Il fuoco addosso

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Originally published in English in the U.S.A. under the title: Fire Road, by Kim Phúc Phan Thi Copyright © 2017 by Kim Phúc Phan Thi Italian edition © 2019 by La Casa Della Bibbia with permission of Tyndale House Publishers, Inc. All rights reserved. Edizione italiana: Il fuoco addosso. La bambina della fotografia racconta. Scripsi, 2019 © 2019 La Casa della Bibbia www.casadellabibbia.it Tutti i diritti riservati. Traduzione di Loredana Bottaccini Revisione di Barbara Sancin Progetto grafico di Giuseppe De Chirico Crediti fotografici In copertina: © ANSA/AP Photo/Nick Út. Fotografia dell’autrice: © Richard Kimball, copyright © 2012 Tutti i diritti riservati. Le immagini all’interno di questo volume sono proprietà dei rispettivi titolari dei diritti. Tutti i diritti riservati. Le fotografie sono usate con autorizzazione. Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte da La Sacra Bibbia – Nuova Riveduta, 2006 standard © Società Biblica di Ginevra – CH – 1032 Romanel-sur-Lausanne. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, inserita in circuiti informatici o trasmessa in alcuna forma o mezzo (elettronico, fotocopia, registrazione) senza la preventiva autorizzazione scritta degli Editori. La sola eccezione permessa è un breve commento per recensioni librarie. Diffusione: La Casa della Bibbia Via Giuseppe Massari, 189/A 10148 Torino Tel. 011 2052386 | Fax: 011 2051566 ordini@lacasadellabibbia.it | www.casadellabibbia.it ISBN 978-88-31224-00-0


INDICE

Introduzione Prologo Parte prima – Un corpo in fiamme 1. La guerra? Quale guerra? 2. Gli ordini del soldato 3. “Brucia! Brucia!” 4. Abbandonata nella camera mortuaria 5. Almeno sono viva 6. Così diversa... chi mi vorrà? 7. In fuga 8.La guerra è finita! 9. Ricominciare 10. Tre tentativi Parte seconda – Lo sfruttamento mediatico 11. Sequestrata dal governo 12. Adesso basta! 13. Adottata dal mio nuovo Dio 14. Tra due fuochi

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15. Un intervento provvidenziale 16. Bac Dong 17. Uno spiacevole cambio di programma 18. Nulla mi trattiene qui 19. E questo sarebbe il miglioramento?

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Parte terza – La ricerca della pace 20. Luna di miele... e libertà ! 21. Miracoli 22. Forza, Dio, forza! 23. No alla paura 24. 3,6 chilogrammi di perfezione 25. Dio trova sempre una soluzione 26. Un tempo per perdonare

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Parte quarta – Redenzione e riscatto 27. Finalmente riuniti 28. Sempre al sicuro 29. Un male necessario 30. Le mie cicatrici messe a nudo 31. Riconciliata con il mio passato Epilogo

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Ringraziamenti


Carissimi, non vi stupite per l’incendio che divampa in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Anzi, rallegratevi in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, perché anche al momento della rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. (L’apostolo Pietro alle chiese dell’Asia Minore1)2 Il saggio cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere. (Aristotele)

1. 1 Pietro 4:12-13.



INTRODUZIONE

Ai lettori

Sognavo di scrivere questo libro da quasi dieci anni... probabilmente anche da prima, considerate le mie velleità letterarie, saggiamente accantonate nel periodo in cui mi dedicavo alla cura dei miei figli ancora piccoli. Quando saranno grandi, cercherò di realizzare questo sogno, mi dicevo. Allora quella era la decisione più giudiziosa da prendersi. Adesso, però, i ragazzi sono cresciuti... La mia vicenda era già stata raccontata da Denise Chong in un libro intitolato La bambina della fotografia2, una straordinaria inchiesta sulla guerra civile in Vietnam, che ha letteralmente segnato la mia vita. In particolare si soffermava su quella famosa fotografia che mi ritraeva in fuga da un certo attacco con il napalm. Un lavoro meticoloso, quello della signora Chong, per quanto riguarda la ricerca storica e geografica, nonché per la precisione con cui descrive i bombardamenti e ricorda le vittime del conflitto. Dietro la storia raccontata in quel libro, tuttavia, ce n’era un’altra, un’invisibile sottotrama divina, che nei molti anni a seguire neppu2. Denise Chong, La bambina della fotografia. La storia di Kim Phuc e la guerra del Vietnam, Codice Edizioni, 2004, 2008 (ndt).


