescendo, superando i tuoi limiti, sviluppando i tuoi talenti. È bene fermarsi ogni tanto a guardare dove siamo arrivati e domandarci se le nostre azioni e le nostre priorità siano utili al raggiungimento dello scopo a cui ci sentiamo chiamati, all’obiettivo che ci siamo prefissati.

ILLUMINARE IL SENTIERO All’età di quindici anni ho messo la mia vita nelle mani di Dio, chiedendogli di perdonarmi e di guidarmi. L’ho pregato di illuminare il mio cammino e farmi scoprire la mia vocazione. Quattro anni più tardi, dopo aver ricevuto il battesimo, ho iniziato a parlare della mia fede ad altre persone e ho capito di aver trovato la mia strada. La mia attività di conferenziere e di evangelizzatore si è trasformata in un ministero più completo. Qualche anno fa, inaspettatamente, ho avuto uno straordinario incoraggiamento, con la conferma di aver scelto la strada giusta. Era una domenica mattina come tante e io dovevo tenere un discorso in una chiesa in California. Avevo già tenuto molte conferenze nei luoghi più remoti della terra, ma quella volta mi trovavo ad Anheim nella chiesa cristiana di Knott Avenue, giusto in fondo alla strada dove abitavo. Quando sono entrato sulla mia carrozzina, il coro stava in25


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tonando il canto di ingresso: la funzione stava per iniziare. Mentre i fedeli si riversavano accalcandosi nel pur capiente luogo di culto, io ho preso posto in una delle prime file, cominciando a prepararmi psicologicamente per il mio discorso. Era la prima volta che parlavo di fronte ai miei vicini di Knott Avenue e non mi aspettavo che mi riconoscessero. Ma qualcuno mi chiamava a gran voce, sovrastando il canto: “Nick! Nick!” Non riconoscendo la voce, non ero neppure sicuro di essere il “Nick” giusto. Quando mi sono girato, ho notato un anziano signore che con un gesto della mano cercava di attirare proprio la mia attenzione. “Nick! Da questa parte!” ripeteva. Mi indicava un giovanotto in piedi accanto a lui tra la massa dei fedeli, che teneva in braccio un bambino. La sala era tanto affollata che non vedevo altro che gli occhietti vispi del bimbo, i suoi capelli scuri e lucenti e un gran sorriso sdentato. L’uomo sollevò il piccolo al di sopra della folla affinché lo vedessi bene. Improvvisamente fui pervaso da un’emozione talmente intensa da farmi tremare le gambe (se le avessi avute). Quel bambino dagli occhi vivaci era uguale a me. Non aveva né braccia né gambe. E, come me, aveva solo il piedino sinistro. Aveva soltanto diciannove mesi, ma era esattamente come me. Capii perché i due fossero tanto ansiosi di mostrarmi quella creatura. Venni a sapere che il piccolo si chiamava Daniel Martinez e i suoi genitori Chris e Patty. Mi sarei dovuto preparare a iniziare il mio discorso, ma il fatto di vedere Daniel – e di rivedere me stesso in lui – scatenò in me un torrente in piena di emozioni che non riuscivo a contenere e che mi impediva di pensare lucidamente. Sulle prime ho provato semplicemente compassione per il piccolo e la sua famiglia. Poi, però, nella mia mente si sono affollati ricordi strazianti ed emozioni angosciose: come se avessi fatto un balzo indietro nel tempo, ricordavo perfettamente come mi sentivo io alla sua età. So cosa prova, so già cosa lo aspetta, pensai. Vedendo 26


