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It’s Different magazine n.59/2021. free press aut. Tribunale di Ravenna n.1329 del 05/05/2009

CONTEMPORANEA

VITA

Porto turistico Marinara Via Marinara,151 · Marina di Ravenna · RA Ph. +39 0544 538870 Aperto tutti giorni

info@itsdifferent.it n. 59/2021 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà Carlo Lanzoni - Claudio Notturni - Mara Pasti Lehila Laconi FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto

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Ravenna via Cavina, 19 tel. 0544.684226 - 388 3577338 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE.GRAF srl Edizione Emilia Romagna

RIVISTA ACCREDITATA

MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA

FOTO COPERTINA: ANDREA BARDI - RESINA 35 MODELLA: SOFIA CONOCCHIARI

Robert Capa: Humphrey Bogart and Peter Lorre on the set of Beat the Devil

CAPA IN COLOR ROBERT CAPA Tra le più belle mostre fotografiche in cui possa capitare d’imbattersi negli ultimi tempi, merita senza dubbio un posto d’onore Capa in color, allestita nella Sala Mostre delle Gallerie Estensi di Modena, e il titolo dell’esposizione suggerisce bene l’eccezionalità dell’esperienza, dato che Robert Capa, cui è dedicata, è universalmente riconosciuto come maestro indiscusso della fotografia b/n.

Per la prima volta sono state raccolte nella medesima mostra oltre 150 immagini a colori, lettere personali e appunti dalle riviste su cui furono pubblicate, e permettono di conoscere l’opera di Capa nella sua veste forse meno nota, ma fondamentale per comprendere la sua opera in toto.

L’esposizione nasce da un progetto di Cynthia Young, curatrice della collezione di Robert Capa al Centro internazionale di fotografia di New York.

Nato a Budapest nel 1913, Endre Friedmann, naturalizzato poi statunitense col

nome di Robert Capa, iniziò la sua carriera di fotografo per caso, spinto dalla necessità di mantenersi all’università; la consacrazione lo raggiunse dopo l’incontro a Parigi con il grande Henri Cartier-Bresson e raggiunse la fama con i suoi immortali reportage in bianco e nero, che documentarono la guerra civile spagnola, la guerra sino-giapponese, la Seconda Guerra Mondiale, la guerra arabo-israeliana, la prima guerra d’Indocina. Capa catturò con il suo obiettivo immagini iconiche, pubblicate su riviste prestigiose, come Collier’s e Life, in grado sempre di raccontare non solo l’efferatezza dei conflitti, ma di rappresentarne soprattutto le emozioni, che lui stesso provava come osservatore, generando così una nuova consapevolezza nel pubblico in relazione agli eventi bellici. L’incontro con il colore risale al 1938, quando Capa era impegnato in Cina per la guerra contro il Giappone, in un reportage durato otto mesi. Il fotografo scrisse a un amico della sua agenzia di New York: “Spediscimi immediatamente 12 rulli di Kodachrome con tutte le istruzioni su come usarli, filtri, ecc.… in breve, tutto ciò che dovrei

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Capa_Pablo Picasso playing in the water with his son Claude, Vallauris, France

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un’idea per Life”. Del servizio in questione sono sopravvissute solo fotografie in bianco e nero, tranne quattro immagini pubblicate sulla rivista Life quello stesso anno. Questo vuol dire che Capa sperimentò nei suoi lavori le pellicole a colori molto prima che diventasse una pratica comune per i fotoreporter. Sono pochissime le immagini a colori, prima della fine del secondo conflitto mondiale. Fu solo dopo che la produzione di Capa privilegiò questa scelta estetica per raccontare ad americani ed europei la vita quotidiana di persone comuni e paesi lontani, portando comunque sempre con sé una fotocamera per le pellicole in bianco e nero e una per quelle a colori. Tra i suoi primi lavori si trovano le fotografie della Piazza Rossa di Mosca, realizzate durante un viaggio in URSS nel 1947 con lo scrittore John Steinbeck e la vita dei primi coloni in Israele nel 1949-50. Per il progetto Generazione X, Capa si recò a Oslo, a Essen, nel nord della Norvegia e a Parigi per catturare la vita e i sogni delle giovani generazioni nate prima della guerra. Gli scatti finirono sulle pagine di popolari riviste, come le statunitensi Holiday e

Ladies’ Home Journal, la britannica Illustrated e l’italiana Epoca. Il colore rappresentava anche la vitalità della ricostruzione post-bellica, era sinonimo di eleganza e stile… Capa realizzò reportage che ritraevano l’alta società e i suoi luoghi rituali, dalle stazioni sciistiche più prestigiose alle spiagge della Costa Azzurra più frequentate. Anche la moda e il cinema catturarono l’attenzione del suo obiettivo “a colori”: attori e registi sui set cinematografici, come Ingrid Bergman nel film Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, Orson Welles in Black Rose e John Huston in Moulin Rouge. In questo periodo, Capa realizzò anche una serie di ritratti, come quelli di Pablo Picasso, fotografato su una spiaggia con il figlio Claude, o di Giacometti nel suo studio a Parigi. Continuò a lavorare con pellicole a colori fino al termine della sua vita, anche durante il viaggio in Indocina dove fu ucciso nel maggio 1954, lasciando un’eredità professionale che condizionerà tutta l’estetica fotografica mondiale successiva. “Oggi grazie alla possibilità del digitale possiamo riscoprire e valutare nuovamente l’abilità di Robert Capa nel fotografare a colori.

Tutte le immagini in mostra sono state scansionate e poi corrette cromaticamente per restituire alle pellicole il colore sufficiente per renderle adeguate alla versione originale, poiché con il passare del tempo queste, specialmente quelle in Ektachrome, avevano subito perdite di colore importanti – dichiara Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi - Il lungo lavoro di restauro promosso dall’International Center of Photography ci permette di tornare ad apprezzare Robert Capa in tutte le sue sfumature. Con questa iniziativa le Gallerie Estensi vogliono celebrare il colore del passato ma anche segnare un nuovo inizio “a colori” per il museo dopo i lunghi mesi di grigio che la pandemia ha imposto a tutti noi.

