CITIES 8

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NUMERO VI I I

WORLDWIDE Richard Bram

Gabi Ben Avraham Michelle Rick Cody Ellingham

STORIE DAL BELPAESE Michele Liberti

Graziano Panfili Giovanni Paolini Giovanni Presutti

FOCUS AUTORI Roberto Gabriele

Lorenzo Cicconi Massi Nick Turpin Gulnara Samoilova




Introduzione

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Wo r ldw i d e

Storie di autori stranieri a cura di Attilio Lauria e della redazione social FIAF Cuban Sketches - Richard Bram / testo Sonia Pampuri Streets World - Gabi Ben Avraham / testo Mariafrancesca Pantano Streets of NY - Michelle Rick / testo Antonio Desideri Shanghai Streets - Cody Ellingham / testo Susanna Bertoni

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s t o r i e da l B elpa e s e

Storie di autori italiani a cura di Vanni Pandolfi, testi di Vanni Pandolfi

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Southern Streets - Michele Liberti Islam Space - Graziano Panfili Metropolitan Impressions - Giovanni Paolini China Land - Giovanni Presutti

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F o c u s Au t o r i

Interviste e focus portfolio a cura di Sonia Pampuri

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Sì, Viaggiare... - Roberto Gabriele Intima Immaginazione - Lorenzo Cicconi Massi Mutatis Mutandis - Nick Turpin La sorpresa dell’arte! - Gulnara Samoilova

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Postfazione

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N U M ERO V III

Cities Vol. VIII Prodotto e distribuito da Concept Copertina e Photo editing Grafica

Aprile 2021 ISP - Italian Street Photography Angelo Cucchetto Graziano Perotti Studio grafico Stefano Ambroset © Tutte le foto appartengono ai rispettivi autori

w w w. i t a l i a n s t r e e t p h o t o g r a p h y. c o m / c i t i e s



Ottavo numero di CITIES, che numero rotondo! Da questo numero, anche per festeggiare 4 anni di vita, introduciamo una importante sezione, che siamo sicuri interesserà a molti lettori: i Focus Autori, interviste e profili di autori interessanti nel panorama internazionale ed Italiano della Fotografia, con un occhio di riguardo per la Fotografia urbana. Il magazine apre come solito con la sezione Worldwide, dedicata agli autori stranieri e curata da Attilio Lauria con la redazione Social di FIAF, con testi di Susanna Bertoni, Antonio Desideri, Maria Francesca Pantano e Sonia Pampuri. Quattro le storie che compongono quella sezione, storie di autori che rappresentano bene tutto il mondo della moderna fotografia Urbana internazionale: Gabi Ben Avraham, Richard Bram, Cody Ellingham e Michelle Rick. Segue una sezione dedicata alle Storie del Bel Paese, curata da Vanni Pandolfi anche nei testi, che ha selezionato 4 storie di autori Italiani molto interessanti: Michele Liberti, Graziano Panfili, Giovanni Paolini e Giovanni Presutti. Chiudiamo poi appunto con la sezione Focus Autori, curata da Sonia Pampuri, che ha proposto a 4 Autori cinque domande, cercando di tracciare un quadro dell’attuale situazione della Fotografia e del valore che ha oggi per loro nel nostro contesto culturale e sociale. Ad ogni autore viene dedicato ampio spazio, con immagini dei suoi diversi lavori. Lorenzo Cicconi Massi, Roberto Gabriele, Gulnara Samoilova e Nick Turpin ci offrono le loro risposte, e Sonia ci aiuta a conoscerli meglio attraverso i loro lavori. Anche questo numero è stato messo insieme nelle sue scelte fotografiche finali da me e dal nostro photoeditor Graziano Perotti, che per questa rotonda occasione firma anche la copertina del magazine, con una splendida ed inedita immagine da lui scattata a Milano, un’immagine emblematica ed iconica che ci offre speranza, spiragli di luce nel buio che tuttora ci affligge. Grazie a tutti questi ottimi Autori, e grazie a voi per continuare ad apprezzare CITIES :-) Angelo Cucchetto

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Il prossimo mese, precisamente dal 23 al 25 aprile, si terrà la quarta edizione dell’Italian Street Photo Festival realizzato in partnership con FIAF, che per le note vicende legate alla pandemia di Covid19, quest’anno sarà interamente online, con letture, workshops e talks in streaming. Fra i numerosi ospiti della manifestazione un ruolo certamente di primo piano è affidato a Richard Bram, giudice del contest dedicato alle foto singole, e animatore di uno dei workshop previsti dal programma del Festival. Membro fondatore di iN-PUBLiC, il primo e più noto collettivo internazionale di fotografi di strada, di Bram proponiamo un lavoro che si allontana da quelli realizzati nelle complesse società metropolitane, di cui si può definire un cantore: Londra, e soprattutto New York. Senza dubbio la sua è una fotografia che vive di quei meccanismi narrativi tipici della street, fatti di rapporti e contrasti fra primo piano e ambientazione di sfondo, ma che allo stesso tempo non si esaurisce nella ricerca dell’effetto “meravigliao”. Tant’è che spesso necessita di quel supplemento di sguardo che conferisce allo scatto la profondità di un piccolo racconto, a partire da un “gesto significativo”, come lo definisce lo stesso Autore. In questa nostra riflessione periodica sulla fotografia street/urban i suoi “Appunti cubani” ci aiutano piuttosto a mettere in luce i rapporti osmotici fra street e reportage; non è un caso infatti che l’Autore titoli “appunti” questo lavoro, sottolineandone la collocazione in una terra di confine fra due generi che in questo caso, piuttosto che realizzare un’ibridazione, rivelano una dimensione di complementarietà al servizio di un’esigenza narrativa. D’altra parte, se nella street le serie sono selezioni che si stratificano nel medio-lungo periodo, pur rimanendo comunque dei lavori ongoing, altra cosa è misurarsi con un tempo limitato come quello di un breve viaggio, che obbliga necessariamente ad un approccio diverso. Già ospite anche lui dell’Italian Street Photo Festival nel 2018, Gabi Ben Avraham è il vincitore dello Street Photography Award 2020 di Lensculture per foto singole. Come ricorda Maria Francesca Pantano, la sua è una fotografia in attesa, spesso decisamente lunga, che “le cose convergano”. Espressione che insieme al “gesto significativo” di Richar Bram ci parla dei tentativi, anche brillanti, di allontanarsi dalla definizione- manifesto bressoniana. E, al tempo stesso, di quanto questa rimanga pur sempre un tributo obbligato per chi venga richiesto del senso del proprio fotografare. C’è poi la calda intensità dei colori di Michelle Rick, il cui uso ricorda la straordinaria “modernità” - secondo il titolo di una pubblicazione antologica che ne ufficializza l’ingresso post mortem nell’empireo dei Grandi Autori -, di Fred Herzog. È anche per questo che nonostante i nuovi frequentatori di luoghi come Coney Island, riferimento iconico ad una sorta di palestra obbligata per generazioni di autori, ad iniziare da Harold Feinstein, che nelle foto della Rick si respira un’atmosfera vintage. Assolta però la carica rivoluzionaria delle origini, la saturazione di oggi appare, come rileva Antonio Desideri, un’efficace metafora della società contemporanea, “satura nel senso della densità degli eventi, dei messaggi, delle persone; dei significati, in ultima analisi.” Nell’esplorazione dei diversi linguaggi della street contemporanea, la proposta di questo numero si completa con la Shanghai notturna di Cody Ellingham, che a dispetto dei 30 milioni di abitanti che ne fanno la seconda metropoli più popolosa al mondo, è solitaria, silenziosa, lontana sia dal caos diurno, che da quella scintillante ad uso turistico. Ma se la fotografia street/urban vive del rapporto fra i luoghi e le persone, in questa prospettiva ci si potrebbe domandare allora se una città vuota non sia un ossimoro. In realtà questa Shangai è una città che risuona dei passi randagi dell’Autore, protagonista, anche se non visibile, di queste che appaiono delle riprese cinematografiche in soggettiva, indifferenti alla verticalità, e per questo lontane dall’essere semplice paesaggio urbano. Se in genere sono gli altri ad essere i soggetti della fotografia, in questo caso è l’autore stesso che racconta, attraverso una passeggiata insonne nella notte cittadina, qualcosa di intimo che invita al riconoscimento. Del resto, cosa fanno street e urban se non parlare di noi? Attilio Lauria


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Cuban Sketches Richard Bram


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Cuban Sketches Richard Bram

Un taccuino di viaggio come quelli di Chatwin, dove le parole si mescolano agli scatti, ai disegni a comporre un breve ma intenso quadro che ritrae la Cuba di oggi, sospesa tra il passato e il presente. Una Cuba colorata e allegra anche se la fame e la povertà popolano i vicoli e le vecchie case dell’Havana. L’obiettivo di Bram ci restituisce senza giudizio ma con forte emozione questo tessuto contraddittorio di nostalgia e progresso, ma lasciamo che sia lui stesso a condurci per mano in questo meraviglioso e colorato viaggio: “Per anni avevo desiderato visitare Cuba, ma gli inutili e crudeli embarghi e restrizioni americani lo rendevano difficile. Finalmente nel marzo del 2016 si è presentata un’opportunità tramite il buon amico e bravo fotografo Jaime Permuth e la School of Visual Arts e sono partito. È stato un breve viaggio, solo una settimana. La maggior parte del tempo l’ho trascorsa nel centro dell’Avana, con una sola pausa per fare un viaggio nella lussureggiante e bellissima campagna occidentale intorno a Viñales. A L’Avana, le strade strette sono fiancheggiate da splendidi edifici coloniali, spesso fatiscenti. I giovani si riuniscono nelle piazze di notte per l’accesso a Internet pubblico poiché non c’è Internet privato. Le persone lottano per mantenere vivi i loro veicoli obsoleti. Quelle vecchie auto sono necessità, non lussi nostalgici. Quasi nessun nuovo veicolo è stato importato dal 1959. Le strade sono i salotti delle persone; tutto accade lì. Lavorano, fanno acquisti, aspettano in fila per le necessità, si incontrano, parlano, si incontrano, prendono un boccone o un caffè in uno snack bar. Non c’era tempo per guardare in profondità questa nazione vibrante ma povera che lottava per fare progressi in circostanze difficili. Per lo più ho fatto quello che faccio sempre: camminare per le strade, osservando in silenzio quello che succedeva intorno a me, cercando di non risultare di intralcio mentre fotografo persone comuni che vanno avanti con le loro vite, cercando gesti significativi. Queste fotografie sono i miei appunti, i miei disegni di quelle passeggiate”. Sonia Pampuri

Da oltre 35 anni Richard Bram si aggira per le strade del mondo alla ricerca dei momenti speciali della vita quotidiana. Ha lavorato a grandi eventi pubblici e momenti intimi privati, sempre con un occhio a quel gesto significativo per animare le sue fotografie. Nato a Philadelphia, USA, nel 1952, Bram si dedica alla fotografia dal 1984. È membro fondatore di in-public, ora UP Photographers, il primo collettivo internazionale di street photography. Oltre ad essere regolarmente pubblicato su riviste tradizionali e digitali, scrive regolarmente e tiene conferenze sulla fotografia di strada. Oggi, di base a Londra, spera di essere presto nuovamente in movimento alla ricerca di nuove immagini. Sono stati pubblicati tre libri del suo lavoro, “Richard Bram: Street Photography” (2006), “Richard Bram: NEW YORK” (2016) e “Short Stories” (2020). A luglio e agosto 2020, Bram ha ricevuto l’onore di un’importante mostra retrospettiva personale al Mannheimer Kunstverein di Mannheim, in Germania. Il suo lavoro è stato visto in oltre quaranta mostre personali e mostre collettive in tutto il mondo. Nel 2011 Bram ha curato “From Distant Streets”, una mostra di 29 fotografi di strada internazionali.