re io ero riuscita a scorgere: una serie di tappe spirituali che, a mia insaputa, hanno costellato il sentiero che mi avrebbe condotto a Dio. È quella la storia che qui desidero raccontare. Desidero parlare della fedeltà con cui Dio mi ha seguito mentre ero prigioniera di un’angoscia paralizzante. Ecco, desidero raccontare la misericordia con cui Dio si è preso cura di me quando, priva di riparo e di difese, pativo la fame e il freddo. Desidero raccontare come Dio mi ha cercato proprio quando ero convinta che avrei finito i miei giorni in solitudine, emarginata e senza amore. Ma, soprattutto, desidero parlarvi della pace, quella “pace di Dio che supera ogni intelligenza” e che custodisce i nostri cuori e i nostri pensieri in Cristo Gesù3. Sì, perché più ancora della guarigione delle mie ferite fisiche, più ancora della speranza per il mio cuore, io desideravo la pace per questa mia anima profondamente turbata. La pace! Sì, è di quella pace che voglio parlare. A questo punto devo confessare che, da quando ho effettivamente – e miracolosamente – trovato questa pace dopo averla tanto desiderata, la mia vita è interamente imperniata sul mantenimento della pace. Io voglio ricevere la pace, questo gran dono di Dio, ogni giorno: voglio lasciarla penetrare nei miei pensieri, nei miei atteggiamenti, nel mio lavoro. Voglio portare quella pace con me, sempre e ovunque, e condividerla con chiunque incroci il mio cammino. Pertanto, quei lettori che avessero scelto questo libro per trovarci qualche riflessione autorevole sulla guerra rimarranno, temo, delusi. Suppongo che ci sia stato un periodo in cui facevo effettivamente delle considerazioni ben precise in proposito (a tale riguardo, esprimerò brevemente il mio pensiero di allora quando passerò in rassegna quel determinato periodo della mia vita), ma in questi qua3. Filippesi 4:7.


rant’anni molta acqua è passata sotto i ponti e io ho scoperto che la pace è un argomento assai più stimolante. Penso che una riflessione sincera e approfondita su questo tema sortisca degli effetti ben più positivi rispetto alla più sviscerata analisi degli orrori della guerra. È vivendo in pace, ed essendo donne e uomini di pace, che si possono risolvere i problemi. Qual è la mia massima aspirazione nel pubblicare questa mia testimonianza? Che voi scopriate veramente e viviate pienamente la stessa pace che ho trovato io. Semmai un giorno, in futuro, ci incontrassimo di persona, quale non sarebbe la mia gioia se scoprissi che la mia storia vi ha permesso di trovare la pace? Vi posso assicurare che per me sarebbe il complimento più bello! Ancora un paio di cose prima di lasciarvi alla vostra lettura. In primo luogo, mi dispiace di non essere riuscita a ricordare alcuni avvenimenti di quarant’anni fa in modo più vivido: probabilmente è stato Dio, nella sua misericordia, a non permetterlo. Durante la stesura di questo libro, infatti, mi è accaduto talvolta di cercare invano di descrivere una certa situazione o un certo episodio in modo più particolareggiato; mi sforzavo di ricordare i dettagli ma quelli mi sfuggivano. Per amor di precisione, al fine di fornirvi un resoconto pertinente, mi sono consultata, quando possibile, con altre parti interessate. Riconosco che, poiché la mia storia è stata riportata molte volte da molte fonti diverse, alcune informazioni che troverete in questo volume differiranno sicuramente da quelle finora divulgate. Dal canto mio, garantisco per ogni parola di queste pagine. In secondo luogo, come mi fanno spesso notare alcuni miei amici anglofoni, mi esprimo in un inglese poco comune, al quale la gente non è abituata. Naturalmente, come avrete immaginato, sono di madrelingua vietnamita, l’idioma che ancora oggi mi è più familiare. In seguito la vita mi ha condotto a Cuba (per cui me la cavo piuttosto bene con


