Parole di caramello - Gonzalo Moure / Maria Girón

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C’era una volta un bambino sordo che amava un dromedario. Il bambino si chiamava Kori, anche se non poteva saperlo perché non sentiva niente.

Vedeva muovere le labbra dei suoi genitori, dei suoi fratelli e di tutti quelli che conosceva, ma non era capace di tradurre quei movimenti in nessun suono. Però vedeva che le loro labbra si aprivano, si arrotondavano, e subito dopo apparivano i denti.

Lui era, pertanto, Labbra rotonde, Bocca allungata: Ko-ri.

Sua madre lo indicava e diceva: – Labbra rotonde, Bocca allungata.

Kori lo capiva così.

Poi sua madre indicava sé stessa e diceva lentamente:

Mahfuda.

Kori leggeva: Labbra unite, Bocca aperta, Denti sopra il labbro, Labbra allungate, Bocca aperta. Per Kori, era quello il nome di sua madre.

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Il piccolo Kori aveva otto anni e viveva a Smara, uno dei campi di rifugiati in cui vivono i saharawi, nel deserto algerino. Nella sua vita aveva visto solo quello, l’hammada: pietre, una distesa di arena infinita, le jaimas, i poveri alloggi di terra cruda, i recinti degli animali, alcuni edifici calcinati più grandi, ad esempio la sua scuola, una bandiera sfilacciata e il cielo.

Nient’altro. Né un po’ d’erba, né un albero all’orizzonte...

In quell’ammasso di jaimas e alloggi di terra cruda vivevano altri bambini, donne e uomini. Ogni tanto passava una macchina, un autobus o un camion. Alcuni camion portavano acqua per i depositi di zinco, altri delle bombole di gas. Di solito le macchine trasportavano uomini seri, che buttavano fumo fuori dalla bocca.

I bambini del quartiere di Kori correvano dietro alle macchine, si aggrappavano ai paraurti, cadevano, ridevano, si rialzavano e ricominciavano a correre. Spesso i bambini lanciavano sassi contro le macchine, che a volte si fermavano e, da queste, scendevano gli uomini seri, molto arrabbiati. Quando vedevano scendere gli uomini seri, i bambini fuggivano.

Kori frequentava una scuola speciale, insieme a bambini diversi come lui dagli altri: bambini ciechi e bambini con lo sguardo perso e la bocca immobile.

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A scuola Kori imparava ad allacciarsi le scarpe, a disegnare gli animali, le macchine, le jaimas e gli uomini.

Fra tutti gli animali che era solito disegnare, ce n’era uno che lo attirava più degli altri: il dromedario.

Kori era affascinato dai dromedari. Gli piacevano i loro movimenti lenti quando gli uomini li portavano in giro grazie a un cordino legato a un anello infilato nel naso.

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Era meravigliato dalla serenità con cui sopportavano la loro reclusione nei piccoli recinti. Rimaneva sbalordito dalla loro enorme altezza, dalla grande gobba e dalla testa inclinata, quasi appesa al lungo collo.

Quando li vedeva, Kori immaginava la vita nel deserto e sognava a occhi aperti di montarne uno, come aveva visto fare diverse volte ad altri bambini più fortunati di lui.

Kori disegnava continuamente dromedari nel suo quaderno, e quando tornava a casa si fermava ai recinti del campo per vedere i dromedari in carne e ossa.

Kori credeva che anche i dromedari parlassero, perché muovevano le labbra come le persone. Kori non sapeva che il dromedario prima ingoia tutto ciò che può entrare nel suo stomaco, poi lo rigurgita in bocca e infine lo rumina piano piano. Il movimento delle mandibole e delle labbra durante la ruminazione faceva credere a Kori che i dromedari dicessero delle parole.

I recinti dei campi di rifugiati erano costruiti con reti e vecchie barre metalliche, lamiere e pelli di dromedari morti. Nel deserto non c’è legno, e quel poco che c’è viene bruciato a pezzettini in fornellini su cui si prepara il tè, o per fare dei fuochi più grandi e cucinare i pasti o cuocere il pane.

Nella maggior parte dei recinti c’erano delle capre: nere, fulve, bianche, bianche e nere, bianche e fulve.

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Alcune erano grandi e avevano delle corna enormi, altre erano piccole: sono bambini di capra, pensava Kori. Però, se avvicinava le mani al recinto, le capre scappavano o cercavano di morderlo. Per questo preferiva i dromedari, che rimanevano fermi e, secondo Kori, parlavano come le persone.

Kori passava spesso da un recinto in cui c’era una grande dromedaria. La dromedaria apparteneva ai suoi zii, che vivevano vicini ai recinti. Kori andava a vederla quasi tutti i giorni e aiutava sua zia a darle da mangiare. Poi, mentre la zia la mungeva, stava attentissimo a tutto e guardava zampillare lo spruzzo bianco nella ciotola di metallo.

Quando sua zia se ne andava, lui faceva finta di nulla per restare da solo con la dromedaria, le si avvicinava e cercava di parlarci. La dromedaria guardava Kori con aria altezzosa e muoveva le labbra.