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Streets World Gabi Ben Avraham


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Streets World Gabi Ben Avraham

Se si dovesse cercare il fil rouge della produzione fotografica di Gabi Ben-Avraham, fotografo israeliano di Tel Aviv, lo si troverebbe nella sua propensione a rendere visibili persone, eventi e gesti che solitamente, nel contesto caotico che li circonda, sfuggono allo sguardo di chi osserva in maniera fugace e distratta. Degli scatti di Gabi a colpire è il surrealismo delle sue “catture” fotografiche; mescolando perfettamente i due elementi essenziali del manifesto di Breton, l’inconscio e la casualità, vengono rivelate circostanze particolari cercate con meticolosità e pazienza tra le strade della città. E’ lui stesso a fornire questa chiave di lettura: per Gabi la Street Photography rappresenta il modo migliore e preferito di scrutare il mondo restando in piedi ad osservare ciò che lo circonda attraverso la macchina fotografica, aspettando a lungo che “le cose convergano”, perché “la strada è vita e le cose cambiano costantemente, c’è sempre una storia da catturare”. In Streets World l’autore ha raccolto scatti che sembrano riferirsi a realtà distanti ma legate da una qualche relazione che le unisce, così che gli elementi che compongono ogni foto pur apparendo indipendenti dialogano attraverso forme, luci, ombre, assonanze. Il ragazzino che sembra volare e sullo sfondo un aereo che passa, il barboncino sull’ingresso di un negozio e la pelliccia della signora che lo guarda, la barba canuta di un passante e dietro i capelli della ragazza vestita da farfalla, il dito che indica no mentre la ragazza accende la sigaretta, è uno schema che si ripete, una ricerca puntigliosa di quel preciso momento. Istanti surreali in contraddizione ma contemporaneamente connessi che l’autore ritrae in modo da indicare una diversa qualità del comune guardare che è il vedere. Il suo portare sempre con sè la macchina fotografica ovunque vada, la voglia di catturare l’attimo, lo stesso modo di intendere e vivere la fotografia rivelano che Henri Cartier-Bresson ha avuto grande influenza e fascino su Gabi, come rivela lui stesso in un’intervista. A confermarlo l’utilizzo del bianco e nero, le composizioni ed alcuni scatti che sembrano degli omaggi al grande “occhio del secolo”, come l’uomo sulla scala a chiocciola, richiamo all’ “Uomo in bicicletta nella Down Street”. Gabi non fa mistero di questo suo tributo, ma, al tempo stesso, ricerca una riconoscibilità delle proprie foto che individua nella necessità di rendere visibili quei “fragili contorni” inghiottiti da un quotidiano urbano frenetico, facendoli emergere dal caos. E se il “Carpe diem” di Orazio invita a cogliere il tempo che fugge, Gabi nelle sue foto coglie il tempo che non si vede, quell’attimo che altrimenti rimarrebbe invisibile. Il momento. Quello che “una volta che te ne accorgi è andato via per sempre”. Mariafrancesca Pantano

Gabi (Gavriel) Ben-Avraham è un fotografo israeliano. Vive a Tel Aviv, città che non ha mai lasciato e che rappresenta lo scenario di buona parte della sua produzione fotografica, dove lavora in una società di software. Ha iniziato a fotografare negli anni ’80, successivamente non ha più toccato una macchina fotografica per 20 anni fino a quando non ne ha ricevuto una come regalo di compleanno. Da allora non si è più fermato arrivando ad essere il vincitore del contest Street Photography Awards 2020 nella categoria Single Image.

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Streets of NY Michelle Rick


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Streets of NY Michelle Rick

è un mondo saturo quello di Michelle Rick. E non sto parlando solo di colori o di pienezza del nero e delle ombre. E’ un mondo saturo nel senso della densità degli eventi, dei messaggi, delle persone; dei significati, in ultima analisi. Perché la sua città sembra piuttosto un mondo rutilante dove gli eventi corrono, le persone paiono di passaggio anche quando stanno ferme ad un angolo di strada mentre sbirciano nel loro smartphone. Mi capita sempre più spesso, davanti alla fotografia street, di ripensare alle parole di un grande utopista del ‘900 come Lewis Mumford che per lunghi anni fu uno degli urbanisti più influenti nella riflessione teorica sul tema della città. Al riguardo, diceva che essa non dovrebbe essere soltanto «la sede degli affari e del governo, ma soprattutto un organo essenziale per esprimere e attuare la nuova personalità umana, (…) la volontà individuale e collettiva dei suoi cittadini, che ha per meta l’autocoscienza, l’autogoverno e la realizzazione della propria personalità». Oggi, che sembrano passati secoli da allora, la situazione si è forse ribaltata: la città sembra essere diventata il luogo dove gli strati si accumulano uno sull’altro con una velocità inaudita; è come se l’inevitabile fossilizzazione delle nostre esistenze, ovvero il processo continuo del loro susseguirsi, avvenisse non nel corso dei millenni (e neanche in quello di un anno o un giorno) ma in tempo reale. C’è una fretta che spaventa, una frenesia irrisolta in queste immagini, anche in quelle dove i soggetti sembrano in ‘tranquilla’ posa davanti all’obiettivo. C’è sempre un sorriso, un gesto o una storia che sembrano volerci catturare con la loro velocità, con la trina sottile e fragile dell’esistenza ridotta a simulacro, a decorazione visiva. E Michelle Rick ha un modo molto personale di stare addosso alle cose, alle persone, ai luoghi: partecipa col suo sguardo, ha quasi sempre un soggetto nel pieno centro del fotogramma, sul limite visivo anteriore come in un proscenio. Più in generale si ha l’impressione che la sua ricerca visiva accompagni questo sentimento del vivere, dello stare “al” mondo e lo rappresenti in maniera così rigogliosa, quasi barocca per farcene cogliere una rappresentazione possibile e potente dove i forti contrasti, le idiosincrasie, gli spazi sono riempiti dalle nostre presenze. Ecco una trasparenza che non si limita a lasciar passare lo sguardo dell’osservatore nel gioco, appunto, del traguardare ma si pone come soglia e come limite aperto dal quale affacciarsi. E non importa essere vecchi curvi, bambini perplessi o giovani marinai sorridenti: tutti sembriamo interrogarci a proposito dello spazio che stiamo riempiendo mentre ci muoviamo da un luogo all’altro, da una situazione alla successiva, da uno sguardo a quello che ci scoprirà di lì a poco. Un velo impalpabile, dicevamo, pronto però a sbriciolarsi al primo alito di colui che passando osserva distrattamente il mondo. E persino Coney Island non è più un luna park se il parco dei divertimenti sta su ogni marciapiede che possiamo calcare con la nostra reflex al collo. Antonio Desideri

Le note biografiche di Michelle Rick ci dicono che è newyorchese, vive nel Greenwich Village, ed ha una carriera già lunga (tra le innumerevoli collaborazioni con la stampa citiamo almeno quella col New York Times) e piena di attività: mostre, interviste, membro di giuria in importanti contest di street photography come quelli londinese e australiano. Fa parte dei collettivi Superluna (dal 2019) e New York City Street Photography (dal 2020). Il suo profilo Instagram è @villagegirl, il suo sito www.michellerick.com.

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Shanghai Streets Cody Ellingham






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Shanghai Streets Cody Ellingham

La fotografia come strumento di ricerca e costruzione di senso Shanghai, la seconda metropoli più popolosa al mondo con quasi trenta milioni di abitanti, caotica, sovraffollata, soffocata dall’inquinamento delle sue industrie e dallo smog del suo intenso traffico. Affascinante, accattivante, ipermoderna e ipertecnologica, un mix di Oriente ed Occidente, tra radicamento alla tradizione e forte spinta al progresso. Le nuove aree vengono edificate con una velocità pari a quella con cui i vecchi quartieri vengono demoliti. Le ristrutturazioni radicali si susseguono a ritmo incalzante, causando la progressiva scomparsa della città vecchia e favorendo il fenomeno della gentrificazione, con la conseguente perdita dell’essenza di ciò che quei luoghi erano in origine. Nell’immaginario collettivo odierno vince l’iconografia della Shanghai postmoderna ma occorre amarla profondamente per sentire la necessità di preservarne l’anima ed il mood dei tempi antichi. Cody Ellingham, fotografo neozelandese di base a Tokio, ha intrapreso un progetto volto a valorizzare la fusione tra gli scorci urbani storici, destinati a soccombere alla globalizzazione e al business, e le architetture avveniristiche, nella convinzione che un luogo sia sempre il risultato di tutto ciò che è stato in passato. Fotografa di notte, nell’atmosfera rarefatta di uno spettrale silenzio, in un tempo che sembra dilatato, quasi impalpabile. Si aggira fra i condomìni fatiscenti ed i vicoli in stile Shikumen - le caratteristiche abitazioni di metà ‘800 che coniugano elementi occidentali e cinesi tipiche della città -, lontani anni luce dalla contemporanea ribalta sfavillante, restituendo surreali frammenti di vita quotidiana, costringendo alla riflessione sul trinomio passato-presente-futuro. Il lavoro di Ellingham assume, così, una connotazione di carattere etico, dando voce alla Cina popolare che ancora resiste, quella del vociare dei mercati di carne e pesce, delle botteghe artigiane, degli orticelli in fazzoletti di terra, degli abitanti seduti sul ciglio della strada, delle motorette truccate e delle biciclette cariche di merce. “Mi propongo di fare domande invece di dare risposte con le mie immagini”, dice lo stesso autore. La sua fotografia è quindi il mezzo per una necessaria costruzione di senso, la cui analisi, in tempi successivi, sarà un utile strumento di rilettura critica del momento storico in cui è stata colta. Il progetto fotografico di Cody Ellingham sull’esplorazione delle città del mondo in notturna è raccolto nelle Zine “Derive”, visionabili sul sito dell’autore https://codyellingham.com Susanna Bertoni

Fotografo e narratore, creatore di DERIVE Wanderer Magazine. Nato a Hawkes Bay, in Nuova Zelanda, è cresciuto esplorando le montagne e i fiumi che definiscono il paesaggio natio. Autodidatta, il suo approccio combina fotografia e media digitali. Affascinato dalla storia dei luoghi e dal loro cambiamento nel tempo, concentra la propria attenzione principalmente sull’interazione uomo/paesaggio urbano. I suoi lavori sono stati esposti in Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Nuova Zelanda.