lo spagnolo) e quindi in Canada (ma, ahimè, non parlo il francese). Durante la mia permanenza a Toronto, una delle città più cosmopolite del mondo, ho iniziato a studiare l’inglese. Benché mi applicassi moltissimo e mi spronassi in continuazione (Forza, Kim, ce la devi fare!), mi sembrava che l’inglese non fosse una lingua tanto facile da imparare, con tutte quelle regole ed eccezioni, per non parlare dei phrasal verbs e dei verbi irregolari da memorizzare! Chi mi ha aiutato a scrivere, chi ha curato la revisione, la casa editrice e l’agenzia letteraria che mi rappresenta mi hanno rassicurato: il mio libro aveva le carte in regola per essere pubblicato. Tuttavia, chiedo venia a quei lettori anglofoni che riscontrassero qua e là qualche errore, qualche inesattezza o imprecisione sfuggita ai controlli: sicuramente è farina del mio sacco e me ne assumo la piena responsabilità.


CINA VIETNAM DEL NORD Hanoi

LAOS

ZONA DEMILITARIZZATA

THAILANDIA

VIETNAM DEL SUD

CAMBOGIA

Phnom Penh

Tay Ninh Trang Bang Cu Chi Saigon MAR CINESE MERIDIONALE

L’INDOCINA NEL 1972



PROLOGO

Febbraio 2016

Non credo che mi ci abituerò mai... Dovrei essere felice di questo radicale cambiamento di temperatura: in fondo, la Florida è nota proprio per i suoi venti caldi, il clima temperato e le giornate calme e soleggiate. Invece, una volta atterrati all’aeroporto internazionale di Miami, dopo aver lasciato ancora una volta la nostra residenza in Canada, mio marito Toan ed io veniamo investiti da un’ondata di calore talmente intensa che pare provenire da una fornace. Quelle cicatrici che da quasi quarantaquattro anni sono parte della mia identità si risvegliano bruscamente, il dolore acuito dall’umidità e dal calore. Eh, sì, poche ore fa, nel clima invernale di Toronto la mia pelle era più tesa ma, almeno, la situazione era stabile. Inoltre sapevo esattamente che cosa aspettarmi. Dunque, non è soltanto il clima caldo di Miami a disturbarmi ma anche il fatto che tutto è così diverso da ciò che mi sono lasciata alle spalle. Scorgo i giornalisti delle varie agenzie di stampa che attendono di scrivere il loro articolo sul mio viaggio. Raccolgo tutto il mio coraggio per avvicinarmi ai loro microfo-


ni e salutarli con un sorriso e un’espressione serena. Dopo una breve conferenza stampa al terminal, veniamo scortati alla vettura che ci condurrà all’albergo dove siamo soliti soggiornare. “Come ti senti oggi, Kim?” mi hanno domandato i giornalisti. E ancora: “Questo trattamento al laser è veramente in grado di guarire le tue cicatrici?” Durante i venti minuti di tragitto mi ritrovo a riflettere su quelle domande. Io come mi sento veramente? Tutte queste terapie mi stanno davvero aiutando? Sinceramente non ne sono tanto sicura. Mi esprimerò soltanto alla fine del ciclo di sette sedute, mi dico, ben sapendo che dando un giudizio prematuro circa l’effettiva utilità della terapia rischio poi di rimanere delusa del risultato. “Si va avanti!” ho dichiarato alla folla di giornalisti all’aeroporto, sollevando energicamente i pugni come una combattente. “Siamo fiduciosi: la mia pelle tornerà morbida ed elastica!” Il mattino seguente Toan ed io ci presentiamo alla clinica della dottoressa Jill Waibel, la dermatologa che mi ha in cura. I reporter in attesa fuori della clinica sono ancora più numerosi, e ognuno vuole essere aggiornato con le ultimissime notizie: Come definirei i risultati raggiunti finora? Qual è esattamente il miglioramento previsto dal trattamento cui sto per sottopormi? Quanto durerà l’anestesia? Come descriverei il livello di dolore che provo mentre la dottoressa Jill interviene sulle mie cicatrici? A quest’ultima domanda cerco di sorridere e rispondo onestamente: “Anche l’antidolorifico più potente può attenuare il dolore del 30% al massimo... Ecco, io provo il rimanente 70%. Come se mi sistemassero sulla griglia di un barbecue e mi lasciassero arrostire fino a cottura quasi ultimata”. La dura realtà è che questo trattamento laser consiste nella cauterizzazione delle cicatrici esistenti, centimetro per centimetro. Durante le interminabili sedute la dottoressa Waibel perfora il tessuto cicatriziale con migliaia di mi-