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Daniel, avevo capito che tra di noi c’era un legame straordinario, provavo una profonda empatia per lui. Le mie vecchie insicurezze, la frustrazione e la solitudine mi toglievano il respiro. Mi sentivo friggere sotto i riflettori. Ero stordito. Non era esattamente un attacco di panico: la vista di quel bambino aveva scosso il bambino che era in me. Ho avuto una rivelazione, accompagnata da una sensazione di grande pace. Quando ero piccolo non conoscevo nessuno nelle mie stesse condizioni, nessuno che fosse in grado di capirmi, guidarmi… Ma adesso Daniel ha qualcuno: ha me. Io posso aiutarlo, i miei genitori possono aiutare i suoi genitori. Forse sarò in grado di risparmiargli il dolore e le difficoltà che io non ho potuto evitare. In quel momento ho capito che, pur con tutte le difficoltà che comporta la mia disabilità, la mia vita aveva un senso per me e per gli altri. Nulla mi avrebbe impedito di dare il mio contributo al mondo. La mia gioia e la mia soddisfazione consistevano nell’incoraggiare e ispirare altre persone. Anche se non avrei potuto cambiare il mondo, ero certo che la mia vita non sarebbe stata sprecata. Ora come allora voglio dare il mio contributo. E anche ciascuno di voi deve credere di avere la capacità di fare altrettanto. Senza uno scopo, la vita è priva di speranze e senza speranza non c’è fede. Ma se troverai il modo di apportare il tuo contributo, troverai anche lo scopo della tua vita; speranza e fede ne saranno una naturale conseguenza e ti accompagneranno per il futuro. La mia visita alla chiesa di Knott Avenue aveva lo scopo di edificare e incoraggiare i fedeli. La vista di quel bambino tanto simile a me mi aveva scosso, ma era anche la conferma che avrei potuto cambiare la vita di molte persone, soprattutto di quelle che affrontavano sfide importanti, come Daniel e i suoi genitori. Quell’incontro è stato talmente entusiasmante che ho sentito la necessità di renderne partecipe l’intera assemblea. Così ho invitato i genitori di Daniel a salire con lui sul palco. “Le coincidenze non esistono” dissi. “Ogni respiro e ogni 27


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passo sono diretti da Dio. E non è un caso che in questa sala ci sia un altro ragazzo privo di braccia e di gambe”. Mentre parlavo, Daniel incantava tutti con i suoi sorrisi. Regnava il silenzio più totale nella chiesa quando il padre me lo avvicinò. Erano tutti commossi alla vista di noi due – un giovane uomo e un bambino alle prese con gli stessi problemi – che ci guardavamo sorridendo. Non piango facilmente, ma quella volta non riuscivo a trattenermi davanti a quel fiume di lacrime. Ricordo che quella sera, rientrato a casa, non ho detto una parola. Continuavo a pensare a quel bambino e a ciò che stava passando, che era poi quello che avevo sperimentato io alla sua età. Pensavo a come si sarebbe sentito, a mano a mano che avrebbe preso coscienza della propria condizione, quando si sarebbe imbattuto nelle crudeltà e nel rifiuto di cui anch’io ero stato vittima. Ero triste per lui a causa delle sofferenze che avrebbe conosciuto, ma mi ha consolato il pensiero che i miei genitori e io avremmo reso il suo peso più leggero e magari acceso in lui la speranza. Non vedevo l’ora di informare i miei genitori dell’accaduto, perché sapevo che sarebbero stati felici di incontrare quel cucciolo e di dare un po’ di fiducia a lui e alla sua famiglia. Papà e mamma ne avevano passate così tante e non avevano avuto nessuno che li consigliasse... Sapevo che sarebbero stati grati di avere la possibilità di aiutare quella famiglia.

MOMENTO DECISIVO Per me quella è stata un’esperienza sbalorditiva, surreale. Ero rimasto letteralmente senza parole (un avvenimento più unico che raro nel mio caso); avevo provato un intimo struggimento quando Daniel mi aveva guardato. In fondo mi sentivo ancora come il bambino che ero stato e che, non avendo mai visto nessuno uguale a lui, voleva a tutti i costi non essere solo, diverso da tutte le altre persone di questo mondo. Avevo la sensazione che nessuno comprendesse dav28


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vero ciò che provavo, il mio dolore e la mia solitudine. Ripensando alla mia infanzia, sono tuttora colpito dall’estrema sofferenza che mi procurava il solo pensiero di essere diverso. Il fatto che gli altri mi evitassero o mi prendessero in giro non faceva che rigirare il coltello nella piaga. Ma improvvisamente la mia sofferenza diventava insignificante in confronto all’infinita misericordia, alla gloria e alla potenza di Dio, manifestata grazie all’incontro con Daniel. Non auguro a nessuno un handicap come il mio, perciò ero triste per Daniel. Tuttavia, sapevo che Dio mi aveva condotto quel bimbo per alleviare la sua sofferenza. Era come se Dio mi avesse fatto l’occhiolino: “Eccoti servito! Vedi che ce l’avevo un progetto per te?”