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Nella sezione dedicata alle storie di fotografi Italiani troviamo 4 autori veramente superlativi, a testimonianza che la Fotografia in Italia è viva e molto interessante. Autori che si esprimono attraverso un linguaggio diverso tra loro ma tutti accumunati dall’essere ben consapevoli di quale sia il percorso da intraprendere per rendere la propria Fotografia unica e speciale. Con Michele Liberti e Graziano Panfili osserviamo una Fotografia piu’ aderente alla realtà, realista, che indaga la società in maniera fedele, seria ma anche ironica e divertente. Giovanni Paolini e Giovanni Presutti poi portano avanti un tipo di Fotografia che tende a caratterizzare la realtà attraverso le proprie idee ed emozioni. Si costruiscono così Mondi che partendo da una base di realtà quotidiana approdano con piu’ o meno intensità nell’immaginifico. Realtà e creatività si fondono quindi in questa sezione di Cities, il vero ed il sogno, il Mondo reale e quello fantastico. Due generi diversi ma necessari di cui la Fotografia ha immensamente bisogno.


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Southern Streets Michele Liberti

Le caratteristiche principali e necessarie per praticare una buona Street Photography sono senza dubbio quelle di possedere una grande curiosità per il “ Mondo” degli esseri umani e dei relativi usi e costumi che si dispiegano entro l’ambiente urbano da loro creato. A questo va aggiunto sicuramente una grande pazienza nell’osservare ed attendere che si verifichi magicamente un qualcosa di interessante e significativo , ovvero quel dettaglio particolare che renda tutta la scena piu’ ficcante dal punto di vista del contenuto narrativo. Inoltre si deve aggiungere senza alcun dubbio anche una conoscenza profonda dell’ambiente specifico immaginando già nella propria mente quello che potrebbe accadervi, chi saranno i protagonisti e quali saranno i loro comportamenti. Tutto questo è utile per possedere la fondamentale dote di proporre “Storie” attraverso la propria Fotografia piuttosto che semplici “immagini senz’anima” di persone. Possiamo affermare quindi che Michele Liberti porta avanti la sua ricerca Street rispettando queste fondamentali caratteristiche. E lo fa producendo una Fotografia che potremo definire con attributi quali solare, divertente, ironica, piena di energia. Osservando gli scatti si avverte infatti tutto il calore, l’aria frizzante e profumata dell’estate. Una Street che ha come luogo di predilezione Napoli e tutto ciò che si muove e vive in prossimità del suo meraviglioso lungomare. E’ proprio qui infatti che Michele incontra i personaggi e i protagonisti della sua Fotografia ritratti mentre si appropriano con sicurezza e vitalità dello spazio urbano. Va in scena così lo spettacolo della vita, sotto un sole cocente e vicino ad un mare che ristora e da’ sollievo. Un mare magnetico che ammalia e attira verso di sè le nude e accaldate creature che sembrano esaltarsi nell’esibire i corpi tatuati e atletici oppure decadenti, affaticati sotto il peso dell’età e di una stile di vita non sano; corpi molto spesso esausti o che si prodigano nel cercare quel contatto ancestrale col mare. Michele osserva da vicino questo particolare Mondo, ne studia i protagonisti con passione e cattura i loro comportamenti cercando di esaltarne gli elementi ironici di quelle scene particolari che si susseguono ininterrottamente e ripetitive giorno dopo giorno. Al nuovo dì, ecco che lo spettacolo ricomincia, insieme con tutti i suoi attori, nuovamente pronti per dare vita ad un copione ormai collaudato ma dentro al quale la sorpresa e l’imprevisto possono sempre manifestarsi, assolutamente certi che Michele Liberti sarà sempre lì, curioso, appassionato della vita, pronto a raccogliere tutto con la sua inseparabile fotocamera.

Nato a Napoli, dove vive. Appassionato di fotografia fin da giovane, quando ha lavorato come assistente presso alcuni studi fotografici. Dopo quasi 20 anni, ha ripreso a fotografare, appassionandosi alla Street photography. E’ stato finalista: All’Urban Picnic Street photography - Londra - 2014 All’EyeEM street photography Awards - 2016 Al Miami street photography festival - 2016 All’Italian street photo festival - Roma - 2019 Vincitore nella categoria “serie” Istanbul street Photo Festival 2020 Ha partecipato al progetto “ Via da Amburgo a Palermo”, con relativa mostra al Museo di Roma in Trastevere - 2016 Le sue foto sono state esposte in varie parti del mondo, ottenendo anche svariate pubblicazioni. istagram.com/miky59_m flickr.com/photos/mikyliber

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Islam Space Graziano Panfili



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Islam Space Graziano Panfili

Molto ben realizzato, socialmente e culturalmente importante il lavoro fotografico di Graziano Panfili sul mondo musulmano e sulla carenza e precarietà dei luoghi di preghiera a questo connessi. E’ considerevole infatti sul territorio italiano la presenza di cittadini di fede musulmana ormai stimati in milioni di unità così come lo è la mancanza di strutture “ufficiali” in cui recarsi per pregare. Il progetto di Graziano indaga ed osserva quegli ambienti “di fortuna” realizzati e preposti per sopperire alla mancanza di luoghi di culto. Si tratta di un’indagine per documentare e analizzare una situazione che coinvolge milioni di individui, in prevalenza nostri concittadini per cercare di comprendere ed affrontare meglio il problema. Il mondo musulmano e specialmente gli spazi della preghiera sono ancora realtà sconosciute nella percezione del Belpaese. Si tratta infatti di una di quelle questioni nascoste, non mostrate, occultate nel dibattito pubblico quotidiano e che assumono la ribalta e copertura mediatica soltanto quando accadono fatti gravi legati al problema del terrorismo islamico. Eppure ci sarebbe proprio bisogno di maggior conoscenza, maggior informazione necessarie ed utili al prevenire di pericolosi scontri ideologici e di civiltà. Di tutto ciò crediamo ne sia consapevole Graziano che in punta di piedi firma un reportage all’interno del Mondo della preghiera musulmano documentandone gli spazi, gli ambienti, le strutture architettoniche e i fedeli che li affollano partecipando ai riti sacri. Donne, uomini, bambini che studiano, pregano e vivono la fede soltanto in forma diversa rispetto al Mondo cristiano ma poi nella sostanza identici: fedeli. La Moschea di Roma però non è piu’ sufficiente ad accogliere la sete di fede e religiosità dei credenti perché aumentati enormemente nel corso degli anni. Vengono allestite quindi situazioni di fortuna, luoghi di culto in negozi, scantinati e siti improvvisati spesso abusivi che concorrono al generarsi di sentimenti discriminatori percepiti purtroppo tra i devoti con le istituzioni politiche della città incapaci di prendersi sulle spalle il problema o molto spesso non intenzionati neppure a farlo. Le fotografie che chiudono l’interessantissimo progetto realizzato in maniera molto professionale raccontano così un forte malcontento e insoddisfazione collettiva tra i fedeli uniti in protesta vicino al Colosseo per una situazione da troppo tempo non risolta. Conoscere porta alla comprensione dell’altro e all’empatia, la cui mancanza, assenza, è all’origine della maggior parte dei problemi del Mondo. La Fotografia in questo caso è il mezzo adatto per riuscire ad essere piu’ vicini verso il prossimo. Sembra questa la lezione che tenta di suggerirci la Fotografia di Graziano. Una lezione semplice ma purtroppo ancora molto difficile da attuare.

Graziano Panfili è un artista poliedrico, approdato alla fotografia dopo essersi dedicato per molti anni al disegno, alla pittura e al fumetto. Ha completato gli studi in Arte e Comunicazione e successivamente si è specializzato in reportage presso la Graffiti School of Photography di Roma. Oltre alla fotografia editoriale, si dedica alla ricerca artistica realizzando progetti personali e opere d’arte che gli hanno permesso di esporre in musei e gallerie di molti paesi del mondo e di affermarsi in prestigiosi concorsi nazionali ed internazionali. Le sue fotografie sono pubblicate sui principali quotidiani e riviste italiane ed estere e utilizzate per realizzare copertine di libri e copertine di CD. Inoltre, Panfili ha ricevuto il patrocinio del Ministero per i Beni Culturali per un progetto sullo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini per i quarant’anni dalla sua scomparsa. È uno dei fondatori del collettivo fotografico Ulixes Pictures. Vive e lavora tra Roma e Frosinone. www.grazianopanfili.com

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Metropolitan Impressions Giovanni Paolini


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Metropolitan Impressions Giovanni Paolini

è una Street Photography d’autore quella praticata da Giovanni Paolini che conduce da molti anni ormai la sua ricerca fotografica personale, in piena libertà, in mezzo alle strade e alle vie della città; contrasti cromatici esaltanti, composizioni “attraenti”, cattura di situazioni e scene quotidiane curiose e accattivanti sono gli ingredienti pregiati della sua fotografia. Lo stile personalissimo e immediatamente riconoscibile che contraddistingue i lavori del fotografo si concretizza come vero e proprio marchio di fabbrica unico e speciale; osservare uno scatto di Giovanni permette all’osservatore di riconoscerne immediatamente l’autore. All’interno della sua Fotografia è evidente e vivissima infatti una precisa e inconfondibile impronta, riuscendo a nostro parere a produrre un genere molto caratteristico ed esclusivo di Street Photography: figure umane riprese e catturate a passeggio, immerse in scenari urbani-metropolitani, esaltati nei colori, nelle sfumature e forme da parte della sua personalissima tecnica fotografica . Si resta così colpiti ed impressionati da sfondi urbani dai colori e disegni sfavillanti e psichedelici che rapiscono gli sguardi e si ergono a veri protagonisti della sua fotografia perchè capaci di “rubare la scena” alle talvolta buie, scure, anonime, sfuggenti ed inconsistenti figure umane ritratte in primo piano. Con un po’ di immaginazione potrebbe sembrare che la Street del fotografo voglia affermare con una certa goliardica spavalderia che la città è padrona, la città fa seguire ed impone a tutti le sue regole e ritmi precisi a cui nessuno può sfuggire; le presenze umane si muovono così all’interno di un gigantesco “raccoglitore” ed incubatore di vita che organizza lo spazio vitale in modo netto, categorico attraverso le proprie strade, le piazze, le vetrine e facendo “subire” inesorabilmente i propri ambienti, a cui tutti devono necessariamente adeguarsi. La spiccata tendenza di Giovanni verso l’esasperazione cromatica e la sua esplosione dirompente può essere letta forse come un tentativo di colorare il grigiore del cemento, trasformare in modo simil-pittorico l’ambiente grigio cittadino in qualcosa di assolutamente eccezionale, in un trionfo di energia e spettacolo emozionante per gli occhi e soprattutto per il cuore. Ad ogni modo Giovanni Paolini è senza ombra di dubbio un fotografo, un’artista che conosce la fotografia e riesce ad interpretarla con grande padronanza e inesauribile creatività, è un gioia osservare i suoi lavori e perdersi nella sue composizioni urbane, nelle sua personalissime Street, sicuri di trovarvi sempre un qualcosa di assolutamente straordinario.