La collezione è presentata da ICP-International Center of Photography, grazie a ICP Exhibitions Committee e ai fondi pubblici del New York City Department of Cultural Affairs in partnership con il consiglio cittadino.

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Capa_Ava Gardner on the set of The Barefoot Contessa

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LILIANA RANALLETTA

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STREET PHOTOGRAPHY

Di Tobia Donà Liliana Ranalletta è laureata in Lettere Moderne e ha studiato fotografia con Dario Coletti, Augusto Pieroni, Dario De Dominicis, Claudio Palmisano e molti altri noti docenti. Prima di avvicinarsi alla street photography ha esplorato diversi generi, e soprattutto la macrofotografia che, come lei ama sottolineare, l’ha “abituata a osservare i particolari”. Alla strada e alla gente che la popola, fonte inesauribile di stimolo, dedica gran parte dei suoi scatti. Ama viaggiare e ritiene che ogni angolo del mondo avrà un sapore diverso se visto attraverso l’obiettivo della sua fotocamera. Oltre che alla fotografia di strada, si è dedicata ad alcuni lavori con tematica sociale. La fotocamera è la sua compagna inseparabile: la porta sempre con sé per non doversi mai pentire “di aver mancato una situazione interessante”. Nel suo percorso

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autoriale, Liliana Ranalletta ha pubblicato anche il libro intitolato The fabulous destiny of Dainaly. Da qui cominciamo la nostra intervista a questa sensibile street photographer.

Liliana, raccontaci del tuo libro The fabulous destiny of Dainaly.

Si tratta di una raccolta di immagini relative a un progetto che ho realizzato a Roma, incentrato su Dainaly, una ragazza autistica nata e cresciuta in una famiglia circense. Questo lavoro mi ha permesso di rappresentare il circo attraverso gli occhi della protagonista degli scatti: quindi non i momenti dello spettacolo, ma la vita vera, quella che scorre celata dietro le quinte. Qui possono prendere vita gli eroi che Dainaly ama e che popolano il suo universo immaginario, come Spiderman, che è in realtà suo fratello. Qui la sua fantasia può tessere le sue trame, e solo qui Dainaly non è sola, essendo sempre circondata dall’affetto dei suoi cari. Il circo, quel mondo dove tutto appare finto, diventa l’universo del possibile teatro incontaminato in cui Dainaly riesce a declinare le impercettibili sfumature del suo immaginifico universo, così impenetrabile, a tratti indecifrabile e segreto, eppure fatto di disarmante fragilità e dolcezza. Da tre anni seguo Dainaly e, con pazienza e con l’aiuto dei suoi cari, sono

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entrata a contatto con la sua quotidianità, fatta di piccoli gesti, del suo rapporto speciale con gli animali e con altri componenti della famiglia. Sua madre mi ripete spesso che Dainaly è amore e riceve amore: l’amore che è l’unica chiave possibile per decifrare l’intricato tessuto del suo modo di relazionarsi con i suoi cari e con il resto del mondo.

Si è trattato di un’esperienza molto forte.

Certamente, un’esperienza che non si è, in realtà, mai conclusa, poiché sono diventata una di famiglia e questo mi gratifica molto. Presto ci sarà un festival del circo al quale mi hanno invitata, e dove verrà proiettato un documentario che comprende anche le mie foto. Sfogliando il libro, molti dei circensi ritratti si sono stupiti: avevo scattato alcune fotografie senza che si accorgessero della mia presenza, e questo è stato per me un grandissimo complimento. Ricordo una foto che ho realizzato mentre la veterinaria si accingeva a fare un prelievo di sangue a un elefante. Il proprietario del circo, Rony Roller, resosi conto che l’animale era spaventato, gli ha alzato un orecchio per sussurrargli le sue rassicurazioni e tranquillizzarlo. È stato un momento davvero commovente che contrasta con alcune diffuse convinzioni relative ai possibili maltrattamenti degli animali impiegati

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nei circhi: per esperienza personale posso confermare l’esatto contrario.

Mi racconti com’è nato lo scatto dell’Uomo Ragno?

Semplicemente ho previsualizzato lo scatto e atteso il momento nel quale il ragazzo – Aris – si sarebbe infilato la maschera cogliendo così un istante carico di tensione e mistero.

C’è molta postproduzione?

A mio modo di vedere, la fotografia digitale risulta talvolta piatta nella sua perfezione, e pertanto la postproduzione è assolutamente necessaria. Tuttavia io non modifico le immagini in modo pesante, ma cerco di restituire il ricordo di come le ho viste e, soprattutto, la luce che le illuminava. Se all’inizio della mia carriera cercavo sempre di eliminare elementi marginali che mi sembravano stonare o distogliere l’attenzione dal soggetto, oggi la penso in maniera completamente diversa e lascio che la foto risulti esattamente come l’ho scattata. Per fare questo mi avvalgo di professionisti della postproduzione, come Claudio Palmisano e un suo allievo, ma ho convinto mio marito a frequentare dei corsi sull’argomento: un modo per condividere con lui questa mia passione.

Una delle tue immagini più note è quella nella quale alcuni passanti

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tentano di raddrizzare un lampione.

Sì, è un mio scatto realizzato a Londra dove mi sono imbattuta in alcuni passanti che tentano di raddrizzare un semaforo, piegatosi a causa di un incidente, prima dell’arrivo di un autobus che avrebbe potuto urtarlo. La foto è molto forte perché rimanda idealmente alla nota immagine di Joe Rosenthal, Raising the Flag on Iwo Jima (1945), che ritrae alcuni Marines nell’atto di alzare la bandiera americana.

Altro scatto molto bello è quello della banchina allagata di Istanbul.

