It's different aprile maggio 2014

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It’s Different magazine edizioni Mille srl anno 5 n.33 aprile/maggio 2014. free press Autorizzazione Tribunale di Ravenna n.1329 del 05/05/2009 - itsdifferent.it

IT’S DIFFERENT 33/2014




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www.itsdifferent.it/net Edizioni Mille srl info@itsdifferent.it n.33. aprile/maggio 2014 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Enrico Piraccini (enricopiraccini@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Claudio Notturni FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto

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di Elisa Gentilini Spogliarsi… non solo dai giubbotti invernali, dalle felpe, dalle maniche lunghe, dalle scarpe chiuse, ma piuttosto dai ritmi, dalle scadenze, dalle proprie abitudini, dalla preoccupazione del “devo andare, devo fare, sono in ritardo” … Spogliarsi da tutto ciò che si è abitualmente, dimenticare per un po’ i ruoli che indossiamo ogni giorno e diventare altro da se stessi, per riscoprirsi… forse per provare gioia nel respirare emozioni di vita nuova. E’ questo il rischio che si può correre affondando nella sabbia i piedi nudi: ci si può sentire liberi, nuovi, diversi. Le Seychelles non sono una destinazione “solo mare”. Anzi direi che ancora più belli del mare sono la natura, i paesaggi e le persone che le popolano. Si respira gioia di vivere, forse perché ovunque ci si giri c’è sempre qualcuno che ti rivolge un sorriso e un saluto. Probabilmente questa disponibilità verso gli altri dipende dalla consapevolezza di vivere in Paradiso… come potrebbero non esserne felici?! Decidendo di visitare queste isole meravigliose, bisogna evitare di farlo come turisti e cercare invece di esplorarle come dei “viaggiatori”. E’ bello dedicarsi del tempo per camminare, per osservare i fiori, le piante, gli uccelli, le rocce. Il segreto è cercare di gustare il più possibile la natura generosa di questi luoghi, di entrare in contatto con i locali, cosa peraltro facilissima, data la loro disponibilità e, soprattutto, cercare di visitare più isole possibili, almeno le tre principali: Mahè, Praslin e La Digue. Ognuna di esse ha delle caratteristiche proprie, che la differenziano completamente dalle altre. La durata ideale per un soggiorno in questi luoghi è probabilmente di due settimane, in modo da poter dedicare più giorni ad ogni isola e relative escursioni. Bisogna esplorarle passeggiando, andando in bicicletta e utilizzando i mezzi locali, tutte cose che permettono di entrare in sintonia con ciò che c’è attorno. In questo modo, noi abbiamo assaporato ogni spiaggia e tanti angoli meno battuti e meno turistici delle varie isole, gustandoci paesaggi diversi e bellissimi. Abbiamo nuotato tra le tartarughe marine, i pesci multicolori, le mante e gli squali, abbiamo accarezzato le tartarughe giganti di terra che mangiavano foglie dalle nostre mani, per nulla intimorite dalla nostra presenza. A colazione non eravamo mai soli perché gli uccellini arrivavano cinguettanti ai nostri piedi, come per reclamare la loro razione di briciole. I gechi la sera facevano sentire la loro voce dagli angoli della camera e i ragni giganti ornavano il giardino con le loro tele. Abbiamo rubato alle palme le loro noci di cocco per berne il succo e gustarne la polpa, e abbiamo ascoltato il rumore delle onde per ore, lasciando che diventasse la colonna sonora della nostra vacanza.


Le Seychelles sono questo: un luogo dove gli uomini, le piante e gli animali convivono in armonia. Giunti all’aeroporto di Mahè, ci trasferiamo subito con un volo domestico a quello di Praslin (€ 75 a persona). Sorvoliamo varie isole circondate da un mare bellissimo e in un quarto d’ora arriviamo a destinazione. Dedicheremo invece a Mahè gli ultimi due giorni della nostra vacanza. Praslin è stata forse l’isola che ci ha conquistato di più. E’ un compromesso tra l’isola più grande, Mahè, più motorizzata, più “moderna”, e la più piccola La Digue, dove le auto in circolazione sono ancora pochissime e dove si pedala tra un’altalena continua di discese e salite. Praslin è un’isola in fiore o per meglio dire è l’isola delle piante giganti. Ci sono decine di qualità di palme ad ornarne le strade e la famosa Vallé de Mai è a ragione definita una preziosa rarità che merita sicuramente una visita. E’ lì che si può vedere il particolarissimo Cocò de Mer nella sua forma maschile e femminile ed ovunque foglie giganti che riempiono gli occhi di verde, come fossero una pioggia di smeraldi… Il biglietto d’ingresso ha forse un costo un po’ esagerato (€ 15 a persona), ma ne vale la pena, se si pensa che serviranno per la conservazione del parco e della sua flora. Le spiagge di Praslin sono bellissime. Le più famose, come Anse Lazio, Anse Georgette ed Anse Volbert sono naturalmente anche quelle più turistiche. La maggior parte degli alberghi si trova nella zona dell’isola detta Cote d’Or, quella di Anse Volbert, una lunghissima spiaggia bianca, come di borotalco, con un bellissimo mare color turchese.


Le acque in questo tratto di costa sono particolarmente calme e facilmente balneabili, addirittura piacevolmente calde. Di fronte ad Anse Volbert lo sguardo spazia sull’isolotto di St. Pierre, famoso per lo snorkeling e sulla più lontana e bellissima Curieuse, isola delle tartarughe di terra. E’ facile organizzare un’escursione in questi luoghi: infatti, sulla spiaggia si trovano diversi TAXI BOAT che accompagnano i turisti e li vanno a riprendere all’orario stabilito. Uno di questi taxi è di Jim, un rasta man molto simpatico, che ha la sua barca dai colori jamaicani proprio di fronte al Bejaria hotel… E’ sufficiente chiedere di lui, perché sulla spiaggia lo conoscono tutti. Il prezzo normale per questa escursione si aggira sui 25 € a persona, più i 10 € che si pagano direttamente a Curieuse come tassa d’ingresso al parco delle tartarughe. St. Pierre è poco più di un insieme di scogli, davvero minuscolo, e nelle sue acque si possono vedere un sacco di pesci colorati. Bisogna però prestare attenzione alle forti correnti che tendono a portare al largo. Il consiglio è di dedicare un’oretta a St. Pierre e di restare invece più possibile a Curieuse, dove ci sono delle belle spiagge e il mare è più tranquillo. Appena si sbarca sull’isola, s’incontrano subito le enorme tartarughe che “pascolano” tranquille, vicine alla spiaggia. Ce ne sono molte ed ognuna è ben felice di ricevere qualche foglia dalle mani dei turisti. Bellissimi i piccoli, che ora sono protetti in un recinto appartato perché, a quanto pare, i turisti li rubavano nascondendoli nelle borse! E’ impossibile lasciare Curieuse senza aver dedicato loro almeno mezz’ora e senza aver scattato qualche foto a questi animali caratteristici dell’isola. Bella anche la passeggiata tra le mangrovie, che collega un lato all’altro dell’isola: nel sentiero (1,7 Km) s’ incontrano granchi rossi giganti che scavano enormi buchi nel terreno. Raggiunto l’altro versante, ci si può riposare dalla camminata su una spiaggia bianchissima e ci si può rinfrescare in un mare dall’azzurro accecante. Unico neo: arrivano gruppi di turisti in massa, che sull’isola si gustano grigliate di pesce organizzate dalle agenzie locali, e la sensazione di “naufraghi” sull’isola deserta finisce in fretta. A Praslin ci è piaciuta molto Anse Georgette, la famosa spiaggia che si trova all’interno del Lemuria perché non è grandissima e ci ha trasmesso una sensazione piacevole di intimità, dato che c’erano pochissime persone oltre a noi. Il mare purtroppo era mosso, quindi lo snorkeling non è stato possibile.

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E’ necessario ottenere l’autorizzazione per essere ammessi, altrimenti la guardia che si trova all’entrata non può lasciare passare. Abbiamo visto una coppia che è stata costretta ad andarsene perché i loro nomi non erano nella lista. Solitamente basta chiedere al proprio albergo di farsi annunciare, oppure mandare una mail all’indirizzo del resort, meglio se con diversi giorni di anticipo, perché sono piuttosto lenti nel rispondere ( resa@lemuriaresort.com ). Anse Lazio è invece molto più grande e molto più affollata. Se ci si sposta in bus, bisogna percorrere l’ultimo tratto a piedi per raggiungere questa spiaggia… meglio non dimenticarsi mai l’acqua perché con tutte le salite, le discese e soprattutto il tasso di umidità dell’aria è veramente indispensabile! Sugli alberi prima di arrivare ad Anse Lazio, abbiamo visto numerosi pipistrelli giganti che contrariamente ai loro piccoli parenti notturni, svolazzano tranquillamente anche di giorno. Date le dimensioni sembrerebbero falchi piuttosto che pipistrelli! La spiaggia è corollata da vari massi granitici che spiccano sulla sabbia bianca ed è meglio arrivare al mattino presto per sistemarsi nelle posizioni migliori, considerando che nel primo pomeriggio il mare “mangia” gran parte della spiaggia, data l’alta marea. Anche qui il mare s’infrangeva con violenti onde e spuma bianca, rendendo impossibile lo snorkeling, ma facendo divertire non poco i presenti. Se da Anse Lazio si vuole percorrere una lunga passeggiata panoramica che va in direzione del Lemuria, bisogna dirigersi verso l’ultima baietta sulla sinistra e proseguire verso l’alto. E’ un sentiero di circa quarantacinque minuti, per gran parte in salita, che offre splendide vedute della baia dall’alto e si snoda tra una vegetazione molto bella. A noi è piaciuta molto anche Grand Anse, che normalmente viene un po’ “snobbata”. E’ vero che il mare è meno bello rispetto all’altro versante dell’isola, ma la spiaggia tutta orlata di palme e di vegetazione fittissima è veramente splendida, specialmente al tramonto, quando il colore della sabbia non è più così accecante, ma assume colorazioni più rosee… una poesia. Scoprire Praslin in bus è stato divertente, semplice, economico e fattibilissimo.


Gli autobus non sono solo puntuali, anzi generalmente sono in anticipo! Quindi è meglio essere sempre alla fermata dieci minuti prima per non rischiare di perderli! La cifra che si paga per una corsa, qualunque sia la destinazione, è di tre rupie a persona… circa venti centesimi di euro. Ritengo che il noleggio di un’auto a Praslin sia piuttosto superfluo, se si hanno abbastanza giorni e tempo per girarla; al contrario se i tempi sono ridotti credo che sia la soluzione migliore per essere più indipendenti. Dopo aver esplorato tutte le bellezze di Praslin, ci siamo spostati con il traghetto a La Digue. Una volta giunti al porto nella Baia di St. Anne, abbiamo avuto la sensazione che la prima parte di vacanza si fosse conclusa e siamo tristi nel lasciare questa bellissima isola e le persone speciali che abbiamo conosciuto. I traghetti si sono dimostrati efficienti e puntuali e abbiamo comprato un biglietto di andata e ritorno al prezzo di 20€ a testa. (www.seychelles.net/iif). Non sono necessarie le prenotazioni. Arrivando a La Digue ci si rende subito conto di essere sbarcati su un’isola diversa dalla precedente. Sebbene al porto ci siano diversi mezzi a motore in attesa dei turisti, si nota subito che a prevalere sono le famose biciclette, con cui anche noi familiarizziamo immediatamente. Diciamo che in tre ore di pedalata vediamo già una buona metà, forse i tre quarti dell’isola, ma dopo questa prima visione panoramica utilizzeremo i giorni successivi per scoprirne gli angoli più interessanti. Anche qui dobbiamo tristemente notare che le spiagge balneabili sono veramente pochissime, anzi praticamente solo una: la famosa spiaggia Anse Source d’Argent. Le altre purtroppo sono tutte soggette al fenomeno delle maree, quindi per gran parte della giornata l’acqua è talmente bassa da non poter nuotare, ma solo bagnarsi, oppure al contrario il mare è molto mosso e con forti correnti. Credo che nell’immaginario collettivo il mare delle Seychelles sia un po’ diverso: più calmo, più balenabile, più accogliente… Lo era anche nel nostro, ma ci siamo dovuti ricredere un po’. Gli spettacolari paesaggi compensano comunque questi limiti, che oltretutto variano sicuramente di stagione in stagione e non sono pertanto fattori costanti, così come non lo sono le maree, le alghe, le correnti. Anse Source d’Argent è davvero bella, unica nel suo genere con questi enormi massi granitici che sono come la cornice ad un quadro d’autore. E’ l’unica spiaggia in cui sia obbligatorio pagare un biglietto per accedere: € 4 a persona, o $ 5.