croiniezioni, nella speranza di riattivare la circolazione sanguigna dove il sangue ormai non circola più fin dalla mia infanzia. “È così che bisogna procedere, Kim”, mi ha spiegato la dottoressa in occasione della prima visita, circa un anno fa. “Consideralo un male necessario”. Così eccomi di nuovo qui a Miami, per la quinta volta in otto mesi. Cerco di ignorare il cicaleccio conviviale proveniente dalla hall della clinica, dove i giornalisti attendono che io finisca il trattamento radunati intorno al buffet a rifocillarsi con tramezzini e pinzimonio. Mi concentro sul presente, su ciò che sta accadendo ora. Quello di oggi è un altro passo verso la guarigione e la salute, Kim. Un male necessario. Questo dolore ha un significato, ha uno scopo. Mi cambio, indosso il camice. Mi sdraio sul lettino freddo e grigio, espiro l’ansia che sempre mi accompagna negli istanti che precedono l’inizio del trattamento, e scelgo di prendere la dottoressa Waibel in parola.





CAPITOLO 1

Trang Bang, Vietnam

Primavera 1972 Avevo otto anni e ogni giorno dopo la scuola tornavo a casa insieme ad altri bambini del villaggio correndo e saltellando come fanno i bambini che non hanno un solo problema al mondo. Alle nostre corse spensierate talvolta si univa anche mio fratello “Numero 5”. Nelle famiglie numerose come la nostra è più facile ricordare i numeri rispetto ai nomi (io, per esempio, sono “Numero 6”). La scuola distava circa un chilometro da casa e noi dovevamo percorrere il tragitto su un sentiero sterrato ricavato in mezzo alla folta vegetazione dei campi tenuti a maggese. La nostra corsa s’interrompeva soltanto per lasciar passare la vacca da soma di un contadino che aveva fretta di andare in città a vendere granaglie e ortaggi freschi oppure per far largo a qualche signore benestante, tutto tronfio sulla sua rombante motocicletta, fiero di ostentare la propria ricchezza. Attraversato un tunnel formato da alberi ombrosi, riemergevo nell’enorme cortile di cemento che mio padre aveva posato con le proprie mani e mi meravigliavo sempre di quanta superficie occupasse. Un’opera del genere era assai 3


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poco comune nel nostro villaggio, e anch’essa costituiva un indizio, neppure tanto velato, del fatto che anche noi avessimo raggiunto un certo tenore di vita. All’epoca neppure mi passava per la mente il pensiero delle armi, delle tattiche militari, delle zone strategiche o dei tentativi di assumere il potere; né sapevo nulla della campagna militare in atto, quella oggi conosciuta come “l’Offensiva di Pasqua”, né del progressivo ritiro delle forze alleate americane. No, nessun pensiero che avesse la minima attinenza con la guerra. Una cosa, però, suscitava sempre la mia curiosità: quelle caratteristiche impronte lasciate da sandali ricavati da vecchi pneumatici che certe mattine la nonna trovava disseminate ovunque. Allora mi dicevano che i Viet-cong avevano fatto un’incursione durante la notte alla ricerca, pare, di generi di prima necessità – bende e medicinali, riso o sapone. Venivano sempre di notte, tutti vestiti di nero, strisciando nella giungla per non farsi intercettare dai Vietnamiti del Sud. Di tanto in tanto emergevano dall’intricata rete di gallerie sotterranee da loro stessi scavate per cercare rifornimenti o vendicarsi degli abitanti del luogo che si fossero rifiutati di piegarsi alle loro richieste. “Va’ a portare questo messaggio da parte nostra” avevano sovente intimato a Loan, la maggiore di tutti noi fratelli e sorelle. Loan, detta “Hai”, che significa “Due”4, aveva studiato per diventare insegnante e nella nostra zona era una delle poche persone adulte istruite: ciò faceva di lei lo “strumento” ideale per i dissidenti, i quali la obbligavano a recapitare le loro sentenze di morte. Naturalmente lei stava dalla parte del Vietnam del Sud, ma sapeva anche che non le conveniva opporre resistenza ai Viet-cong: ci teneva alla propria pelle, come tutti noi, del resto. Chiamato a raccolta tutto il suo sangue freddo, si schiariva la voce e leggeva il decreto. “Vi informiamo con la presente che la pena prevista per 4. Nelle famiglie sudvietnamite non esiste il figlio “Numero 1” (riconosco la singolarità di tale usanza).

