I Siciliani - maggio 2013

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I Siciliani giovani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”

Il braccio destro di Dell’Utri, Micchichè, di nuovo al ministero. Berlusconi, di nuovo a cavallo, minaccia i giudici per non finire in galera.

maggio 2013

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Italia/ I nuovi eroi

Invece di Falcone

Ma non doveva arrivare il cambiamento? Grillo Bersani e Renzi sono riusciti a gettarlo via. Ma è proprio finito tutto? No, dice la base

Mazzeo MUOS, IPOCRISIE E RICATTI Cavalli LOMBARDIA: VIA LIBERA ALL’INVASIONE Caruso QUARTO STATO Gubitosa LA VERA CASTA Orsatti LA MAFIA A ROMA Di Maggio LEGGE ANTICORRUZIONE Giordano LA COSTITUENTE DEI BENI COMUNI CATANIA LE INDAGINI SU CIANCIO CATANIA 7 MILIONI IN PIU’ A VIRLINZI Gulisano IL GIOCO DELLE PARTI Giacalone ANDREOTTI, TRAPANI E I MAFIOSI Berra/Manisera GIUSTIZIA PER LEA Pettinari UN "SAGGIO" PER LE COSCHE De Gennaro ADDIO PD JACK DANIEL Capezzuto IL FORTINO ASSEDIATO Abbagnato GOVERNO FORZATO “MAMMA” Salvo Vitale PEPPINO, SEMBRA IERI Vita LE NOZZE SEGRETE FRA GOOGLE E ASSANGE Iacopino ACHTUNG, RAGAZZINI

Dalla Chiesa/ I 33 anni del Centro Impastato

Caselli/ Ma la mafia è un interlocutore?

ebook L’Era Alemanna

18 maggio La Fiom in piazza


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I giorni di Falcone

DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119

Ventun anni dopo i giorni di Falcone - che per noi antimafiosi segnano una svolta nella storia - l'Italia è ancora lontana dai suoi ideali. Una parte del popolo è molto regredita sul piano civile. E quella che invece resta fedele alla democrazia è estremamente divisa e priva di riferimenti politici e organizzativi adeguati. La crisi economica - dovuta a una lunga gestione rozza e egoista - ha la sua parte in questo. Ma pesano ancor più i lunghi anni di democrazia “liquida”, di politica-spettacolo, di leader “carismatici”, di delega a qualcun altro. Quel che avevano conquistato i cittadini, lo perdono gli spettatori. In questo senso la crisi è “morale” - non come moralità astratta, ma come insieme di valori comuni - e non solo politica o istituzionale. *** L'antimafia, in tutti questi anni, ha fatto da collante per i migliori. Indicando un servizio comune, un'etica condivisa, un modo militante e civile di vivere il bene comune. Per due generazioni di giovani, essa è stata una scuola e una Città. Adesso, probabilmente, è arrivato il momento di fare un passo avanti. Portare questi valori in un ambito più vasto, organizzarne la realizzazione pratica, farne - in una parola - una “politica” militante. Non per dividere ancora, ma anzi per unire. E di unità c'è bisogno, fra i cittadini non-sudditi, in questo momento. Sono la maggioranza, ma non riescono a farsene uno strumento. Le loro lotte “plebee”, che sono numerosissime, continuamente ondeggiano fra protesta senza seguito e riassorbimento in questa o quella lotta “patrizia” di palazzo. L'elementare concetto dell'unità fra i poveri, della solidarietà fra vite simili e simili interessi, sembra ancora un'utopia strana. Noi dell'antimafia sociale affrontiamo ogni giorno e direttamente dei poteri. Non delle ideologie, non delle costruzioni complesse, ma semplicemente dei potenti che comandano e vogliono continuare a farlo. Questa è una buona metafora, e anche un modello, che potrebbe utilmente estendersi all'intera società. La rete, i beni comuni, la mobilitazione a-ideologica su singoli obiettivi sono altri modelli che s'intrecciano ad esso, e che nella nostra pratica noi cerchiamo di unire sempre più strettamente. *** Da qui la buona politica, che verrà coi suoi tempi. Dobbiamo accelerarli il più possibile, perché la crisi - lasciata a se stessa - è inumana. E lancia segnali “non-politici” (in realtà profondamente politici) di disumanità e de-civilizzazione, come questo: venticinque donne, nei primi quattro mesi del 2013, uccise da altrettanti uomini. Bisogna fare presto. I Siciliani (r.o.)

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I Sicilianigiovani maggio 2013 numero quattordici

RIEPILOGANDO Fra i tanti premi giornalistici che si danno ogni giorno in Italia uno - per fortuna non dei più importanti - è andato a finire da noi, nelle persone di alcuni compagni che, a pensarci un momento, sono un condensato preciso dell'intera nostra banda. C'è Claudia, la giornalista giovane, ma già professionista e “regolare” con le sue inchieste fatte a norma di manuale. C'è Ester, che in poco più d'un anno s'è vista piombare addosso sindaci, 'ndranghetisti, politici collusi, e tutti li ha affrontati bravamente, né impaurita dalle minacce né confusa dai tentativi di corruzione. Ci sono - onnipresenti - Enrica, Daniela, Francesco, Angela, Antonio, quelli del “Clandestino”, questi Asterix siciliani che dalla loro piccola città in fondo all'Italia non hanno paura di niente e di nessuno. C'è infine Fabio, il più ragazzino di tutti nel ricordo ma ormai un uomo fatto e maturo, che da più di vent'anni (non ne aveva sedici quando venne aiSiciliani) segue la nostra strada. Una strada difficile, specialmente per lui: solo, non sostenuto da nessuno, eppure professionalmente agguerrito, difficile da smontare. Ci piacerebbe che i colleghi “importanti”, fra i loro molti e importantissimi pensieri, ne trovassero uno anche piccolo per lui. Per dirgli “grazie”, magari, visto che è grazie a lui, e a quelli come lui, che i Siciliani – cioè il giornalismo libero, cioè Giuseppe Fava – sono ancora qua.

Questo numero I giorni di Falcone/ I Siciliani Andreotti Rimozioni e realtà/ di Gian Carlo Caselli La memoria che non si arrende/ di Nando dalla Chiesa

3 6 7

Polis Lombardia Mano libera all'invasione/ di Giulio Cavalli Muos Fra ipocrisie e ricatti/ di Antonio Mazzeo L'Italia della Mezza Repubblica/ di Riccardo Orioles Le mafie a Roma/ di Pietro Orsatti Comuni Un voto di coscienza/ di Giovanni Caruso Subito la legge anticorruzione/ di Umberto Di Maggio La costituente dei beni comuni/ di Giulia Giordano 18 maggio La parola agli operai/ di Pietro Orsatti

8 9 11 12 14 15 16 17

Poteri Nuovo intervento in Libia da Sigonella?/ di Antonio Mazzeo La casta più pericolosa: i politici?/ di Carlo Gubitosa Le indagini su Mario Ciancio/ In 23 anni 7 milioni in più ai Virlinzi/ di Salvo Catalano Muos Gioco delle parti/ di Sebastiano Gulisano

19 20 22 23 24

Memoria Noi e Peppino/ E sembra ieri/ di Salvo Vitale

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Mafie Andreotti, Trapani e i mafiosi/ di Rino Giacalone Giustizia per Lea / di Valerio Berra e Sara Manisera Trapani La miseria e le mazzette/ di Rino Giacalone Chiude la sede Dia della Malpensa/ di Roberto Nicolini Un "saggio" guida le cosche/ di Aaron Pettinari Cronistoria di fuoco/ di Pino Maniaci e Salvo Ognibene

30 33 36 37 38 40

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DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119

SOMMARIO DISEGNI DI MAURO BIANI

Terre Avvertimento al sindaco anti-discarica?/ di Carmelo Catania Antimafia nella piccola città/ di Rosanna Chillemi Istanbul, guerre "diverse"/ di Alessandro Romeo e G.Caruso Il cielo di Librino/ di Stefania Di Filippo

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Satira MAMMA/ a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani

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Italia Munnizza e omertà/ di Domenico Pisciotta Emergenza rifiuti/ di Carmelo Catania Modica Il miracolo tarocco/ di Francesco Ragusa Il grido della farfalla/ Achtung ragazzini / di Bruna Iacopino Le donne si raccontano/ di Norma Ferrara

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Culture 'U Parrinu/ di Claudio Zappalà Gli omaggi di William Manera/ di Salvo Ognibene "Lei disse sì"/ di Teresa Campagna