Nei giorni trascorsi a La Digue la visitiamo due volte (conservando i biglietti, il terzo ingresso è gratuito) e ci accorgiamo subito di come la spiaggia cambi aspetto durante i vari momenti della giornata, soprattutto a dipendenza della luce del sole e delle maree. Indimenticabile il tramonto che tinge di arancio, rosso e oro gli imponenti massi granitici… Belle anche Anse Severe, Anse Patate e tutta la costa orientale, da esplorare almeno in bicicletta. Ogni tanto capita d’incontrare a spasso per l’isola qualche tartaruga gigante che mangia foglie ai lati della strada! Ci hanno colpito molto anche le belle Grand Anse, Petite Anse ed Anse Cocò, tutte battute da un mare piuttosto furioso e da correnti molto forti. Per raggiungere Petit Anse e Anse Cocò, bisogna stare attenti ad imboccare il sentiero giusto perché le indicazioni scarseggiano ed è facile sbagliare, trovandosi com’è capitato a noi, ad arrivare altrove, dove si prosegue solo tra sterpaglie e fango! Diciamo che il colpo d’occhio su Anse Cocò merita comunque la scarpinata e la fatica, poi ripagate con un succo di mango fresco al Lautier Cocò, ristorantino sulla spiaggia che offre dei buoni buffet. Il problema di La Digue è che è veramente piccola e le spiagge balneabili di cui si può usufruire sono relativamente poche, causa maree o al contrario onde molto forti. Per questa ragione, abbiamo accorciato il nostro presunto soggiorno di una settimana a quattro giorni, ritenendoli sufficienti e preferendo tornare a Praslin dove avevamo più possibilità di scelta. Imperdibili a La Digue sono senza dubbio le escursioni alle isole vicine: Grande Soeur, Petite Soeur, Cocò e Felicité. E’ facile organizzare un’escursione verso queste mete, in quanto non solo le agenzie locali le propongono sempre, ma anche gli stessi pescatori del porto di La Passe accompagnano volentieri i turisti. A noi è proprio capitata la fortuna di uscire in barca con loro ed è stata un’esperienza molto particolare in quanto mentre ci dirigevamo verso le isolette, loro pescavano.


Un bonito dietro l’altro: bastava buttare in acqua una lenza con attaccato un pezzo di plastica colorata e i pesci abboccavano in un attimo. Dato che lo spettacolo dei pesci agonizzanti non mi lasciava indifferente, i pescatori li tramortivano con un pugno in testa e le povere bestiole smettevano di dimenarsi e ci guardavano a bocca aperta e occhi sbarrati. Se il mio stomaco non era quindi stato turbato dal mare, beh… lo è stato un po’ da questo metodo di pesca! Raggiunte le isole, ci s’immerge in un acquario, dove lo spettacolo è a dir poco meraviglioso. Avevo sempre sognato di nuotare accanto ad una tartaruga marina e qui il sogno è divenuto più che realtà, perché ovunque guardassimo era pieno di tartarughe che nuotavano vicino a noi o sotto di noi… un’emozione unica, indescrivibile! Non sembrano spaventate dall’uomo, anzi alcune si lasciano prendere facilmente dai pescatori, perché sanno che generalmente dopo esser state mostrate ai turisti, ricevono come ricompensa qualche pezzetto di pesce. Meglio comunque non metter le mani davanti alla loro bocca perché mordono e possono confondere le nostre dita con i coralli, loro pranzo abituale. Io mi accontento di ammirarle nel loro splendore mentre nuotano libere e sono talmente felice che quasi mi viene da piangere, commossa dal loro essere armoniose e profondamente belle. Ma le tartarughe non solo l’unica meraviglia che ci appare durante questa escursione: nuoteremo infatti in mezzo a miriadi di pesci colorati a Cocò, passeranno vicino a noi le mante, bellissime che sembrano volare più che nuotare e all’improvviso Cliff, il pescatore, esordirà dicendoci “Sharks, sharks!!!” e dopo un brivido di adrenalina ci troveremo in un punto con gli squali sotto di noi, a circa setteotto metri di profondità! Lo spettacolo della natura è sempre in scena alle Seychelles e non manca mai di stupire! L’escursione ci è piaciuta talmente tanto che nonostante il costo (60$ a testa) l’abbiamo ripetuta due volte. Chissà quando ci capiterà nuovamente tanta bellezza! Dato il bottino di pesca, scherzando con i pescatori (Patrick e Cliff), gli lancio una battuta sul fatto che a cena ci presenteremo anche noi per assaggiare i pesci e i polpi pescati. Patrick c’invita davvero e sua moglie ci accoglie con ottimi piatti della cucina creola, speziati, piccanti, buonissimi… Entriamo nella loro casa e nelle loro vite come se fossimo amici da tempo e la moglie ci dice che se fossimo rimasti più a lungo sull’isola, saremmo potuti tornare a cena e chiacchierare insieme. Lo avremmo fatto davvero, tanto è stato il piacere di questa cena insolita! Mi è rimasta impressa la frase che Patrick, ci ha detto mentre pescava: “Fish will never finish in the Seychelles”. Il pesce non finirà mai alle Seychelles… Mi auguro davvero che abbia ragione e soprattutto che queste isole dalla bellezza così sconvolgente, non debbano cambiare mai il loro volto e che conservino sempre questo fascino di “mondo a sé”, di Eden in terra. Dell’isola di La Digue dimenticherò difficilmente un altro particolare: la bellezza di una pedalata al buio con la sola illuminazione del cielo stellato… Anche lasciando La Digue, una domanda invade la mia mente e suona più o meno così: “Chissà quando torneremo?!?!” Trascorriamo così altri tre giorni a Praslin, dove visitiamo nuovamente le spiagge che ci sono piaciute di più, come Anse Lazio e Anse Volbert. Ormai conosciamo l’isola e ci organizziamo facilmente con i bus locali. Decidiamo poi di spostarci da Praslin a Mahé con il Cat Cocò, sperimentando così entrambe le soluzioni di viaggio, visto che all’andata eravamo arrivati col volo interno. Il catamarano ci porta sull’isola maggiore in circa quarantacinque minuti (€ 40, www.catcocos.com). Dato che il mare è calmo, la traversata è proprio piacevole e ci gustiamo lo spettacolo dei pesci volanti che di tanto in tanto schizzano fuori dall’acqua come saette… buffissimi! Ci spostiamo in taxi verso Bel Ombre, zona limitrofa alla turistica spiaggia di Beau Vallon. Arrivati alla Guest house prenotata, ci sistemiamo e poi partiamo subito alla scoperta di Mahè, dato che avremo soltanto un paio di giorni per visitarla. Per snellire i tempi decidiamo infatti di noleggiare un’auto e possiamo farlo direttamente tramite il proprietario della guest house che le fornisce ai suoi ospiti per una cifra inferiore rispetto ai noleggiatori presenti sull’isola.


All’inizio non è subito facile orientarsi e soprattutto ricordarsi di guidare a sinistra… l’abitudine è dura a morire! Sbagliando strada ci troviamo comunque a percorrere tutta la zona costiera del porto, e poi via via arriviamo alle spiagge del sud. Ci sono sembrate molto belle Anse Royal, acqua calma e adatta allo snorkeling, ed Anse Marie Louise, altrettanto bella e più spaziosa. Qui soccorriamo un francese che ha appoggiato un piede su un riccio di mare… dalle smorfie che fa si capisce che il fastidio è notevole e cerchiamo di fornirgli delle pinzette e un ago per sfilarsi i residui che gli sono rimasti infilzati sotto la pianta. Si vede intanto che il piede comincia a gonfiarsi e qui capisco ancora di più l’importanza delle scarpette o delle pinne per entrare in acqua! Terminate le operazioni di soccorso, proseguiamo per il nostro itinerario e giungiamo nel lato occidentale dell’isola, quello in cui ci dicono trovarsi le spiagge migliori. Le percorriamo tutte seguendo semplicemente la strada costiera e compiamo una deviazione solo per andare a vedere la famosa Anse Soleil che seppur piccola è veramente carina. Durante il secondo giorno a Mahè, percorriamo anche tutto il sentiero che conduce a Petite Anse, o Anse la Liberté. Al momento il tragitto è abbastanza difficoltoso e si snoda tra salite e discese. Infatti è in costruzione una struttura alberghiera che credo diventerà piuttosto imponente date le dimensioni del cantiere e non so se in futuro questa spiaggia sarà riservata solo agli ospiti del suddetto albergo, quindi è meglio vederla ora. Si tratta di una mezzaluna bianchissima e, data la difficoltà per accedervi, è facilissimo trovarsi da soli, senza altri turisti. Tutta la zona occidentale è comunque caratterizzata da forti onde ed anche a Port Lunay, conosciuto per lo snorkeling, non è assolutamente possibile entrare in mare per nuotare. Questo ci dispiace un po’… in effetti queste onde e correnti hanno condizionato un po’ tutta la vacanza, dal punto di vista della balneazione. Percorriamo due strade panoramiche molto belle, una delle quali si chiama Sans Souci. E’ anche possibile fermarsi a visitare una fabbrica di thé, ma abbiamo la sfortuna di passarci di venerdì pomeriggio, quando lo stabilimento è già chiuso, quindi non possiamo vederne la lavorazione. Peccato, sarebbe stato interessante. Quello che invece non ci lasciamo sfuggire, è il mercato di Victoria. Infatti, abbiamo un compito importante a cui non possiamo sottrarci: comprare i mango da portare in Italia. La frutta non abbonda alle Seychelles, anzi è piuttosto scarsa, sia a Praslin che a La Digue, dove per comprare un’ananas rischiamo di pagare ben sei euro! Si trova invece abbastanza facilmente a Mahè, e nel mercato di Victoria se ne trovano tanti banchetti sparsi ovunque.

Credo non esista niente di più colorato, multiforme e variegato di un mercato. In quello della capitale, si vendono per lo più frutta e pesce, ed è bello intrattenersi osservando i gesti dei venditori, le contrattazioni sui prodotti, il taglio del pesce e i colori della frutta. Se non fosse per l’odore forte del pesce, sarebbe possibile rimanere anche più a lungo… Notiamo subito come viene “sistemato” il pescato da vendere: quello che non trova spazio sul banco di vendita, viene gettato sul pavimento, in mezzo alle frattaglie e agli scarti del pesce che è già stato tagliato e venduto. Beh…la freschezza del prodotto non è in discussione, però forse ci vengono un po’ di dubbi relativi all’igiene! Avendo avuto un giorno in più da trascorrere a Mahè, sarebbe stato bello visitare il parco marino di St. Anne. Visto dall’alto è molto bello e ci sono “parcheggiati” degli yacht che dalle dimensioni sembrerebbero navi da crociera, invece sono privati! Anche Mahè merita davvero di essere visitata durante un soggiorno alle Seychelles e noi siamo stati contenti di averle dedicato un paio di giorni che ci hanno permesso di girarla tutta. Concludiamo la nostra vacanza con un bel tramonto sulla spiaggia di Beau Vallon. Il sole che cala, colora di rosso tutta la baia e fa scendere il sipario anche su questa nostra bellissima vacanza. Quello che sicuramente ci resterà più impresso delle Seychelles sono i colori del mare, della natura, della gente con la pelle scura, ma con gli occhi chiari… Proprio alle persone incontrate va il nostro “grazie”, perché con i loro sorrisi e la loro disponibilità hanno reso la nostra vacanza veramente speciale, facendoci sentire in un mondo davvero diverso dal nostro, dove le persone hanno ancora tempo le une per le altre e soprattutto sanno ancora vivere in armonia con la natura che le circonda. Au revoir Seychelles… Goodbye!