Mi chiamo Giovanni Paolini, sono nato a Monte Porzio ma attualmente vivo vicino a Milano. La fotografia è sempre stata il mio hobby e la mia passione, ho iniziato a fotografare nel 1975 facendo la classica trafila da fotoamatore, frequentando circoli fotografici e leggendo tutte le riviste di fotografia del periodo, e stampando in camera oscura in bianco e nero in cantina. Ho fatto diverse mostre sia personali che collettive, la mia prima mostra risale al 1984 al Circolo Filologico Milanese , poi negli ultimi anni al Circolo Cizanum di Cesano Boscone, al Trieste Photo Days con esposizione al Museo di Parenzo in Croazia, la mia ultima al Museo Tadini con il Gruppo Fotografico PHOTO MILANO. Ho esposto varie volte al Circuito Off del Festival Etico della Fotografia a Lodi , e al Circuito Off di Lucca nell’ambito del Photo Festival. Per me la fotografia è il riuscire a cogliere l’attimo di uno stato d’animo: non so mai quindi cosa fotograferò. Una luce, un volto, un muro. è la totale libertà dell’emozione a coinvolgermi. Quando fotografo il mondo scompare e ci sono solo io, la luce e le mie emozioni! Se poi questi miei momenti coinvolgono anche altri, e non importa come, ne sono felice. www.gpaolini.it

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China Land Giovanni Presutti

Giovanni Presutti immagina un Mondo nel quale la ricerca di profitto conquista qualsiasi aspetto della società. Una dimensione nella quale entità commerciali ed economiche dedite agli affari si appropriano di spazi e architetture culturali ed artistiche. Il tutto avviene a Prato, città nella quale risiede la piu’ grande comunità europea di immigrati cinesi, la cui influenza sul tessuto sociale, culturale ed ambientale del capoluogo di Provincia è molto forte. Ecco quindi che l’industrialità, le attività di profitto di proprietà cinese divengono numerosissime e si espandono in tutto il territorio cannibalizzando spazi e trasformandone inesorabilmente i connotati. La Fotografia di Giovanni suggerisce una realtà ultima concretizzatasi in immagini che sono punto di arrivo di un lungo percorso cominciato decenni fa con l’acquisto da parte della comunità cinese di molte realtà produttive locali. Si tratta quindi di un lavoro che potremo catalogare molto prossimo al reportage ma che prende una direzione forte e spiccata verso l’onirico, verso l’immaginifico tendente al distopico se guardato dal nostro punto di vista Occidentale. L’ottimo lavoro di Giovanni è denso di significati e offre al fruitore molte interpretazioni e letture su di un argomento attuale e molto complesso. La serie puo’ affrontare infatti il tema della globalizzazione e della convivenza tra culture differenti, unito alla mancanza di un’integrazione sincera; può procedere accennando alla critica all’idea di profitto a discapito di realtà artistiche e culturali fino all’idea di un Mondo che ormai non offre piu’ solidi punti di riferimento in termini di tradizioni e valori. Un Mondo per questo liquido, riprogrammabile che sta affrontando un’operazione di rimodellamento e ristrutturazione epocale. Insomma ci troviamo di fronte ad una Fotografia che muove il pensiero di chi la osserva, che offre molti spunti di riflessione intercettando movimenti e cambiamenti sovrastrutturali globali. In piu’, i luoghi immaginati e trasformati sono luoghi reali, esistenti generando quindi un conflitto tra realtà e finzione che conduce alla continua e ripetuta lettura semantica dell’immagine da parte dell’osservatore al fine di individuare significati sottesi e possibili. Ci troviamo nel Mondo reale ma allo stesso tempo nella dimensione dell’ipotetico; siamo nel futuro ma anche nel presente.

Giovanni Presutti Vive a Prato. Dopo la laurea in legge si diploma presso la scuola Art’e di firenze, frequenta il master di reportage alla scuola John Kaverdash di milano e partecipa al progetto reflexions Masterclass sotto la supervisione di Giorgia Fiorio e Gabriel Bauret. Successivamente ha una intensa attività espositiva in Italia e all’estero (tra le città in cui ha esposto N.Y., Parigi, Londra, L.A., Madrid, S.Pietroburgo, Mosca, Tel Aviv, Roma, Milano, Torino, Firenze, Venezia, Napoli, Genova) presso gallerie, musei e centri culturali sia pubblici che privati, tra cui la partecipazione alla edizione 2011 della Biennale di venezia e alla edizione 2012 del festival di fotografia Rencontres d’arles.. Ha pubblicato su varie riviste tra cui china Life magazine, vanity fair, sette magazine e l’espresso. Ha Pubblicato il libro “mirror” con la casa editrice polyorama (2008), l’ebook “eolo” con la casa editrice emuse (2014), il libro “contemporanea” con la casa editrice oscar riera ojeda (2015) e Il libro “the era of beyond truth” con la casa editrice Urbanautica. Fa parte del collettivo synap(see) ed e’rappresentato dalla galleria die mauer. www.giovannipresutti.com

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La fotografia è una breve complicità tra la preveggenza e il caso. (John Stuart Mill) Se Fotografando … Cosa è la fotografia? Quale valore ha oggi nel nostro contesto culturale e sociale? Cities in questo numero ha provato ad articolare questa riflessione e ad imbastire un tentativo di risposta attraverso l’esperienza, la produzione e le intime considerazioni sul loro personale modus di fare fotografia di quattro importanti autori del panorama contemporaneo: Roberto Gabriele, Lorenzo Cicconi Massi, Gulnara Samoilova e Nick Turpin. Quattro visioni differenti, a tratti anche opposte che si sono rivelate preziose per comprendere come dal punto di vista filosofico oggi la fotografia sia puro “significante” all’interno del quale ogni autore e ogni fruitore può rintracciare molteplici e differenti livelli di “significato”. La cosa davvero sorprendente e che alcuni dei livelli di significato colti dal fruitore potrebbero non essere stati in alcuna misura nelle intenzioni dell’autore. Godetevi dunque nelle prossime pagine di questa ricca sezione “Focus On” dell’ottavo numero di Cities le parole e gli scatti che costruiscono l’originale punto di vista di quattro grandi autori sul mondo e sul guardare ad esso attraverso un obiettivo ! Buona visione!


F OCUS

AUTORI


Viaggiare: una normalità quasi dimenticata. Un’esperienza nell’ultimo anno resa praticamente impossibile dalla pandemia. Eppure essenziale per molti esseri umani, non tanto e non solo a livello lavorativo ma ad un livello più profondo, oserei dire, ontologico. E’ il caso di Roberto Gabriele, che ha fatto del viaggiare non solo la cifra identificativa del suo modus fotografico ma anche e soprattutto il senso del suo vivere. E’ nel movimento che porta a scoprire l’altro in senso generale: un ‘altra cultura, un’altra società, altri climi, altri riti, altre abitudini che si definisce il senso del narrare di Gabriele e forse anche il senso del suo essere dentro la narrazione mentre essa si dispiega ai nostri occhi. Quello che colpisce dei reportage di viaggio di Gabriele è l’assenza di un punto di vista sulla narrazione, la sua stupefacente neutralità che permette allo sguardo di chi osserva il suo lavoro di elaborarne uno personale in totale libertà. Osservate con attenzione ad esempio lo scatto realizzato in Mongolia in un Luna Park deserto… la forza di questa foto è nel suo raccontare non una ma 10, 100 emozioni differenti tante quante saranno gli occhi che la osserveranno. A guardarla ora ad esempio io vi colgo l’ironia della decrescita felice, la prima volta che l’ho osservata ricordo distintamente che pensai: un paradiso abbandonato! Gabriele ha dunque un pregio raro per un fotografo contemporaneo, nel secolo del narcisismo come stile di vita, è mimetico.

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Lascia che a parlare sia ciò che ha incontrato durante il viaggio, lascia che i paesaggi, gli incontri, le storie, si squadernino attraverso i suoi scatti quasi spontaneamente. Quanta abilità tecnica e sapienza in ciò! Guardate gli occhi del ragazzino che vende palloncini in Uzbekistan, con quella maglietta verde della Ferrari indosso: è una foto potente da molti punti di vista, potente per i rimandi politico-economici, potente per la questione sociale che mette in campo e potente per la poetica celata nello sguardo del ragazzo. Ecco l’altro aspetto fondante lo stile della fotografia di Gabriele è la stratificazione del significato a più livelli. I suoi scatti hanno sempre almeno due differenti livelli di lettura ed è questo che li rende perfettamente riconoscibili e unici a mio avviso nel panorama piuttosto affollato della fotografia di viaggio!


