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Jacopo Fo Sono cresciuto a risotto e racconti
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
Ventisei indirizzi a Milano
AMBROGIO BORSANI
Scrittore e creativo
Cara Milano, mi ricordo bene di te, delle strade piene, dei negozi aperti, dei portoni chiusi, quando appena sbarcato dalla provincia giravo a vuoto. I primi tempi eri sospettosa, ma dopo aver visto che sbandavo, battevo i denti, tossivo, tiravo qualche moccolo di impazienza e però ero un ragazzo di buona volontà, cominciasti a slacciare i bottoni della camicetta.
Appena arrivato il mio primo indirizzo fu via della Braida, una stradina pedonale che ora si trova in centro, a pochi metri da Porta Romana, ma un tempo doveva essere periferia dato che “braida” anticamente significava prato. Negli anni Sessanta lì cominciai a frequentare una scuola di giornalismo che mi introdusse nel mondo della pubblicità. Via Braida portò numerose offerte di lavoro e dovetti seguire il percorso di una involontaria carriera di slogan mentre sognavo di fare libri. In editoria non mi voleva nessuno, in pubblicità mi volevano tutti. Consumai 15 indirizzi legati a 15 agenzie di pubblicità. Prima largo Quinto Alpini, poi via Puccini, via Fatebenefratelli, via Leopardi, piazza del Carmine, piazza Erculea, via Carducci 12, via Pasquale Paoli, via Appiani, corso Europa, via Borgonuovo, corso Garibaldi, via Lovanio, via Durini, via Monti.
Poi un percorso editoriale mi portò in largo Treves, via Vittorio Veneto, via Battaglia, largo Richini. Contemporaneamente c’era stato un percorso da docente iniziato in piazza Diaz, proseguito in via Noto, via Brera e via Poerio. Questo mio sregolato nomadismo professionale mi ha portato a entrare in confidenza con molti quartieri. Ascoltavo il tuo cuore, città, in ogni zona trovavo qualche angolo che valeva la pena di essere amato. I cortili, le insegne, i portoni, le portinaie, i bar, le latterie, i gatti, i barboni, i manager, le puttane, i caffè, le ragazze perbene, i ristoranti, le librerie, i cinema, le bancarelle, quando a Milano erano numerose.
Ho abitato prima in un sottotetto di via Carducci 4, poi in via Lanzone, ora sto in via Orti, che fa angolo con via della Braida. Arrivato al ventiseiesimo indirizzo il cerchio si è compiuto. Sono tornato alla casella di partenza. Non so se farò un nuovo giro dell’Oca. Cara Milano, se all’inizio facevi un po’ la smorfiosa, poi ti sei spogliata e sei venuta a letto nuda con me. Sono cose che non si dimenticano.
Via degli Orti è un villaggio nella città, mantiene ancora un profilo familiare, anche se le agenzie immobiliari lavorano per aumentare la popolazione signorile e diminuire quella storica. La strada si è riempita di ristoranti, attualmente sono 12 in 300 metri. Più una gelateria, una pasticceria, 3 bar. Un posto di ristoro ogni 20 metri. Ma rimane una via straordinaria, unica. Al numero 19, dove ora abito e tengo il mio ufficio, negli anni Cinquanta si era installata una colonia marchigiana, Giò Pomodoro, Arnaldo Pomodoro e Giulio Cingoli, più vari ospiti loro compatrioti di passaggio. Quando sono arrivato io, negli anni Novanta, i due Pomodoro avevano già cambiato indirizzo da tempo, mentre Giulio Cingoli abitava sotto casa mia. Era lui il vero protagonista del 19, fedele fino alla morte. Personaggio eclettico, cartoonist, regista, produttore, affabulatore. Arrivato da Ancona negli anni Cinquanta Cingoli riuscì con la fantasia dei suoi disegni a farsi assumere in Rai. Sono sue molte sigle di programmi televisivi di quegli anni. Aveva creato Caroselli per Cinzano, Lambretta, calze Sisi, tovaglie Zucchi, Raid, Pagine Gialle e molti altri prodotti. Aveva fondato una casa di produzione, la Orti Film, che negli anni Sessanta raccoglieva l’underground italiano e molti bravi disegnatori. Arrivò a 75 anni a firmare il suo unico lungometraggio come regista e disegnatore, Juan Padan, tratto da un racconto del suo amico Dario Fo.