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La sfida di Marylart è chiara ed ambiziosa: trasformare l’arte plastica dei migliori e più coraggiosi artisti di fama internazionale in opere d’arte indossabili. Indossando questi incredibili gioielli si prova l’emozione di divenire, col proprio corpo, parte integrante di un’opera d’arte. Gli artisti di cui parliamo, sono i maestri indiscussi del contemporaneo. Grandi personalità dell’arte internazionale, come Yoko Ono, Arman, Fabrizio Plessi, Marco Lodola o Valerio Adami al quale recentemente il MAR, il Museo d’Arte della città di Ravenna ha dedicato una mostra. Sono solo alcuni degli artisti che hanno voluto cimentarsi nella creazione di un gioiello originale, esclusivo, che come una scultura viene numerato e firmato dall’artista.


Si tratta quindi di vere e proprie opere d’arte in forma di gioiello, spesso liberate dalla funzione ornamentale originaria, per diventare creazioni autonome, che sfidano la tradizionale concezione di monile portabile: attraverso la sperimentazione di nuove tecniche e di materiali non convenzionali, si arriva alla creazione di opere d’arte in miniatura, ottenute rielaborando le idee ed i temi più classici di ogni artista. Ogni pezzo acquisisce quindi un valore direttamente proporzionale alla forza espressiva ed al messaggio artistico, culturale, ideologico e simbolico peculiare di ogni artista. Questa particolarissima forma d’arte, sviluppatasi sempre più nel corso del XX secolo, ha ormai raggiunto una sua dimensione autonoma, adatta ad un collezionismo esigente, puntuale ed attento. Ne sono testimonianza le sempre più frequenti esposizioni in musei d’arte internazionali, le presenze sempre maggiori nelle più importanti aste d’arte contemporanea, i preziosi volumi pubblicati sull’argomento: si tratta di una particolarissima forma d’arte che ha rinnovato e rinvigorito tutto il collezionismo contemporaneo.


Marylart, sull’onda di questo rinnovato interesse per il gioiello d’artista, ha partecipato in quest’ultimo anno ad importanti esposizioni come la mostra “From Picasso to Koons: the artist as jeweler” allestita al Bass Museum of Art di Miami Beach dove erano esposti oltre duecento opere dei più grandi artisti degli ultimi tempi, ognuno dei quali offriva una visione singolare di ornamento. Le eccezionali opere offrivano agli spettatori una visione molto più intima di artisti come Georges Braque, Max Ernst, Lucio Fontana, Louise Nevelson, Anthony Caro, Salvador Dalí, e Anish Kapoor.


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Negli alberghi di Philippe Starck, gli spazi sono concepiti come percorsi di Alice nel paese delle meraviglie: questo ha una tradizione che viene dalle esperienze dei club musicali degli anni Settanta e Ottanta ed è stata lanciata da Ian Schrager. Forse, la più critica delle interpretazioni è stata quella di Aldo Rossi che ha costruito l'hotel di Fukuoka in Giappone con una grande facciata muta, senza finestre. Era il 1987 e ci s'interrogava sul rapporto dell'hotel con ciò che è all'esterno. Oggi credo vada fatta una distinzione tra l'hotel destinato a offrire soggiorni di vacanza e l'hotel destinato al manager in viaggio d'affari. Questo perché la spinta verso la ricerca estetica ha tralasciato i ragionamenti creativi riguardo la specificità del luogo. Oggi, la stanza di un hotel a 5 stelle, è la medesima a Venezia (fatto salvo l'hotel Danieli) e Dubai, e il dialogo con il contesto è totalmente assente. Io sono propenso a progetti che tengano conto del territorio e che creino un rapporto con il paesaggio che hanno intorno. Questo processo si realizza attraverso la conoscenza e la sensibilità. Penso all'hotel Parco dei Principi a Sorrento, opera di Giò Ponti che, così scriveva nel 1958 “Ho fatto un albergo a Sorrento e, benché non ve ne fosse necessità, ho voluto che ognuna delle sue cento camere avesse un pavimento diverso”. Recentemente il mio studio si è occupato della ristrutturazione di un hotel ad Andalo e il proprietario ci ha raccontato che da bambino quando giocava nei prati, trovava una grande quantità di frammenti di vetro colorati. Sino al 1810, vi era infatti una fabbrica di vetri e di cristalli, fondata nel 1791 da Domenico Antonio Vidi; questa suggestione, unita alla presenza del lago, che ha le sue origini nell'epoca glaciale, ha dato l'idea per una decorazione dei soffitti costituita da cristalli illuminati da led, così che per il turista il viaggio continui anche nell'hotel…un viaggio nel tempo. studiodona.com





di Enrica Galmacci Il nostro viaggio inizia ad Ankara, capitale della Turchia: la sua bellezza non è paragonabile ad Istanbul, ma ci abbiamo passato un bel paio di giornate e ricordo con piacere le passeggiate sul viale principale Ataturk Bulvari, il centro storico Ulus, la Cittadella, il Museo delle Civiltà Anatoliche e le numerose foto fatte sia di giorno che di notte al meraviglioso Tocatepe. Quello che più mi ha colpito ad Ankara, però, è stato l’incontro con una religione tanto diversa dalla nostra: ci troviamo, infatti, in un paese musulmano, anche se moderato, e l’impatto è sicuramente forte. Soprattutto nella Haci Bayram Camil, che è la moschea più venerata della capitale, ho avvertito un forte senso d’inquietudine: la sensazione di essere fuori luogo non mi ha permesso di vivere quel momento con molta tranquillità. Vedere l’eccitazione di tutta quella folla che riempiva la piazza intorno alla moschea, mi ha un po’ turbato, e tale momento non ha avuto eguali nel corso delle tappe successive in Cappadocia e Istanbul. In Cappadocia, non ho visto o in ogni caso non ho avvertito lo stesso fervore religioso che ho trovato ad Ankara; anche ad Istanbul, sicuramente più occidentalizzata e quindi abituata ai turisti, pur avendo avuto modo di osservare i fedeli pregare nelle gremite e numerose moschee, le sensazioni sono state molto diverse, più pacate e più accoglienti nei nostri confronti, rispetto a ciò che è stato nella Haci Bayram Camil.


Peccato non aver avuto il tempo di visitare Konia, famosa oltre che per la sua bellezza anche per la sua devozione religiosa, molto conservatrice. Ricordo di essere rimasta seduta a lungo ad osservare tutto il fermento della piazza gremita di fedeli, con le donne rigorosamente coperte da capo a piedi, con la musica e la cantilena che proveniva dall’interno della moschea e che veniva amplificata all’esterno. L’ultima cosa che ho pensato di fare in quel momento è stato tirare fuori la macchina fotografica, che in genere è il mio primo pensiero, ormai quasi automatico: non ci penso nemmeno più, lo faccio e basta. In quel momento, non abbiamo visto altri turisti a parte noi, e questo sicuramente ha influito sul nostro senso di sicurezza, oltre al fatto che un signore, vestito di tutto punto da fedele con tanto di coroncina in mano, passando mi ha detto qualcosa con un tono non tranquillissimo e varie persone intorno a noi si sono girate...Sicuramente avrà apprezzato il mio maglioncino a strisce gialle e arancioni (tutt’altro che sexy) ma, in mezzo a tutto quel nero, risaltava ancora di più! Mi chiedo ancora cosa avrà avuto da obiettarmi...Bah! La Cittadella è carina e offre anche begli scorci panoramici sulla città, e noi ci siamo divertiti a passeggiare fra le viuzze, con bimbi che sbucavano da ogni angolo, finestre su cui sono appesi peperoncini tenuti insieme da un filo e varie signore che smistano la lana per poi stenderla al sole. Abbiamo mangiato da “Dio”, permettete l’ironia, in un localino all’aperto molto carino, seduti su cuscini, con i cuochi che cucinavano vicino a noi, e abbiamo avuto anche la fortuna di assistere ad una festicciola privata con tanto di balli e canti dal vivo: non c’erano donne, erano tutti uomini che ballavano fra di loro, ed erano molto buffi. Mentre passeggiavamo fra le viuzze, ci sentivamo molti occhi puntati addosso, ma come ci voltavamo, o in ogni modo cercavamo di scorgere chi c’era oltre la finestra, si ritraevano. Dei bimbi con dei grandi occhi scuri si sono improvvisati guide e ci hanno accompagnato per un pezzetto di strada, prendendo molto sul serio il loro compito. Abbiamo visitato dei mercatini dove Giorgio “simpaticamente” cercava di invogliarmi a comprare il burka.... e sicuramente la scelta non mancava.


Le bancarelle erano piene di ricordini religiosi, tappeti, copricapo per le donne. Ho voluto provare i tanto decantati dolcetti turchi, in particolare i Baklava (dolcetti con miele, pistacchi e noci), e così sono entrata in una pasticceria attirata, dalla vetrina stracolma di leccornie in bella vista. Non ho fatto in tempo ad entrare che già stavo seduta al bancone, con tanto di forchetta e coltello, e con il commesso che mi riempiva il piatto d’assaggi, che mi riempiva il bicchiere d’acqua oltre che di parole incomprensibili (un misto fra turco, inglese e italiano...). Ci mancava solo che me li infornasse direttamente in bocca: sinceramente facevano abbastanza schifo, erano talmente imbottiti di miele.... Ma con tutta questa calorosa accoglienza, come dirgli che dopo il primo dolcetto, il mio stomaco era già nauseato? Giorgio godeva come pochi: “L’hai voluta la bicicletta?...Adesso pedala! “ ... E che pedalata....... A parte i dolcetti, la cucina turca è uno spettacolo, e non ho assolutamente sentito la mancanza della cucina italiana: le Gozleme (tipo piadina), le pide (simili alle nostre pizze), le kofte (polpette), il kebab, i formaggi, lo yogurt etc.. Ad Ankara abbiamo alloggiato al Dedeman Hotel. Dopo Ankara, con un’auto noleggiata, ci siamo diretti verso la Cappadocia: ci vogliono circa 4 ore, e durante il percorso si passa lungo il Tuz Golu, un grande lago salato in secca, dove ci siamo fermati e abbiamo fatto una breve passeggiata. E’ molto scenografico: il bianco è accecante e risalta ancora di più con il cielo azzurro; se ci si addentra troppo, i piedi sprofondano, ma è lo stesso un piacere passeggiarci. La strada non è che sia così male: ci sono moltissimi camion stracarichi di merce e averceli davanti non conviene, perché arrivano spesso, sul parabrezza dell’auto, terra e sassolini. Lungo il percorso s’incontra di tutto: asini, pecore, bancarelle, gente che spunta all’improvviso e attraversa, ma a parte le solite accortezze è un tragitto piacevole. Arrivare nei pressi di Nevhseir e trovarsi davanti Uchisar è meraviglioso, ma passare Uchisar e trovarsi di fronte le vallate della Cappadocia è semplicemente indescrivibile. Passato Uchisar, si apre un panorama incredibile! Non hai tempo di abituarti a questo nuovo paesaggio, perché te lo trovi improvvisamente dietro una curva: rimani a bocca aperta e nessuna foto che ho visto, o che ho fatto, gli rende giustizia! Poi niente, ci buttiamo dentro a questo incanto e arriviamo a Goreme, una cittadina fatta di coni e pinnacoli di tufo. Bella! Bella! Bella, ma non per passarci una giornata del tipo mordi e fuggi, con altre trenta persone in un autobus che ti fa scendere all’Open Air Museum, ti fa fare un giretto e poi si riparte, poiché durante la tarda mattinata e primo pomeriggio è un’invasione di mezzi del genere. Il momento più bello per godersi Goreme è nel tardo pomeriggio, quando gli autobus sono ripartiti, ci sono pochi turisti in giro e il sole inizia a tramontare. Se poi alloggi in una pensione locale, scavata in un cono di tufo con vista panoramica dall’alto sulla valle, è semplicemente un incanto: non puoi smettere di ammirarla. Da non perdersi, oltre all’Open Air Museum, le numerose passeggiate che si possono fare nelle valli che circondano Goreme, come la valle delle Rose che la collega a Cavusin, la Valle dei piccioni, delle spade, del miele, etc. C’è davvero l’imbarazzo della scelta: sono tutte belle e particolari. Il cibo è buono e a buon mercato: in particolare, ricordo bene il Goreme Restaurant, dove abbiamo cenato in un ambiente molto carino seduti sui cuscini, con cibo ottimo, molto ben presentato e con i camerieri che, oltre a servirlo, suonano pure musica tradizionale dal vivo.