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1 – LA GUERRA? QUALE GUERRA?

il vostro rifiuto di assistenza al Viet-cong in questa, che è la nostra guerra, è la morte. La sentenza sarà applicata quanto prima”. Questo era il messaggio che era sovente costretta a riferire, magari a uno dei nostri vicini. Non riesco neppure a immaginare come si sentisse mia sorella nel dover pronunciare simili parole, ma lei ubbidiva. Attraversando il cortile di cemento mi affrettavo, insieme ai miei fratelli e sorelle, verso la casa della nonna, che abitava a cinque minuti da noi, alla ricerca di impronte recenti. La casa dei nonni era, e lo è tuttora, circondata da un vasto spiazzo sterrato. Quante tracce trovavamo! “Guardate! Guardate laggiù!” esclamava ba ngoai (nonna) indicando le tracce di terra smossa. Io e i miei fratelli, otto in tutto (saremmo stati nove, se contiamo anche il nostro caro Tai, morto in tenerissima età), ci producevamo in una serie di esclamazioni di meraviglia: “Oooh! Aaah!” Si alimentava in noi il mito di quei combattenti che, benché originari della nostra stessa patria, l’amato Vietnam del Sud, avevano avuto l’impudenza di allearsi con l’esercito del Nord. Immaginavo che imponenti eserciti di Viet-cong avessero marciato sulla proprietà dei nonni nel cuore della notte. In realtà, è possibile che si trattasse di bande formate da una dozzina scarsa di uomini. Naturalmente noi bambini ci figuravamo la guerra solamente in base alle informazioni e alle spiegazioni che ce ne davano gli adulti, e in funzione delle loro reazioni. Soltanto i nostri fratelli maggiori, Loan e Ngoc, erano in grado di comprendere come stessero realmente le cose. Solitamente il nostro entusiasmo infantile per le discussioni riguardanti la guerra svaniva così com’era apparso. Insomma, chi aveva il tempo di parlare di campi di battaglia e attacchi aerei quando c’erano tante cose ben più interessanti da fare come, ad esempio, giocare, leggere libri e arrampicarsi sugli alberi di guava? Oh, quanto mi mancano quegli alberi... *** 5


IL FUOCO ADDOSSO

A quei tempi, entrare nella proprietà della mia famiglia era come varcare la soglia di un magnifico angolo di bucolico paradiso, un rifugio dove si respiravano abbondanza e bellezza. Quando tornavo a casa da scuola con Hanh, la mia amica del cuore, lasciavo cadere la sacca dei libri al cancello d’ingresso per correre ad arrampicarmi come un’agile scimmietta su uno dei quarantadue alberi di guava che circondavano la nostra proprietà; dai rami che si piegavano sotto il peso dei grappoli di color citrino spiccavo i due frutti più grossi e maturi, poi affondavo immediatamente i denti nell’uno e quindi lanciavo l’altro a Hanh. Entrambe ridacchiavamo di soddisfazione mentre il succo di quei frutti deliziosi ci colava lungo il mento. Dovete sapere che il significato letterale del mio nome, Kim Phúc (pr. Fuc)5, significa “felicità dorata”, ed è proprio così che la vita mi si presentava allora: bella, gioiosa e felice. Per nulla al mondo l’avrei cambiata con un’altra. Ho amato ogni giorno e ogni anno di quella vita. I miei genitori, Nu e Tung, avevano un allevamento di più di cento maiali e ne vendevano i maialini quando erano sufficientemente cresciuti. E tutti i pomeriggi polli, galline, anatre, cigni, cani e gatti se ne andavano tranquillamente a zonzo in quell’ettaro di terreno destinato ai maiali, come se tutti quanti ne fossero i padroni. Oltre agli alberi di guava coltivavamo banani: mi ricordo che insieme ai miei fratelli mi facevo delle grandi scorpacciate di banane non appena erano mature (addirittura un casco a testa) per il semplice motivo che erano a disposizione e noi avevamo appetito. E poi c’erano le palme da cocco, gli alberi di durian6... e poi i 5. Phan Thi è il mio cognome. Nel mio paese d’origine il cognome precede sempre il nome. Per molti anni, infatti, mi sono presentata come Phan Thi Kim Phúc ma poi ho finito coll’invertire l’ordine dei nomi secondo le consuetudini occidentali. 6. Il durian (Durio zibethinus), è coltivato da secoli nei paesi del sud-est asiatico e produce enormi frutti dalla scorza spinosa e dall’odore acre e sgradevole (ne è vietato il trasporto sui mezzi pubblici). Gli asiatici lo considerano il “re dei frutti” per le sue dimensioni e per le sue proprietà nutrizionali e officinali (ndt).