Si, Viaggiare... Roberto Gabriele di Sonia Pampuri

Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma. Bruce Chatwin

Su quali riferimenti culturali, biografici o esperienziali si basano le radici del suo modus di fare fotografia? Ricordo benissimo il giorno in cui scoprii la fotografia: sul Venerdì di Repubblica uscì un servizio destinato poi a fare storia: le meravigliose foto di Salgado fatte nelle miniere d’oro in Brasile. Lì scoprii la potenza dell’immagine. Ero molto giovane e credevo che la mia strada sarebbe stata comunque altrove. Ricordo poi il giorno in cui anni dopo stampai la mia prima foto in bianco e nero nella cantina a casa di un amico: quella sera gli dissi: da domani basta università: da grande voglio fare il fotografo. Lui non ci credeva, ma io la mattina dopo mollai Ingegneria e mi iscrissi al Corso Superiore all’Istituto Superiore di Fotografia di Roma. Da lì è nata la mia formazione che tengo a dire non è mai finita fino ad oggi, visto che continuo a vedere decine di mostre ogni anno (covid permettendo), a studiare in workshop di altri Colleghi Fotografi, a documentarmi e sperimentare il mio linguaggio. Parallelamente a tutto questo, i primi 20 anni del mio lavoro li ho dedicati alla fotografia di still Life e al reportage aziendale, mentre nel tempo libero amavo viaggiare intorno al mondo a tal punto che presi, anche qui inconsapevolmente all’epoca, il tesserino da Accompagnatore Turistico. Un esame per avere il famoso “pezzo di carta” che non serve a nulla… E invece anche questo mi è servito: sono 0rmai 8 anni che il mio lavoro per le aziende è finito e mi dedico ad organizzare e accompagnare viaggi per fotografi in tutto il mondo. La mia formazione di tecnica turistica mescolata con l’esperienza fotografica, mi hanno permesso di sviluppare una nuova formula di business con www.viaggiofotografico. it che quando iniziai non aveva simili in Italia e che ora è una formula dalla quale in molti hanno tratto ispirazione per fare qualcosa di analogo a quella che facciamo noi. Le esperienze che ho fatto per arrivare a tutto questo sono state le più svariate e tutte provenienti dalla strada intesa in senso lato, come concetto. La Street ad esempio non mi interessa particolarmente, ma adoro fotografare tutto ciò che avviene alla luce del sole. Viaggiando si impara a scoprire la bellezza di tutto ciò che ci circonda, si apprezza il piacere della scoperta e quello della diversità. Viaggiando si impara a non giudicare, a non classificare, a non avere aspettative se non quelle di sapere che qualcosa accadrà. Il viaggiatore comprende il piacere

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dell’attesa, quello dell’imprevisto, gode nel sentire scariche di adrenalina quando si trova a vivere esperienze inaspettate nelle quali mai avrebbe potuto pensare di trovarsi. Mi riferisco ad eventi fortuiti come potrebbero essere partecipare ad un funerale con una cremazione e passare mezza giornata a stretto contatto con la famiglia durante la cerimonia, diventare parte di loro (senza averli mai conosciuti prima e avendoli incontrati per puro caso) e intrattenere scambi culturali su riti a noi sconosciuti in un momento tanto delicato per i congiunti… Ecco… essere lì in tanti momenti come quello mi fanno sentire un privilegiato e posso dire certamente che essi fanno parte della mia formazione culturale, umana, professionale ed Esperienziale. Il particolare periodo storico che stiamo attraversando e l’esperienza della pandemia in che misura hanno influenzato la sua fotografia? Radicalmente. Il Covid ha cambiato totalmente il mio modo di fare fotografia. Non sono mai stato uno che “racconta il quotidiano”, non faccio street, non mi piace prendere la fotocamera e andare in giro sotto casa a cercare soggetti e stimoli. Un pò come la Katana di un Samurai che viene estratta solo per uccidere o con la consapevolezza di essere uccisi in combattimento, la mia fotocamera la estraggo solo quando ho un motivo per farlo: servizi commissionati, viaggi, sopralluoghi… Contrariamente a tanti miei colleghi io non ho alcun bisogno di raccontare il mio mondo, la mia quotidianità. Ne segue che da un anno ho smesso di fare foto se non in occasione di un paio di viaggi in Italia che sono riuscito ad organizzare tra un DPCM e l’altro sempre rispettando tutte le regole. La pandemia mi ha portato quindi a fermare praticamente totalmente la mia produzione fotografica e a dedicarmi ad insegnare fotografia e Lightroom con eventi on line, a scrivere articoli di viaggio, a collaborare con riviste e a pianificare nuovi itinerari in Italia da fare appena sarà possibile spostarsi in sicurezza tra le regioni. Non dimentichiamo infatti che io lavoro con il turismo fotografico: per il mio lavoro è fondamentale il rispetto di tutte le normative di sicurezza e prevenzione covid.

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Quali ritieni saranno l’evoluzione e il ruolo della fotografia nell’attuale contesto comunicativo molto affollato e variegato? Per una serie di motivi in parte legati al covid ma già preesistenti, la fotografia a mio avviso sta evolvendo verso orizzonti sempre più ristretti. Il trend è proprio quello che manca a me: l’autofotografia. Che non è necessariamente il selfie, ma è un tipo di fotografia legata al proprio microcosmo. Ciascuno ha molto più bisogno di raccontare se stesso al mondo. Sembra che il soggetto più importante siamo diventati noi stessi, il nostro mondo e che quello possa essere come un esempio e un modello per tutti. Gli Influencer sono a parer mio il fenomeno fotografico del futuro. E in questo mio argomentare non voglio assolutamente sminuire uno stile che non mi appartiene, al contrario. Credo che Instagram sia il vero fenomeno che detta le regole. Instagram è un enorme fabbrica di fotografie che condividiamo con il mondo intero per un bisogno di condivisione, di esistenza, di dichiarare al mondo ciò che siamo e che facciamo salvo poi che, a parte i suddetti Influencer che potranno raccontare sempre a più persone la loro vita, per gli altri quelle storie saranno come quelle che si possono raccontare ad un cactus nel deserto…. Rimarranno raccontate e inascoltate. Ecco: il contesto sarà quindi ancora più variegato. Proprio perché ci si sta muovendo in

direzioni tanto diverse quanti sono gli Autori e le loro vite, le loro esperienze, la loro quotidianità.

La fotografia per te è un dato culturale? Un linguaggio? un’espressione artistica? Un’espressione creativa? La fotografia è tutto questo messo insieme e ciò che ne esce fuori, come spesso accade, vale molto di più della somma delle singole parti. E anche questo, a mio parere, non può che essere un bene. La fotografia è sicuramente cultura perché, tanto se la usiamo per raccontare il nostro mondo interiore, tanto se la utilizziamo per raccontare il mondo che ci circonda nella quotidianità o mondi distanti da scoprire in viaggio, è comunque l’espressione di un qualcosa che ci appartiene e che racconta le nostre emozioni davanti a tutto questo. E’ anche un linguaggio perché ciascuno di noi, consapevolmente o no, ogni volta che tira fuori la fotocamera o il cellulare, racconta, comunica e quindi si esprime attraverso un linguaggio visivo che gli è proprio e gli appartiene anche se non lo sa, non sa di averlo imparato, gli viene spontaneo anche se non ha mai studiato fotografia. Basta solo inquadrare qualcosa che abbiamo già DECISO cosa e come raccontarlo, certo, c’è chi lo fa bene e chi lo fa male, ci sono foto che non hanno alcun valore fotografico né artistico né

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formale che però esprimono perfettamente le intenzioni di chi le ha scattate. La fotografia PUO’ ESSSERE certamente anche una forma di arte, ma questa è dedicata a pochi. Anche a pochi di quelli che dicono di fare arte fotografica e nelle loro foto non c’è nulla di artistico. Le mie foto ad esempio non sono artistiche, ma non vogliono esserlo e io stesso lo dichiaro! Per molti Autori invece la fotografia è una forma assoluta di arte e la praticano davvero con creatività, esprimendo qualcosa in modo originale e diretto. Può essere una forma di creatività quando non è la semplice messa in pratica di tecniche fotografiche fini a se stesse per fare foto diverse dicendo che sono creative. Le foto mosse a mio avviso, 99 volte su 100 sono foto inutili, mosse per il piacere di fare qualcosa di diverso che qualcun altro ha fatto prima di noi. “‘O famo strano” per il piacere di non essere conformi agli altri, ma senza capire il valore della diversità e quindi della creatività. Una foto mossa è una foto mossa. E’ un errore nella maggior parte dei casi tranne in quei rarissimi momenti in cui invece tutto assume una sua coerenza e allora il mosso è funzionale al linguaggio, al contesto, al racconto, allo stile del fotografo e al percorso umano e artistico che ha seguito fino a quel momento per fare quella foto. É un pò il discorso delle tele tagliate di Fontana. Fatte da lui hanno un valore concettuale, fatte da un altro restano tele tagliate….

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Come sarà la sua fotografia tra 5 anni? In quale direzione crede sia necessario per lei evolvere a livello di stile e di contenuto? Non conosco il futuro, credo che sia già molto difficile avere una mia idea del presente. Ero uno abituato a ragionare su grandi progetti, a scrivere date lontane sul calendario per far si che la mia vita fosse regolata da momenti che avrei vissuto un anno dopo e tutto girava intorno alla preparazione di quei momenti, Ora con il covid non riesco a fare previsioni per la prossima settimana. Pensare a qualcosa che potrebbe essere tra 5 anni mi sembra difficile: quando c’è nebbia è più importante guardare vicino che sperare di poter vedere lontano. Sono un visionario idealista ma allo stesso tempo anche una persona molto concreta. Per il futuro davvero non so fare previsioni. Credo che per i prossimi 5 anni dovremo imparare a guardare ogni giorno il presente, Instagram continuerà per un pò a segnare il passo, ma come Facebook anche questo non sarà eterno, già arrivano altre forme virali di Social come TikTok del quale possiamo parlare o sparlare ma che va comunque visto come un potentissimo strumento di comunicazione che a sua volta sta creando nuovi linguaggi (che ripeto possiamo contestare ma non ignorare) e nuove dinamiche stilistiche nelle quali, di nuovo, qualcuno riuscirà ad eccellere mentre gli altri saranno miliardi di numeri (chiamiamoli Utenti o Persone) senza importanza.


Roberto Gabriele, classe 1968, di se dice che l’unica cosa che sa fare è spingere un pulsante su un apparecchio dal quale escono fotografie (oltre a questo dichiara di non essersi mai perso in oltre 120 viaggi fatti in giro per il mondo). Per oltre 20 anni si è dedicato alla fotografia di Still Life in studio e negli ultimi 8 ha lasciato le mura e le luci della sua sala di posa e ha iniziato a viaggiare a tempo pieno organizzando con il suo sito www.viaggiofotografico.it itinerari progettati appositamente per fare fotografia con i Gruppi che accompagna lui stesso. Roberto da molti anni è un viaggiatore seriale, l’elenco dei posti dove è stato ed ha fotografato è impressionante. Nonostante abbia pubblicato più di 10 libri fotografici (il numero esatto non lo sa neanche lui) non si definisce un artista ma un professionista della fotografia.