FARSI CORAGGIO Naturalmente non ho una risposta a tutto. Non conosco la tua situazione specifica, la tua sofferenza, le tue difficoltà. Sono venuto al mondo fisicamente menomato, ma non ho mai conosciuto il dolore della violenza o dell’indifferenza. Non sono mai vissuto in una famiglia disunita. Non ho mai perso un genitore, né un fratello, né una sorella. Mi sono state risparmiate molte brutte esperienze. Per moltissimi versi la mia vita è certamente stata più facile di quella di tanta altra gente. Nell’istante che mi ha cambiato la vita, quando ho visto Daniel sollevato in alto davanti alla folla dei fedeli, ho capito che il miracolo che avevo pregato di ricevere… ero io! Dio non mi aveva concesso il miracolo che gli avevo chiesto, ma aveva fatto di me il miracolo per Daniel. Avevo ventiquattro anni quando l’ho conosciuto. Quello stesso giorno, un po’ più tardi, sua madre Patty mi ha abbracciato; per lei è stato come fare un viaggio nel futuro e abbracciare suo figlio ormai adulto. “Non puoi neanche immaginare quanto abbia pregato che Dio mi desse un segno e mi facesse capire che non aveva dimenti29


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cato me e il mio bambino”, confessò. “Tu sei un miracolo. Sei il nostro miracolo!” Un altro particolare sorprendente di quell’incontro è che quella stessa domenica i miei genitori arrivavano dall’Australia per la prima volta dal mio trasferimento negli Stati Uniti, l’anno precedente. Un paio di giorni dopo papà e mamma fecero la conoscenza di Daniel e dei suoi genitori. Come potrete immaginare, ne avevano di cose da raccontarsi! Forse agli occhi di Chris e Patty io ero una benedizione per Daniel, ma i miei genitori furono per loro una benedizione ancor più grande. Chi meglio di loro avrebbe saputo prepararli, consigliarli e insegnare loro a crescere un bambino privo di braccia e di gambe? Quella che offrivamo loro non era soltanto una speranza, ma la prova certa che Daniel sarebbe stato in grado di vivere una vita relativamente normale e che anche lui avrebbe scoperto di essere una benedizione per altri. Siamo stati fortunati a condividere la nostra esperienza con loro, a incoraggiarli e a dimostrare loro che l’assenza di arti non è un limite. Nello stesso tempo, Daniel è una benedizione per me: è come una dinamo che, con la sua gioiosa energia, mi trasmette molto più di quello che saprei dargli io. Anche questa è per me una ricompensa del tutto inaspettata.

UNA VITA DA DONARE Helen Keller aveva solo due anni quando, in seguito a una malattia, divenne sordo-cieca. Ciò, tuttavia, non le avrebbe impedito di diventare una nota scrittrice, conferenziera e attivista. Secondo quella donna fuori del comune la vera felicità “non si raggiunge tramite il piacere personale, bensì tramite la fedeltà a uno scopo degno”4. Per me ciò significa che bisogna essere fedeli ai doni ri4. The Simplest Way to Be Happy (1933). La storia vera di Helen Keller è raccontata nel film Anna dei miracoli (1972) diretto da Arthur Penn (ndt).