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Storia Ma chi fu Antonio Canepa?/ di Elio Camilleri

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Storie Alla ricerca del tempo perduto/ di Jack Daniel

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Italia Un governo forzato/ di Giovanni Abbagnato Il fallimento del Pd/ di Riccardo De Gennaro Palermo La mafia sottovalutata/ di Giovanni Abbagnato Messina Un sindaco "bene comune"?/ di Tonino Cafeo

66 67 68 69

L'acqua la città la polis/ di Giovanni Caruso Palagonia La primavera ferita/ di Claudia Campese Napoli Il fortino assediato/ di Arnaldo Capezzuto Pio La Torre trentun anni dopo/ di Antonio Cimino

70 72 74 75

Mestieri La Sartoria/ di Marcella Giammusso e Paolo Parisi

76

Pianeta Le nozze segrete fra Google e Assange/ di Fabio Vita

78

Giornalismo L'informazione precaria / di Attilio Occhipinti Laboratorio Scrivere di mafia di Stampoantimafioso

80 82

Nord e Sud/ di Tito Gandini

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Il filo Il potere in Italia/ di Giuseppe Fava

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ebook Pietro Orsatti L'Era Alemanna

Un pamplet scintillante e spietato sull'ultima invasione barbarica dell'Urbe: gli Alemanni

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Andreotti/ Rimozioni e realtà

Ma la mafia è un interlocutore? di Gian Carlo Caselli

La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva. La verità processuale

Tutti coloro (e sono un esercito trasversale, politici e media) che hanno nascosto o stravolto la verità sull’esito del processo palermitano a Giulio Andreotti hanno reso un pessimo servizio alla trasparenza democratica del nostro paese. I fatti incontestabili sono questi. Il sen. Andreotti era imputato (in estrema sintesi) di rapporti con la mafia. In primo grado c’è stata assoluzione. In appello la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi il sen. Andreotti è stato ancora assolto, per quelli fino alla primavera del 1980 è stato dichiarato colpevole, per aver COMMESSO il reato contestatogli. Il reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente COMMESSO.

Parlare di assoluzione è fuori di ogni realtà. Difatti fecero ricorso in cassazione sia l’accusa che la difesa. Non ho mai visto, in oltre 50 anni di magistratura, un imputato che ricorre contro la sua assoluzione. Non esiste in natura. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu “assoluzione” per i fatti fino al 1980. La corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati due incontri del senatore, in Sicilia, con Stefano Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi dello stesso calibro. Negli incontri (lo dice la sentenza) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Pier Santi Mattarella, capo della DC siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra. Principale fonte di prova fu il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, un “pentito” rivelatosi sempre

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analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito “Una vera e propria partecipazione” La corte d’appello sottolinea poi che l’imputato non ha denunziato le responsabilità dei mafiosi incontrati, “in particolare in relazione all’omicidio di Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza”. In conclusione, la Corte d’appello ha ravvisato a carico di Andreotti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. Rapporti anche organici con la mafia Negare tutte queste verità documentate da una sentenza della Cassazione significa non voler elaborare la memoria di ciò che è stato perché si teme il giudizio storico su come (in una certa fase) si è formato almeno in parte il consenso in Italia. Significa pure legittimare, per il passato per il presente e per il futuro, un modo di fare politica che contempla anche rapporti organici con la mafia. Significa indebolire la nostra già fragile democrazia.


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I 33 anni del Centro Impastato

La memoria che non si arrende Maggio1980: il Centro siciliano di documentazione sulla mafia viene intitolato a “Giuseppe Impastato” di Nando dalla Chiesa

Tutto era iniziato nel 1977, quando due giovani contestatori, Umberto Santino e Anna Puglisi, marito e moglie dal ‘72, scelsero di pensare un po’ meno all’imperialismo e più alla forza crescente della mafia e fondarono il centro. Sembrava una iniziativa retrò, provinciale, in un’Italia che viveva il canto del cigno della rivoluzione giovanile, tra agguati all’alba, indiani metropolitani e p38 agitate e usate per le strade. Passò un anno e un giovane di Cinisi, Peppino appunto, venne fatto a brandelli dalla mafia di Tano Badalamenti nel modo che sappiamo. Vite parallele, poiché anche Peppino testimoniava lo slancio rivoluzionario attraverso un sessantotto tutto suo: altrove Vietnam e centralità operaia, lui Cosa nostra e l’eroina. Si era presentato alle elezioni comunali di quell’anno nelle liste di Democrazia proletaria. E, da morto, venne eletto. Questo lo sanno tutti. Quel che però non si sa è che l’ultimo comizio, l’11 di maggio del ‘78, venne tenuto al suo posto proprio da Umberto Santino, chiamato dai compagni di Peppino a reagire alla violenza mafiosa. Due anni esatti dopo Umberto decise con Anna di intitolargli il Centro. “Non perché fosse mio amico , non ci frequentavamo, io avevo nove anni più di lui. Ma perché seppi che veniva da una famiglia di mafia. E questo per noi ebbe subito un valore enorme. Doveva diventare il simbolo di ciò che era possibile”. www.ilfattoquotidiano.it

Decenni di battaglie Sono trascorsi decenni. Marito e moglie, che apparivano allora così diversi a chi li avesse visti per la prima volta, si sono andati assomigliando sempre di più. L’antimafia li ha modellati, li ha come fusi, mentalmente, fisicamente, nella realizzazione del loro generoso progetto. Decenni trascorsi a raccogliere materiale, a cercare testimonianze, a catalogare, a organizzare convegni. A scrivere, anche; perché in particolare Umberto ha scritto decine di libri, alcuni di valore assoluto. “A quale tengo di più? Alla Storia del movimento antimafia, questa grande storia di liberazione, iniziata con i Fasci siciliani e che non si è ancora conclusa”. Loro due e, con loro, un pugno di volontari. Con la sede ricavata eroicamente nella propria abitazione divisa a metà: di qui casa Santino-Puglisi, di lì il Centro Impastato. Chi faceva tesi di laurea sulla mafia veniva mandato qui da tutta Italia, nella certezza che avrebbe trovato consigli e bibliografie di eccellenza. Oltre a qualche ironia al vetriolo sul proprio relatore, perché Umberto è scorbutico, polemico, anche se capace di dolcezze imprevedibili. Ma uno dei veri, grandi meriti storici del Centro è stata una battaglia da molti e a lungo considerata marginale: quella, infinita, per dare giustizia a Peppino Impastato. Chinnici prima e Caponnetto poi E a Felicia, la mamma ribelle, e a Giovanni, il fratello minore. “Abbiamo fatto dossier, ricostruzioni, abbiamo ottenuto che Chinnici prima e Caponnetto poi dichiarassero quella morte orribile un omicidio di mafia, anche se non se ne poteva identificare l’autore; abbiamo fatto riaprire l’inchiesta quando poi si seppe che Salvatore Palazzolo, membro di una famiglia vicina a Badalamenti, si era pentito. Finché la giustizia della Repubblica ha indicato nel boss di Cinisi, che era poi uno dei più grandi capimafia in assoluto, il mandante dell’assassinio”.

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E non basta. Perché Umberto e Anna si sono pure battuti per fare istituire dalla Commissione parlamentare antimafia uno speciale comitato, presieduto da Giovanni Russo Spena, per ricostruire il depistaggio delle indagini sull’assassinio. “E anche lì abbiamo vinto. Visto che il depistaggio era prescritto, volevamo che almeno la storia non dimenticasse. E alla fine la tesi delle deviazioni compiute da uomini della magistratura e dei carabinieri, è stata messa nero su bianco da una larga maggioranza”. L’Italia avrebbe capito l’importanza di quella ventennale battaglia solo nel 2000, quando a Venezia un film destinato a fare epoca e cultura, “I cento passi”, avrebbe raccontato a una platea di spettatori commossi fino alle lacrime la storia del giovane di Cinisi salutato ai funerali da una selva di bandiere rosse. Umberto e Anna ora hanno un altro, più ambizioso progetto. È la loro eredità per Palermo. “Un Memoriale della lotta alla mafia” “Sogno un Memoriale della lotta alla mafia. Uno spazio grandissimo, dove si possa coltivare la memoria, vedere film, studiare. Un museo internazionale perché Palermo è stata capitale di mafia ma anche di antimafia. Gli regaleremmo i 7500 volumi del Centro, e anche i miei 2000 libri di storia e scienze sociali. Ho 74 anni, e questo Memoriale vorrei vederlo nascere e crescere insieme con Anna. Palermo se lo merita. Sto rivolgendo appelli al Comune e a tutte le istituzioni. Ma perché, non sarebbe giusto farlo?”. L’intellettuale polemico, aspro, torna dolce sotto gli occhialini. Lui che non ha mai avuto finanziamenti pubblici (“tranne una volta per una ricerca europea sulla droga, scriva di darci il 5 per mille”) sogna quel che da solo non potrà mai fare. Lo guardi e provi ammirazione. Dietro, c’è una storia dedicata alla più grande e rischiosa causa della sua Sicilia. Da quel comizio dell’11 maggio del 1978, in cui arringava chi lo guardava da sotto le finestre chiuse, fino ai dibattiti di questi giorni. Giorni di anniversari. Pio La Torre, Portella delle Ginestre. E Cinisi, naturalmente.