Per realizzarlo mi sono recata in questo luogo preciso di Istanbul dopo aver visto una fotografia di Bruno Barbey. All’inizio nulla sembrava meritare di essere immortalato fin quando una grossa onda si è infranta all’improvviso sulla banchina, scombinando una situazione statica e dando vita ad uno scatto molto singolare.

Un’altra tua foto molto nota è quella della famiglia che fa picnic insieme al proprio cane. Ce la racconti?

Lo scatto di cui parli l’ho realizzato a Dublino, e trovo che richiami parecchio proprio lo stile di Martin Parr. Si tratta di una fotografia che ha ricevuto molti riconoscimenti, vincendo anche il concorso ImagOrbetello, e che mi è stata chiesta anche per essere pubblicata in un libro.

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Segui molto il lavoro di altri fotografi?

Ogni mattina, dopo aver letto Il Corriere della Sera, mi siedo davanti al computer e guardo il lavoro dei grandi maestri: credo che ci sia molto da imparare da autori come Robert Capa, Sebastião Salgado, Elliott Erwitt, Gianni Berengo Gardin, William Klein, Robert Frank, William Eggleston, Fred Herzog, Joel Meyerowitz. Per non dire di Henri CartierBresson per la sua attenzione alla composizione, di Alex Webb per la sua capacità di catturare interconnessioni all’interno dell’inquadratura, e ancora di Martin Parr per il modo con cui evidenzia, attraverso l’indagine nel quotidiano, gli aspetti sociali della realtà contemporanea. Oltre a loro, apprezzo alcuni interpreti italiani d’eccezione come Piergiorgio Branzi e Paolo Pellegrin. Infine, credo che anche il cinema sia una grande fonte di ispirazione, e in modo particolare lo sono i film riconducibili al Neorealismo italiano. Ma credo sia fondamentale anche conoscere i grandi maestri della pittura: talvolta è proprio dalle loro opere che un fotografo può rubare l’arte di gestire le luci e le ombre.

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Vuoi parlarci del tuo progetto più recente?

Si tratta del mio ultimo libro che ho presentato a settembre nell’associazione Officine Fotografiche di Roma. È intitolato I sogni li spendo per strada, riguarda la riqualificazione di una periferia romana a opera del gruppo locale di Poeti e Pittori Anonimi: narra la trasformazione da luogo problematico e oggetto di degrado a esempio di bellezza, il tutto attraverso l’uso dei colori e l’arte dell’incontro. In questo libro, per la prima volta, ho deciso di inserire anche un mio scritto, oltre alla parte fotografica. Le fotografie sono state esposte in due mostre, una sempre nelle Officine e l’altra presso la Biblioteca Marconi di Roma.

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VENICE SIMPLON

ORIENT-EXPReSS

Sono ormai passati quasi due anni dall’inizio della pandemia, ma la voglia di tornare a viaggiare liberamente si fa ogni giorno più forte e da parte degli operatori i segni di una ripresa in questa direzione non mancano. La qualità delle proposte, dal punto di vista del turista, è diventato un requisito essenziale per poter selezionare le proprie esperienze di viaggio, in un periodo in cui sono necessariamente ridotte e, perciò, altamente ponderate. Tra le proposte più interessanti, segnaliamo il ritorno del Venice Simplon-Orient-Express, che è pronto per un nuovo inizio, offrendo inediti itinerari alla scoperta dell'Europa nascosta e una serie di nuove Grand Suite a bordo.

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Il romanzo di Agatha Christie “Assassinio sull’Orient Express” rese celebre lo splendido treno d’epoca da cui partì un incredibile e perdurante viaggio nell’immaginario collettivo: entrato in servizio nel 1883, collegò Parigi a Istanbul per quasi un secolo, interrompendo il proprio servizio solo in corrispondenza dei due grandi conflitti mondiali e fermandosi definitivamente nel 1977, schiacciato dalla concorrenza dell’aereo. Nel 1906 entrò in azione il suo gemello, il Simplon Orient-Express, impiegato in tratte più brevi, mentre nel 1982 venne inaugurato il Venice Simplon-Orient Express, che effettuava un servizio ferroviario privato con carrozze ristrutturate degli anni Venti e Trenta, da Londra e Parigi per Venezia. Ed è proprio quest’ultimo esemplare, formato da 17 vagoni letto originali del 1920 e 1930, che torna a deliziare tutti coloro che amano l’eleganza, il mistero e l’avventura evocati anche solo dal suo nome, e che fanno ormai stabilmente parte del nostro immaginario.

Carrozze ristorante sontuose, con steward in livrea a servire piatti esclusivi, e vagoni leggendari rendono magico il percorso di questo treno che attraversa l’Europa e tocca le sue mete più affascinanti: a partire da metà aprile 2022, si potrà scegliere tra il percorso di andata Venezia-Parigi-Bruxelles-Amsterdam, oppure quello di ritorno, mentre il 30 giugno si potrà raggiungere Venezia partendo da Parigi e

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passando per Genova e Innsbruck. Ispirati ai percorsi dell'epoca d'oro dei viaggi, in particolare gli anni Trenta, i nuovi itinerari attraversano l'Italia, la Svizzera, il Belgio e i Paesi Bassi, offrendo nuovi punti di partenza in alcune delle più belle città lungo l’itinerario. Quest'anno le tre nuove Grand Suite -Vienna, Praga e Budapest-arricchiscono il treno, portando a sei il numero totale a bordo. Il design di ognuna di esse trae ispirazione dal fascino romantico, dal senso di avventura e dallo stile inconfondibile delle magnifiche città europee attraversate.

Emblema assoluto del lusso, ciascuna Grand Suite è stata realizzata tramite una meticolosa lavorazione artigianale che ricalca fedelmente la storia del treno, offrendo al contempo ai suoi ospiti il massimo dell'esperienza in termini di privacy e comfort. Dai cuscini ricamati a mano agli intricati intarsi scolpiti, le suite sono vere e proprie opere da ammirare e vivere, impreziosite da splendidi mosaici, motivi in seta, bagni en-suite, letti matrimoniali e una zona soggiorno privata con riscaldamento a pavimento.