Goreme è anche una buona base per visitare altri begli angoli della Cappadocia, come la Valle di Devrent (valle dei Camini delle fate, sembra la valle degli “strufoli”) vicino a Zelve, la Valle d’Ihlara: un canyon che si snoda per una decina di chilometri scavato da un torrente (altra mega passeggiata)e le imperdibili città sotterranee, una su tutte Kaymakly veramente suggestiva e interessante dal punto di vista storico. Per visitare Kaymakly abbiamo ingaggiato all’entrata del sito una guida molto brava che ci ha accompagnato con le sue spiegazioni lungo tutto il percorso. Kaimakly è profonda 60 metri è costruita su 8 piani ma è possibile visitarla sino al quarto (circa 30 metri sotto terra) è servita prima alle popolazioni ittite, poi cristiane per nascondersi in tempo di guerra. Riusciva a contenere circa 500 persone. Gli appartamenti sono di varia grandezza, a seconda della ricchezza della famiglia che li doveva occupare, la quale veniva misurata sulla base delle tasse pagate in tempo di pace. Ci sono numerosi buchi nelle pareti, necessari per la conservazione dei cereali e degli alimenti, come la frutta e la verdura. In genere, si mangiava cibo secco e si cucinava non più di una volta a settimana, in quanto il fumo poteva essere individuato dalla superficie e attirare i nemici, che comunque non avevano vita facile: una volta entrati difficilmente riuscivano a districarsi nella fitta rete di gallerie e ad uscirne vivi. A volte venivano incastrati nei tunnel, chiudendo i varchi con rocce, altre volte attraverso dei fori nei muri venivano letteralmente "infilzati" quando si trovavano a passare per lì. Il film dei Goonies al confronto è niente! Chissà un tempo che affollamento di gente c'era, in quelle gallerie...Una riprova l’abbiamo avuta quando da piano deserto, com’ era con me, Giorgio e la guida, si è trasformato nel giro di 30 secondi in un formicaio: un fitto gruppo di giapponesi è entrato ed è riuscito ad infilarsi in ogni buco possibile, qualcuno anche nelle cisterne per il cibo, le pareti da buie che erano sono state illuminate a festa da non so quanti flash di fotocamere, tutti scattati negli stessi successivi trenta secondi. Tempo un minuto ed erano spariti tutti: risultato, due minuti di smarrimento. Un paio di giorni li abbiamo passati a passeggiare tra i paesini vicino a Goreme. Un episodio che mi è rimasto particolarmente impresso è stato quando, in una viuzza nel villaggio di Hortisar, ci siamo fermati un attimo per bere un sorso d’acqua: davanti a noi, due signore (madre e figlia) stavano riempiendo un carretto con delle zucche mentre un uomo faceva da supervisore, o meglio le guardava lavorare.


Gli chiedo gentilmente se posso fargli una foto, o meglio, gesticolo in qualche modo con la fotocamera, loro capiscono e acconsentono, dopodiché prima mi offrono i semi di una zucca, poi mi danno un minicocomero, un cetriolo, un pomodoro, dell’uva: nel giro di pochi secondi mi ritrovo con le mani piene e anche se l’ultima cosa che avrei voluto mangiare in quel momento era il cetriolo o il pomodoro, vista la calda accoglienza, per ricambiare spizzico qualcosa, naturalmente mettendo da parte tutte le raccomandazioni delle guide sul cibo crudo, per strada, non lavato etc. In ogni viaggio, parto sempre con le migliori intenzioni ma poi me le perdo sempre per strada! Ci offrono del tè, ci fanno segno di seguirli in casa e ce la fanno visitare tutta: dalla stalla a pianterreno con tanto di presentazione una ad una delle mucche e del cavallo, dopodiché ci fanno salire con una scala esterna al primo piano e ci fanno accomodare nel loro salotto. I tappeti ricoprono sia il pavimento sia il tavolo e la parte bassa dei muri, hanno un televisore ed un letto a castello tra il tavolo ed il televisore. Ci portano il tè e mentre lo gustiamo, la stanza si riempie con altri figli e nipoti, ci sorridono e ci fissano. La famiglia è formata dal capostipite Hamed (il supervisore dei lavori) la moglie, tre figlie e circa 4 nipoti, tutti seduti intorno al tavolo con noi. La caratteristica che accomuna gli adulti è la mancanza di qualche dente, le donne vestono delle gonne ampie chiuse a ‘mo di pantalone alle caviglie e portano un fazzoletto che gli copre il capo e nasconde i capelli. Una delle figlie mi fa assaggiare il pane fatto in casa e mi mostra un megapentolone pieno di un impasto morbido, facendomi intendere che è il pane che sto mangiando. Ci viene offerto dello yogurt, della ricotta, del formaggio, tutto squisito. Gli chiedo se posso fare delle foto e loro mi fanno capire di esserne felici: si mettono in posa e per fortuna ho anche la fotocamera digitale altrimenti tre rullini non sarebbero bastati, visto che Hamed mi scrive il suo indirizzo e mi fa capire che vorrebbe riceverne delle copie. Al mio cenno d’assenso, mi portano in un’altra stanza dove c’è solo una lavatrice, e dalle loro espressioni soddisfatte, capisco che mi stanno mostrando il gioiello di casa: niente da dire, dall’aspetto esteriore sembra un modello evoluto.


Qui naturalmente tutte le donne hanno voluto fare la foto con la lavatrice: prima tutte insieme, poi a coppie, poi una ad una...una scena bellissima. Oltretutto la stanza non era molto luminosa, quindi ho inserito il flash ed ogni volta che scattava, e illuminava la stanza, erano così contente e gongolanti che dava piacere a guardarle. Poi ritorniamo in salotto e mi mostrano i loro lavori d’uncinetto, mi fanno provare anche dei foulard ricamati da usare come copricapo e me li aggiustano in testa: intonatissimo con la mia t-shirt sportiva con un mega 73 disegnato davanti. Capisco che vorrebbe vendermi un suo lavoro e io accetto non tanto per la bellezza del velo ma per ricambiare almeno un poco la loro ospitalità e gentilezza. Naturalmente come cerco di allungare dei soldi all’artefice del lavoro, il Signor Hamed si fa avanti e lei indietro. Morale della favola: loro si fanno il cosiddetto “mazzo”, e lui si prende i frutti. Loro caricano le zucche, cucinano e coltivano l’orto e lui fa “lavori” di supervisione. Giorgio sembra apprezzare tale organizzazione familiare e pensa (erroneamente) ad una futura applicazione a casa nostra. E’ stata una gran bella esperienza, loro sono stati gentilissimi e le foto poi gli sono state inviate, spero che le abbiano apprezzate. Comunque, non è stato l’unico episodio in cui la gente locale si è mostrata accogliente nei nostri confronti, sicuramente in Cappadocia molto più che altrove. All’interno di negozi o bancarelle, ci hanno sempre offerto del tè (rigorosamente alla mela: elma cay) ma anche passeggiando per i villaggi intorno a Goreme la gente ci salutava, ci sorrideva. Per esempio, a Mustafapasa delle donne che stavano cucinando davanti la porta di casa, quando hanno visto che le stavamo guardando, ci hanno offerto un bicchierino “di quella cosa”... una via di mezzo fra miele e caramello bollente. Finiti i giorni da passare in Cappadocia, salutiamo i proprietari della pensione, in particolare Giorgio ci tiene molto a salutare la moglie del proprietario, Fili, una gran bella ragazza o come diceva Giorgio “una gran ... turca!”. Eh sì, le colazioni successive saranno molto meno dolci per lui: non ci sarà la bella Fili che gli darà il buongiorno. Riportiamo l’auto ad Ankara verso 12.30 e prendiamo il treno alle 22.30 dalla stazione di Ankara. Dormiamo nelle cuccette e arriveremo ad Istanbul verso le 8 del mattino. Unico inconveniente ad Ankara è che dopo aver riportato l’auto all’Europcar, avevamo 8-9 ore a disposizione prima di salire sul treno, quindi la nostra idea era di lasciare il bagaglio nel deposito della stazione e di rifarci un giretto ad Ankara. Possibile che nella stazione principale della capitale non ci fosse un deposito bagagli? Possibile, così ci dirigiamo verso una stazione degli autobus e qui lo troviamo. Il viaggio in treno è passato bene: ho dormito come un ghiro e nella nostra cabina c’eravamo solo noi.