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Lombardia

E adesso mano libera all'invasione Passata la tempesta Ambrosoli, le classi dirigenti lombarde tornano a ficcare la testa sotto la sabbia di fronte all'invasione mafiosa. Abbandonando i giovani che lottano per difendere da mafia e 'ndrangheta la Regione di Giulio Cavalli La sconfitta di Umberto Ambrosoli e il centrosinistra in Lombardia è (anche) una sconfitta dell’antimafia lombarda. Inutile negarlo; peggio ancora fingere di non volerlo analizzare perché sarebbe troppo totalizzante, secondo alcuni. Non c’è cultura antimafiosa nel formigonismo, non ce n’è nel percorso ciellino che ha demolito la meritocrazia nel mondo della sanità e non ce n’è nella Lega Nord che in Consiglio Regionale in passato ha negato l’istituzione di una Commissione Antimafia archiviandola con un sorriso di sufficienza. Poi c’è stato Maroni, e su Maroni si è scritta una certa letteratura (figlia di un berlusconissimo revisionismo e di una neodeclamazione dei numeri e degli arresti) che l’ha avvicinato a rappresentazione di “antimafioso nonostante Berlusconi”. Dalla denuncia alla connivenza Sarebbe inutile elencare per l’ennesima volta solamente le colpe storiche del movimento leghista che è passato dal latrato

antiberlusconiano con la foto di Dell’Utri in prima pagina de ‘La Padania’ alla convivenza sopita fino alla connivenza più spietata nell’ultimo periodo del Governo Berlusconi (quello contro la magistratura, la trattativa, il reato di concorso esterno, lo scudo fiscale e troppo altro ancora). Eppure la verginella Maroni è riuscita a scrollarsi di dosso le gocce della melma e ripresentarsi candido, candidabile e perfino nuovo Governatore della regione cameriera delle mafie, ‘ndrangheta in primis: la sfiorita Lombardia. C’è stata in campagna elettorale la solita desolante sensazione di un centrosinistra applicato ad un’antimafia di “maniera” che si è ritenuta sazia dell’avere candidato il figlio dell’avvocato Ambrosoli. Troppo facile - si diceva - vincere contro una parte politica decaduta dal governo regionale sotto le accuse di uno scambio mafioso di voti. Troppo facile pensavano. E pensavano male. Tant’è che mentre nel sottobosco lombardo si vive una primavera di giovani attivi, preparati e consapevoli (vengono in mente i ragazzi di Stampo Antimafioso, per fare un esempio) il centrosinistra

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ha balbettato qualche ovvietà di cortesia sulla mafia che è brutta, sporca e cattiva poi qualche pensierino di memoria e carità e speravano che bastasse così. E non è bastato. Nessun piano a lunga scadenza Alla fine nella Lombardia leghista Bobo Maroni ha comunque deciso di istituire una Commissione Antimafia (ex post, si direbbe) aprendo uno spazio di azione possibile. Verrebbe da pensare che i partiti (tutti i partiti) con il centrosinistra in testa colgano l’occasione per scaldare i propri uomini migliori e per chiedere ad Umberto Ambrosoli di guidare la praticata diversità e discontinuità conclamate tante volte su questo tema, ci si aspetterebbe un “tirare su le reti” delle esperienze sociali di tutti questi anni per cogliere l’eccellenza. E invece? E invece le nomine che trapelano non prevedono Ambrosoli e nemmeno un piano a lunga scadenza. E tutti qui ci auguriamo che non sia così. Perché perseverare è diabolico, no?


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Sicilia

Cresce la base Muos fra ipocrisie siciliane e ricatti romani A parole, tutte le forze politiche sono contrarie, in Sicilia, alle pericolosissime installazioni Muos di Niscemi. Però a contrastarle lasciano solo i ragazzi dei movimenti: difendono la terra e la pace coi loro corpi e con le loro vite. E sono soli di Antonio Mazzeo Ci hanno messo di tutto. Il cuore. La rabbia. Mille speranze. Le illusioni. Gli splendidi volti segnati dai tanti sorrisi e pure dalle lacrime. Ma soprattutto ci hanno messo i corpi. Corpi che gli apparati repressivi dello Stato hanno violato, ferito, sradicato dalla Madre Terra che loro, i No MUOS di Niscemi, difendono dal mostro della guerra e della morte. Un’orgia di violenze, menzogne, tradimenti. Ministri, politici e funzionari dalla lingua biforcuta. Promettono sospensioni ai lavori illegittimi ma intanto alle imprese in odor di mafia assicurano il pass nella riserva naturale convertita in base di distruzione di massa. Un territorio stuprato, desertificato, avvelenato da un quarto di secolo dalle invisibili microonde. Mentre intanto tanti altri corpi si piegano per le mutazioni genetiche e il cancro infestante. Un gelido inverno insonne. Presidi no stop, sit-in, blocchi stradali, sabotaggi e invasioni simboliche. L’azione diretta e la disobbedienza civile per testimoniare antiche verità. Per invocare diritti e libertà. Per rifiutare l’inesorabilità della guerra globale e permanente. Per riappropriarsi della sovranità della terra e dell’acqua, delle cento specie della flora e della fauna che i superguerrieri del XXI secolo vorrebbero estinte. Per costruire nuove soggettività e sperimentare pratiche politiche dal basso, l’autogestione e il rifiuto delle deleghe in bianco.

Per costruire solidarietà, radicalità, percorsi e progetti di antimafia sociale. Migliaia di giovani, donne, disoccupati e lavoratori precari che tornano nelle piazze a chiedere pace, lavoro e giustizia. I governi accecati dall’arroganza e dallo stillicidio dei golpe bianchi sono inamovibili. Il MUOS s’ha da fare, in nome della vecchia amicizia con l’Impero a stelle e strisce e degli affari del complesso militare-industriale-finanziario di casa nostra. Stracciando quel poco che resta della Costituzione antifascista, negando il diritto alla vita, alla salute, alla difesa del territorio e dell’ambiente. Violando leggi, decreti, regolamenti, i principi di cittadinanza e perfino le fondamenta stessa della democrazia formale. Gli accordi della Guerra Fredda Il Governo dei poteri forti ha la fiducia delle grandi intese mentre il sommo presidente vigila a vita sul rispetto degli accordi della Guerra Fredda con il grande fratello d’oltreoceano. Eppure, paradossalmente, le partite sul MUOS, i droni, gli F-35 e le famigerate basi USA e NATO, sono tutt’altro che definite. I movimenti di opposizione alla militarizzazione crescono dalla Val di Susa al Nord-est e alla Sicilia, mobilitando altri corpi e altri volti. Che allora ci mettano almeno la faccia e

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un po’ più di coraggio quelle forze politiche che si dicono vicine ai bisogni di cambiamento e partecipazione della maggior parte degli italiani. Aprendo lo scontro nelle legittime sedi istituzionali, le Camere, dove prima possibile devono essere imposti le discussioni e il voto contro i nuovi programmi di morte, a partire appunto dal MUOS, il sistema di telecomunicazioni satellitari che sancirà la trasformazione della Sicilia in piattaforma avanzata per le guerre iper-tecnologiche - disumanizzate e disumanizzanti - delle forze armate degli Stati Uniti d’America. All’Assemblea Regionale Siciliana, il fronte politico-istituzionale anti-MUOS è stato unanime. La mozione per imporre all’esecutivo la revoca a delle autorizzazioni ai lavori è stata votata da tutti quei gruppi che oggi siedono al Governo nazionale o tra i banchi dell’opposizione in Parlamento. Ci mettano la faccia allora e dicano se e perché quello che si fa a Roma può essere il contrario di quello che si è fatto a Palermo. I No MUOS non sono certo ingenui, sanno benissimo con chi hanno a che fare. Lo hanno pagato a suon di manganellate e denunce. Ma hanno il sacrosanto diritto a una risposta chiara. Non fosse altro per capire come e dove estendere le pratiche di lotta e, in comunione con i movimenti sociali del pianeta, continuare a difendere l’umanità dall’Olocausto finale.


