LETTER TO MILAN

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Bisogna conoscere la tua storia, per amarti GIULIANA NUVOLI Accademica, saggista

gli astanti… In nome di Lucifero, quanta gioia assaporai! Aggiungo che mi sentii molto deluso da te e dalla tua troppo debole reazione dinanzi all’inspiegabile indolenza di chi, per ragioni d’ufficio, avrebbe dovuto arrestare, catturare, punire con severità esemplare coloro che sequestrarono e uccisero per sudici fini di lucro, e con bestiale ferocia, Cristina Mazzotti, Emanuele Riboli, Giovanni Stucchi; coloro che avrebbero dovuto mettere in gattabuia gli assassini di Sergio Ramelli, del resto giovinastri ben noti, ma “protetti” da parentele altolocate. Ma sì, cara Milano, in quegli anni certi custodi della “morale” s’indignavano per il solito “falso in bilancio”, ma si voltavano da un’altra parte quando avveniva uno stupro, una rapina con o senza omicidio. Io, scrivendo su questo o quel mensile o settimanale (ai direttori di quotidiani che nella tua area si stampano, ero e sono antipatico), intervenivo sempre: urlavo, accusavo, denunciavo. Esito: il solito muro di gomma. Ma tu, cara e amatissima Milano, perché reagivi così debolmente, o non reagivi affatto? Perché non ti facevi sentire in coro, e lasciavi me come solista, sfiatato per il troppo gridare? E che dire di un episodio abominevole? Era tuo sindaco colui il cui nome, tradotto in portoghese-brasileiro, suonerebbe Caridoso do Campanario, e, tradotto pezzo per pezzo in tedesco, sarebbe Unterdorthinterteil von Hängendenturmsradt zu Fromm. In quelle settimane, il Dalai Lama stava viaggiando per l’Europa, per rammentare l’esistenza di una nazione libera, il Tibet, distrutta e asservita da una gigantesca potenza esterna. Lui, come tanti tibetani, in esilio. Oh, sì: anche quel sindaco lo aveva invitato a Milano. Ma bastò che il console del gigante politico-militare-economico andasse da don Caridoso per fargli capire che la presenza del Dalai Lama avrebbe suscitato “disordini” in città in quanto i nativi del gigante politico eccetera si sarebbero sentiti “offesi” (ma quando mai! quei nativi, fossero quelli di via Paolo Sarpi o di zona Canova, se ne fregavano del Dalai Lama, intenti com’erano, nei loro negozietti soltanto al guadagno duro e puro), ed ecco che Herr Unterdorthinterteil cedette alle larvatissime e soavi minacce, e immediatamente “disinvitò” il Dalai Lama. Per Lucifero, che figura facesti tu allora, Milano!!! Perché non ti esprimesti con una ribellione di massa? Perché non proteggesti la tua buona immagine? Perché lasciasti, come al solito, me solo a gridare, scrivere al vento, fremere d’istinti omicidi? D’ora in poi ti osservo, carissima Milano, ti controllo e ti tengo d’occhio. Ti prego, non guastare, non demolire la fiducia, l’affetto e la gratitudine nei tuoi confronti che conservo in me. Sei ancora in tempo.

Cara Milano, città madre e città matrigna. Ero giovanissima, quando arrivai, con un bambino di sette mesi e una profonda nostalgia della mia Toscana. Non ti ho amata da subito: avvertivo incombere su di te, dopo secoli, la Controriforma dei Borromeo e una diffidenza pesante nei rapporti umani. Non ti ho amata da subito: abituata al riso, vedevo labbra stirate in patetiche smorfie e una incoercibile resistenza a prendersi in giro. Ti ho amata nel tempo, in oltre quarant’anni di vita nel cuore pulsante dei tuoi spazi, in quella Zona 1 (detta ora con solennità Municipio) dove c’era tutto: l’Università degli Studi, l’Università Cattolica, la Braidense, la Sormani… e casa mia. Da via De Amicis alla Statale la strada era diretta: un semiarco senza deviazioni, che passava per la Ca’ de’ Fabbri, le Colonne e San Lorenzo, Sant’Eustorgio, un vecchio caseggiato in Molino delle Armi, il monastero di Santa Maria della Visitazione in Santa Sofia, per arrivare alla Ca’ Granda, presa da dietro, dirimpetto al Policlinico. Camminavo sui Navigli, quelli che si portavano via i cadaveri dalla Ca’ Granda e che lambivano i palazzi signorili di Francesco Sforza e Visconti di Modrone. Quei Navigli che avevano visto le impiccagioni di piazza Vetra, e le piaghe degli orfanelli usati dai conciatori per non morire anch’essi avvelenati. Zona di ladri e di puttane, fra Scaldasole e Cicco Simonetta; memore della tortura del Moro e dei colpi incalzanti dei fabbri. Milano, eri lì, con la tua storia, le tue pompe e le tue miserie. Eri lì, antica sede di imperatori e di un vescovo Ambrogio che Agostino chiamava rigator et plantator meus: già grande quando Roma stava morendo. Eri lì con i resti della distruzione del Barbarossa, e quelli fastosi dei Visconti e degli Sforza: tutto mescolato, tutto sovrapposto, tutto amalgamato.

Il tuo fedele Quirino Principe Una città strana, al centro dell’Europa, a cui tutto arrivava, e arriva: dalle ombre lunghe dell’Artico e dal sole caldo dell’Africa. Con pari forza e pari capacità di assorbimento. E qualunque cosa giunga tu sei sempre lì, uguale a te stessa: cambi vestito per le feste ma, anche per i giorni di lavoro, hai un guardaroba da invidia. Mai fuori posto. 122 | Lettera a Milano

Lettera a Milano | 123


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