Cosa gli diceva la dromedaria? Il piccolo sapeva che la gente parlava così, muovendo le labbra, ma lui non la capiva, e non capiva nemmeno i dromedari. Kori muoveva le labbra pensando a cose come «Mi piace la tua grande gobba», o «Vuoi da mangiare?», o «Mi piace il latte di dromedaria». Ma la dromedaria muoveva le sue labbra e Kori non capiva ciò che gli rispondeva.

La dromedaria era molto grassa. Sua zia le portava più cibo che mai, e la dromedaria continuava a ingrassare.

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Un pomeriggio, quando Kori tornava da scuola, la dromedaria aveva accanto un piccolo dromedario color caramello.

E adesso la dromedaria era di nuovo magra.

Kori aveva visto accadere la stessa cosa a sua madre per due volte. Prima era ingrassata sempre di più, poi un giorno la sua pancia era ritornata normale e aveva un bambino accanto. Erano apparsi così, come per magia, i fratelli minori di Kori.

Kori pensò che era successa la stessa cosa alla dromedaria: aveva avuto un bambino. Un bambino di dromedario. Un dromedario appena nato si chiama, nella lingua dei saharawi, huar, ma Kori non poteva saperlo.

Sua zia era nel recinto con la dromedaria e suo figlio, l’huar. Indicò il piccolo dromedario e disse qualcosa a Kori. Lui sorrise. Gli piaceva molto il nuovo dromedario color caramello. Era goffo, si reggeva a malapena sulle zampe lunghe e deboli. E il suo pelo sembrava morbido, veniva voglia di accarezzarlo.

L’huar cercava le mammelle di sua madre e le si infilava sotto la pancia. Ogni tanto la madre gli leccava il muso.

Kori rideva tutto contento. La zia di Kori indicò di nuovo l’ huar e chiese al bambino, alzando la mano, cosa ne pensasse. Kori annuì con entusiasmo. Voleva dire che gli piaceva, che gli piaceva molto.

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Apriva gli occhi più che poteva, come se volesse assorbire l’ huar attraverso di essi.

Sua zia fece passare Kori nel recinto insieme a lei per fargli accarezzare il dromedario. Tenne ferma la dromedaria, e Kori poté avvicinarsi a suo figlio. Il piccolo animale lo guardò e mosse le labbra.

Kori capì: Labbra rotonde, Bocca allungata, ovvero Kori.

«Sa come mi chiamo!», pensò Kori.

Lo indicò e alzò le dita di una mano. Voleva dirgli: «E tu, come ti chiami?».

Il piccolo dromedario continuò a muovere le labbra e Kori capì: Labbra aperte, Labbra chiuse, Labbra aperte, Labbra chiuse...

Kori rise di nuovo e passò la mano sulla testa del piccolo. Gli sembrò morbida e tiepida.

Nella sua mente, Kori chiamò l’huar Caramello. Il suo colore e la sua dolcezza gli ricordavano quella cosa incartata in foglietti lucidi che si scioglie in bocca e ha un sapore dolce.

«Ti chiamerò Caramello», pensò mentre muoveva le sue labbra mute.

L’huar guardò Kori con dolcezza. Kori pensò che quel nome gli piacesse. Da quel momento iniziarono a volersi bene.

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Kori andava a trovare Caramello tutti i giorni, senza saltarne nemmeno uno. Trascorreva i pomeriggi con lui, accanto al recinto, anche se faceva molto caldo, anche se tirava vento, e persino durante le terribili tempeste di sabbia che erano solite sferzare il campo di rifugiati.

Per Kori, Caramello era l’amico che non aveva mai avuto. Con lui cercava di fare ciò che credeva facessero gli altri: pensava a ciò che avrebbe detto, muoveva le labbra per comunicare quei pensieri a Caramello, e Caramello rispondeva muovendo le sue.

All’inizio faceva fatica a capire ciò che gli diceva l’huar, però, un po’ alla volta, ci riuscì.

Kori cercava di leggere le sue labbra, e credeva che Caramello gli parlasse del deserto, di quanto gli sarebbe piaciuto essere lì, dove c’era erba verde ovunque, e centinaia di dromedari, e falò accanto alle jaimas, e altri huars con cui giocare.

Tutto questo, diceva Caramello a Kori, glielo aveva raccontato sua madre.

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La madre di Caramello aveva vissuto molti anni nel deserto in un branco di più di quaranta dromedari, e insieme avevano percorso molti chilometri, molti, insieme a uomini, donne e bambini, trasferendo il campo e seguendo le piogge, che significavano pascoli più abbondanti.

Caramello lo raccontava a Kori con frasi meravigliose, con descrizioni che facevano sognare il bambino e lo facevano pensare a parole dolci, parole di Caramello.

Kori non sapeva che cosa era una poesia. I saharawi amano la poesia, e si recitano a vicenda poesie bellissime. Ma Kori era sordo e non poteva sentirle. Nella sua mente, la parola «poesia» non esisteva nemmeno, perché nella sua mente non esistevano le parole. Solo le idee. Nella sua immaginazione, tuttavia, sentiva dire a Caramello:

Gli uomini seri del cielo quando la notte scende accendono lanterne fulgide di gelo.

Alcuni bambini della scuola speciale frequentata ogni giorno da Kori imparavano a...

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