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I Siciliani 19 Sicilia igiovani – pag. p


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Politica

L'Italia della Mezza Repubblica Il governo Napolitano di Riccardo Orioles Prima e seconda repubblica, poi terza... In realtà, viviamo ormai in una Mezza Repubblica, che non solo ha poco a che vedere con la repubblica di prima, ma è ormai alcunchè d'intermedio fra repubblica e monarchia. E' il secondo “governo del Presidente” consecutivo. L'unico precedente è il governo Salandra del 1914, legale - come questo - certamente, ma altrettanto irrituale, e altrettanto lontano dalla maggioranza elettoralmente espressa. Nel 1914, la maggioranza era senza dubbio di sorta giolittiana. Ma il capo dello Stato scavalcò il leader del centrosinistra e dette - legalmente - l'incarico a Salandra, che fu poi confermato dal Parlamento. Nel 2013, le urne avevano espresso una precisa volontà di cambiamento (divisa fra due partiti, che entrambi avevano esplicitamente escluso qualsiasi accordo col centro-destra) ma il capo dello Stato imbrigliò il leader del centrosinistra e dette - legalmente - l'incarico a Letta, che fu poi confermato dal Parlamento. In entrambi i casi il governo, teoricamente “tecnico” e d'union sacrée, bloccò le spinte sociali, emarginò la sinistra e affrontò l'emergenza nel modo più catastrofico, liberando spinte eversive e abbassando il livello civile, che già non era altissimo, del Paese. Il Sudamerica (quello di prima) Siamo arrivati così al Sudamerica (quello di prima): il capo dei fazenderos minaccia i giudici in piazza (né il capo dello stato, Rey o Presidiente che sia, interviene); fra i liberales regna l'anarchia.

ALCUNE COSE UTILI DA FARE

- Confiscare tutti i beni mafiosi o frutto di malversazione, corruzione o grande evasione fiscale; assegnarli a cooperative di giovani lavoratori, e sostenerle adeguatamente; - Legge anticorruzione (riforma art. 416ter); - Trasparenza bancaria; - Applicare l’art.41 della Costituzione (“programmi e controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”);

Questi ultimi si dividono in due partiti, nemicissimi fra di loro. Il primo, guidato da un caudillo che per i suoi è ”come un padre che accompagna un bambino che cammina ancora carponi”, punta tutte le sue carte sull'imminente révolucion, e non discute nemmeno con chiunque non ne sia più che convinto. Il secondo, fra i suoi numerosi caciques, periodicamente elegge un Secretario Général entusiasticamente acclamato da tutti ma che poi, nel segreto dell'urna, viene sistematicamente trombato dai suoi seguaci. Altro che gollismo. E' Pétain “In realtà, se non facevamo così i tedeschi ci facevano a pezzi - fa trapelare qualcuno - La banca centrale, i mercati...”. Ahimé, neanche questa è nuova. “Tenersi buoni i tedeschi”, “Ordine prima di tutto”, “Tutti col Capo dello Stato!” l'hanno già fatto a suo tempo in Francia, e non con un governo gollista (sogno di tanti notabili) ma con Pétain. *** S'è vista, in questa crisi, una incredibile differenza di “professionalità politica” per così dire - fra destra e sinistra. Da un lato l'indeciso Bersani, l'adolescente presuntuoso Renzi, il simpatico pasticcione Grillo; dall'altro dei professionisti freddi e duri - i Letta, i Napolitano, i Berlusconi. Non c'era partita. Ha contato relativamente poco (anche se centouno deputati “traditori” su quattrocento non son cosa da poco) il “tradimento”. A contare è stata la superficialità, il personalismo, il leaderismo da quattro soldi. L'Italia profonda, insomma. Che ormai da molti anni - da quando è ricca - in politica si esprime così. Qua, in questa “autobiografia della nazione”, bisogna mettere mano. Ma i vecchi non possono farlo. - Applicare l’art.42 della Costituzione (esproprio per motivi d'interesse generale) per sanzionare le delocalizzazioni, l’abuso di precariato e il mancato rispetto degli accordi di lavoro; - Separazione fra capitale finanziario e industriale; tetto alle partecipazioni finanziarie nell’editoria; Tobin tax; - Regolarizzare per legge i rapporti di lavoro di fatto; - Gestione pubblica dei servizi pubblici essen-

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Un segretario di trent'anni, e antimafioso Conosciamo diversi trentenni - antimafiosi militanti - che potrebbero ben dirigere un partito, fra i giovani del Pd. Sarebbe un cambiamento vero, non demagogico e di facciata. Potrebbe persino inalberare (cosa che nessuno ora osa o vuol fare) il nome di Berlinguer, chiaro e solare. Lo accetterebbe, il partito, uno scossone del genere? Un segretario di trent'anni? La base, sì certo. Ma quanto conta la base? I Cinque stelle, in parte per loro merito, si son trovati a gestire i ventisette milioni di voti del referendum Rodotà sull'acqua pubblica di due anni fa. Sono all'altezza i Grillo e i Casaleggio, e i loro immediati seguaci, di dirigere un simile movimento? Esistono nel Cinque stelle militanti giovani (giovani, ma con una storia precisa, non dei “vaffanculisti” generici di quest'ultima annata) in grado di farlo al posto dei loro vecchi, ormai evidentemente dannosi? Fra queste due domande - apparentemente generazionali, ma in realtà profondamente politiche – si gioca la politica italiana di questi anni. Da queste generazioni e dal loro incontro (e l'attuale governo non è stabile, e le occasioni di rovesciarlo non sarebbero poche) noi ci attendiamo la riscossa, non dagli anziani capibranco. Abbiamo ragione - e trent'anni di lotta mai nel palazzo ma sempre orgogliosamente dalla strada ci danno qualche diritto di rivolgerci a loro – nell'affidare le nostre speranze a questi giovani, in questo difficilissimo momento? Niente “pacificazione” con i padroni d'Italia, niente guerra fra chi, anche confusamente, gli vuole andare contro. E un primo momento di lotta e di unità già da subito può essere l'antimafia, come dice (v.pag.15) don Ciotti. ziali (scuola, università, difesa, acqua, energia, infrastrutture tecnologiche, credito internazionale); ristrutturazione della Rai su base pubblica; limite regionale per l’emittenza privata; - Progetto nazionale di messa in sicurezza del territorio, sul modello TVA, come volano economico soprattutto al Sud; divieto di ulteriori cementificazioni; - Controllo del territorio nelle province ad alta intensità mafiosa.


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Italia

Le mafie a Roma Le mafie a Roma ci sono, da decenni. E a Roma è in corso una guerra di mafia e non slegati regolamenti di conti fra qualche bullo di periferia. Una guerra sanguinosa e nascosta. Dai media e soprattutto dalla politica di Pietro Orsatti www.orsattipietro.wordpress.com Una storia già vista, quella della negazione dell'esistenza del potere mafioso in un determinato territorio. E che oggi nella capitale si ripete. Guardiamo al passato per capire l'oggi. Fra il 1983 e il 1993 in Italia le mafie uccisero diecimila persone. In Sicilia, Campania, Calabria e Puglia principalmente. Ma anche in altre zone del paese i boia procedettero tranquillamente nella loro contabilità di morte. Ce lo ricorda, spietatamente, Enrico Deaglio nel lbro “Raccolto Rosso” che quella strage ha cercato di raccontarci. Una guerra, o la somma di più guerre contemporanee che insanguinarono la penisola in un silenzio, il più delle volte, assordante. Per il controllo del traffico dell’eroina, degli appalti, del racket, del rapporto preferenziale con pezzi della politica e della finanza. In tutto il paese.