Durante la notte abbiamo avuto la sensazione che il treno andasse in salita e in discesa, sarà stato l’effetto della stanchezza?!? Istanbul vista dal mare è uno spettacolo, l’impatto è forte: su tutto svettano il Bosforo e le grandi moschee con gli alti minareti e le grandi cupole. Il tempo di appoggiare il bagaglio all'Hotel Saba e ci facciamo un bel giro nella zona di Sultanahmet(città vecchia) e visitiamo le varie moschee. I turisti possono entrare in orari prestabiliti per non disturbare i fedeli in preghiera, le donne per entrare devono coprirsi il capo e avere un abbigliamento consono, tutte le scarpe vengono lasciate fuori. I fedeli prima di entrare devono lavarsi i piedi e le braccia in delle piccole fontanelle esterne, ovviamente gli uomini da un lato e le donne dall’altro. La moschea più bella naturalmente è la Moschea Blu anche se quella che mi ha colpito di più è stata la meno imponente Rustem Pasa Camii, è un po’ più difficile da scovare tra vicoli e vicoletti ma vale proprio la pena cercarla: è più intima ed è più facile avvertire il senso di raccolta e di preghiera caratteristico d’ogni luogo di culto. Oltretutto, uscendo, ci siamo trovati o meglio ci siamo persi in un mercatino incantevole, dove veniva venduto un po’ di tutto, dalle pentole alle spezie; è capitato spesso di incontrare questi mercatini “a labirinto” dove l’unica cosa che puoi fare è chiudere la cartina ed andare un po’ a naso. Ci sono molte cose da visitare ad Istanbul, tra le più importanti il Palazzo del Topkapy, Santa Sofia e i musei non mancano davvero, ma non mi dilungo su tale aspetto. L’ultimo giorno è dedicato agli acquisti, il nostro terreno di caccia preferito è stato il Gran Bazar dove abbiamo fatto scintille: copriletto, servizio da the, narghilè, e molto altro... è più forte di noi! La parola d’ordine naturalmente è contrattare, cosa che a me non riesce affatto. Più volte mi è stato fatto presente di essere la cliente ideale, quindi non posso far altro che mandare avanti Giorgio che a differenza mia in tale attività va alla grande. L’ultima sera andiamo a vedere la cerimonia dei dervisci rotanti alla stazione dei treni in un locale che sembra essere (e forse di giorno lo è) una sale d’aspetto: niente di che, anzi abbastanza brutto, manca proprio d’atmosfera, ma non poteva essere altrimenti visto che è fatto ad uso esclusivo del turista, perché l’ordine dei dervisci è stato bandito con l’avvento della Repubblica. Come dire, ce la siamo cercata... Istanbul è una città piena di fascino e sinceramente l’ ho trovata anche molto romantica: indimenticabili sono state le passeggiate di giorno lungo il Corno d’Oro e di sera nella zona del Sultanahmet, ammirando le Moschee che con le loro grandi cupole illuminate sono di grand'effetto. Niente da dire, un gran bel viaggio. Peccato il poco tempo a disposizione che ci ha impedito di visitare almeno Konia e Pammukale, ma non importa perché tanto siamo sicuri che in Turchia ritorneremo!





di Massimo Rizzante Il libro di Francesco Forlani è la storia della nascita di una rivista letteraria, La bête étrangère, avvenuta a Parigi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. Nulla di più improbabile, in apparenza. Ricordo che già all’epoca tutti gli agenti dell’informazione planetaria erano concordi: le riviste erano morte, avevano perso il loro fascino, la loro aura, la loro capacità di sobillare l’anima dei lettori, di condurli in qualche luogo ignoto alla ricerca di se stessi. A vent’anni di distanza, quel certificato di morte giace, o meglio naviga, senza alcuna scialuppa di salvataggio, nel mare della Rete. Perché dunque raccontare oggi la nascita di qualcosa che tutti ritengono già defunto? Per un atto di rivolta contro la fatica, la noia, il disamore, la mortificazione che oggi più di allora sembrano essersi infiltrati in ogni avventura intellettuale: una rivista, come qualsiasi altra avventura umana, così afferma il protagonista del libro, è «tanti destini che si fanno, è gente che si scopre, uomini e donne che si amano, scopano e si sposano…». Per non disincarnare l’avventura individuale, perciò, per non privarla della sua imprevedibilità. Il protagonista, un giovane italiano in fuga dal suo paese, muovendosi come un elettrone nei sotterranei del metrò di Parigi, attraversa per trentatré capitoli, con la puntualità e l’azzardo di un giocatore di Monopoli, i venti arrondissements della città. Incontra i personaggi più disparati: scrittori francesi ex detenuti, connazionali disperati o semplicemente filosofi della politica, poetesse greche che servono drink sofisticati, jazzisti americani, romanzieri cechi, pittori polacchi, musicologi argentini, fisarmonicisti d’origine ebrea, fotografi, mannequin, stilisti giapponesi… Ad ogni contatto, l’elettrone si carica di nuova energia, e quest’energia si trasforma ogni volta in libera energia a perdere, in altre parole, in amicizia, tanto che il suo progetto di rivista, seppur fra mille difficoltà economiche, alla fine va in porto. Ecco un’altra ragione di un soggetto apparentemente inattuale: la storia di una rivista è sempre la storia di un gruppo d’amici e in questo libro l’amicizia è la più importante delle leggi universali che di tanto in tanto il protagonista, tra una sbornia e un resoconto dettagliato di un quartiere parigino, si diverte a proferire. Facciamoci questa domanda: senza amicizia esisterebbe il dialogo con persone d’altri paesi e d’altre lingue? Ma soprattutto esisterebbe la bellezza? Queste sono anche le domande che in un modo o in un altro fanno capolino lungo tutto il libro. Sono domande che ci riguardano, o almeno, che riguardano quella parte d’umanità che sa che, senza la condivisione disinteressata di una felicità prodotta da un fare altrettanto disinteressato, non c’è non dico salvezza, ma salute, non c’è forza di avventurarsi nel mondo, né volontà di comprenderlo, né capacità di lottare contro i diktat delle mode, né desiderio di diventare semplicemente adulti, né coraggio d’essere inattuali o «pre-postumi», come afferma l’autore nella sua postilla alla fine del libro.


Fra i tanti aneddoti, scherzi ed episodi del libro, ce n’è uno che mi sembra più di altri indicarci la strada. Il protagonista incontra alla libreria italiana di Parigi, La Tour de Babel, uno scrittore francese, anche lui inventore di riviste. Ad un certo punto lo scrittore gli racconta la storia del funerale di un poeta greco, Elios Petropoulos, che aveva espresso la volontà – cantata anche in una poesia – di essere cremato. Non solo: le sue ceneri avrebbero dovuto essere gettate nelle fogne di Parigi. La cremazione ha inizio. Durante la cerimonia gli amici, a turno e ciascuno nella propria lingua, recitano una poesia o un breve discorso. Finite le orazioni l’atmosfera si carica di un silenzio solenne e cosmopolitico. Poi qualcuno accenna con discrezione che il testamento del morto va esaudito fino in fondo. Improvvisamente la pellicola di solennità che avvolge il funerale si scioglie in una scena comica: si vede un «gruppo di pazzi» che gira per le strade di Parigi alla ricerca di un tombino degno di accogliere le ceneri del grande poeta. L’affannosa ricerca è complicata dal fatto che i tombini non si possono aprire: auto d’ogni cilindrata intralciano l’operazione. Alcuni cercano di spostarne una, ma desistono. Alla fine il «gruppo di pazzi» riesce a trovare il sacro tombino e, come fosse la cosa più naturale del mondo, si dispone in circolo intorno alla grata per dare l’ultimo saluto al poeta, la cui «inimitabile risata» risuona dalle fogne di Parigi. C’è un altro tratto che contraddistingue le vicende del protagonista e dei suoi amici, anzi che li incalza: la povertà. Non è un caso che il protagonista e l’amico, con cui condivide un minuscolo sottotetto, recitino ogni sera, come un mantra, una frase di Hemingway, tratta da Festa mobile: «Ma questa era Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici». Tuttavia, nel libro non c’è nessuna nostalgia per una vita migliore. Nessuno dei personaggi ha il tempo di trasformare i suoi sogni in incubi e gli incubi in triste realtà né di dispensare facili anatemi contro i ricchi. La povertà, l’avere pochi mezzi intendo, non la miseria, è una situazione che, malgrado tutti gli incidenti e le difficoltà ( un water esplode inondando la mansarda del protagonista ; molti pranzi si consumano in strada a base di smilzi panini jambon beurre; debiti con bistrots e ristoranti non vengono saldati, tanto che il gruppo d’amici deve inventarsi un bar parallèle ), apre continuamente, e in modo inaspettato, finestre sulla varietà del mondo. La bohème non è una trappola, ma l’occasione di sfuggire alle liturgie del benessere così come di esplorare tutta l’ambiguità di un assassino diventato scrittore o di un ex miliardario caduto in disgrazia. In tutti questi episodi è racchiusa la salute che la prosa di Forlani sprigiona, figlia dell’energia disinteressata che investe ogni suo sguardo sugli uomini e le cose, e che non ha perduto ciò che Saul Bellow chiamava «l’innocenza primaria», senza la quale lo scrittore si trasforma in un portavoce di verità. Ma di quale verità stiamo parlando? Di quella romanzesca o di quella dei “fatti”? Di quella del Grande Gioco della letteratura o di quella dell’informazione? In un’epoca in cui i lettori scambiano le inchieste giornalistiche per romanzi, Forlani, sotto le mentite spoglie di un memoir, sceglie di combinare i suoi ricordi di Parigi con quelli della sua infanzia e adolescenza italiane, di mescolare personaggi fittizi e personaggi storici, documento e sogno: opta per l’immaginazione. E’ questo che rende il suo romanzo amico della bellezza. Ed io, tra la verità e l’amicizia, scelgo l’amicizia. Francesco Forlani, Parigi, senza passare dal via, Editori Laterza, 2013



Cara Elisa, forse si tratta di rapporti personali, o meglio di rapporti che considerino la possibilità di rappresentare quella sfera silenziosa in cui la vita privata di una giovane donna si compie nei gesti della cura di sé, del silenzio e di un lasciarsi andare che però sembra riveli una qualche consapevolezza di quel che lei (non) viene facendo. Cosa intendo, parlando di “una qualche consapevolezza”? Penso alla sensazione dell’esser guardati, o del guardarsi come se si fosse guardati da altri, che la tua rappresentazione, esclusivamente della sfera del femminile, viene da alcuni anni proponendo. Anche la rappresentazione in pittura potrebbe esser intesa, e lo è stato per molto tempo, come un riflettere su di sé, analoga in questo alla funzione svolta dagli specchi, funzione che è oggettiva e ingannevole come può esserlo un riflesso. È possibile vi sia una componente nel tuo lavoro che considera non tanto o non solo i soggetti prescelti, quanto lo stesso mezzo, cioè la pittura, con cui li ritrai?


Rapporti personali: se sono possibili, lo possono essere esclusivamente come una relazione vicendevole fra l’uno e l’altro. Ma sarebbe più corretto dire, rispetto al tuo modo di metterli scena, fra l’una e l’altra, cioè fra simili. In questo senso non credo che il tuo lavoro possa essere pensato, o concepito, “al maschile”; mi pare vi sia una determinante componente di genere che lo anima. E che viene evidenziata dal collimare, su una medesima immagine, di possibile nudità e di intangibilità. Vicinanza e distanza: sono queste le due componenti di una relazione che si riverberano vicendevolmente nei tuoi lavori. La vicinanza è data dall’empatia con il soggetto ritratto, che ne scruta non tanto o non solo la particolare identità, quanto semmai quel punto nel quale, mentre si ritrae l’altra persona, in qualche modo sembra si ritragga se stessi, così che si fondano insieme chi rappresenta e chi viene rappresentato. La vicinanza è data dalla sensazione, come spettatore, di entrare per un momento in contatto con un microcosmo solitamente chiuso; di essere stato ammesso, senza vi sia stato alcun gesto esplicito di invito, all’interno di una sfera definita dalle pareti di stanze raccolte, e dalla preclusione verso l’esterno. Se vi è qualcosa che è tenuto distante dalle tue immagini è proprio l’esterno, il mondo “di fuori”. La luce è forse l’elemento che più caratterizza questa distanza da ciò che vi è “fuori” dalle stanze chiuse. Una luce che sembra generata da candele, o da sorgenti artificiali sempre tenute su un registro smorzato, non da finestre. Una luce fioca che non arriva ad illuminare il posto occupato da chi osserva la scena. Figura questa che rimane nell’ombra, ma non come se si trattasse di persona nascosta o in attesa, quanto semmai di persona che vive in un ambito escluso da quello dove vive colei che è ritratta nelle tue tele. Non vi è continuità di spazi fra lo spettatore e colei che viene osservata; da qui probabilmente deriva la sensazione di distanza che comunicano queste tue immagini, pur riprese da un punto di osservazione così vicino al soggetto. Non vi è nemmeno l’aspettativa che qualcosa muti, che qualcosa accada in queste scene di intimità; la cui sfera trasparente che le avvolge non sembra possibile possa mai venire infranta. Anche la cura che metti nell’esecuzione delle tue figure, l’attenzione nel restituire una giovanile levigatezza delle epidermidi appena sfiorate dalla luce, mi sembrano dei dispositivi che creano una distanza e non una vicinanza. La perfezione può solo essere distrutta, ma non toccata, non avvicinata. Ogni prossimità in questo senso è un inganno, una trappola per ciechi che credono sia visibile e magari a portata di mano; quello che non si sa affatto vedere, e meno ancora lo si può toccare. L’evidenza della perfezione è una soglia che non è oltrepassabile. L’epidermide delle tue giovani donne non la si può nemmeno sfiorare. Mi chiedo però se si tratti effettivamente solo di giovani donne, o se tu non stia piuttosto intuendo, mentre le dipingi, che quello strato sottile di colore che deponi con meticolosa pazienza, non costituisca tutto ciò che vi è da vedere, da sapere, sulla pittura.