è necessario viaggiare, esplorare universi e mondi molto lontani da noi per fare della buona fotografia documentale? E’ davvero così insito nel racconto fotografo, nello scatto stesso, il movimento ? La fotografia è dunque ontologicamente motus? Si ma anche No. Nel senso che tutto dipende da come si interpreta il concetto di movimento. E da quali mondi e universi si intende davvero esplorare. Quando ho incontrato la potenza immaginifica degli scatti di Lorenzo Cicconi Massi mi è subito venuto in mente Salgari, uno degli autori di romanzi di avventura esotici più conosciuto e potente che io abbia mai letto, che non andò mai oltre con il corpo il perimetro della poche città in cui visse, pare in un raggio di qualche centinaio di km. Ecco che la potenza immaginifica della fotografia di Cicconi Massi, come nelle pagine di Salgari, ci trasporta in luoghi che lui stesso non ha mai visto, che esistono solo nella nostra percezione di fortunati fruitori della sua fotografia e ci avvolge di magia. La serie Le donne volanti è forse l’esempio più calzante dell’originalità interpretativa con cui Cicconi Massi ha elaborato e fatta sua la lezione del suo conterraneo e maestro Mario Giacomelli. Le figure sono disegnate dalla luce, scolpite dai contrasti del bianco e nero e fluttuano in una dimensione sospesa in cui prima di abbandonarci allo stupore noi spettatori non possiamo che chiederci ma è reale? L’originalità di questo autore, la sua cifra più caratteristica è una qualità davvero rara di questi tempi, ed è a mio avviso, la

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capacità di documentare l’intimità non solo delle persone, ma delle cose, di raccontare come diceva Giacomelli appunto con un moto che va dall’interno delle cose verso l’esterno. La sua fotografia non ci dice come noi percepiamo il reale, ma immagina come il reale possa percepire noi e il nostro tentativo di modellarlo. Questa cifra emerge potente nel suo ultimo lavoro Spiritus, si tratta di una serie di scatti in cui Cicconi Massi esplora il nucleo confuso e aggrovigliato di emozioni che la pandemia e il conseguente isolamento hanno scatenato in ognuno di noi e ne fa una narrazione onirica, sospesa, poetica. Un documento certo ma un documento dell’immaginazione!


Intima Immaginazione Lorenzo Cicconi Massi di Sonia Pampuri

Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade Mario Giacomelli

Su quali riferimenti culturali, biografici o esperienziali si basa il tuo modus fotografico? La mia grande passione fin da ragazzino è stato il cinema. Per le sue modalità espressive e per lo spettacolo potente che arriva agli occhi dello spettatore in una sintesi perfetta ed equilibrata fra immagine musica e suoni. Ho provato grandi emozioni nel vedere i western di Sergio Leone, il suo modo nuovo di raccontare, di inquadrare, ma anche le invenzioni Felliniane così vicine per atmosfere e ambienti geografici alla mia terra adriatica. E poi il bianco e nero rigoroso di Robert Bresson ai tempi dell’università. Ed è proprio in quel periodo che mi sono avvicinato alla fotografia, quando in una serata noiosa in casa, sfrugugliando dentro una scatola di scarpe che conteneva delle vecchie fotografie di famiglia, escono sei piccole stampe in carta baritata opaca. In quelle fotografie dei primi anni 60’ ci sono i miei genitori con degli amici nella spiaggia di Senigallia. Queste figure eleganti e sospese immediatamente mi fanno comprendere le grandi capacità espressive del mezzo fotografico e soprattutto la mente geniale di Mario Giacomelli. Il mio concittadino, poi conosciuto di persona e frequentato nel negozio di fotografia di Edmo Leopoldi, ha accompagnato tutto il mio lavoro, non tanto in un primo e più immediato uso del bianco e nero, ma per la capacità di raccontare l’uomo e i suoi sentimenti rimanendo vicini alle cose che si conoscono meglio.

Come e quanto il particolare periodo storico che stiamo attraversando e l’esperienza della pandemia hanno influenzato la tua fotografia? La pandemia ha creato un forte shock emotivo nei fotografi che fanno dell’esplorazione del mondo, del contatto con altre persone la base stessa del loro lavoro. Benché io mi muova in un territorio molto prossimo a casa mia, l’idea di essere rinchiuso ha scatenato, come sempre succede di fronte ad una privazione, il desiderio di muovermi, di fare, di raccontare. Per la prima volta ho puntato la macchina verso me stesso. E trasformandomi in una sorta di “uomo nero” ho tirato fuori le angosce più profonde rappresentando la necessità ma anche l’ossessione di coprirsi con tutti i presidi medici e difendersi da un nemico molto subdolo in quanto invisibile. Questo lavoro si intitola “spiritus” ed è stato pubblicato

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insieme a quello di altri quattro fotografi nel libro suite n° 5. edito da Emuse.

Quale pensi sarà l’evoluzione e il ruolo della fotografia nell’attuale contesto comunicativo molto affollato e variegato? Molti hanno detto che la fotografia è morta, che la fotografia è in crisi, ma di sicuro mai come ora se ne è parlato così tanto. La fotografia è diventata mezzo di espressione al pari della scrittura tradizionale, ma con la capacità di arrivare tutti, di creare una reazione emotiva immediata. Dobbiamo abbandonare l’idea che la fotografia sia un mezzo per soli appassionati o quasi uno strumento elitario per anime profonde. Credo invece che dobbiamo sviluppare la capacità di leggerla a livelli diversi e con tutte le contaminazioni che la tecnologia e la creatività ci mettono a disposizione ogni giorno e a grande velocità.

La fotografia è per te un fatto culturale? Una lingua? Una visione artistica? Un’espressione creativa? La fotografia la posso usare come testimonianza dei fatti che mi accadono intorno; mi è quasi istintivo tentare di conservare, non disperdere le tracce di vissuto da poter tramandare ai miei figli. Ma l’aspetto che mi ha più interessato è l’interpretazione del vissuto mio come degli altri, la sedimentazione dei sentimenti e delle idee fino a che, con il mio bianconero, prendono vita e trovano un senso espressivo, una sorta di chiave di lettura o di possibile ordine alle tante domande senza risposta che ci affliggono. La fotografia è una parte di me, un filtro dei pensieri, una compagna di viaggio, anche quando questo è fatto a pochi metri da casa. Diventa un’opportunità di vedere e di conoscere, di scavare dentro alle cose, di ricavarne bellezza e significato. Sempre e comunque la buona fotografia esiste se è mossa da una riflessione.

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Come sarà la tua fotografia tra 5 anni? In che direzione ritieni sia necessario evolverti in termini di stile e contenuto? A quest’ultima domanda davvero non saprei come rispondere. Non ho la capacità di prevedere quale sarà la direzione che il mio modo di fotografare potrebbe prendere. Quello che so, è che ogni volta che affronto un lavoro, lo faccio con una forma di meraviglia e di entusiasmo che lo fanno assomigliare all’inizio di un gioco nuovo per un bambino. Ho detto spesso che la parte ludica nella produzione di fotografie è preponderante nel mio approccio lavorativo. Questa dimensione mi piace e mi diverte. Trasformare gli oggetti, adattarsi alla luce, studiare l’ombra nella sua forza espressiva. Cercare ossessivamente un punto di vista che sia mio, come elemento legante ai lavori già prodotti, ma con uno scostamento significativo per non renderlo una copia dei precedenti.

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Lorenzo Cicconi Massi. Nel 1991 discute la tesi di laurea in Sociologia “Mario Giacomelli e il gruppo Misa a Senigallia”. Nel 1999 ottiene il primo premio al concorso Canon. Dal Gennaio del 2000 è uno dei fotografi dell’agenzia Contrasto. Nel 2007 è premiato nella sezione “sports features singles” al World Press Photo, Sempre nel 2007 riceve il premio G.R.I.N. (Amilcare Ponchielli) per la serie sui giovani “ fedeli alla tribù”. Realizza il film “mi ricordo Mario Giacomelli”, (dvd ed. Contrasto). Espone i suoi lavori a Parisphoto, rappresentato da Forma galleria. 2016. “Le Donne Volanti” vanno in mostra presso Galleria Contrasto Milano, poi a Palazzo Montecitorio su invito della Presidente della Camera Laura Boldrini. Gli viene conferito il premio “Scanno dei fotografi”. Giugno 2018: presso la Certosa di S. Giacomo di Capri, la mostra personale curata da Denis Curti, “La Liquidità del movimento”. Di recente uscita il libro collettivo “Suite n°5”, in collaborazione con i fotografi Lorenzo Zoppolato, Francesco Faraci, Francesco Comello e Sara Munari.


Come si fa a raccontare l’immenso straordinario caledoscopico potenziale del mondo e dell’umanità in esso nel 2021? E soprattutto ha ancora senso farlo? Nick Turpin sembra risponderci con incrollabile certezza di si , ma si tratta dell’unica sicurezza in un percorso professionale e artistico che ha fatto della ricerca del mutamento, del nuovo, dell’insolito, imprevisto e inaspettato, la sua cifra stilistica a mio avviso più significativa. Turpin cambia obiettivo, cambia tecnica, cambia punto di vista e prospettiva ad ogni lavoro. Lascia, come diceva uno dei fotografi che considera tra le massime fonti della sua ispirazione Meyerowitz, che il mondo lo inondi con il suo potenziale di storie e poi inizia a raccontarcele. E ogni volta la narrazione si dipanano a partire da un punto di vista, da uno scatto che in se racchiude già l’intero senso della storia. Ecco la qualità ontologica, il tratto distintivo essenziale dello stile di Turpin è proprio questo a mio avviso: ogni scatto è una storia. Una storia precisa, definita intensa ed emozionante. E’ un po’ come quella regola d’oro del giornalismo cartaceo “ la notizia nelle prime 5 righe”. Perchè? Perché dopo io lettore se quella notizia mi ha coinvolto , vado a cercarmi i dettagli i particolari gli esiti e ne leggo anche 30 o 40 di righe. Ed è esattamente quello che accade con le fotografie di Turpin, basta guardare ad esempio la fotografia dei bimbi che scendono saltando da dei gradini o quella degli operai con tanto di casco protettivo che camminano per strada a fianco dei manager della City. Le

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storie che quegli scatti suggeriscono sono così coinvolgenti , insolite e intriganti che il nostro occhio di spettatore ne vuole subito sapere di più. Al centro di tutta la fotografia di Turpin c’è dunque sempre la ricerca dello straordinario, che è frutto però attenzione non certamente del caso ma di una sapiente ed esperta mescolanza di fortuna e abilità predittiva. Turpin è un cantastorie del secondo millennio. Si mette con il suo carretto fatto di obiettivi e fotocamere all’angolo di un incrocio di strade e aspetta che la vita accada per poi raccontarcela con la sapienza dell’affabulatore, rendendo tutto magico e coinvolgente…anche la nostra banale quotidianità!