Per le partenze da Firenze o Venezia, è possibile abbinare al proprio viaggio un soggiorno presso una delle proprietà in Italia di Belmond: il Cipriani Belmond Hotel di Venezia o Villa San Michele di Firenze.

Il brand Belmond opera da oltre 45 anni nel settore dei viaggi di lusso, specializzandosi nella proposta di esperienze uniche, in alcune delle

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destinazioni più affascinanti e interessanti del mondo.

Dopo aver acquisito nel 1976 lo storico Hotel Cipriani di Venezia, Belmond, che fa parte del gruppo leader mondiale nel segmento lusso LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton, ha costantemente implementato gli standard di settore, permettendo ai clienti più esigenti di tutto il mondo la possibilità di vivere avventure di viaggio varie e sorprendenti. Il portfolio oggi comprende 46 magnifiche proprietà in 24 Paesi, tra cui il Venice Simplon-Orient-Express, l'Hotel Cap Juluca ad Anguilla, lo Splendido di Portofino in Italia, o ineguagliabili luoghi di accesso a meraviglie della natura famose in tutto il mondo, come l'Hotel des Caratas all'interno del Parco nazionale dell'Iguazú in Brasile. Treni, imbarcazioni su fiumi, safari lodge e hotel: ogni struttura è unica e offre un'esperienza irripetibile, con una storia esclusiva tutta da raccontare.

Tra le mission di Belmond, c’è l’impegno a preservare il suo patrimonio attraverso delicati e periodici piani di restauro, facendo affidamento su artigiani e lavorazioni di assoluto valore.

Nostalgia e fasti di un’epoca ormai lontana incontrano la necessità sempre più impellente di vivere il viaggio come un’esperienza da assaporare in pieno e con lentezza, come pure il desiderio di riscoprire i tesori nascosti dell'Europa, con una diversa e inimitabile prospettiva.

La bellezza genera benessere: uno sguardo alla medicina e chirurgia estetica

Dott. Massimiliano Manfredi

Chirurgia Maxillo Facciale

Dott. Andrea Carboni

Chirurgo Plastico Ricostruttivo ed Estetico

Il volto umano è una struttura che si è evoluta, sul piano morfologico ed espressivo, in modo plastico e articolato, per trasmettere importanti informazioni sociali. È il nostro biglietto da visita, in grado di trasmettere un’infinità di dati, è il mezzo più socializzante a nostra disposizione. La capacità di comunicare atteggiamenti, emozioni ed intenzioni, attraverso le strutture facciali, ha raggiunto un livello unico nell’essere umano. Questo potente canale di comunicazione e interazione sociale, però, è soggetto ad invecchiamento, come tutte le altre parti del corpo; un decadimento, talvolta precoce, che purtroppo non può essere nascosto. L’invecchiamento sopraggiunge sia per fattori ambientali (stile di vita, lavoro etc.) sia per fattori genetici. Con il passare del tempo, non solo aumentano le rughe, ma il grasso diminuisce, la pelle perde elasticità e comincia a cedere, le labbra si assottigliano e i tessuti tendono a scendere, facendo perdere la forma ovale o triangolare, tipica del volto giovanile. Tutto questo porta a inestetismi ben noti, come eccesso di cute sulle palpebre superiori, borse sulle palpebre inferiori, bargigli a livello della linea mandi-

bolare, bande platismatiche nel collo, etc.

Nelle fasi precoci dell’invecchiamento facciale, la medicina estetica sicuramente aiuta a ritardare la comparsa di questi antipatici segni. Con vari trattamenti, si può agire - e con grande soddisfazione - su diverse parti del volto, ripristinando volume e lucentezza attraverso l’utilizzo di filler di ultima generazione. Il vantaggio del trattamento medico è che può essere eseguito in qualsiasi momento, non necessitando di un periodo di recupero, e con il procedere degli anni l’integrazione con trattamenti chirurgici mirati e poco invasivi darà risultati incredibili, riavvolgendo le lancette dell’orologio di almeno 10-15 anni, con l’effetto più naturale possibile. La proposta del nostro trattamento Facial Rejuvenation In One Day Surgery prevede l’utilizzo di tecniche chirurgiche e mediche mirate e personalizzate in base alle necessità dei pazienti, in modo da riportare indietro nel tempo il nostro più importante mezzo di comunicazione affettiva, con un processo step by step e poco invasivo, che permette di proseguire normalmente con i nostri impegni quotidiani.

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SHINE Jeff Koons

Jeff Koons, Balloon Dog (Red), 1994-2000

Palazzo Strozzi, a Firenze, è il teatro di una mostra di assoluto interesse, per chi si occupa di arte contemporanea, dedicata ad uno degli artisti più rivoluzionari degli ultimi decenni. Jeff Koons presenta una selezione delle più celebri opere di un artista che da circa quarant’anni continua a scuotere e stimolare il panorama artistico. Jeff Koons nasce nel 1955 a York, Pennsylvania, studia al Maryland Institute College of Art di Baltimora e alla School of the Art Institute di Chicago. New York è la città in cui vive e lavora, portando avanti molte iniziative che

Jeff Koons, Hulk (Tubas), 2004-2018

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esulano dal suo lavoro strettamente artistico. Dal 2002, ad esempio, è membro del Board dell’International Center for Missing & Exploited Children (ICMEC), ed è co-fondatore del Koons Family International Law and Policy Institute, istituzioni che si prefiggono di contrastare lo sfruttamento dei minori e di promuovere la protezione dell’infanzia a livello globale. Le opere della mostra Shine arrivano dalle più importanti collezioni, sparse in tutto il mondo, ed intendono esprimere il valore del lavoro di Koons attraverso la particolare prospettiva della “lucentezza” (shine, appunto), in cui l’apparenza e l’essenza celano, svelano, rappresentano e si intrecciano in un legame indissolubile. Si tratta di una produzione estremamente eclettica, che si dipana dalla metà degli anni ’70, come gli oggetti luxury replicati in forma di sculture di metallo lucido, ad esempio il Baccarat Crystal Set (1986), oppure giocattoli gonfiabili ormai entrati nel mito, come il celebre Rabbit (1986), venduto all’asta da Christie’s nel 2019 per 90,3 milioni di dollari, un record assoluto per un artista vivente. Tante le opere che re-inventano o re-interpretano cose, idee o personaggi in chiave del tutto personale, in grado però di colpire l’immaginario collettivo, facendo dialogare storia dell’arte e consumismo, modelli pop e cultura alta: mettere in crisi il concetto stesso di arte è il