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cevuti, coltivarli, condividerne i frutti e trovare in essi la nostra gioia. Significa superare la ricerca della gratificazione personale e puntare a un obiettivo più maturo: la ricerca della nostra vocazione e della nostra realizzazione. Le maggiori ricompense arrivano quando condividiamo i nostri doni per rendere migliore la vita degli altri, diventando parte di qualcosa che ci trascende e cambiando in meglio ciò che possiamo. Per fare tutto questo non c’è bisogno di essere madre Teresa di Calcutta. Persino una persona “disabile” può dare il proprio contributo al mondo. Chiedetelo alla ragazza che ha postato questa mail sul nostro sito Life Without Limbs. Caro Nick, Sono così emozionata che non so neppure da dove iniziare. Intanto suppongo di dovermi presentare. Ho sedici anni e ti scrivo perché ho visto il tuo DVD “No Arms, No Legs, No Worries” (“Senza braccia, senza gambe, senza preoccupazioni”) e voglio farti sapere che hai avuto un enorme impatto sulla mia vita e sulla mia guarigione. Dico “guarigione” perché mi sto riprendendo da un disturbo alimentare, l’anoressia. Nell’ultimo anno sono stata ricoverata in svariate case di cura; quello è stato il capitolo più brutto della mia vita. Sono stata da poco dimessa da una struttura in California. Mentre ero ricoverata là ho visto il tuo DVD. In tutta la mia vita non mi sono mai sentita tanto incoraggiata e motivata. Tutto quello che fai è meraviglioso e utile! Ogni parola che hai pronunciato ha avuto un enorme impatto su di me. Non ho mai provato così tanta gratitudine in vita mia. Con questo voglio dire che ho attraversato dei momenti in cui pensavo di aver toccato il fondo, ma adesso ho capito che tutti hanno uno scopo nella vita e vanno rispettati per quello che sono. Mamma mia... Davvero, non riuscirò mai a ringraziarti abbastanza per l’incoraggiamento che mi hai dato attraverso quel DVD. Spero tanto di poterti incontrare un giorno: questa è una delle cose che mi ripropongo di fare assolutamente nella vita. Hai la più bella personalità che un essere umano possa avere: sei persino riuscito a farmi ridere (cosa estremamente difficile quando ti trovi in riabilitazione)! Grazie a te ora mi sento molto più forte e più consape-

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vole della mia identità; non sono più ossessionata da ciò che gli altri pensano di me e ho smesso di buttarmi sempre giù. Mi hai insegnato a trasformare le cose negative in positive. Grazie per avermi salvato la vita e per avermela cambiata in meglio. Non ti ringrazierò mai abbastanza... Sei il mio eroe!

VOGLIO ESSERE UTILE Mi fa veramente piacere ricevere tanti messaggi come questo. La cosa strana è che da bambino ero spesso demoralizzato e pensavo che non avrei mai avuto gioia nella vita, tanto meno che sarei riuscito a donarne ad altri. Forse alcuni di voi stanno ancora cercando la propria strada, ma dubito che riusciranno a sentirsi davvero soddisfatti senza servire il prossimo. Ciascuno di noi nutre l’intima speranza che le proprie competenze e i propri talenti non servano soltanto a pagare le bollette... Al giorno d’oggi, anche se siamo consapevoli che i beni materiali non colmano il vuoto della nostra anima, abbiamo bisogno di ricordare che l’appagamento personale non dipende da ciò che possediamo. La gente sceglie i metodi più strambi per auto-gratificarsi: scolarsi un’intera confezione di birra o annebbiarsi la mente con la droga. Oppure modificare il proprio corpo seguendo qualche arbitrario canone di bellezza. O ancora lavorando tutta la vita per raggiungere l’apice del successo, per poi rischiare di vederselo strappare via senza pietà in un istante. Ma le persone più accorte sanno che non esistono vie facili per ottenere una felicità duratura. Chi punta tutto su piaceri momentanei troverà soltanto soddisfazioni momentanee. Il piacere facile ci restituisce soltanto ciò in cui abbiamo investito: oggi c’è e domani non c’è più. Nella vita l’importante non è avere ma essere. Puoi vivere nel lusso più sfrenato e, nonostante questo, essere la persona più infelice del mondo. Conosco persone dal fisico perfetto che hanno la metà della gioia che ho io. Durante i miei viaggi 32