Numeri impressionanti Numeri impressionanti e terribili. Che si tentò all’epoca in tutti i modi – da parte della politica – di disgregare dalle statistiche e spesso sminuire e che oggi abbiamo affrettatamente dimenticato. Certo oggi ricordiamo ile troppe vittime innocenti, gli appartenenti agli organi dello Stato, i giornalisti, testimoni, imprenditori, semplici cittadini caduti. Troppi, si, ma che sono comunque una frazione minima di quei diecimila. E quell’enormità ora abbiamo dimenticato irresponsabilmente. Perché se gran parte dei caduti di questo terrificante conflitto erano appartenenti alle organizzazioni mafiose il bilancio del “Raccolto Rosso” colpisce e lacera l’intera società italiana. Ancora oggi. Perché anche se si uccide meno si continua a uccidere anche in questi anni. La guerra, anche se meno visibile, prosegue. Non c’è zona del paese che non vi sia stata coinvolta. La famosa linea della palma di Leonardo Sciascia, quella che descrive nel libro Il giorno della Civetta, si è affermata da decenni, salendo lentamente e inesorabilmente a Nord. È nelle cose, l’abbiamo cosi metabolizzata nella nostra geografia interiore fino ad averne una percezione fatalistica se non addirittura di normalità. Si uccide ancora, con regolarità. In questo momento uno dei luoghi dove si uccide di più in Italia è Roma. È in corso da alcuni anni una guerra di mafia nella capitale e nessuno la chiama con il suo nome. Perché si ha una paura terribile di pronunciare la parola “mafia”. Sembra quasi che ci si vergogni di aver abbassato la guardia e di aver sottovalutato la penetrazione e il radicamento delle mafie nel tessuto economico e sociale della capita-

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le, e allora meglio negare che assumersene pubblicamente la responsabilità. E ancora, temo – anche se sempre più spesso trovo conferma dei miei timori -, a qualcuno conviene non definire, non chiamare con il proprio nome, la mafia o le mafie per pura convenienza. Perché le mafie portano soldi e affari. E potere. Come trent’anni fa. Come anche prima. Mafia o “criminalità organizzata”? Ma la mafia, a Roma, si dice che non esista. Si dice. Quando invece di parlare di mafia o mafie si usa il termine “criminalità organizzata” già si mette in atto una sottovalutazione consapevole del problema. Quando un’esecuzione di mafia viene definita come “regolamento di conti fra bande” si mette in atto un’operazione di rimozione che abbiamo già vissuto e subito nel passato e che ha causato enormi tragedie a tutta la nostra comunità. “Finché si ammazzano fra loro”. Esattamente quello che accadeva all’alba della mattanza a Palermo, la scalata dei corleonesi di Liggio, Riina e Provenzano ai vertici di Cosa nostra. L’ho sentita oggi quella frase. A Roma, “Finché si ammazzano fra loro” e quindi non si definisce questa emergenza, usare il termine “mafia” è pericoloso, anzi no, è consapevole disfattismo, attentato all’economia della città, del paese. Anzi, le mafie La mafia è a Roma. Anzi le mafie, perché ci sono tutte e prosperano da decenni anche se di tanto in tanto ci scappa un morto o, peggio, qualche arresto a disturbare quel pacifico prosperare.


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“Cosa nostra siciliana, i casalesi, la 'ndrangheta, i camorristi, gli scissionisti campani e i discendenti della banda della Magliana” Ci sono Cosa nostra siciliana, i casalesi e i camorristi e gli scissionisti campani, la ‘ndrangheta calabrese e pure la nuova mafia autoctona figlia della vecchia banda della Magliana. Senza poi parlare delle organizzazioni straniere come quella cinese. Negli anni ’70 e ’80 le parole d’ordine delle mafie che operavano nella capitale erano quattro: eroina, politica, appalti, affari. Oggi è cambiato solo un fattore, la cocaina ha sostituito l’eroina (anche se quest’ultima sta lentamente riprendendo piede). Il conflitto sanguinoso in atto in questi anni ha proprio la droga al centro delle sue motivazioni. Attenzione, non si uccide solo per il controllo delle piazze dello spaccio. Quello si è una ragione del conflitto, ma la questione è altra e con ben altre dimensioni. Si uccide per il traffico di cocaina a livello nazionale e internazionale. Almeno il 30% (ed è la stima più ottimistica) di tutta la coca trafficata in Europa transita per il Lazio e la capitale. Miliardi di euro Parlo di un affare di molti miliardi di euro l’anno. E il cartello delle organizzazioni mafiose tradizionali (calabresi, campane e siciliane) hanno l’assoluta necessità di garantirsi un controllo totale del territorio. Si, un cartello mafioso, sperimentato e consolidato negli anni a Fondi nel basso Lazio (la presenza del più grande mercato ortofrutticolo d’Europa a fare da copertura a ogni traffico possibile) e che ora sta imponendo anche con il sangue la propria dittatura nell’hinterland e nella capitale. Perché a Roma, in continuità con quello che fu la banda della Magliana, si è ricreata un’organizzazione autoctona di stampo mafioso – a volte con l’aiuto di

fuoriusciti dalle altre organizzazioni – che ha cercato di occupare spazi strategici nello spaccio e nel traffico. Hanno alzato il tiro, hanno chiesto la loro fetta della grande torta della cocaina e forse anche degli altri affari che l’incredibile liquidità garantita dal traffico e dallo spaccio di droga garantisce soprattutto in questa fase di crisi economico/finanziaria dove credito e liquidità legali sono diventati un miraggio. Da qui l’esplosione di un conflitto unidirezionale. A riprova il fatto che la maggior parte dei “caduti”, sicuramente di quelli “eccellenti”, appartengono a questa organizzazione. il cartello non tollera nuovi concorrenti. Soprattutto non tollera che i gregari e la manovalanza cerchino di salire un gradino nella gerarchia degli affari. Ma andiamo ai numeri di questa guerra di mafia. Ufficialmente non ce ne sono. Non c’è una certa contabilità di morte. Quasi tutti gli omicidi – e si tratta di esecuzioni e non conflitti a fuoco – vengono derubricati -spero solo nei comunicati stampa e non nelle indagini – come “regolamenti di conti” strettamente locali. Questo il messaggio lanciato all’opinione pubblica. Poco più che criminalità comune. Un coro anestetizzante Poche le voci discordanti e stonate in questo coro anestetizzante. Qualche dichiarazione proveniente dalla procura (puntualmente inascoltata e pubblicata in taglio basso dai giornali) altre da parte di alcuni esponenti delle forze di polizia. Ma la versione più accreditata dalla politica e dalla stampa capitolina è quella minimalista. Si, forse la mafia c’è a Roma come in tutto il paese del resto, ma

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certo non è in atto alcuna guerra. State tranquilli. Ho fatto una veloce ma faticosa verifica sull’archivio dell’Ansa usando come parametri di selezione le modalità di esecuzione degli omicidi e il “curriculum” degli uccisi. Questo dopo l’ultima esecuzione alla vigilia di Pasqua in un bar di Tor Bella Monaca. In 30 mesi 64 fatti di sangue nella capitale e nell’hinterland. Ed è certo un numero calcolato per difetto. Assoluto controllo sul territorio Se poi dovessimo andare a censire il numero di intimidazioni verso imprenditori e commercianti, gli attentati incendiari a mezzi e negozi, i casi di usura, non finiremo più. Si tratta non di segnali tutti da interpretare ma delle innumerevoli prove dell’assoluto controllo che le mafie esercitano sull’intero territorio di Roma. Intero, non solo in pezzi delle più degradate periferie. Ho avuto più di una segnalazione di atti di intimidazione in pieno centro a Roma. Uno in particolare mi ha colpito perché fisicamente avvenuto a metà strada fra la Camera dei deputati e la sede dell’ordine dei giornalisti. Una zona della città dove il controllo dello Stato sul territorio dovrebbe essere fortissimo. E invece… Quanti morti dovremo censire, quante infiltrazioni, quante penetrazioni nel tessuto economico attraverso il racket e l’usura, quanti appalti truccati, quante tonnellate di cocaina trafficata dovremo contare prima che si abbia il coraggio di pronunciare la parola mafia? Mafia. Usiamola questa parola. Mafia.


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Comuni/ Quarto Stato

Un voto di coscienza Nel povero quartiere, i galoppini sono scatenati a cercare i voti. La destra ha distrutto Catania, il centrosinistra presenta un vecchio barone, i grillini (benintenzionati) credono di essere alle elezioni di Stoccolma e non a quelle di una città divorata da mafia e ingiustizia sociale... di Giovanni Caruso www.associazionegapa.org

Tante volte, da questo foglio, ci siamo appellati al popolo di San Cristoforo e degli altri quartieri affinché si rifletta prima di andare a votare. Infatti, in occasione delle elezioni che ci dovrebbero dare un nuovo sindaco e un nuovo consiglio comunale, rilanciamo un appello a tutti e tutte voi affinché prima di votare riflettiate! Noi non siamo certo qui per indicarvi chi votare, ma semmai per ricordarvi chi fino ad oggi ha governato Catania, come l'ha amministrata e sopratutto cos'ha fatto per i nostri quartieri.