Mutatis Mutandis Nick Turpin di Sonia Pampuri

Cominciai a camminare e il mondo mi inondava del suo potenziale Joel Meyerowitz

Su quali riferimenti culturali, biografici o esperienziali si basa il tuo modus fotografico? Il mio lavoro e il mio approccio alla fotografia sono influenzati da molteplici fonti, inizialmente studiavo arte e storia dell’arte, il che mi ha dato un forte senso estetico in termini di utilizzo di strumenti visivi come colore e composizione, scala e prospettiva nella mia creazione di immagini. Mi ha anche permesso di fare riferimento alla pittura nel mio lavoro, molte delle mie immagini riecheggiano o imitano stili di pittura classica o particolari dipinti come nello scatto del bimbo francese che sventola un tricolore come nella serie “Liberty Leading the People” o il mio uso della luce ispirato ad Edward Hopper nei miei lavori più recenti della serie Exodus . Ho sempre creduto che più sai e hai visto, più devi esprimere tutto questo patrimonio di esperienze e conoscenze nel tuo lavoro. Da giovane fotografo i miei principali riferimenti erano i primi fotografi Magnum che documentavano la vita, ma combinavano quella documentazione con una grande destrezza estetica, oltre che umorismo e surrealismo. Fotografi come Elliot Erwitt e Henri Cartier Bresson sono stati i primi fotografi che ho imitato in bianco e nero. Come stagista presso l’ufficio di Magnums a Londra alla fine degli anni ‘80, ho incontrato molti dei loro famosi fotografi, tra cui Bresson. È stato da questo momento che ho capito che mi interessava solo usare la fotocamera per documentare, volevo osservare la vita non dirigerla. Da giovane ero molto interessato a cosa significa essere umani per essere una persona, cosa era importante nella vita e cosa non lo era. Ho studiato molti sistemi di credenze così come la filosofia. In particolare mi interessavano le idee del buddismo e l’idea che il sé fosse un’illusione, sperimentavo questa perdita di sé in meditazione ma anche moltissimo quando ero per strada a fotografare estranei in luoghi pubblici. Penso che la Street Photography sia stata una combinazione di queste cose per me, l’esperienza del fare unita al desiderio di documentare la società e utilizzare la fotografia come continuazione della mia indagine sulla vita. In anni più recenti il ​​mio lavoro è stato influenzato dai New York Street Photographers degli anni ‘60 e ‘70, Garry Winogrand e Joel Meyerowitz. Quando insegno mostro l’immagine di Meyerowitz “Fallen Man” 1967 che mi ha davvero insegnato quanto si possa trasmettere in un singolo fotogramma, che un singolo fotogramma potrebbe contenere un’intera storia o più. Tendo a imparare le

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lezioni da molti fotografi e come lavorano, ad esempio ho imparato dal fotografo australiano Trent Parke a reinventare il mio approccio con ogni progetto, cambiando fotocamera o obiettivo o usandoli in modi nuovi. Infine penso che il compianto Michael Wolf sia stato qualcuno che ha fotografato soggetti simili a me, ho ammirato il suo lavoro e sono attratto dall’idea di restituire coi miei scatti lo stile di vita attuale nelle metropoli moderne come ha fatto lui.

Come e quanto il particolare periodo storico che stiamo attraversando e l’esperienza della pandemia hanno influenzato la tua fotografia? In qualità di Street Photographer, il mio lavoro è sempre stato strettamente associato alle persone e al modo in cui si comportano nella sfera pubblica, le persone forniscono i “momenti” che sono centrali per una grande fotografia di strada nel suo complesso. Trovarmi di fronte a strade tranquille o vuote ha reso difficile il mio approccio tradizionale, quindi ho dovuto adattarmi. Nell’ultimo anno ho fotografato il quartiere finanziario deserto di Londra, tradizionalmente una delle zone più trafficate di Londra, ora stranamente tranquilla. La serie My Exodus si concentra sugli spazi e sull’architettura, sull’incredibile infrastruttura di vetro e acciaio che ora è vuota e ronza per sé spopolata, fatta eccezione per il personale di sicurezza e gli addetti alle pulizie. L’epidemia da Covid 19 è probabilmente la più grande storia del secolo e come fotografo documentarista voglio registrarla in modo delicato, significativo e potente. Poiché le immagini ora riguardano le strutture, ho iniziato a utilizzare un obiettivo tilt / shift architettonico per mettere ordine nelle scene e per controllare la prospettiva e le alte verticali degli edifici. Ho anche usato uno scooter elettrico per muovermi rapidamente per la città e trovare la luce migliore. Per me la Street Photography è fatta da scatti non posati realizzati in luoghi pubblici che è una definizione ampia e inclusiva che comprende facilmente approcci innovativi per documentare la dimensione pubblica dell’umanità in un periodo come questo.

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Quale pensi sarà l’evoluzione e il ruolo della fotografia nell’attuale contesto comunicativo molto affollato e variegato? Fotocamere digitali convenienti insieme alle possibilità di condivisione di immagini online hanno portato a un’esplosione assoluta di interesse per la fotografia in tutto il mondo. Ci sono così tanti più fotografi ora rispetto a quando ho iniziato 30 anni fa ma, cosa interessante, non credo che ci siano fotografi più bravi di allora. Ci sono ancora pochissime persone che stanno producendo lavori unici e innovativi che in qualche modo si inseriscono davvero nella storia del mezzo. La stragrande maggioranza della fotografia che vedo è molto poco originalea e spesso imita i grandi fotografi del passato. Penso che stiamo superando la novità di Photoshop, i filtri e la manipolazione delle immagini che è stata popolare negli ultimi dieci anni e stiamo tornando al valore e al significato di una vera fotografia della vita reale. La fotografia è sempre stata solo un mezzo, uno strumento, sarà sempre l’idea o la storia che ispira le persone e la visione unica di ogni fotografo.

comprendere la vita degli esseri umani e in effetti il ​​mio posto nella società umana. Ogni foto che scatto è intrisa di informazioni sociali, storiche e culturali di questo tempo e che affascineranno le generazioni future. Penso che la fotografia e in particolare la fotografia di strada forniscano uno specchio in cui possiamo vedere le società che abbiamo costruito e noi stessi. Certamente i miei progetti come On The Night Bus e AUTOS esplorano aspetti della società moderna, il tempo che passiamo solo per andare e tornare dal lavoro e la commercializzazione dello spazio pubblico. La mia macchina fotografica riprende la vita in una metropoli moderna tecnologicamente avanzata, politicamente stabile ed economicamente ricca.

La fotografia è per te un fatto culturale? Una lingua? Una visione artistica? Un’espressione creativa? La fotografia è uno strumento che utilizzo per esplorare e

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Come sarà la tua fotografia tra 5 anni? In che direzione ritieni sia necessario evolverti in termini di stile e contenuto? Nei prossimi cinque anni immagino che i soggetti della mia fotografia rimarranno probabilmente simili ma continuerò a innovare nel mio approccio. Mi piace reinventarmi con ogni nuova serie, per dare un aspetto specifico e pertinente a ogni progetto e questo tende sempre meno ad essere l’approccio tradizionale di uno Street Photographer. Lavoravo esclusivamente con una piccola fotocamera portatile e un obiettivo da 35 mm per la mia fotografia di strada, ma ho usato un obiettivo stabilizzato con immagine da 200 mm e una reflex digitale per On The Night Bus per scattare di notte, ho usato un veloce obiettivo 1.2 da 50 mm a tutta apertura per applica la sintassi della fotografia di ritratto alla fotografia di strada nella mia serie London Bridge, ho usato un obiettivo da stampa da 300 mm per la serie AUTOS e infine un obiettivo tilt / shift architettonico su una grande fotocamera da 50 mp per il mio attuale progetto Exodus. Fondamentalmente la mia fotografia rimane pontaneamente scattata in un luogo pubblico senza manipolazioni, ma il mio approccio a ciascuna serie è più esplorativo. Mi interessa esplorare le aree tra la fotografia di strada e la fotografia documentaristica, artistica e concettuale, dove sono questi confini?

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Nick Turpin ha studiato fotografia presso l’Università di Westminster a Londra, nel 1990 è entrato a far parte di The Independent Newspaper per produrre notizie, servizi e ritratti. Nel 1998 Nick ha iniziato una lunga carriera come fotografo commerciale scattando pubblicità in tutto il mondo per clienti come IBM, Jaguar, Microsoft e Toyota. Nel 2000 Turpin ha fondato il primo Collettivo internazionale di Street Photography iN-PUBLiC che ha svolto un ruolo significativo nella rinascita contemporanea dell’interesse per la Street Photography come approccio. Nel 2017 il progetto di Turpin “On The Night Bus” che ritrae i pendolari di Londra è stato pubblicato con grande successo, inoltre è presente in Bystander: A History of Street Photography and Street Photography Now. Turpin ha insegnato Street Photography per Tate Modern, The Discovery Channel, Apple ed è Professore Associato di Fotografia presso la Oxford Brookes University. Nick vive attualmente a Londra e scatta le strade deserte del distretto finanziario per il suo progetto “Exodus”.


Lo sguardo è forse la cifra stilistica più rilevante per identificare il nucleo dell’ispirazione artistica di un autore. Lo sguardo non mente, o almeno, quello di un’artista non lo fa, se non scentemente, per dirci che dietro quel gioco di rifrazioni, li proprio lì, ben nascosto in evidenza, c’è il vero. Il nucleo dell’emozione che lo ha attraversato e che voleva comunicare. I lavori di Samoilova hanno questa forza precisa, quieta ma inesorabile. Il suo sguardo cattura quello del fruitore della sua opera, di ciascuno di noi, e lo incatena inducendolo a cercare le risposte a domande che nemmeno pensava di porsi prima di incontrare le sue opere. La potenza immaginifica dei suoi collage della serie Lost Family , in cui il concetto di famiglia e memoria allarga i suoi confini fino a diventare ricordo delle “care vecchie cose umane “ per parafrasare Gozzano, sorprende. Siamo umani e quindi siamo eguali, sembra dirci questa strordinaria artista, le distinzioni sono irrilevanti di fronte alla potenza delle esperienze comuni che la nostra memoria ci restituisce. Ogni giorno. Lo sguardo e lo specchio e i suoi giochi di rifrazione ritornano in altro lavoro iconico, dal mio personale punto di vista, “Cloud Eaters” , dove bimbi con sguardi colmi di una istintiva saggezza tengono tra le mani nuvole di zucchero filato che sembrano nuvole vere o forse nuvole vere che sembrano zucchero filato… e sognano questi bambini e la potenza dei loro sogni

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arriva intatta fino a noi , che a sognare abbiamo disimparato tanto tempo fa! Un altro dono dell’artita! Samoilova è sorprendente perché anche gli scatti realizzati secondo i canoni più classi del reportage sociale sono in verità stratificati, colmi di rimandi allegorici e nella loro apparente semplicità compositiva sono potentemente allusivi: il bianco e nero scelto, ad esempio, per gli scatti nella scuola di danza dell’Avana o per le via della Città Vecchia è spiazzante, inaspettato e trasmette perfettamente l’ossimorica realtà della Cuba odierna: sospesa tra un passato glorioso e un futuro incerto! La Samoilova sembra aver assimilato perfettamente la lezione di Tina Modotti sulla ricerca della “qualità fotografica” scevra da “ effetti artitici” artificiali. E noi gliene siamo grati!