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ho visto più gioia nei ghetti di Mumbai e negli orfanotrofi africani che nei più esclusivi quartieri residenziali e nelle più vaste proprietà terriere del valore di milioni di dollari. Come si spiega tutto ciò? Siamo davvero appagati soltanto quando i nostri talenti si sposano con la passione e lavorano a pieno regime. Riconosciamo dunque i piaceri facili e le gratificazioni istantanee per quello che sono. Resistiamo alla tentazione di inseguire beni materiali come la casa perfetta, i vestiti griffati, l’auto più potente. La sindrome del “se solo avessi questo/quello, sarei felice” è un’arma di “delusione di massa”. Chi cerca la felicità nelle cose non è mai soddisfatto, perché sente di non avere mai abbastanza. Guardiamoci attorno e guardiamoci dentro. Quando ero bambino pensavo che, se soltanto Dio mi avesse dato braccia e gambe, sarei stato felice per il resto della mia vita. Una richiesta che difficilmente si sarebbe potuta definire egoistica, giacché gli arti superiori e quelli inferiori fanno parte della “dotazione standard” dell’uomo. Eppure, come sapete, ho scoperto di poter essere felice e soddisfatto anche senza i consueti accessori. Ne ho avuta la conferma proprio grazie a Daniel: il confronto con lui e la sua famiglia mi ha ricordato lo scopo della mia presenza su questa terra. Quando i miei genitori sono arrivati in California, ho presentato loro la famiglia di Daniel; in quell’occasione ho assistito a qualcosa di davvero speciale. Abbiamo trascorso ore a parlare con i genitori di Daniel, confrontando le nostre esperienze e discutendo con loro il modo in cui abbiamo gestito quelle stesse difficoltà che saranno anche del loro piccino. In quei giorni si è instaurato tra di noi un legame profondo che dura a tutt’oggi. Ci siamo rivisti circa un anno dopo il nostro primo incontro. Durante la conversazione i genitori di Daniel ci hanno detto che, secondo i medici, il piccolo non era ancora pronto per spostarsi su una sedia a rotelle speciale come la mia. “E perché no?”, ho chiesto io. “Avevo la stessa età di Daniel quando ho iniziato a guidare la mia carrozzina”. Per dimostrare che sapevo il fatto mio, sono saltato giù 33


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dalla mia sedia a rotelle e ci ho fatto salire Daniel. Con il piedino sinistro arrivava perfettamente ai comandi. Com’era contento! Era bravissimo a manovrarla. Grazie alla nostra presenza, Daniel ha avuto l’occasione di dimostrare ai suoi genitori di essere in grado di spostarsi da solo con una carrozzina adatta alle sue esigenze. Quello è stato uno dei tanti modi in cui ho capito di poterlo accompagnare illuminando il suo faticoso sentiero alla luce della mia esperienza personale. Non riesco a esprimere fino a che punto io sia felice di fargli da guida. Quel giorno Daniel ha ricevuto un dono di enorme valore ma, a sua volta, me ne ha fatto uno ancora più prezioso: l’incomparabile soddisfazione di assistere alla sua gioia. Né un’auto di lusso né una megavilla in un quartiere residenziale: nulla è paragonabile al compiere il proprio destino secondo il progetto di Dio. Ma non è finita lì! In occasione di un successivo incontro, i miei genitori hanno raccontato ai genitori di Daniel come erano stati in ansia per il timore che io annegassi nella vasca da bagno, senza braccia e gambe che mi aiutassero a tenermi a galla. Di conseguenza erano sempre stati molto attenti nel farmi il bagnetto. Crescendo, papà si limitava a sostenermi appena nell’acqua, per dimostrarmi che potevo galleggiare. Io prendevo sempre maggiore confidenza e diventavo coraggioso, perché riuscivo a mantenermi a galla trattenendo un po’ d’aria nei polmoni. Ho imparato addirittura a usare il mio piedino come “elica di propulsione” per spostarmi più velocemente in acqua. Immaginate lo sbalordimento dei miei nel vedermi diventare un nuotatore incallito, pronto a gettarmi a bomba nel primo specchio d’acqua che mi capitava a tiro! Ho condiviso quest’esperienza con la famiglia di Daniel e sono felice di sapere che una delle prime frasi che ha pronunciato è stata: “Nuotare come Nick!” Oggi anche Daniel nuota come un delfino. Non ho parole per esprimere la gioia che provo nel vedere che la mia esperienza gli è stata utile. La mia vita ha acquistato un significato ancora più profondo. Anche se la mia storia non avesse impatto su nessun altro, 34


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mi basterebbe la volontà di Daniel di “nuotare come Nick” per capire che la mia vita e tutte le difficoltà che ho attraversato non sono state inutili. È essenziale trovare il proprio scopo nella vita. Ti assicuro che anche tu hai il tuo contributo da dare: forse non sai ancora quale sia, ma puoi avere la certezza che le cose stanno proprio così... diversamente non ti troveresti su questo pianeta. So per certo che Dio non commette errori, al contrario, fa miracoli. Io sono un miracolo! E lo sei anche tu.

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