Forse mi sono spinto troppo in là nelle supposizioni, forse ho soltanto sovrapposto altre immagini alle tue. Forse il gioco dei possibili richiami (alla luce di Georges de La Tour? A certi nudi femminili di Gerhard Richter?) è causato dai riflessi sugli specchi nelle stanze dove si compone il rito silenzioso della cura di sé delle tue giovani donne. Per questo non mi pare esservi alcuna “teatralizzazione” nelle tue visioni di momenti di intimità, sempre così discrete. Almeno fino ai lavori che finora ho avuto modo di conoscere. Non nascondo che mi pare un passo ulteriore quello che si viene compiendo in questa tua ultima proposta espositiva. Un tentativo di esplicitare la relazione con lo sguardo altrui; una qualche “teatralità” - e qui mi dirai tu quanto io mi inganni e sia fuori strada - nell’ammettere alla visione di ciò che (non) avviene entro le tue stanze chiuse. Ma chi ammetti poi in queste tue stanze? Non certo me, come spettatore, piuttosto altre figure ancora. Quasi non si potesse uscire dal microcosmo della pittura, da questo mondo interno, completamente dipinto; l’unico mondo nel quale è possibile attraversare l’incommensurabilità del tempo. Almeno così mi sembra. O forse si tratta di solo di un inganno più fine, generato da un’occasionale messa in scena degli sguardi intorno alle tue giovani donne? Forse la prossimità apparente degli sguardi non fa che rendere ancora più manifesta l’indifferenza verso ciò che ruota loro per un momento intorno.

Si tratta dunque di una simulazione di reciprocità? Forse è proprio questa la domanda che emerge dalla scena che si viene compiendo e alla quale infine mi ammetti affidandomi una parte, concedendomi una volta ancora il ruolo di spettatore. Affinché “io” prenda atto della simulazione di vicinanza che viene “messa a nudo” fra affreschi di scuola veronesiana; dell’inganno di un dialogo che sembrerebbe tessersi, sotto i miei occhi, fra le figure che rivestono gli interni di un edificio palladiano e le tue giovani donne silenziose, provenienti da un altro tempo. Monadi, senza porte o finestre, che non possono volgersi verso un qualsivoglia esterno, spazialmente inteso, e nemmeno verso un altrove temporale. In fondo mi sembra che queste tue figure pronuncino, senza muovere le labbra o cedere alla tentazione di un qualsivoglia gesto, un garbatissimo, quanto inequivocabile, diniego. Spero avremo occasione di riparlarne, Riccardo Caldur Tratto dal catalogo della mostra personale dell’artista dal titolo Mon Chèri.





a cura di Franco Savignano Caro Franco, il mio lavoro consiste nel fotografare e rappresentare il visibile e l’invisibile. Utilizzo i fiori del “Giardino della contemplazione” e del “Giardino d’Amore”: il Giglio, la Rosa…. - Rose Cosmiche come rappresentazione della manifestazione e del Tutto come cerchio e simbolo di Bellezza e di perfezione compiuta del Creato; … - Rosa Mistica delle litanie della Vergine, - Rosa immagine della Coppa della vita, del Cuore e dell’Amore cantato nel Cantico dei Cantici; - Rosa e Rosone insieme… Rosa d’eternità. -Rosa Bianca, Rosa Rossa e Rosa d’Oro, tutti i fiori i prediletti degli Alchimisti e dei filosofi.


Nel Giardino sono presenti anche gli uccelli bianchi, blu, i simboli della libertà divina. Uccelli del Paradiso, uccelli migratori e uccelli viaggiatori, simboli dell’Anima e dello Spirito, che volano in Cielo o riposano. Essi cercano il loro nido sui rami dell’Albero del Mondo o sull’Albero della Croce. Tutti questi uccelli sanno parlare il linguaggio celeste, come poeti o profeti. La natura diventa strumento per rappresentare se stessa, alla ricerca di una verità irraggiungibile, ma pur sempre registrabile, attraverso gli stati d’animo e gli eventi minimi, dove la ritualità, l’alchimia e il mistero della sacralità, si rincorrono in una teoria narrativa che sfugge al significato formale, per acquisirne uno segreto. La mente colora e rappresenta l’essenza del mondo che la circonda…Il tutto è visto come simbolo, ma anche strumento di una poetica della rappresentazione, nella quale l’aspetto simbolico prevale sulla funzione primaria degli oggetti rappresentati. I lavori, si presentano come serie fotografiche, manipolate con i nuovi mezzi che la tecnologia ha messo a disposizione dell’arte. Mettono in scena gli “oggetti-strumenti”, utilizzati sia come momento d’esecuzione dell’opera che della sua stessa rappresentazione, e sono come una vera nomenclatura. Insieme protagonisti della prassi e del pensiero.


Biografia Nicole Gravier è nata ad Arles, nel 1949, esordisce giovanissima all’interno della ricerca post concettuale partecipando attivamente al dibattito sull’utilizzo dei nuovi media e della foto come mezzo di rappresentazione. Il suo percorso artistico incentrato prevalentemente sull’analisi dei nuovi “Mythes et Clichés”, generati all’interno della società dello spettacolo, si sviluppa negli anni ‘70 accanto alle esperienze della Narrative Art e di tutta la ricerca legata alla “mitologia quotidiana”, estendendosi nelle esperienze più recenti alla pittura ed alla ricerca della scrittura come significante. Studia diplomandosi all’Accademia d’Aix en Provence e successivamente all’Accademia di Brera. Al suo attivo numerose esposizioni tra le quali, dal 1973: “Cartes Postales” Galeria Multitudes Parigi/ “Grands et Jeunes” al Grand Palais, Parigi/ “Photos-Souvenirs” alla Photographer’s Gallery, Londra/ “Cartes Postales”, Galleria “One one one”, Montreal, Canada/” Telefilm” alla Gallerie Toselli, Milano e alla Galleria Canaviello, Roma/ Galeria san Fedele, Milano/ Galleria Ecart, Ginevra/ “Europe-America – the different Avant-gardes”, Roma/ Galleria Grafil, Lisbona/ Galleria St. Petri, Lund, Svezia/ “Kunst in Sozialen Kontext” al Museo di Karlsrhue, Germania/ “Typish Frau” al Kunstverein di Bonn, alla Galeria Philomena Magers e alla Stadtische Galerie Regensbeurn, Germania /“Photoromans” “Galleria Flanklin Furnace”, New York/ International Cultural Center di Anvers, Belgio/ “Manierism-a teory of Culture” al Musèe di Vancouver, Canada/ “La Pratica Politica”, Galleria d’Arte Moderna di Modena/ “Beyond the Photographic Frame”, Art Institute of Chicago/ Biennale Internazionale di Fotografa, Brescia/ G a l l e r i a A r t e B o rg o g n a , M i l a n o / ”Vraiment.Femminisme et Art” al Centre International d’Art Contemporain di Grenoble/ Partecipa inoltre al “Festival Expanded Media” a Belgrad, Festival des Rencontres, Lisbone, al “ART SocioCritique” del Festival de la Rochelle. Nel 1980 partecipa alla “Biennale di Venezia”. Ha insegnato nelle Accademie di Napoli e Firenze. E’ docente all’Accademia di Brera. Il suo lavoro parte dall'analisi poetica/esoterica dei simboli culturali e religiosi orientali analizzati dal punto di vista dell'estetica dell'erte. Elabora una sorta di glossario segnico e simbolico ispirandosi ai testi sacri: la Bibbia, i Salmi, il Corano e le antiche poesie Persiane, i Vedas e i Vedanta, i testi e le poesie taoiste. Recentemente ha tenuto una mostra personale al Museo d'arte contemporanea di Zhengzhou, in Cina.






di Riccardo Del Bello In questo racconto, piuttosto che parlare dei bellissimi monumenti e siti visti, dei quali accennerò appena e sui quali si possono reperire informazioni dettagliate su qualsiasi guida, o su decine di altri forum scritti da altri viaggiatori che hanno visitato questo paese, ho preferito raccontare le esperienze quotidiane fatte da noi per la strada, gli spostamenti, i contatti con i gentilissimi e discreti Singalesi e Tamil (tanto è impossibile riconoscerli), che ci hanno permesso di scoprire dal vivo questo piccolo pezzo di mondo lussureggiante. Io e tutti i miei compagni siamo un gruppo di viaggatori con una discreta esperienza in viaggi più o meno duri: per intenderci, non da villaggio turistico o che si cimentano per la prima volta in un viaggio fai da te. Diciamo, un’evoluzione dei turisti "zaino in spalla", forse un po’ più “comodini”, data l'età (siamo tutti 40enni...), e meno spartani di un tempo. Ci siamo definiti, perciò, viaggiatori "trolley in spalla". Comunque sia, le uniche piccole difficoltà di questo viaggio, premettendo che non è stato per niente duro, sono state quelle che per me "fanno" il viaggio: ovvero, qualche alzataccia, viaggi su pullman strapieni di gente, a volte in piedi, e pernottamenti in alberghetti non proprio a 5 stelle (se è per questo, neanche a 4 o a 3...). In compenso, abbiamo fatto un’esperienza meravigliosa di conoscenza, nel cuore di quest'isola, che ci ha arricchito e rilassato tutti. Come tanti altri stati visitati nel mio passato, lo SRI LANKA e la sua gente mi è entrata nel cuore, e conto di tornarci presto. Siamo atterrati all'aeroporto di Colombo all'incirca a mezzanotte, con l'ottima ed economica SRI LANKAN AIRWAYS, con volo diretto da Roma. Non so perché ma, come avevo letto su molti forum, sembra che molti turisti scelgano di restare la prima notte a Negombo, che è la cittadina balneare più vicina all'aeroporto. Noi non abbiamo minimamente preso in considerazione quest’ipotesi, e decisi a non sprecare una notte, avevamo deciso da Roma di farci una tirata notturna dall'aeroporto fino alla prima meta del nostro viaggio, l’ex capitale reale di Anuradhapura.