Abbiamo avuto negli anni '90 il sindaco Bianco, seguito da momenti di crisi politica. Poi è arrivato Scapagnini e poi Stancanelli. Tutti hanno contribuito al disastro economico, ai "comitati d'affari", al clientelismo, attraverso i consulenti superpagati o peggio alle connessioni tra mafia e politica. Dimenticano sempre le periferie Insomma, una mala politica che ha amministrato con atti di "facciata" senza mai risolvere i problemi della giustizia sociale, del lavoro, di come conservare il territorio e l'ambiente, mapensando piuttosto a come cementificare sempre di più attraverso varianti del piano regolatore, che questa città peraltro non ha mai avuto. L'hanno fatto favorendo gli amici degli amici e i privati, attraverso i "progetti di finanza"o con appalti poco trasparenti. Tutto questo, dimenticando il popolo dei quartieri popolari e delle periferie. La loro presenza in questi territori è stata costante solo durante le campagne elettorali, affidandola ai "capibastone" o allo scambio di voti per un "pacco di pasta", speculando sulla vostra povertà. Oggi questi vecchi e consumati politici si fanno passare per "il nuovo che avanza"! Unica novità - che non vuol dire necessariamente progresso, ma staremo a vedere! - è il movimento cinque stelle. Leggiucchiando qua e là i loro programmi, più o meno sono uguali. Poco si parla di quartieri, di lotta alla corruzione e alla mafia, che sono i mali assoluti che distruggono il nostro vivere civile.

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Secondo noi, e con i dovuti distinguo, nessuna di queste formazioni politiche ha un vero progetto politico, nessuna ha adottato una vera politica che venga dal basso, nessuna ha adottato una vera democrazia partecipata. Non vi ha chiesto, cioè cosa vogliate realmente per il vostro quartiere. Se ci avessero chiesto un parere, avremmo risposto: - vogliamo la riqualificazione urbanistica del nostro quartiere; - vogliamo un'economia sostenibile, rivolta alle attività turistiche e in particolare al parco archeologico (che potrebbe dare molto lavoro a giovani e disoccupati): - vogliamo il recupero di tutte mestieri artigianali che con l'apprendistato potrebbero reclutare i tanti adolescenti che non lavorano e non vanno a scuola, e finiscono in preda alla manovalanza mafiosa; - vogliamo il recupero delle piazze costruite e abbandonate allo spaccio - per renderle fruibili alle famiglie, agli anziani e ai bambini che non hanno spazio per i loro giochi e per una sana crescita. L'ingiustizia che genera la crisi Allora, uomini e donne di San Cristoforo, quando entrerete nella cabina elettorale riflettete! Pensate non solo al vostro bisogno, pensate e votate per una intera collettività, perché essa si esprima come una sola voce, che urli democrazia, costituzione, e un forte no alla mafia e all'ingiustizia sociale, che genera la crisi che stiamo attraversando.


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Politica/ Parlamento

Subito la legge anticorruzione! Ce la facciamo a unirci tutti gli antimafiosi almeno per portare avanti in Parlamento la legge, richiesta da don Ciotti di Libera e firmata da migliaia di cittadini, contro la corruzione politica e il voto di scambio? di Umberto DI Maggio Libera Sicilia

La corruzione è un cancro che, al pari delle mafie, rende impossibile l'applicazione di politiche di sviluppo e lavoro e diminuisce la fiducia degli investitori esteri.

Sessanta miliardi di euro Aggredendola davvero si potrebbero recuperare ogni anno quei sessanta miliardi di euro (fonte: Corte dei Conti 2012) che darebbero alle tasche degli italiani quei mille euro necessari a tirare avanti la carretta, ammortizzando la sfilza infinita di tasse e balzelli che avviliscono la nostra economia. Confiscare i patrimoni corrotti Ma allora perché non fare subito una legge anti-corruzione che migliori l'impianto della norma voluta dall'ex ministro Severino e aggredisca, tanto per cominciare, lo scambio elettorale politico-mafioso? Perché non tagliare di netto questo strumento - lo scambio di voti che rende così forti quei politicanti che con clientele e favoritismi riescono a occupare gli scranni più importanti della rappresentanza istituzionale? Perché non applicare i risultati ottenuti con la confisca dei patrimoni dei mafiosi anche a quelli dei corrotti?

Per sostenere la legge ADERISCONO PARLAMENTARI SEL, PD, M5S

E perché non farlo adesso, con un Parlamento con una composizione tra le più giovani d'Europa? Duecentosettantasei parlamentari di diverso colore politico - eletti tra gli 878 candidati che hanno aderito agli impegni di trasparenza chiesti dalla campagna Riparte il Futuro - prima delle elezioni si erano impegnati a dare un segnale netto e deciso, e non solamente formale. A questi parlamentari (il trenta per cento del Parlamento) vanno sommati i 214mila cittadini che hanno firmato la petizione per una Politica che agisca con i fatti contro la corruzione. Pene più severe e ineleggibilità Qualche esempio? Pene più severe ed evitare il rischio di prescrizione, il falso in bilancio, l'autoriciclaggio, l'incandidabilità e l'ineleggibilità per avere vere "liste pulite". Che questi passaggi però non siano solo meri auspici. Del resto, come recita il proverbio dei nostri nonni, "chi vive di speranza, disperato muore".

mento, sulla quale – come ricorda nel suo intervento il presidente di Libera e Gruppo Abele, Don Luigi Ciotti “sono stati fatti alcuni compromessi” che hanno bloccato l’efficacia del testo di Legge. 7 maggio. Oltre 200mila cittadini chiedono di cambiare la legge I parlamentari si sono riuniti oggi per formare un gruppo intersulla corruzione. E di fare presto e bene. Dopo i primi cinquanta parlamentare che possa procedere con il primo intervento sul giorni dalle elezioni del Parlamento, con un nuovo Governo ap416 ter: punire lo scambio fra voti e “altre utilità”. In caso di pena nato, i parlamentari che hanno aderito alla piattaforma di corruzione a fini elettorali (strumento utilizzato soprattutto dalle proposte contro la corruzione della campagna “Riparte il futuro” mafie per inquinare il voto), infatti, attualmente è sanzionabile il si sono incontrati questa mattina a Palazzo Giustiniani a Roma voto di scambio, solo se dietro c’è un passaggio di denaro. per dare inizio ai lavori. Un impegno che hanno preso pubblicaNorma Ferrara mente sottoscrivendo la proposta di “Riparte il futuro”che mira a Liberainformazione migliorare la legge anticorruzione varata dal precedente Parla-

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Società civile

La costituente dei beni comuni Roma, L'Aquila, Pisa, Ancona, Padova, Sicilia, Valdisusa, Napoli e tante altre comunità di cittadini sono le protagoniste della costituente dei beni comuni di Giulia Giordano teatropinellioccupato.wordpress.com

Il percorso della commissione Rodotà riparte con la società civile, su proposta dei movimenti che in questi anni hanno portato avanti lotte di riappropriazione e liberazione di beni comuni, a partire dalla vittoria del referendum sull'acqua e dalle occupazioni di teatri e spazi culturali, alle lotte per il diritto all'abitare e il diritto alla città. Ma cosa sono i beni comuni? Se per l’acqua, l’aria, la cultura sembra una categoria abbastanza condivisa il dibattito si accende su tutto il resto e su come si possano gestire i beni comuni. Una cosa è certa: i beni comuni emergono attraverso le lotte, attraverso l'uso, la riappropriazione di una ricchezza che è stata sottratta, ed è percepito dalla collettività come necessario per la comunità e per le generazioni future. I beni comuni si oppongono alla sterile dicotomia tra pubblico e privato, sono un superamento che tiene conto dei processi di partecipazione reale alla gestione di tali beni.