In via Orti c’era la sezione del Pci Carlo Marx, ora ha cambiato nome. Cingoli ogni mattina alle 6 andava a prendere L’Unità e la attaccava sul pannello appeso fuori dalla sezione. Molta gente si fermava a leggere il giornale e io volentieri scendevo dal marciapiede per non disturbare i lettori di strada. Negli anni Sessanta anche Miuccia Prada, che abitava in Porta Romana, frequentava la sezione del Pci Carlo Marx, raccontava Cingoli. Quando saliva da noi a prendere il caffè Giulio era un torrente vorticoso di storie, di figure della Milano anni Cinquanta e Sessanta, della Rai. Se ne è andato nel 2017 lasciando un grande vuoto in via Orti.
Nel cortile del 19 c’è un loft dove ha avuto il suo studio Gastone Novelli, artista eclettico nato a Vienna nel 1925 da padre italiano e madre austriaca. A 18 anni si era unito ai partigiani ed era stato condannato a morte. La pena poi era stata commutata in carcere a vita grazie a un intervento della madre, Margherita Mayer von Ketchendorf, nobildonna austriaca. Nel 1948 Novelli si trasferì in Brasile. Nel 1955 tornò definitivamente in Italia dove si unì a gruppi di avanguardia, Emilio Vedova, Piero Dorazio, Cy Twombly.
Era molto legato anche al mondo della letteratura, Emilio Villa, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani. Espose in importanti gallerie e alla Biennale del 1968, quando scrisse su una tela: “La Biennale è fascista”. Si trasferì nel loft di via Orti 19 dove nel dicembre 1968 venne colto da malore. Portato in ospedale morì per una complicazione chirurgica.
Il loft in seguito venne occupato da Adrian Hamilton, un fotografo inglese che aveva fatto qualche foto per le mie campagne pubblicitarie. Negli anni Settanta c’era un altro fotografo inglese molto famoso chiamato David Hamilton, faceva foto erotiche di adolescenti con effetto flou. Era la disperazione di Adrian, quando lo costringevano a tirare fuori il suo cognome tutti dicevano: «Ah, Hamilton, ho visto le sue ragazzine sui giornali». Ogni volta lui sbottava stizzito: «Io sono Adrian Hamilton e vivo a Milano, non sono David di Londra».
Rimase diversi anni nel loft. Dopo di lui arrivò una stilista giapponese che disegnava borse. Non scambiò mai una parola con la gente del cortile. Non si sa nemmeno se avesse il dono della parola. Nel 1980 Ugo
Carrega portò qui al numero 16 il suo “Mercato del Sale”, che era nato in via Borgonuovo. Uno spazio per mostre dedicate alla poesia visiva e alla sperimentazione dei linguaggi, raccoglieva figure delle Avanguardie e pubblicava libri d’artista ora molto ricercati dai collezionisti.
Al numero 7 c’era un restauratore di mobili, il Fabris, che ogni giorno di primo pomeriggio usciva dal portone su una bicicletta. Tornava alle sei col portapacchi pieno di libri. Nel loft che aveva in cortile lo spazio per il restauro dei mobili occupava trenta metri quadrati, gli altri cento erano coperti da cataste di libri che arrivavano al soffitto. Se ne è andato qualche anno fa e ora il figlio Andrea gestisce su Amazon un patrimonio di 40.000 libri.
Negli anni Novanta c’è stata la libreria per ragazzi di Jacopo Cipriani, dove adesso ci sono le fantasie varie di Ciasmo. Poi è arrivato il negozietto di libri, quadri e sorprese di Marco Gramigni. Il comitato di quartiere ha installato all’incrocio con Porta Romana una vetrinetta montata su un palo per il Book Crossing, un’iniziativa straordinaria a cui ogni quartiere dovrebbe aderire. Ora proprio qui al 19 Fabio Accardi ci ha portato la libreria Punto Einaudi, un vero miracolo letterario. E quindi la Orti non offre solo cibo per la pancia.
Cara Milano, sei diventata importante, hai aumentato le proposte culturali di mostre, teatri, concerti, eventi. Speriamo che non ti monti la testa perché io ti amo così come sei. Non ti ho mai tradito, se qualche volta ho flirtato con Roma Bangkok Napoli o New York, sappi che erano scappatelle, lo facevo solo per togliermi di dosso l’infamia della monogamia. Come città non ho amato che te.
Tuo affezionatissimo, Ambrogio Borsani.
Particolare, Veduta Milano, 2017, olio su tela, 103×85 cm.
Alle pagine seguenti: Velasca, via Larga, Milano, 2017, olio su tela, 172×143 cm.