Fortunatamente in aereo avevamo dormito abbastanza bene, e una volta presi i bagagli e cambiati i soldi (il cambio dentro l'aeroporto è conveniente) abbiamo preso un taxi e ci siamo fatti portare direttamente alla stazione centrale della capitale Colombo. Avendo dato un’occhiata quando ero ancora in Italia sul sito delle ottime ferrovie dello Sri Lanka, avevo visto che c'è più di un treno giornaliero per Anuradhapura e il primo parte alle 5.45 della mattina. Considerando che, fra formalità doganali, ritiro bagagli, cambio soldi, primo ambientamento e prima sigaretta, eravamo fuori dell’aeroporto intorno all'una passata, avevamo ancora un sacco di tempo per arrivare in stazione centrale e prendere il treno, pur non sapendo quanto lontana o vicina fosse la nostra meta: l'aeroporto, infatti, dista dalla capitale una quarantina di km. La corsa in taxi è durata circa mezz'ora e alle due del mattino circa, noi quattro eravamo di fronte alla stazione centrale, con i nostri bagagli. Il primo imprevisto è sorto subito. La stazione a quell'ora era chiusa. Non passano treni di notte. Avrebbe aperto almeno due ore dopo. Beh, trovarsi fuori da una stazione ferroviaria (luoghi notoriamente malfrequentati ) di una grande città asiatica, nel cuore della notte, e con pochissima illuminazione pubblica, dove era impossibile non notare gente povera, buttata a sonnecchiare in anfratti ancora più bui e con strani insetti saettanti al nostro passaggio (in altre parole, scarafaggi…), potrebbe apparire come l'anticamera dell'inferno agli occhi di un viaggiatore inesperto. Ma, come già detto, avendo abbastanza esperienza di viaggio (io sono stato tre volte in India) e pur mantenendo gli occhi aperti, non ci siamo persi d'animo: anzi, l’abbiamo presa a ridere, e ci siamo recati al primo baracchino aperto a comprare qualcosa da mangiare e a chiedere informazioni. Gli altoparlanti sfondati di questo chioschetto risuonavano la tipica musica stridula e chiassosa già ascoltata in altri luoghi dell'India. Lo Sri Lanka all'inizio può sembrare una piccola India in miniatura, nei veicoli, nei negozi, nel modo di vestire, ma poi man mano si scoprono le differenze, che sono molte. Eravamo veramente lì, in SRI LANKA, il viaggio era appena cominciato e questo bastava a rendermi contento. Acquistata un po’ d'acqua, una coca, e biscotti strani (e mosci), mentre camminavamo lentamente, tornando verso la stazione, il problema si è risolto da sé: i gentili soldati a guardia della stazione incuriositi e forse un po’ insospettiti del nostro trambusto e del nostro gironzolare, ci sono venuti a chiedere cosa facessimo là e cosa volessimo a quell'ora. Occorre specificare che laggiù è pieno di soldati, almeno a guardia degli obiettivi strategici, poiché la guerra è finita da troppo poco tempo. Una volta spiegato loro che dovevamo prendere il treno di lì a tre ore e mezza, forse anche un po' sorpresi di avere turisti a quell'ora, hanno aperto la stazione solo per noi e ci hanno fatto entrare nella sala d'attesa, dove almeno avevamo panchine per sederci e rilassarci un po', e meno male…Poco dopo, infatti, si è scatenato un diluvio tropicale: si tratta di uno dei pochissimi rovesci che abbiamo preso, e in ogni caso sempre e solo di notte. Se fossimo stati ancora all'aperto, per ripararci saremmo dovuti andare chiedere spazio ai senza tetto. Ad ogni modo, il treno è stato puntualissimo.


Un'ora prima della partenza ha aperto la biglietteria e ho preso gli economicissimi biglietti di prima classe dell'intercity per Anuradhapura: tempo stimato tre ore e mezza. Gli scomparti non si può dire che siano lussuosi, ma i sedili sono comodi, con qualche scossone di troppo. La partenza è stata puntuale, e alle nove e mezza di mattina eravamo già arrivati in questa grande città del triangolo storico, una delle antiche capitali dello Sri Lanka. Ci siamo sistemati nel nostro albergo, l'unico di tutto il viaggio che avevo prenotato dall'Italia, oltre al Palm beach di Uppuveli. L'Hotel Milano, e il perché di questo nome mi è ignoto, dato che non è assolutamente gestito da italiani, è carino e pulito, e con un’ottima cucina Srilankese. Un po' di relax, ma non era il momento di dormire, anche se erano chissà quante ore che non toccavamo un letto. Abbiamo affittato direttamente in hotel quattro bici che, come dice la Lonely Planet, è il modo migliore per visitare il sito dei templi di Anuradhapura, sparpagliati in un'area troppo vasta per toccarli tutti a piedi, e sono molto belli Questo è stato il nostro primo giorno in Sri Lanka, e avevamo deciso di rimanere ad Anuradhapura solo un giorno e quindi, tralasciando altri siti sicuramente meritevoli, il nostro interesse era orientato molto di più verso un bel bagno nell'Oceano Indiano, nelle acque della costa est e dintorni di Trincomalee, appena riaperta al turismo, dopo quasi un ventennio di guerra fra Tigri tamil ed esercito dello SRI LANKA. Le ultime battaglie, prima della disfatta delle Tigri Tamil e di tutti i loro leader, sono state combattute proprio nelle paludi e nelle lagune sperdute pochi chilometri a nord di Trincomalee, una zona ora pacificata, che dava l’impressione di essere alla frontiera. E so per certo che c'è bisogno disperato d’economia e di turismo in quelle zone che si riaffacciano alla vita solo ora. Quindi non avevamo dubbi nel fare questa deviazione e, prima di visitare il resto del triangolo culturale, Trincomalee e dintorni erano assolutamente da vedere. Su una recensione di TripAdvisor avevo sentito parlare di questo Palm Beach Resort di Uppuveli, a gestione italiana, mentre la Lonely Planet, la mia bibbia fondamentale di viaggio, si limitava a confermare che era un "hotel a gestione italiana”.



Quando siamo arrivati, però, non abbiamo trovato nessuno e questo è bastato ad incuriosirmi parecchio. Con non poche difficoltà, alla fine sono riuscito a mettermi in contatto con Luca, il gestore italiano del Palm Beach Resort, in questa località di mare ad Uppuveli, a quattro chilometri da Trincomalee. Ho provato a telefonare e, dopo un po’, il telefono ha iniziato a far sentire quel suono lontano e quasi soffocato di "libero" di un altro paese. Dopo altri squilli interminabili, un lontano "Hello" in un inglese dall'accento italiano mi ha risposto: era proprio lui, e dopo due secondi stavo conversando nella nostra lingua con Luca. Lui e la sua compagna Donatella si sono trovati spesso in difficoltà, in questa terra difficile, ma non hanno mollato mai. Nei primi anni, con grandi sacrifici, si sono aperti un resort a Unawatuna, sulla costa sud dello Sri Lanka, finché lo tsunami di Santo Stefano del 2006 gli ha portato via letteralmente tutto, lasciandoli da un giorno all’altro senza di niente. Neanche un soldo, nemmeno il passaporto. Non si sono persi d'animo, e da veri pionieri si sono trasferiti nella costa est, laddove il turismo era stato cancellato da anni, in piena guerra. Hanno aperto questo resort, donandogli uno stile e una gestione a noi familiare, che francamente fa piacere trovare all'estero. Sono veramente dei grandi, e li ho ammirati molto: hanno aiutato, dando lavoro, a donne rimaste vedove dalla guerra, e portato un po' d’economia in quella zona depressa. Siamo rimasti due giorni al mare, in totale relax: solo mare, e mangiate di pesce. Trincomalee è abbastanza insignificante, e l'unica gita l'abbiamo fatta alla piccolissima isola di Pidgeon Island, con barche locali. Gran bel mare e snorkeling ancora più bello da fare. Anche se l'isola è piccolissima, trovate un sentierino nel fogliame, che porta ad una micro spiaggia di tre metri massimo, circondata da grandi massi rotondeggianti e levigati, che un po' ricordano le Seychelles. Dopo quei due giorni di gran relax, per risparmiare tempo e anche per comodità, ci siamo anche serviti di un driver di Anuradhapura, che ci aveva attaccato bottone alla stazione dei bus di quest'ultima città, proprio mentre aspettavamo di partire con il bus per Trincomalee e che ci dava fiducia. Abbiamo concordato che ci venisse a prendere ad Uppuveli due giorni dopo. Abbiamo contrattato a prezzi onesti, ovviamente molto di più della spesa per continuarsi a sportare in treno e bus, e abbiamo chiesto che ci portasse alla rocca di Sigiriya, all'altra ex capitale reale Polonnaruwa e ai Buddah nella roccia di Dambulla, e poi giù fino a Kandy, tutti posti stupendi, che come ho già detto non mi soffermerò qui a descrivere. La rocca di Sigiriya su tutti, è davvero emozionante. In effetti, è stato fondamentale spostarsi con una guida: per esempio, a Polonnaruwa, dove l'area archeologica è ancora più vasta di Anuradhapura, il driver ci ha portato da un sito all'altro con il pulmino. Bellissima anche la strada per arrivare da Polonnaruwa a Dambulla, dove abbiamo visto elefanti liberi per strada, che ci hanno lasciato a bocca aperta, e uno in particolare che si bagnava in un lago lungo la strada. Inutile dire che un incontro improvviso con un elefante, fermo a lato della strada, può essere pericolosissimo. Anche se loro rimangono fermi e imperturbabili, la reazione degli altri veicoli può essere imprevedibile.


Noi stavamo per fare uno scontro frontale con un camion che ne ha superato uno, invadendo la nostra carreggiata a tutta velocità, ed è solo e semplicemente per un miracolo che sono qui a scriverlo. Il nostro driver, Khalil, un cingalese musulmano, si è comportato benissimo. Parlava inglese e anche parlicchiava e capiva un po' d’italiano poiché era stato due anni, per non so quanto tempo, a Verona, dove aveva fatto il domestico, credo. Purtroppo ho perso i suoi contatti e per questo non posso raccomandarlo. Una mia errata convinzione era che ai driver bisogna pagargli vitto e alloggio, ma non è così: nel prezzo pattuito è compreso tutto, e loro dormono nel proprio pulmino. Poi, se si gradisce il servizio, si può lasciare una bella mancia, come abbiamo fatto noi, che, in effetti, si era meritato. In seguito, per proseguire ancora verso sud, dato che non lo avevamo concordato inizialmente, voleva più soldi, e un po' a malincuore abbiamo deciso di mollarlo poiché, passeggiando per Kandy, altri driver si erano proposti chiedendoci molto meno di lui. Il nuovo driver, è stato un po' meno competente del suo predecessore: il suo pulmino si è fuso il primo giorno per andare da Kandy al Pinnewala Elephant Orphanage, dove si trovano centinaia d’elefanti liberi, che si possono accarezzare e fotografare, e abbiamo perso un sacco di tempo per cambiarlo. Per andare verso sud, inoltre, si è perso un sacco di volte e ci ha fatto perdere almeno una mezza giornata, allungando in modo pazzesco e arrivando fino alla periferia di Colombo, e per finire, voleva per forza di cose mollarci a Unawatuna, pretendendo più soldi di quanto pattuito inizialmente, e che non ha avuto, per portarci fino a Mirissa, la nostra meta finale, come avevamo chiaramente stabilito prima di partire con lui da Kandy. Ma, a parte questi piccoli problemi, non c'è stato altro di storto. Siamo stati gli ultimi quattro giorni a Mirissa, una località posta all'estremo sud dello Sri Lanka, a rilassarci al mare, veramente bello. Un giorno abbiamo affittato i motorini e siamo andati alla vicina vecchia città di Galle: questo sonnacchioso borgo circondato da mura, per tre lati sul mare oltre che patrimonio dell'Unesco, e se lo merita, è anche il primo posto incontrato con negozi veri dove fare un po' di shopping serio. E poi abbiamo visitato finalmente Unawatuna, dove la spiaggia è veramente piccola, credo a causa del famoso tsunami, e gli hotel sono stati ricostruiti nuovamente quasi a riva, e hanno finito per rovinarla del tutto. Insomma, abbastanza deludente. La spiaggia a Mirissa, invece, è enorme, lunga e larga, con dietro una distesa di palme, pochi ristorantini nascosti, informali e non invasivi, ed è molto più spettacolare. Sul dove trascorrere gli ultimi quattro giorni della nostra vacanza, una sola cosa era sicura: mare! Avevo cercato di informarmi moltissimo sui forum, su quale fosse la spiaggia migliore fra Hikkaduwa (che mi sento ora di sconsigliare alla grande, avendola vista dal pulmino, perché l'ho trovata caotica, polverosa e per nulla attraente o particolare) e Unawatuna, optando inizialmente per quest'ultima. Non avevo considerato per nulla Mirissa, che invece è il vero gioiello della costa sud dello Sri Lanka, finché proprio Luca Palermi del Palm Beach Resort ci aveva consigliato di andarci, sconsigliando totalmente Hikkaduwa, e anche Unawatuna, che in seguito ho visto con i miei occhi. Aveva ragione e, in effetti, non c'è paragone.