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Jeff Koons, Balloon Monkey (Blue), 2006-2013

Jeff Koons, Seated Ballerina, 2010-2015

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risultato finale di questo processo in cui la lucentezza riflette, genera ulteriori percezioni, nuove prospettive, momenti in cui gli opposti non solo si attraggono ma generano significati inediti.

Un’arte di questo tipo non può non consegnare allo spettatore un ruolo fondamentale nel tracciare l’identità dell’opera, come centro della “riflessione”. <<Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte>>, afferma Koons, da sempre affascinato, non a caso, dal ready-made di Duchamp e dall’ossessione pop di Andy Warhol, in cui l’arte diventa metafora di un’intera società ed epoca. <<Abbiamo lavorato diversi anni per realizzare a Palazzo Strozzi questa grande mostra su Jeff Koons, una delle figure più significative dell’arte contemporanea a livello globale, continuando così la nostra sequenza di esposizioni dedicate ai maggiori protagonisti dell’arte contemporanea>> dichiara Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra - <<Per la prima volta si indaga un aspetto unico e caratteristico dell’arte di Koons, quello legato alla riflettenza e alla luce. Lo “Shine”, termine che dà il titolo alla esposizione, è il principio chiave

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Jeff Koons, Inflatable Flowers (Four Tall Purple with Plas c Figures), 1978

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delle sculture e dei dipinti esposti all’interno della severa architettura quattrocentesca di Palazzo Strozzi, in un dialogo essenziale tra le forme platoniche delle opere e la regola aurea di un contenitore perfetto. Realizzare a Firenze una delle più importanti mostre di Jeff Koons significa pensare alla città come a una moderna capitale culturale, in grado di partecipare in modo attivo all’avanguardia artistica del nostro tempo>>. Impossibile non associare all’arte di Koons - e alla sua persona - aggettivi come controverso, discusso o ironico: le opere in mostra, soprattutto le grandi sculture in metallo lucente, mettono in grado lo spettatore di comprenderne appieno la portata e la dirompenza, e di esserne in qualche modo interpreti. <<Jeff Koons insiste spesso sulla dimensione umana del suo ruolo di artista>> - afferma Joachim Pissarro, curatore della mostra <<In effetti, è corretto dire che il lavoro di Koons colpisce e influenza l’umanità, noi tutti, nella diversità di ciascuno. C’è qualcosa di immediatamente coinvolgente nel lavoro di Jeff Koons, qualcosa che parla al nostro cuore in profondità. Tuttavia, la sua opera è tutt’altro che facile. Il suo impatto è diretto e potente, ma i livelli di significato, le complessità e la ricchezza del suo lavoro sono inesauribili. La possibilità di vedere oggi la sua opera a Firenze è estremamente importante: entra profondamente in risonanza con la tradizione del Rinascimento e ci procura un’intensa gioia e un appagamento estetico. Questo è il mistero di Jeff Koons>>.

DIOR DESIGNER OF DREAMS

Christian Dior: Designer of Dreams è una mostra che racchiude l’essenza di un sogno, la dimensione artistica di una visione che ha condizionato un’epoca, in grado di esprimere uno stile unico e inimitabile.

Precedentemente esposta a Parigi presso il Musée des Arts Décoratifs, con enorme successo di pubblico, la mostra si trasferisce al Brooklyn Museum di New York, ma non si tratta di un semplice trasloco. La mostra riflette, infatti, le prospettive differenti ma complementari della curatela. La storica della moda francese Florence Müller, responsabile insieme a Olivier Gabet della mostra parigina, e il newyorchese Matthew Yokobosky, Senior Curator of Fashion and Material Culture del Brooklyn Museum, propongono un viaggio nel mondo Dior in cui la location della

Christian Dior by Maria Grazia Chiuri. Ecru wool jacket with white cotton "We Should All Be Feminists" print T-shirt and black pleated and dotted tulle long skirt. Ready-to-Wear Spring–Summer 2017. Dior Heritage collection, Paris. © Katerina Jebb

mostra non solo aggiunge nuovi contenuti, in termini di pezzi della collezione in esposizione permanente, ma fornisce anche una nuova narrazione dell’epopea Dior, in cui luogo di partenza e destinazione non sono solo coordinate geografiche , ma elementi in grado di moltiplicare le chiavi interpretative di percorsi, di storie , di persone. Dior iniziò a lavorare nel mondo della moda già durante il secondo conflitto mondiale, ma fu nel dopoguerra che ebbe la possibilità di introdurre compiutamente la sua nuova visione, in cui i dettagli di stile come la forma di gonne e spalline completamente diversa da quella in auge negli anni precedenti, traducono un’idea di femminilità in grado di cambiare il gusto di un’epoca, tanto che i primi modelli appaiono anche in vari dipinti, e vengono presentati in mostra al pubblico per la prima volta.

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Da Parigi a New York, tutto accadde nel 1947, nello spazio di pochi mesi, grazie al lancio della linea New Look, sofisticata e sensualissima. Il passaparola fu incendiario, e l’idea di Monsieur Dior, di rendere felici le donne attraverso le sue creazioni, incontrò l’ansia di rinnovamento del mondo femminile in modo irreversibile, innescando un amore duraturo.

