catalogo "Inopinatum"

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Italo Chiodi

inopinatum


Italo Chiodi

inopinatum

a cura di Giuliano Zanchi


Giuliano Zanchi

Il vecchio dibattito tra figurativo e astrazione, che ha avuto i suoi momenti di clamore e di attualità e che ora sopravvive perifericamente solo in certe ridotte credenti, mostra sui tempi lunghi di aver elaborato una questione dalla sostanza alquanto limitata. Travolte nel gorgo del visivo mediale, anche le discipline artistiche si sono congedate da vane alternative. Ma era una cosa evidente fin dall’inizio. Il gesto di figurare non avviene senza astrazione. L’astrazione del resto non si dà senza contenuto. Il processo attraverso cui tutto quanto riteniamo reale accede alla percezione e viene restituito in una forma va sempre molto oltre la semplice alternativa fra l’idea pura e il racconto fedele. Lo hanno dimostrato in molti. Il lavoro di Italo Chiodi si mette nella loro scia accostando quasi didatticamente atteggiamenti che solo in apparenza sono distinti, ma nella realtà sono complementari, come nell’unico sguardo che compongono due occhi. Grandi monocromi, animati peraltro da subliminali striature, acco-


stano per esplicita risonanza timbrica aggrovigliati primi piani naturali, tortuose radici vegetali, il fermo immagine di un groviglio linfatico che, osservato al microscopio di uno sguardo che un tempo si sarebbe detto contemplativo, ingigantisce in una seducente trama grafica, degna della migliore astrazione naturalistica. Il lampo visivo che ne viene attiva l’intensità di quella percezione del sacro che ada tempo l’arte ha imparato a deporre nell’emozione del colore e nell’intelligenza della natura. Sacro antropologico, elementare, arcaico, di lontana ascendenza romantica, non necessariamente traducibile nell’esplicito sentimento della fede religiosa, piuttosto agitatore subliminale della coscienza individuale quando viene toccata da qualcosa di reale eppure innominabile, qualcosa che si dà nel concreto eppure sullo sfondo dell’incondizionato. L’essere umano si trova perennemente esposto al sacro. Visibile o invisibile che sia. Nella potenza dell’inatteso. E quando succede la sua enigmaticità interroga e

perturba, nel brivido e nel tremore, reclamando all’uomo una parola, come un segno di presenza e di vita, un atto di posizione, che prende sempre la forma congiunta della visione di un’ineffabile e dell’ispezione del sé. Esposto al sacro, l’essere umano si confessa. Entra in quella condizione di verità che Italo Chiodi prova a suggerire con quegli altarini in cui si accoppiano immagini di natura e di preghiera, per evocare quei gesti usuali di omaggio devoto o quelle pratiche di adempienza religiosa in cui un essere umano si trova in una bolla di inevitabile trasparenza, quel metro quadro davanti al segno sacro, imbevuto del tremore di un lume, dentro il quale ogni coscienza resta scoperta, nuda, trasparente, privata di ogni possibile evasione dissimulatoria. In quel metroquadro si manifesta enigmaticamente il sacro ma si svela apertamente la coscienza. Qui sta l’inatteso che ogni volta si rinnova. Italo Chiodi, con questa selezione di opere, ne rinnova lo spiazzante incanto.


Quanto dura un lumino? E quanta luce fa? Sempre sconfitto dal tempo e dal buio, tu sei, a volte, l’inutile necessità. – Ti ricordi chi ti accese e per che cosa? Ti ricordi? – Chi?




Vive nel buio la radice, in un buio denso. Non ha spazio il buio della radice, è tutto di materia pieno. Gli han parlato di un mondo fatto di luce e di spazi vuoti. Non sa cos’è il sole, la luce se la immagina così: di gesso. Una luce fatta di materia, come il suo mondo, così come lei.


Non so cosa sia la luce e l’aria, io conosco il buio e la materia. Non so cosa sia il fruscio delle foglie e il cinguettio degli uccelli, io so cos’è il silenzio. Ma anch’io, anch’io sono la pianta.

Luoghi liminari, 1


Silenzioso è il sottobosco, silenzioso. Fruscii, rumori ovattati, e la vita è nascosta, clandestina. Costretto e protetto il sottobosco vive orizzontale, attenuata, su di lui, si abbatte la furia del temporale. E sotto, sotto le radici.

Luoghi liminari, 2


Ostinatamente scendo, scendo; conosco solo la gravità. Stringo, mi áncoro, io sono la staticità. Amo l’acqua, non so cosa sia l’aria. Sono tutta bocca, io non ho polmoni. Sono la radice. Sono il canone inverso.

Luoghi liminari, 3


Noi siamo quelle che non si vedono, siamo le vene sotto l’asfalto del marciapiede. Sentiamo appena le vibrazioni dei passi e dei suoni di un mondo che non ci appartiene. Noi siamo sotterranee tutte tese ad aggrapparci. Noi viviamo nella terra.

Luoghi liminari, 4



4 dicembre 2018 – xx gennaio 2019 a cura di Giuliano Zanchi didascalie di Luciano Passoni fotografie di Matteo Zanga progetto grafico Dario Carta

Stampato in Italia nel mese di novembre 2018



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