Questa inedita alleanza tra movimenti e giuristi della ex commissione Rodotà si propone l'arduo obbiettivo di raccontare e “normare” i beni comuni, partendo proprio dalle pratiche di lotta e non da un mera catalogazione dei beni. è il momento in cui le vecchie istituzioni implodono mentre proliferano occupazioni, si sperimentano pratiche di autogoverno. In molti hanno deciso di non essere più sudditi di pochi notabili che detengono il potere portando avanti interessi di privati privanti della ricchezza collettiva. È il momento in cui attraversando insieme l'Italia migliaia di cittadini la ricostruiscono per permanere, per rafforzare relazioni, creare le condizioni per la vita delle generazioni future. Un mondo di diritti La costituente è frutto del lavoro di chi pensa al diritto come qualcosa di vivo, che sgorga attraverso le lotte dei cittadini e non come un organismo repressivo a servizio di chi detiene il potere. Ogni giorno una larga parte della società civile contribuisce a far vivere i beni comuni, le istituzioni troppo impegnate a dismettere beni e privatizzare servizi provano a reprimere riducendo conflitti politici a questioni di ordine pubblico, da qui emerge la necessità di avere un riconoscimento anche giuridico per i beni comuni e delle leggi che tutelino i cittadini che se ne prendono cura (anche il diritto penale deve essere riformato). I beni comuni sono beni inalienabili, indisponibili al mercato, ma fruibili a tutti, partendo dalla valorizzazione delle comunità che li fanno vivere. Le lotte per beni comuni aprono un mondo di di diritti, ma anche di conflitti: puntano il faro sulle speculazioni, sugli interessi della mafia, su i soprusi di chi

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pratica il saccheggio delle risorse collettive per trarre profitti. Vengono fatti molti attacchi ideologici ai beni comuni: sono frutto di anni di individualismo spietato per cui i diritti della persona vengono prima dei diritti della comunità. Ma il problema è: i diritti di quali persone? Nel mondo neocapitalista vengono tutelati solo gli interessi di pochi, mentre i più poveri, i migranti non sono riconosciuti, i più fragili spesso sono torturati ed emarginati dalla vita sociale. L'individuo può essere libero nell'essere, ma limitato nell'accumulo. È il momento di mettere al centro la comunità, come ha dichiarato il giurista Ugo Mattei nel corso dell’assemblea costituente a L’Aquila. Ed è proprio in questa città distrutta che si apre il discorso del diritto alla città: lo spazio urbano è un bene comune della collettività che se ne prende cura, non può essere sottratto da uno stato-catastrofe che interviene portando avanti distruzione dei legami sociali, speculazione, privatizzazione e mercificazione dei beni. Come difenderli dal mercato? Come difendere i beni comuni dal mercato, come affrontare la questione della proprietà, come garantire l’accesso all’abitare, sono molte le domande aperte che però sono forti di pratiche che resistono e ogni giorno si diffondono sempre su tutto il territorio, dal cinema palazzo al colorificio di Pisa, dal teatro Pinelli di Messina all’ex asilo Filangieri di Napoli, dal teatro Valle alle case occupate a Tor di Nona, dalla lotta contro la Tav, ai comitati No Muos, alla lotta contro le grandi opere e le grandi navi: tanti laboratori culturali e politici esplodono e contagiano pratiche che forniscono risposte creative a questa crisi.


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18 maggio: la Fiom in piazza

La parola agli operai Non solo una manifestazione sindacale di Pietro Orsatti www.orsattipietro.wordpress.com

La Fiom, oggi, sembra essere l’unica organizzazione a sinistra che abbia tenuto dritto il timone davanti alla crisi economica e politico-istituzionale che sta attraversando il paese, e alle conseguenze dell’implosione del Partito Democratico. La Fiom, in questa fase, è l’unica organizzazione che chiede e progetta un cambiamento anche dopo le ultime aperture da parte di settori ampi della produzione a trovare con le forze sindacali formule di proposte comuni chiudendo la stagione dei veti e dei blocchi ideologici degli ultimi anni. “Il lavoro al centro” “Il lavoro al centro, un piano straordinario di investimenti, il reddito di cittadinanza, l'incentivazione alla riduzione di orario, la cancellazione dell'articolo 8. Piani per i trasporti, la mobilità. Lotta all'evasione fiscale, alla corruzione e alla criminalità. Una legge per la rappresentanza e la democrazia”, ecco quello che il segretario del primo sindacato dei metalmeccanici italiani propone. Questi saranno i punti della manifestazione del 18 maggio e della mobilitazione che seguirà: pur essendo nata su una piattaforma sindacale essa “si rivolge a tutti i cittadini che vogliono un vero cambiamento” - ha spiegato Landini, annunciando la partecipazione di “studenti, precari, giovani, movimenti e associazioni che non vogliono più aspettare e chiedono un nuovo corso”.

In questa fase la piattaforma della Fiom sembra la cosa più seria e concreta messa in gioco a sinistra. Il Pd ormai non riesce a guardare al paese, travolto da una lotta interna fra le troppe personalità e anime di un partito mai nato. Rivalità insanabili, giochi di potere interni, che cancellano l’azione e le idee delle persone per bene presenti nel partito che sono state travolte e marginalizzate dalle lotte interne. Altrettanto insufficiente sembra delinearsi il tentativo di Rodotà di far dialogare alcuni pezzi della sinistra e il M5S: non basta il prestigio dell’intellettuale a creare connessioni, soprattutto quando la linea di una delle parti che si vorrebbe coinvolgere viene dettata da strategie di marketing come quelle disegnate dalla Casaleggio Associati per Grillo. E, ancora, Sel nonostante la buona volontà - sta mettendo in campo un’iniziativa fondata sul vecchio metodo (dall’Arcobaleno in poi assolutamente fallimentare) di unire ceti politici e organizzazioni e non puntando alla riorganizzazione dal basso di una sinistra diffusa che non trova più un riferimento nelle organizzazioni politiche in campo. Una credibilità senza pari Per questo la mobilitazione della Fiom assume ancora più importanza. Perché è evidente che un sindacato non si può fare partito, ma è altrettanto chiaro che un’organizzazione come quella guidata da Landini che ha resistito e tenuto il campo nonostante gli attacchi e l’isolamento degli ultimi anni ha una capacità e una credibilità che nessun’altro ha di progetto e azione politica.

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Ricordiamoceli, quei tentativi ossessivi di cancellare la radicalità della Fiom portati avanti dai governi Berlusconi e Monti e dalla Confindustria e in particolare dalla direzione della Fiat targata Marchionne e da quelle due aziende ex pubbliche come Fincantieri e Finmeccanica al centro oggi di inchieste giudiziarie. Sono stati anni terribili. Ma il sindacato ha retto – nonostante gli auspici dei presunti rivoluzionari Grillo e Casaleggio che il sindacato lo vorrebbero cancellare – e la Fiom in particolare ha fatto passi enormi sul piano della coerenza e della credibilità. Per queste ragioni l’iniziativa del 18 maggio ha un’importanza enorme. Per il paese e per la sinistra. Perché è l’unico luogo dove si potrà cercare un sentire comune fra sindacato, movimenti, persone e perfino pezzi della politica per avviare un tentativo difficile e lungo di ricostruzione di un’area progressista che oggi i partiti tradizionali – e anche la nuova politica - non rappresentano.


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Il foglio dei Sicilianigiovani I Sicilianigiovani – pag. 18


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Sicilia base avanzata

Pronto nuovo intervento in Libia da Sigonella Gli Stati Uniti starebbero pensando di lanciare un nuovo attacco militare in Libia dalla stazione aeronavale di Sigonella di Antonio Mazzeo Cinquecento marines sono stati trasferiti nei giorni scorsi in Sicilia dalla base di Rota in Spagna. Gli uomini fanno parte della Marine Air Ground Task Force (MAGTF), la forza speciale costituita nel 1989 per garantire al Corpo dei Marines flessibilità e rapidità d’azione nei differenti scacchieri di guerra internazionali. L’unità di Rota è stata attivata dal Pentagono solo due mesi fa per sostenere il Comando Usa in Africa (Africom) nell’ addestramento e la formazione delle forze armate dei partner continentali e intervenire rapidamente in Africa in caso di crisi. La decisione di dar vita alla nuova task force è stata presa nel settembre 2012 dopo l’attentato terroristico contro il consolato Usa di Bengasi in cui persero la vita quattro funzionari tra cui l’ambasciatore in Libia, Christopher Stevens. Secondo il portavoce del Pentagono George Little, i marines potranno intervenire da Sigonella in tempi rapidissimi nel caso di nuovi attacchi al personale diplomatico o ai cittadini Usa presenti in Libia per “effettuarne eventualmente l’evacuazione”. “Siamo preparati a rispondere se necessario, se le condizioni peggiorassero o se venissimo chiamati” ha aggiunto. Qualche giorno fa il Dipartimento di Stato ha ridotto sensibilmente lo staff dell’ambasciata di Tripoli, ordinando di contro il rafforzamento del dispositivo gestito in loco da una dozzina di militari Usa.