L'ultimo giorno, per ritornare a Colombo e ripartire alla volta dell'Italia, abbiamo utilizzato il comodo e spettacolare treno che corre lungo la costa sud. Abbiamo preso il treno dal capolinea della ferrovia sud, l’assolata e quieta cittadina di Matara, quindici chilometri più ad est di Mirissa: a saperlo, c'era anche la stazioncina proprio a Mirissa, che potevamo raggiungere a piedi e che ci avrebbe evitato di arrivare in taxi fino a Matara, ma non l'avevamo vista. La ferrovia meridionale è molto bella e scenografica, poiché per un lungo tratto corre parallela alla costa, quasi a ridosso della spiaggia, o delle scogliere. La durata del viaggio fino a Colombo è di circa tre ore e la spesa è irrisoria. Siamo arrivati in una tripudiante e impazzita Colombo, proprio nel tardo pomeriggio del giorno della finale dei mondiali di cricket, India-Sri Lanka. Un po' questo ci ha guastato i piani, poiché volevamo farci un giro per qualche ora nella capitale, giacché il volo partiva in tarda serata, e fare un po' di shopping, giacché a parte nella città vecchia di Galle, c'è poco e niente da comprare in giro. Invece era tutto chiuso, come lo Sri Lanka intero, ma la capitale era ancora di più in preda al delirio per quello che per loro è veramente un avvenimento della vita. Festeggiavano tutti come invasati con caroselli in strada, musiche e balli, petardi e mortaretti e tutto il corredo di un grande festeggiamento, tanto che pensavamo che avessero vinto la finale e si fossero appena laureati campioni del mondo. Invece, la partita (le partite di cricket sono lunghissime, e durano ore) era ancora in corso... Probabilmente conducevano di parecchio. Fatto sta che, alla fine, lo Sri Lanka ha perso. Ma allora perché festeggiavano prima? Misteri del cricket... Comunque, in quel momento anche noi ci siamo fatti trascinare: abbiamo comprato le belle bandiere dello Sri Lanka e ci siamo fatti dipingere la faccia, da pittori improvvisati che impiastricciavano chi voleva con i colori azzurri e bianchi della squadra nazionale, e abbiamo fatto casino con loro in giro. Abbiamo bevuto, cantato e ballato... veramente troppo divertente! Poi, ad un certo punto, siamo stati costretti ad abbandonare la sarabanda. Il tempo stringeva. Siamo tornati alla stazione di Colombo Fort, dove al deposito bagagli avevamo lasciato le nostre valigie e zaini. Abbiamo preso un taxi per l'aeroporto e dai monitor-tv nei vari angoli dell'aeroporto, tutti sintonizzati sul grande evento, abbiamo visto in diretta le ultime battute della finale che, come anticipato, lo Sri Lanka alla fine ha perso. Gli altri Srilankesi in partenza solo a quel punto si sono spenti, mentre altri apparentemente uguali hanno cominciato ad esultare: erano indiani. Ho omesso, però, l'esperienza più "forte" del viaggio, capitataci dopo Kandy e prima del mare e le spiagge di Mirissa. Trovandoci nel centro montuoso dello Sri Lanka, avevamo in mente di visitare una delle due località fra il parco e il famoso panorama del World's End o la montagna dell'Adam's Peak. Per motivi logistici, alla fine abbiamo optato per quest'ultima: si tratta della montagna sacra del buddismo Srilankese. Questa è stata la parte più incredibile del nostro viaggio. La scalata di questa montagna di 2300 metri, con partenza dal paesino di Dalhousie alle due di notte per arrivare in cima all'alba e vedere da lassù il sorgere del sole: una delle esperienze più belle e dure della mia vita... Veramente tosto, se non si è allenati, e io non gioco neanche a calcetto.

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Ma, una volta fatta, mi sono veramente sentito gratificato di aver vinto questa sfida. In realtà, essendo arrivati di sera al campo base di Dalhousie, col buio non avevo assolutamente capito quanto fosse ardua la salita. Se fossi arrivato al campo base di giorno, non so se ce l'avrei fatta ad affrontarla. E’ veramente una piramide altissima e impressionante, vista da sotto. Per giungere in cima a quota 2300 e oltre, si deve percorrere un lungo sentiero quasi sempre illuminato, e quasi tutto fatto di alti gradini, che s’inerpica a perdita d'occhio, fa il giro della montagna e ricompare e scompare, fino alla cima. Una delle cose più belle, man mano che si sale, anche se è notte fonda, è l'incontro con altri pellegrini salmodianti, che sembrano incoraggiarti con lo sguardo: non c'è pericolo di perdersi. Indispensabile solo una bottiglia d'acqua, per la prima parte del percorso. Si può partire anche senza zaini, visto che s’incontrano lungo la salita innumerevoli baracchini del tè, venditori di frutta, biscotti, altri cibi e anche ricoveri per pellegrini, se proprio non si riesce a farcela. Indispensabili scarpe chiuse, una felpa (è una montagna vera, anche se tropicale, di notte fa freddo e può anche piovere) e tanta energia e voglia! Credo di aver finito. Spero che questo mio racconto, fra l'altro un po' incompleto, vi abbia fatto venire un po' di voglia di andare in SRI LANKA: è un viaggio unico.



Scegliere il pesce più fresco, cucinarlo in modo da esaltarne tutte le migliori caratteristiche, predisporre con attenzione l’ambiente in cui gustarlo, curare la qualità degli ingredienti e ogni possibile preparazione, pensando a chi la assaggerà e a chi si lascerà conquistare da proposte sempre invitanti e di grande interesse. Chi è cliente abituale del ristorante “La Pescheria”, trasferitosi da qualche mese da Ravenna centro in Via Romea Sud 1, sulla strada che porta a Classe, conosce bene queste sensazioni e lo chef Andrea Zauli non si risparmia mai in esperienza, intuito ed accoglienza. Oltre trent’anni al ristorante pizzeria di famiglia “Le torri” di Marina di Ravenna e la parentesi in Via Agnello Istorico hanno insegnato ad Andrea l’importanza della cura dei piatti come del cliente.


Non solo pesce -freschissimo e preparato con particolare attenzione alla stagionalità, alle cruditè e a ricette tipiche della costa ravennate, reinterpretate con creatività - ma anche piatti tipici romagnoli e le pizze, assolutamente da provare. Il cliente può scegliere tra vari menù ed eventualmente personalizzarli per creare eventi indimenticabili, dai pranzi di lavoro ai matrimoni, dalle feste di laurea agli aperitivi, ai compleanni e a ogni altro tipo di ricorrenza, in cui si vorrà mettere il proprio tocco. Il ristorante è facile da trovare, con un ampio parcheggio: si può organizzare un ritrovo per dieci persone come per quattrocento e ricevere sempre una cortese assistenza per le proprie richieste, dall’animazione musicale alle proiezioni video. La pizza, inoltre, torna ad essere protagonista di una serata speciale, dopo una serie innumerevole di richieste da parte dei clienti. Ogni domenica sera, infatti, “Napoli amore mio” vi permette nuovamente di gustare una pizza di alta qualità ed una bevanda a scelta ad un prezzo specialissimo. Per tutte le altre sere d’apertura, verrà proposta a 15 euro la degustazione del menù pizza settimanale: un modo piacevole per apprezzare le deliziose creazioni del pizzaiolo Davide. Le materie prime, la lievitazione e la scelta degli ingredienti che andranno a caratterizzarne il gusto, rendono queste pizze delle autentiche prelibatezze: la farina bio di grano tenero del Molino Marino è macinata a pietra e viene impastata con lievito madre, mentre per il condimento è utilizzato solo olio extra vergine di oliva toscano e di Brisighella, mozzarella proveniente dal Cilento e alcuni presidi Slow Food come le Alici di Menaica, il Cappero di Salina, il Pomodoro San Marzano, il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio, la Colatura di Alici e i salumi di mora romagnola. Per completare l’offerta di quella che è una vera e propria cultura della pizza, origano selvatico di Salina e aglio di Sulmona. Sono tante le occasioni per cui ci si può ritrovare seduti attorno ad un tavolo a “La Pescheria”: l’accoglienza di Andrea e Silvia sarà sempre calorosa e l’esperienza da ripetere al più presto.



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Lo showroom Qlab design è a Forlì presso L’Apebianca. Da quando è iniziata l’avventura Qlab, che basa tutta la produzione su un design eclettico, utilizzando materiali alternativi, dal cartone al polistirolo, o recuperando e riciclando scarti di lavorazione come plastica e alluminio, le obiezioni che più spesso ci sentiamo rivolgere, fanno tutte riferimento al fatto che questi materiali non sono resistenti e che si rovinano o deteriorano più facilmente... Ma più facilmente rispetto a cosa? Del cemento armato di sicuro! Chi l’ha detto che un mobile, un complemento d’arredo o un oggetto debba durare tutta la vita? Viviamo un periodo storico dove non c’è più niente che duri, cambiamo i governi come i calzini, non esiste più il posto di lavoro fisso, le concessionarie invadono gli spazi pubblicitari per “noleggiarti” la tua nuova auto da restituire dopo due o tre anni, per non parlare dei matrimoni, che nascono con il presupposto di essere eterni... Il cartone? ...lo potete stampare, verniciare, scrivere, decorare, ricoprire, poi quando vi siete stancati lo buttate via. Il polistirolo? ..è leggero, robusto, versatile e innovativo, resistente all’acqua e all’umidità, come una tavola da surf. Qlab ha disegnato una cover per iPad in cartone e qualcuno ci ha fatto notare che se cade si rovina: si è vero ma almeno si salva il tablet, non è forse meglio? Chiunque guardi una libreria, un tavolo o una console in cartone, la trova geniale, simpatica e divertente, la osserva con gli stessi occhi di un bambino da Mc Donald’s ma è restio nell’acquistarla per paura che si rovini. Con lo stesso concetto non dovremmo più comprare né scarpe né vestiti: è molto più facile che un divano in cuoio Karibù ti sfinisca da non poterlo più vedere, prima che cominci leggermente a rovinarsi...


Qlab design crea oggetti e complementi “a tempo”: durano finché hanno vita o fin quando tu decidi di dargliene, ti accompagnano per un periodo durante il quale verranno notati e apprezzati, portando un po’ di creatività e di fantasia nella tua casa o nel tuo posto di lavoro. Il percorso di ricerca e collaborazioni ci ha portato sulla via Emilia, a Forlì, alla rotonda di Villanova verso Faenza: qui ci siamo incontrati con L’Apebianca, un ambiente in perfetta sintonia con lo stile Qlab design e abbiamo deciso di fare un po’ di strada insieme. L’Apebianca è un innovativo centro culturale e commerciale, nato a Forlì nel 2012. All’Apebianca puoi trovare tanti piccoli corner e punti vendita dove acquistare prodotti alimentari biologici sfusi a km0, abbigliamento nuovo e vintage, vestiti e giochi naturali per bambini, cosmetici biologici, arredo & design, non ultimo, un ristorante pizzeria bio e tanti altri prodotti green. Uno spazio versatile e giovane in cui passeggiare, curiosare, sostare per leggere un libro o consultare il proprio tablet grazie al free Wi-Fi. ...in alternativa c’è sempre IKEA.

Luca D’Antuono Qlab design Via Redipuglia, 64 - Ravenna - Tel. 0544 401229 - 335 8373775 info@qlabdesign.it - www.qlabdesign.it ShowRoom c/o L’Apebianca - Viale Bologna, 277 - Forlì




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