Il cuore della mostra newyorchese celebra l’incontro di Dior con i maestri della fotografia americana, i quali hanno interpretato e diffuso i suoi modelli, diventandone testimoni fondamentali. Nomi famosissimi, come Richard Avedon, Ann Lieboviz, Henry Clarke, David La Chapelle e molti altri, firmano scatti iconici, che rappresentano perfettamente l’impatto visivo di un’arte

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da indossare. Come noto, Monsieur Dior morì nel 1957 all’età di soli 52 anni, ma questo non fermò la sua visione: altri la raccolsero e continuarono a interpretarla, seguendo l’evoluzione dei tempi, e ciascuno individuando una propria fonte d’ispirazione, senza tradire lo spirito originario della Maison. Yves Saint Laurent fu affascinato da Marlon Brando ne Il Selvaggio e dal movimento beatnik, mentre John Galliano si ispirava indifferentemente all’antico Egitto come ai dipinti di Giovanni Boldini, ottenendo un risultato eccentrico e stilisticamente unico. La salentina Maria Grazia Chiuri, ad esempio, nel 2016 si lasciò ispirare dal titolo di un saggio del 2014 della scrittrice attivista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie per lo slogan da stampare su una sua linea di t-shirt della stagione P/E 2017, “We should be all Feminists”. Arte e moda diventano così un potente mezzo per ridefinire il ruolo delle persone nell’intera società, e quindi una semplice maglietta assume una valenza inedita. Molti altri nomi, tra cui Gianfranco Ferrè, si sono avvicendati nel ruolo

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indossare. Come noto, Monsieur Dior morì nel 1957 all’età di soli 52 anni, ma questo non fermò la sua visione: altri la raccolsero e continuarono a interpretarla, seguendo l’evoluzione dei tempi, e ciascuno individuando una propria fonte d’ispirazione, senza tradire lo spirito originario della Maison. Yves Saint Laurent fu affascinato da Marlon Brando ne Il Selvaggio e dal movimento beatnik, mentre John Galliano si ispirava indifferentemente all’antico Egitto come ai dipinti di Giovanni Boldini, ottenendo un risultato eccentrico e stilisticamente unico. La salentina Maria Grazia Chiuri, ad esempio, nel 2016 si lasciò ispirare dal titolo di un saggio del 2014 della scrittrice attivista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie per lo slogan da stampare su una sua linea di t-shirt della stagione P/E 2017, “We should be all Feminists”. Arte e moda diventano così un potente mezzo per ridefinire il ruolo delle persone nell’intera società, e quindi una semplice maglietta assume una valenza inedita. Molti altri nomi, tra cui Gianfranco Ferrè, si sono avvicendati nel ruolo di

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di direttore artistico, e tutti hanno lasciato un’impronta personale, eppure in linea con le idee originarie. Tutta la mostra è permeata dalla loro creatività e ispirazione. Anche gli accessori rivestono un ruolo importantissimo, nella storia della Maison Dior come nel percorso espositivo: nella sezione Colorama sono esposti gli oggetti più svariati, come la collezione di cappelli di Stephen Jones, disposta in scala cromatica.

Un’intera sala è dedicata ai modelli di prova, ed è qui che la maestria del lavoro artigianale dei sarti della casa si rivela in tutta la sua bellezza e sapienza. Il percorso espositivo si conclude sulla volta centrale, a creare l’illusione di un giardino incantato, con tanto di cielo sovrastante in cui la stella, portafortuna di Dior, si moltiplica in una magica illusione.

Non mancano ovviamente i modelli che sono stati indossati da star di ogni epoca, da Grace Kelly a Jennifer Lopez, diventati ormai iconici.

Una mostra che parte dal passato, ma che racchiude in sé tutto il futuro di cui lo stile ha bisogno.

Ristorante Wedding Village Dinner Suite

Via Canala 355 48124 Santerno (RA) 0544 417245

www.vecchiacanala.it

L'ex enclave portoghese di Goa, a metà della costa sud-occidentale dell'India, è stata una destinazione di vacanza n dai tempi del colonialismo, quando le truppe e i funzionari britannici erano soliti arrivare qui da tutto il paese per un posto di "R&R", ovvero "riposo e recupero" che consisteva in tre grandi attrazioni: bar, bordelli e alcolici. Ora sono le spiagge dorate e orlate di palme, sparse lungo i 105 km di costa dello stato, che attirano i turisti, circa due milioni ogni inverno. I viaggi aerei a basso costo l'hanno resa una delle principali destinazioni per i pacchetti turistici per gli europei e negli ultimi anni c’è stato un aumento drammatico del numero di nuovi visitatori nazionali benestanti. Fortunatamente, nonostante il crescente caos delle principali località di Goa, è ancora possibile trovare uno piacevole angolo tranquillo, se sei disposto ad esplorarla. Se sai dove andare, Goa può ancora essere un posto meraviglioso.

a sinistra, turisti indiani a Colva, qui sopra un bagnino di Palolem, sotto la spiaggia di Benaulim (26 km di sabbia senza alcuna interruzione). nella pagina precedente: Ciarans Beach Resort, nel cuore di Palolem, una baia a mezzaluna protetta dalle palme.

se un giorno capiterete in una spiaggia di Goa, sappiate che: - non vi libererete facilmente dei venditori ambulanti (Kovalam) - almeno una volta, alzatevi all'alba, per vedere il ritorno dei pescatori col frutto del loro lavoro (Agonda)

(a destra) - dovrete dare la precenza alle mucche che si rilassano al sole (Palolem) - ci sarà sempre un posticino dove farvi un aperitivo (Arambol) - non tornerete a casa senza aver fatto aquisti nei mercatini (Anjuna)

Via Diaz, 48 Ravenna tel. 0544 39727

Photo credits: Michele Nastasi

SAILING BEAUTY Expo Dubai Di Tobia Donà Con il progetto Sailing Beauty, lo studio CRA-Carlo Ratti Associati, insieme a Italo Rota Building Office, Matteo Gatto & Associati e F&M Ingegneria, ha vinto il concorso bandito da Invitalia per la realizzazione del padiglione Italia all'Expo di Dubai. Il progetto interpreta il tema individuato per il padiglione nazionale, 'beauty connects people', creando un ideale ponte tra un passato glorioso fatto di scoperte e tradizioni marinare e un presente, con un’attenzione particolare all'ambiente e a un'economia circolare, che recupera e ricicla.