La sorpresa dell’arte

Gulnara Samoilova di Sonia Pampuri

Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore Tina Modotti

Quali sono i riferimenti culturali, biografici o esperienziali alla base della tua pratica fotografica? Tutto quello che faccio è biografico o culturale. Se sto lavorando a una serie, è qualcosa con cui mi identifico personalmente, quindi viene dall’esperienza. Ho iniziato a fare fotografie dipinte a mano alla fine degli anni ‘80 perché c’erano così tante cose in ballo all’epoca con la crisi dell’AIDS, la povertà e le famiglie con madri single. Scattando solo foto, non sono riuscita a esprimere l’intera portata della mia visione e dei miei sentimenti. Ecco perché ho iniziato a dipingere e scrivere sui miei scatti. Ho iniziato a lavorare alla serie “Lost Family” nel 2015 dopo che Mary Ellen Mark mi ha incoraggiato a riprendere a dipingere sulle mie fotografie. Volevo fare una serie basata sulla mia infanzia, quindi ho iniziato a riguardare le fotografie di famiglia che avevo raccolto negli anni ‘90 dopo la morte di mia madre e mia nonna. Non avevo guardato quelle fotografie fino a quando non ho iniziato questa serie e sono rimasta sorpresa di scoprire che avevo uno zio. Pensavo che mia madre fosse figlia unica. Ho iniziato a realizzare dei collage con quelle immagini mescolate ad altre fotografie che ho fatto in diversi momenti della mia vita, cercando di vedere se potevo sentire una connessione emotiva tra le immagini della mia famiglia e quelle che ho fatto per me stessa. Vado in Russia ogni anno e viaggio attraverso piccoli villaggi facendo fotografie. Una volta ho incontrato una donna che somigliava esattamente a mia nonna. Quando l’ho vista, sono rimasto scioccata. Naturalmente ho abbinato una sua fotografia a quella di mia nonna. Ho anche accoppiato una foto di mio zio con una foto di tre uomini seduti a un tavolo che mangiavano zuppa. Erano persone che avevo incontrato nella mia vita che avrebbero potuto essere i miei parenti, ma non lo sapevo. Sto creando le mie foto di famiglia con estranei. Creando un collage, posso collegare il passato, il presente e il futuro con questa fantastica “naïvete “dipingendo fiori ad olio dopo aver realizzato i collage. I fiori sono la mia firma perché il mio nome, Gulnara, significa “un fiore di melograno” in arabo e il nome di mia madre era Rose.

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In che modo questo periodo storico e la pandemia hanno influenzato la tua fotografia? Durante la pandemia, sono uscita e ho scattato foto per le strade. Volevo mostrare la pandemia, quindi mi sono chiesta: “Che aspetto ha?” L’ho fatto per me stessa. Non ho ancora mostrato quelle foto. Anche se ho molti follower su Instagram, non mi piace mostrare subito il mio lavoro; Mi piace marinare le mie foto. Non voglio che le persone abbiano aspettative. Voglio che siano sorpresi. Allo stesso tempo, sento una responsabilità nei confronti dei miei followers. Quando è iniziata la pandemia ho iniziato a dipingere nuove opere per la serie “Lost Family”. Pensavo di aver finito la serie, ma volevo ispirare le persone a usare la loro creatività. Ho realizzato cinque nuovi lavori della serie, che ho filmato e pubblicato su Instagram. Poi ho iniziato a produrre i film motivazionali con Ximena Echague (curatrice e mentore di Women Street Photographers). Il nostro messaggio era: “È possibile superare i nostri vincoli, creare bellezza contro ogni previsione, essere resilienti e positivi nonostante tutte le difficoltà e le incertezze che dobbiamo affrontare in questo cupo nuovo mondo ..”

Quale pensi sarà l’evoluzione e il ruolo della fotografia nel contesto comunicativo attuale, molto affollato e variegato? Penso che la fotografia si stia evolvendo con persone che pensano fuori dagli schemi. Se sei coerente e intenzionale, una buona fotografia sarà una buona fotografia, indipendentemente dal fatto che si tratti di fotografia di strada o ritrattistica.

La fotografia è un’arte per te? Una lingua? Una visione artistica? Un’espressione creativa? Dipende dal tipo di fotografia di cui parliamo. Se sei un fotoreporter, potrebbe essere un’espressione creativa? Generi diversi occupano ruoli diversi. Street photography, penso sia tutto; per me è uno dei generi più impegnativi in ​​fotografia perché devi pensare velocemente in piedi perché non sai cosa incontrerai.

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Come sarà la tua fotografia tra cinque anni? In che direzione ritieni sia necessario evolverti in termini di stile e contenuto? Stavo pensando di creare una nuova serie dipinta a mano basata sul mio test del DNA, che è come la mia vita molto eccitante! Voglio continuare a viaggiare, curare mostre, incontrare altre persone. Mi piace sognare ma non mi piace pianificare. Mi abbandono al flusso. Ci sono così tante cose che posso fare. Non mi vedo più solo come una fotografa. Adesso sono molto di più. Sono ancora appassionata di fotografia, ma sono appassionata anche di altre cose. Non so cosa mi riserva il futuro. E va bene.

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Gulnara Samoilova è una fotografa, autrice e fondatrice di Women Street Photographers. Con 40 anni di esperienza combinata come documentarista e fotografa di strada, artista, stampatrice per camera oscura, fotoreporter e photo editor, Samoilova ha trasformato il feed Instagram di successo @WomenStreetPhotographers in una piattaforma per fotografe donne di tutto il mondo, lanciando un sito web, mostre itineranti , residenze d’artista, serie di eventi mensili a New York City, serie di film motivanti e il libro di fotografia, Women Street Photographers (Prestel, 2021). Ex fotoreporter della Associated Press, Samoilova ha ricevuto premi nazionali e internazionali per le sue fotografie iconiche dell’11 settembre, tra cui il primo premio al concorso World Press Photo e la nomina al Premio Pulitzer da parte dell’AP. Il lavoro di Samoilova fa parte di importanti collezioni come il Museum of the City of New York, la New York Public Library, la New York Historical Society, il Newseum e lo Houston Museum of Fine Arts.



ISP – Italian Street Photography é un incubatore/gestore di progetti ed eventi di Street Photography in Italia. Era partito come una vetrina autofinanziata per autori coinvolti, ma grazie alle attività promozionali e al confronto con il pubblico (Isp Review) e tra gli autori stessi è cresciuta la consapevolezza della persistente difficoltà nel realizzare Fotografia di Strada localizzata ed attualizzata nel nostro paese, con un territorio Urbano così diverso dai tipici scenari Americani e dei paesi del nord Europa. Si era deciso quindi di puntare allo sviluppo della fotografia Street Italiana in ottica autoriale, ma ci si è resi conto che è possibile coinvolgere Autori Italiani in singoli progetti adatti alle loro specifiche capacità, e che quindi non ha molto senso mantenere chiusa la partecipazione ai progetti ISP ad un ristretto gruppo di Autori. Ecco quindi che nel 2017 Isp si evolve, aprendo di fatto la partecipazione ai progetti sviluppati ad Autori che abbiano una forte connotazione stilistica e know how per poter rappresentare punti di riferimento in operazioni b2b e b2c che riguardino la street photography. Il progetto, ideato da Angelo Cucchetto e promosso da www.photographers.it e www.urbanphotoawards.com, è partito a gennaio 2015, e in quell’anno stata prodotta una grande mostra collettiva di quasi un centinaio di fotografie, inaugurata in occasione del Trieste Photo Day 2015, ed un ciclo itinerante di incontri, tavole rotonde e letture portfolio – fra Trieste, Roma, Firenze, Milano e Torino – in collaborazione con prestigiosi partner del settore: Officine Fotografiche, Deaphoto, Phlibero e altri Il 2016 vede nascere il primo progetto editoriale, un libro curato da Benedetta Donato con i lavori di Street realizzati ad aprile dai 15 autori all’epoca partecipanti nelle maggiori città Italiane usando come mezzo tecnico le nuove fotocamere di Fujifilm, partner e sostenitore del progetto. Il Libro The Italians è stato presentato anche durante le tappe di Isp Review 2016 Nel 2017 viene lanciato il primo progetto editoriale Italiano sulla Street con una produzione condivisa, il Magazine CITIES (www.italianstreetphotography.com/cities) il 22 e 23 Aprile si è svolta la prima produzione aperta a tutti, ISP EXPERIENCE, che ha permesso a 110 fotografi seguiti e coordinati dagli undici Autori ISP la realizzazione di scatti in ottica street in sei città Italiane, Catania, Genova, Milano, Roma, Torino, Venezia. Il magazine viene presentato in anteprima al Treviso Street Festival a fine maggio, e sucessivamente in alcune tappe del Fujifilm X Vision Tour 2017. A settembre 2017 è stata realizzata la produzione del secondo numero, presentato in anteprima al Trieste Photo Days a fine ottobre, ufficialmente alla tappa Romana del Fujifilm X Vision l’11 novembre, poi a Milano da Officine Fotografiche. A Milano è stata prodotta una grande Mostra collettiva di Cities, con 85 opere presentate da 75 Fotografi scelte tra le immagini pubblicate sui primi due numeri di CITIES. Mostra allestita in uno spazio prestigioso, Spazio Tadini Casa Museo, curata da Federicapaola Capecchi ed Agata Petralia, con un affollato opening il 24 novembre ed aperta fino al 21 dicembre 2017. Ad inizio 2018 sono state attivate partnership su interessanti e specifici progetti, come Street Sans Frontiere e Firenze in Foto. Nel 2018 sono stati realizzati il terzo ed il quarto numero di Cities, con un’edizione Speciale prodotta in occasione del Festival Street Photo Milano. Il 2019 segna una svolta per Cities: ai workshop di produzione vengono affiancate le prime storie Autoriali, ed il magazine si arricchisce di altri contributi: dai portfolio ai focus su Autori internazionali, come le serie: “Snow in Tokio” di Tadashi Onishi, “Americana” di Alex Coghe, “Wedding Moments” di Adam Riley. Nel 2020 siamo piombati in pandemia time: in febbraio esce CITIES 6, con le storie internazionali a cura di Attilio Lauria e redazione Fiaf e la nuova sezione dedicata alle “storie dal Belpaese”. Durante il lockdown va in produzione il terzo volume della collana autoriale, Urbanscape, dedicato alla fotografia Urbana documentale e concettuale, pronto per ottobre 2020, stesso mese in cui esce il numero di Cities, il 7, con l’ingresso di Vanni Pandolfi come curatore della sezione dedicata agli autori Italiani e la presenza di uno speciale curato da Sonia Pampuri con 4 progetti “inside”, storie al tempo del virus. Ed eccoci nel 2021, con un nuovo libro da produrre (Dreamlands) e questo numero 8 di Cities, sempre più bello, arricchito da quattro Focus d’autore... e stiamo già pensando al numero 9! Stay tuned!

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