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1 – LA GUERRA? QUALE GUERRA?

pompelmi: quelli che coltivavamo noi erano grandi come la mia testa, e in assoluto i più dolci che io abbia mai assaggiato in vita mia. Quasi tutte le sere la mamma portava a casa le eccedenze della sua tavola calda: verdure, pollo e riso, che ci serviva con un contorno di frutta fresca. Tutti i giorni mangiavamo come principi e io mi credevo una principessa. In realtà definire principesca la vita che conducevamo non è appropriato; tuttavia, rispetto ai nostri vicini, ce la passavamo piuttosto bene. Riconosco che la nostra agiatezza di allora era frutto del duro lavoro di mia madre. Ancora prima che i miei genitori si sposassero, mio padre non faceva che elogiare la cucina di mamma e, in particolare, la sua zuppa di pasta fresca. Fu così che nel 1951, poco dopo le nozze, l’idea aveva preso forma. Papà aveva detto alla mamma: “La tua zuppa è talmente buona che scommetto che la gente pagherebbe per assaggiarla”. Mia madre, assolutamente disposta a mettere in pratica il consiglio di papà, si era subito procurata un forno d’argilla e tutti gli ingredienti necessari (carne di maiale, acciughe, erbe e spezie, verdure e pasta fatta a mano da lei stessa) e, con il permesso gentilmente concessole dal commerciante, si era installata con il suo pentolone di fronte a un negozio del posto, pronta a servire ciotole di gustosa zuppa calda. Nel frattempo i miei genitori avevano messo da parte un gruzzolo sufficiente per trasferirsi dalla casa dei miei nonni e acquistarsene una tutta loro. A quel punto i guadagni di mamma erano tali da consentirle di smettere di occupare il suolo pubblico antistante al negozio e affittare, invece, un chiosco al mercato, completo di tavolini e sgabelli. Su quella semplice struttura pendeva l’insegna Cháo lòng thanh Tung, ossia il nome della sua specialità, il cháo lòng (un misto di riso e carne di maiale usato come base per la zuppa), e quello di suo marito, Tung. L’attività iniziò a ingranare. 7


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In capo a sette anni mamma aveva non solamente acquistato il suo chiosco ma anche i due adiacenti al suo, aumentando così i posti a sedere della zupperia, che passarono a ottanta. Poi sostituì i semplici arredi in bambù con arredi di legno lavorato e iniziò a fare affari anche grazie all’affluenza dei soldati americani, evidentemente tutti entusiasti all’idea di gustarsi una buona zuppa. Per far fronte alla gran richiesta, mamma doveva alzarsi molto prima dell’alba, non di rado dopo appena un paio d’ore di sonno. Se ne usciva in silenzio dalla porta sul retro, facendo attenzione a non svegliare nessuno e, illuminando il sentiero con una lampada, si avviava al mercato per acquistare gli ingredienti necessari per preparare la zuppa del giorno. Tornava a casa nel tardo pomeriggio o nella prima serata, sbrigava le faccende della fattoria, teneva la contabilità del negozio, procurava di far trovare la biancheria pulita a tutta la famiglia e poi metteva noi bambini a letto. Mamma era impegnata in ogni momento della giornata, ma quei pochi secondi di coccole che riusciva ancora a dedicarmi a notte fonda, quando mi permetteva di coricarmi accanto a lei sul lettone, erano sufficienti a colmare il mio fabbisogno di affetto, a costruire il mio equilibrio emotivo. Per me, la sua bambina che l’adorava, lei rappresentava la sicurezza e la protezione assoluta. Anche mio padre era un cuoco fantastico. Sapeva preparare gustosissime pietanze grigliate su un barbecue improvvisato fatto di argilla essiccata. Preparava la brace con carbonella e accendifuoco, poi adagiava sulla griglia il pesce bianco che aveva appena pescato e lo cuoceva alla perfezione. Mentre il pesce sfrigolava, papà faceva saltare in padella tutte le verdure che gli capitavano sotto mano, dando così un tocco speciale anche ai pasti più frugali. Papà era un uomo affettuoso e la sua mitezza si rifletteva anche nel modo di imporre la disciplina, eppure il nostro rapporto non è mai stato molto confidenziale. Papà dava la prece8


1 – LA GUERRA? QUALE GUERRA?

denza all’attività sempre più fiorente della zupperia di mamma ed era troppo impegnato a giostrarsi tra le richieste più disparate che gli provenivano sia dai Viet-cong sia dai soldati sudvietnamiti: non aveva il tempo di occuparsi di amenità come quella di giocare un po’ con i suoi figli. Poiché papà era una delle persone più facoltose del nostro villaggio, i soldati gli chiedevano, infatti, contributi ben superiori alle loro reali necessità, e quella era per lui una grande preoccupazione. La sua priorità era la sopravvivenza della sua famiglia, un obiettivo che, nonostante tutto, ha raggiunto. Con noi abitava anche il mio prozio, che badava a noi bambini durante l’assenza di papà e mamma. Nelle giornate di bel tempo io mi rintanavo nel mio angolino di lettura, che mi ero ricavata tra gli alberi, a godermi qualche pagina del mio libro preferito: Thế thiên đại thánh (lett. “Il grande santo”, tradotto in inglese con The Monkey King ossia “Il re delle scimmie”, conosciuto in Italia come “Lo Scimmiotto”7). All’ora dei pasti, Prozio mi chiamava a gran voce col nomignolo “Mỹ” (pr. Méi, che significa “bella”), affibbiatomi dalla nonna, per strapparmi alla lettura e avvertirmi che il pranzo era pronto in tavola, dove mi aspettava un bel piatto di riso e di pesce grigliato. Invece di rispondere al suo richiamo, io ridacchiavo e me ne restavo nel mio nascondiglio segreto per sprofondarmi ancora di più nella lettura. Rientrata dal lavoro, la mamma mi sgridava perché mi ero rifiutata di mangiare per tutto il pomeriggio. Ignorava che, in realtà, quasi tutti i giorni mi cibavo dei frutti freschi e deliziosi raccolti in cima al mio albero. Quando lasciavo il mio cantuccio era solitamente per commettere qualche birbonata. I due edifici che sorgevano sul nostro terreno (uno più grande, per ricevere gli ospiti, e l’altro più piccolo, dove abitavamo) erano separati da una 7. Trad. it.: Wu Ch’êng-ên, Lo Scimmiotto, Milano Adelphi, 1971; l’opera completa è raccolta in: Il viaggio in Occidente, a cura di Serafino Balduzzi, Milano, Luni editrice, 2 voll., 2014 (nde).

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corte interna in cemento. Quel cortile era un luogo molto piacevole e rilassante, e dopo pranzo il mio prozio vi si recava a riposare per un paio d’ore su un’amaca. Uno dei miei scherzi preferiti consisteva nell’aspettare, con un sacchetto di sale e un cucchiaio in mano, che Prozio si addormentasse profondamente e iniziasse a russare, dopo di che mi avvicinavo a lui di soppiatto e gli versavo nella bocca aperta una cucchiaiata stracolma di sale. Poi me la davo a gambe il più velocemente possibile, ogni falcata un gridolino di esultanza. Strappato ancora una volta al suo riposino, Prozio mi rincorreva urlando: “Mỹ! Mỹ! Mỹỹỹỹ!” Nelle giornate particolarmente afose, Prozio riposava sull’amaca a torso nudo. Numero 5 ed io prendevamo il tubo della pompa e lo riempivamo di acqua gelida, che facevamo poi gocciolare nell’ombelico del bell’addormentato. Altre grida, altre rincorse, gran divertimento! Alla fine l’afa veniva mitigata da improvvisi e violenti temporali, e fin da quando iniziavano a cadere le prime, benedette, gocce d’acqua mi precipitavo in cortile insieme ai miei fratelli, sorelle e amici: tutti quanti a piedi nudi ad aspettare che la pavimentazione fosse completamente bagnata per divertirci a fare aquaplaning con grandi scivolate, ridendo come dei matti a ogni giro. La mia è stata un’infanzia bella e felice come dovrebbe esserlo per tutti: spensierata, protetta, spassosa, piacevole, abbondante e piena di vita. Non avrei mai potuto immaginare che presto tutto ciò sarebbe svanito in un batter d’occhio. ***

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