All'avanguardia sotto il profilo innovativo ed estetico, fortemente attrattivo nei confronti dei visitatori e in grado di esprimere un’Italia contemporanea, senza dimenticare l'ideale umanistico e lo stile di vita mediterraneo, Sailing beauty imposta un contenitore alto 35 m che si sviluppa su un'area di circa 3.500 mq. Un’idea di immaterialità e di futuro attraversa l’edificio, che non ha pareti ma solo un’imponente

struttura in acciaio che sostiene tre grandi scafi capovolti che, come tre petali, formano i colori della bandiera italiana. Si tratta di un’architettura che vuole raccontare la storia del nostro paese e dei numerosi esploratori che nel secolo scorso hanno solcato i mari, sviluppato relazioni con paesi anche molto lontani, creando contaminazioni culturali e connessioni di conoscenze che ancora oggi rendono unica la nostra creatività.

Gli scafi rovesciati vogliono inoltre rappresentare un messaggio di sostenibilità, sostegno all’economia circolare e al riuso, in rispetto di un’antica tradizione dei popoli di mare e pescatori d’Europa e del mondo. Coerentemente con questo principio Carlo Ratti, architetto e ingegnere, socio fondatore dello studio CRA e direttore del Senseable City Lab presso il Massachusetts Institute of Technology, sottolinea che alla fine della manifestazione le imbarcazioni capovolte potranno essere riutilizzate per altri scopi. Anche la componente digitale è una presenza molto forte e di primaria importanza per il padiglione.

"Il progetto di Ratti, Rota, Gatto e F&M", ha dichiarato Paolo Glisenti, Commissario Generale dell'Italia per Expo 2020 Dubai, "ci permette di realizzare uno spazio non solo espositivo ma rappresentativo del migliore ingegno italiano, offrendo una memorabile esperienza ai visitatori, facendo vedere al mondo competenze, talenti e ingegni multidisciplinari che possono diventare promotori di nuove opportunità formative, professionali e imprenditoriali. Il Padiglione Italia è realizzato con il contributo di aziende partner grandi, medie e piccole - chiamate a fornire le

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migliori componenti costruttive, impiantistiche, tecnologiche e scenografiche, capaci di dimostrare le competenze più innovative impegnate oggi nella sostenibilità, nell'economia circolare, nell'architettura digitale". Il padiglione è stato concepito e progettato con l’utilizzo del BIM (Building Information Modeling), nello specifico del software Revit, che ha permesso al team di lavoro di seguirne tutto il processo di realizzazione, dalla progettazione alla costruzione finale, in luoghi geograficamente diversi. Attraverso il BIM è, infatti, possibile attuare una gestione tridimensionale contemporanea a tutti gli utenti, individuando e risolvendo in tempo reale le interferenze tra spazi architettonici, strutture ed impianti. Inoltre, lo strumento ha permesso di stimare con precisione le quantità di materiali impiegati per la costruzione, nonché il costo e i computi metrici estimativi. In fase di cantierizzazione infine, la metodologia BIM ha permesso la gestione dell’avanzamento dei lavori, monitorando in tempo reale le operazioni di cantiere. Il Padiglione dell'Italia si trova vicino a quelli di India, Germania, Arabia Saudita, Giappone e Stati Uniti, in una posizione assolutamente strategica tra le aree tematiche "Opportunità" e "Sostenibilità" nel sito di Expo Dubai, in una posizione privilegiata anche rispetto ai flussi di visitatori. Il Padiglione Italia è dotato di diversi spazi dalle funzioni adatte ad ogni tipo di evento: presentazioni, ricevimenti, incontri istituzionali, workshop e conferenze.

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PROCIDA LA CULTURA NON ISOLA Procida è una chicca. Raggiungibile in aliscafo o traghetto dai porti di Napoli e Pozzuoli, è la prima isola che si incontra lasciando la costa. Ed è anche quella meno presa d’assalto, perché tutti di solito proseguono il loro viaggio verso le affollate Ischia e Capri, mentre a Procida si fermano gli “intenditori”. Non troverete famiglie schiamazzanti e sciami di ragazzi poco educati, neppure sulla spiaggia. Procida è un’isola per alcuni versi contemplativa, da scoprire metro per metro. E con meravigliosi affacci sugli altri gioielli del golfo di Napoli, come Ischia, che appare ad occhio nudo vicinissima, quasi un prolungamento della stessa Procida.

L’isola è anche la capitale italiana della cultura nel 2022 prendendo il testimone di Parma. La cultura non isola è lo slogan con cui si presenterà al mondo per accogliere in sicurezza i turisti che vorranno scoprirla. L’isola campana ha superato le altre candidate Ancona, Bari, Cerveteri, L’Aquila, Pieve di Soligo, Taranto, Trapani, Verbania, e Volterra grazie a un progetto che – si legge nelle motivazioni – “presenta elementi di attrattività e qualità di livello eccellente e potrebbe rappresentare un modello per i processi sostenibili di sviluppo culturale delle realtà isolane e costiere del Paese”. A Procida ci si muove rigorosamente in bici o ancora meglio a piedi. L’isola ha una lunghezza massima di 4 chilometri e un dislivello di 90 metri. Le strade sono strettissime e non esistono marciapiedi: se ci fossero, non resterebbe spazio sufficiente alla circolazione delle poche vetture dei residenti. Bisogna dunque prendere bene le misure e abituarsi alla limitatezza di questi vicoli. Il nostro consiglio è di visitarla a piedi, percorrendo quotidianamente i famosi 10 mila passi che fanno tanto bene alla salute. Ogni giorno potrete scegliere una direzione diversa da esplorare. Io ho preso spunto da una mappa molto