Inoltre sono stati invitati i cittadini statunitensi a viaggiare a Tripoli solo per necessità improcrastinabili ed evitare in assoluto Bengazi o altre località in Libia. Washington parla di “crescente clima d’instabilità e violenza” e di “deterioramento delle condizioni di sicurezza”. Così è stato decretato lo stato d’allerta per gli special operations team di stanza a Stoccarda (Germana) e per la task force dei marines in Spagna che prima del trasferimento a Sigonella, il 19 aprile aveva raggiunto da Rota la base aerea di Morón de la Frontera. Il 3 e 4 aprile, i Comandi delle forze navali Usa in Europa e Africa e della VI Flotta avevano pure ospitato a Napoli i responsabili della neo-costituita marina militare libica e del corpo della guardiacoste per discutere di “sicurezza marittima” e “cooperazione strategica”. Otto Boeing CV-22

Insieme ai marines sono giunti a Sigonella pure otto velivoli da trasporto e assalto anfibio Bell Boeing CV-22 “Osprey” (falco pescatore). Si tratta dei controversi “convertiplani” (bi-turboelica in grado di atterrare e decollare come un elicottero e volare come un normale aereo), costo unitario 129 milioni di dollari circa, in grado di trasportare fino a 24 soldati del tutto equipaggiati, alla velocità di 509 Km all’ora. Numerosi esperti militari hanno ripetutamente messo sotto accusa l’“Osprey” per le sue scarse condizioni di sicurezza in volo. Da quando è divenuto operativo, il velivolo è stato al centro di numerosi incidenti e una trentina tra contractor e militari sono morti durante test ed esercitazioni. Quando nel 2000 un velivolo in forza all’US Navy cadde negli Stati Uniti causando la morte di 23 marines il Pentagono

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pensò di abbandonare il programma ma sotto il pressing della potente lobby dei costruttori, esso fu presto riavviato e gli “Osprey” furono destinati alla guerra in Iraq e Afghanistan. Nella primavera dello scorso anno due “Osprey” si sono schiantati al suolo, il primo durante un’esercitazione militare in Marocco (morti due marines) e il secondo in Florida. Per l’alto rischio di incidenti e l’insostenibile rumore emesso dal velivolo durante le operazioni di decollo e atterraggio, migliaia di cittadini giapponesi hanno dato vita a numerose manifestazioni di protesta contro la decisione di dislocare 12 convertiplani nella grande base aerea Usa di Okinawa. Special Purpose Marine Il Corpo dei marines ha progressivamente ampliato il proprio impegno di contrasto, congiuntamente ad Africom, delle milizie islamiche operanti nelle regioni settentrionali del continente. Nel 2011, nello specifico, fu creata proprio a Sigonella una forza speciale di pronto intervento del tutto simile a quella di Rota, la Special Purpose Marine Air Ground Task Force (SPMAGTF-13). Gli uomini sono impegnati periodicamente come consiglieri e formatori degli eserciti africani o in attività di supporto logistico e “gestione di tattiche anti-terrorismo”. “La task force di Sigonella ha come compiti prioritari la fornitura d’intelligence e l’addestramento dei militari africani che combattono i gruppi terroristici in Maghreb e Corno d’Africa o svolgono attività di peacekeeping in Somalia”, ha dichiarato il maggiore Dave Winnacker, responsabile del gruppo dei marines. La SPMAGTF-13 include componenti navali, terrestri ed aeree caratterizzate da notevole flessibilità; conta su circa 200 marines organizzati in team aviotrasportabili dai grandi velivoli KC-130. Con i 500 uomini giunti dalla Spagna, Sigonella accresce ancora di più il ruolo di gendarme armato del Mediterraneo e del continente africano.


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Economia

Ma la casta più pericolosa è davvero quella dei politici? E' arrivato il momento di fare i conti... di Carlo Gubitosa www.mamma.am

Quando la foga contro i privilegiati e le analisi economiche superficiali fanno perdere lucidità negli obiettivi delle lotte sociali. sprechi, rischia di essere una misura inutile e velleitaria se ci fa perdere di vista i problemi più devastanti legati al dilagare della finanza predatoria. Il Movimento Cinque Stelle ha presentato una proposta che consentirebbe di tagliare più o meno quarantadue milioni di euro dai costi della politica, e sulla mia bacheca Facebook sono fioriti commenti di segno opposto che si dividono in plaudenti e benaltristi, in altre parole equamente suddivisi tra chi applaude all'iniziativa e chi dice che i problemi sono ben altri. Il mio giudizio si colloca in una via di mezzo, e considero questa cosa da applaudire sul piano etico ma poco efficace sul piano pratico. E provo a dimostrarlo leggendo i dati economici che sono riuscito a raccogliere al meglio della mia capacità di documentazione, sintetizzati anche nel fumetto "Raschiatutto", realizzato a quattro mani con Marco Pinna.

● Un'analisi Confcommercio del 28/10/11 dice che la politica spreca 9 miliardi di euro all'anno. ● La "relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2008" della Corte dei Conti dice che "il fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione" ci costa "50/60 miliardi di euro/anno". ● Il Ministero dell'Economia ha stimato nel 2010 una evasione fiscale di 120 miliardi di euro/anno. ● Il 17 maggio 2011 il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia ha parlato di "150 miliardi di fatturato annuo delle mafie". ● Il supplemento del bollettino statistico Bankitalia del 16/12/2009 ha rilevato che nel 2008 "a prezzi costanti, la riduzione della ricchezza complessiva rispetto al 2007 è risultata pari a circa 433 miliardi di euro del 2008" ma "la dinamica delle attività reali è risultata positiva" (+3%). In breve, 88 miliardi di euro risparmiati sono stati travolti da 521 miliardi di euro persi nel casinò della finanza.

10 ricchi = 3 milioni di poveri Seguite quei soldi e scoprirete con chi prendervela: "In Italia i 10 individui più ricchi posseggono una quantità di ricchezza che è all'incirca equivalente a quella dei 3 milioni di italiani più poveri". (Bankitalia, Occasional Papers 115, 02/12). Ma l'Irpef per i ricchi è sceso dal 72% del 1974 (aliquota applicata a chi guadagnava più di 500 milioni di vecchie lire/anno, che attualizzati corrispondono a 2 milioni di euro/anno) fino al 43% del 2012, il minimo storico di sempre. Nel frattempo il supplemento al bollettino statistico Bankitalia del 25/01/12 dice che "la quota di individui poveri risulta

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pari al 14,4% e la percentuale di famiglie indebitate è pari al 27,7%". Dov'è la progressività fiscale? La nostra Costituzione stabilisce all'articolo 53 un principio di progressività fiscale funzionale alla redistribuzione del reddito. Ma l'unico "sacrificio" che non ci è stato chiesto come misura anticrisi è proprio il ripristino di una aliquota del 72 per cento per quei dieci fortunati intoccabili che da soli fanno reddito come i tre milioni più poveri: un'entrata fiscale che permetterebbe di rilanciare l'economia e alleggerire le tasse sui più deboli. E non ci vengano a dire che quei soldi risparmiati servono a rilanciare l'economia, perchè finora sono stati soltanto bruciati in finanza, per inseguire profitti maggiori in tempi più brevi. La guerra di chi accumula contro chi tira a campare è invisibile sui mass media, è totalmente assente dal dibattito parlamentare, dove anche il movimento politico più rivoluzionario e agguerrito contro le ruberie si è finora limitato a ragionare sul primo dei dati che ho fornito, quei nove miliardi di sprechi, concentrando le proprie energie sugli stipendi troppo alti dei Parlamentari mentre il vero male oscuro che divora il nostro benessere e le nostre speranze di futuro si chiama finanza predatoria. I “cerotti” servono a poco Ma per combattere questo cancro con una terapia efficace servono a poco i "cerotti" dei risparmi anticasta (poco impattanti sul piano economico anche se altamente condivisibili sul piano etico).


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“Le banche che giocano d'azzardo sui tavoli della finanza tengono in ostaggio i risparmiatori e i loro conti correnti”

Bisognerebbe invece separare le banche d'affari dalle banche di risparmio a cui si rivolgono i cittadini, ad esempio con l'introduzione in Italia di una normativa simile al Glass-Steagall Act, la legge Usa che proteggeva i risparmiatori dal fallimento delle banche, purtroppo abrogata nel 1999 dal presidente Clinton ("non c'è niente di meglio di un governo di sinistra per far politiche di destra"...). