La pagina novembre 2007

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Poi ci fu quella storia del piccione Poi ci fu quella storia del piccione a complicare le cose. Avevo portato Chiara al lago per il weekend. Non so voi, ma io odio il lago. È sporco ed appiccicoso e non riesco mai a trovare parcheggio. Chiara invece aveva insistito per settimane, a lei piacciono i posti deprimenti. Insomma eravamo stati al lago ed ora tornavamo verso Milano. La sera prima avevo bevuto troppo, quella domenica allora avevo mal di testa. Per evitare il traffico mi ero buttato per strade secondarie, in mezzo alla campagna. Era tardo pomeriggio, c’era questo bel sole rosso che calava all’orizzonte, il mal di testa e lo stordimento post sbronza, Chiara che parlava al telefono con la sua amica. Cavoli, quanto odio il lago. Non riuscivo a togliermi di dosso il ricordo di tutte quelle mosche. Alla fine Chiara si ricorda di me, mi tiene la mano, in silenzio. Io penso che magari potremmo anche infrattarci da qualche parte, ci sto facendo un pensiero. Mi guardo in giro, faccio finta di niente. C’è questa polvere dappertutto, mi sembra di essere in Pakistan. Una volta devo raccontarvi del Pakistan, ricordatemelo. Ho rischiato grosso quella volta. Insomma, a un certo punto in mezzo alla polvere, mentre cerco un posto riparato, scorgo qualcosa che cade a piombo, pesante. Bum. Mi prende in pieno il cofano, cazzo. Chiara urla, io bestemmio. Mi fermo, faccio posare la polvere, esco. Un piccione. Stecchito. Grigio. Non ci credo, dico a Chiara di scendere.

La bestia è rimbalzata sul cofano e sta di lato della macchina, con gli occhi aperti. Mi ha rigato il cofano con quel suo becco del cazzo. Lo sposto con piede, non è sporco di sangue, niente. Deve essere crepato di morte naturale. Non so se piangere o se ridere. Magari è morto di vecchiaia, o d’infarto. Proprio mentre passavo io con la vernice metallizzata. Sono assicurato contro la grandine, non contro i piccioni stecchiti. Faccio per risalire in macchina. Chiara mi ferma. Dice che non possiamo lasciare la bestia lì, che sicuramente in qualche vita precedente doveva essere un nostro antenato o un amico, o cose del genere. Il fatto che ci sia caduto sulla capoccia deve essere un segno del destino, eccetera. Ha queste idee strane sulla vita, non riesco a farla rinsavire. Dice che dobbiamo portare il piccione a casa e seppellirlo da qualche parte. Prendo il piccione con un foglio di giornale, lo avvolgo e lo metto nel portabagagli. Non vi stupite, ma con lei non è facile discutere, e poi ho sempre il mal di testa che mi stordisce e mi rende arrendevole. Salgo in macchina, parto in mezzo alla polvere. Non ho voglia di parlare.

Arriviamo a casa, metto il piccione nel box, avvolto per bene nei giornali. Domani troverò un posto per seppellirlo. Magari Chiara si accontenterà e mi concederà di

buttarlo nel Naviglio. Andiamo a letto. Non riesco a dormire. Chiara legge uno dei suoi ammorbanti libri borghesi: qualcosa di Terzani, o simili. Poi si addormenta. Io mi rigiro a vuoto. Mi riviene in mente la polvere, la campagna, il piccione che cade proprio mentre voglio infrattarmi con Chiara. Che sia un segno del destino?, mi chiedo. Devo essermi fatto suggestionare dai suoi discorsi da folle. Alle 3 del mattino mi alzo, ho gli occhi che appiccicano e bruciano, mi fanno male le ossa delle gambe. Devo avere

un principio di influenza. Non riesco a dormire, sto un po’ in soggiorno a vedere le pubblicità dei numeri erotici. Poi mi metto la tuta, scendo in garage. Prendo il piccione ed esco di casa. Fuori c’è un bel vento caldo. Faccio qualche centinaio di metri, con il mio fagotto di giornali sotto il braccio, poi mi sporgo sul Naviglio e ci butto dentro il cadavere della bestia. Torno dentro, mi sento più leggero, dormo come un sasso. Il giorno dopo mi alzo all’una. Chiara ha preparato le patate al forno. Le vengono benissimo. I primi appuntamenti a casa sua, me le cucinava sempre. Dopo pranzo torno a dormire. Mi fanno ancora male le ossa. Mi sveglio per cena. Trovo Chiara incazzata in soggiorno. Ha scoperto che il piccione manca all’appello. Cerco di farla ragionare. Quella bestia puzzava, iniziava ad andare in decomposizione. Poteva portare malattie. Tiro fuori anche l’aviaria, neanche me la ricordavo più. Sembra fare effetto. Le dico che il mio mal d’ossa può già essere un sintomo. Le chiedo di venire in camera con me e di dimenticare il piccione. Ci rotoliamo un po’ nel letto. Poi le propongo di uscire per cena. Andiamo in un ristorante giapponese.

Chiara inizia a parlare al terzo bicchiere di vino. Ho buttato via il piccione e questo le ha ricordato quanto sono diverso dalla persona che conosceva. Ero sensibile, affettuoso. Ora sono egoista, cinico. Mi dice che non è sicura che io la ami ancora. Ha paura di essere diventata solo un’altra lettrice delle mie storielle. Ordino un’altra bottiglia di vino, fiuto una brutta aria. Un tempo l’avevo definita la mia unità di misura per l’universo, mi dice. Non ricordo di aver mai detto una cosa del genere, ma annuisco convinto. Ora si sente trascurata, ho anche buttato via il piccione. Aridagli col piccione. Le spiego la mie ragioni. Il lavoro. Il futuro. Eccetera. Lei ricomincia. Mi dice che un tempo le persone per me erano un fine ed ora invece sono solo un mezzo. Eccetera. Capisco che sta per minacciare di lasciarmi. Non gliene do il tempo. Le dico che ho deciso di tornare a vivere da solo. Non è vero, ma voglio vedere come reagisce. Le labbra le diventano bianche, la voce le trema. Capisco di aver vinto, di aver svelato il suo bluff. L’amore è anche questo, penso in silenzio. Siamo veri solamente al primo sguardo che rubiamo alle nostre vite, quando ci incontriamo per la prima volta. Solo in quel momento siamo davvero un fine l’uno per l’altra. Penso al piccione che galleggia nel Naviglio, bevo l’ultimo bicchiere alla sua salute: poi torniamo a casa, di soppiatto dalla luna. E. Bussetti feyeem@gmail.com

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