PIAZZA DEI MARTIRI

TERRAZZA PANORAMICA DALLA CORRICELLA

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LE CAMERE DEI DETENUTI A PALAZZO D'AVALOS

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originale trovata in un ristorante con itinerari basati solo su percorsi a piedi. E così, dal Procida Camp Resort dove abbiamo alloggiato al centro dell’isola – e di cui vi parlo in una recensione dedicata – ho raggiunto il faro abbandonato di Procida, Chiaiolella, Solchiaro con le sue ville nascoste, il promontorio di Terra Murata dove si trova il Palazzo d’Avalos, la famosa Corricella (il vecchio borgo marinaro con le facciate color pastello), Piazza dei Martiri e le varie spiagge, tutte di natura vulcanica e con la sabbia scura. Palazzo d’Avalos è un’antica residenza principesca datata 1563, un tempo “paradiso” dei gatti, che vennero sterminati dai Borboni ma che oggi hanno nuovamente ripopolato il complesso. Nel corso della storia il Palazzo è stato trasformato in carcere fino al 1988, anno della chiusura e inizio della fase di abbandono. Da qualche tempo ha ripreso a vivere grazie alle visite guidate e ad alcune iniziative culturali. Palazzo d’Avalos era un carcere sui generis, con celle come camerate in grado di ospitare fino a 30 detenuti. Venne gestito dai gesuiti che introdussero il lavoro per i carcerati impiegati in attività di taglio e cucito o di giardinaggio e per questo regolarmente pagati. E’ ancora in vita il medico del penitenziario, Giacomo Retaggio, 80 anni, prolifico di racconti e aneddoti.

Qui i detenuti erano uomini “quasi” liberi e c’era chi pagava per scontare la pena nel carcere di Procida. Palazzo d’Avalos si trova nella zona di Terra Murata (così chiamata per le sue fortificazioni medievali), il punto più antico ed elevato di Procida. Da qui si ha una vista privilegiata dell’isola con la Corricella, il Convento di Santa Margherita e l’Abbazia di San Michele al cui interno si trova una tela del 1699 dipinta da Luca Giordano. La Corricella è l’antico borgo marinaro di Procida. La “car-

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tolina” dell’isola con le sue case variopinte addossate una sull’altra. L’uso dei colori era l’espediente escogitato dai marinai per riconoscere da lontano le loro case e puntare la giusta rotta quando rientravano dalla pesca. I più maliziosi raccontano che in questo modo riuscivano anche a controllare da lontano che le mogli non li tradissero... Si accede al borgo da ripide scalette. Lo spazio del porto è pedonale e si anima soprattutto la sera con i suoi ristorantini, i negozi, le barche dei pescatori e le reti ammassate sul molo. Le spiagge di Procida sono di natura vulcanica con la sabbia scura e non molto ampie. Non aspettatevi dunque i colori della Sardegna ma l’acqua è piacevole e molto pulita. La Spiaggia della Chiaia è la più vicina al Procida Camp Resort. Vi si accede scendendo 180 scalini.

E’ soleggiata dalla mattina al primo pomeriggio, poi va in ombra. La Chiaiolella è un lido attrezzato e il più frequentato durante l’estate. Da lì a piedi potrete raggiungere e percorrere il ponte che porta all’isolotto di Vivara, con la sua caratteristica forma a mezzaluna, una riserva naturale chiusa al pubblico e visitabile solo con guide autorizzate.

Probabilmente è quel che resta della cresta di un cratere vulcanico. Qui sono stati rinvenuti reperti archeologici dell’epoca micenea. La marina di Chiaiolella è un piccolo porto turistico dove potrete organizzare un giro in barca. Vi consigliamo lo yacht Toli di Marine Dream Boat, la barca della salute come la definisce la sua proprietaria Adele Sparavigna, dermatologa affermata con la passione della nautica che vi proporrà tour insoliti all’insegna del benessere. Ciraccio è la spiaggia più estesa di Procida. Il mare è aperto ma anche più mosso e il fondale basso. Il sole cala molto tardi, regalando ogni giorno splendidi tramonti. Nella baia accanto, si trova la spiaggia diventata famosa

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per alcune scene girate nel film Il Postino con Massimo Troisi. La spiaggia è attrezzata con stabilimento e ristorante, ma c’è anche una parte di spiaggia libera. Le indicazioni e la storia di questo lido sono un po’ ovunque in tutta Procida. E il ricordo di Massimo Troisi strappa sempre un sorriso malinconico. A Procida si mangia molto bene e si spende il giusto con pesce fresco e ricette locali. La prenotazione è consigliata ovunque. Per un aperitivo con vista tramonto e atmosfera lounge alla Chiaiolella c’è il Solarium Maresia. Sempre alla Chiaiolella sul mare per la cena vi consigliamo Crescenzo: la fritturina di triglie e la sbrisolata con i fichi dell’orto sono qualcosa di speciale. Alla Corricella andate da Caracalè, raffinato al punto giusto. La Pergola si trova al centro dell’isola in una stradina nascosta. Il ristorante è sotto un pergolato di limoni, molto suggestivo e propone ottimi piatti. Prima di ripartire, al porto della Marina Grande mangerete un’ottima frittura di alici all’Approdo. E non dimenticate di assaggiare le lingue di Procida, dolci tipici dell’isola di pasta sfoglia con un velo di crema pasticcera all’interno. Vi abbiamo parlato in un’ampia recensione del Procida Camp Resort, un glamping immerso nella natura e con tutti i confort di un hotel di livello. La nostra scelta per una vacanza originale e fuori dai canoni a Procida. Procida si raggiunge facilmente: in treno fino a Napoli e dal molo Beverello in aliscafo o traghetto con varie compagnie. L’isola è raggiungibile anche dal porto di Pozzuoli sempre in aliscafo o traghetto.

Laura Ciarallo

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ABBAZIA DI SAN MICHELE A TORRE MURATA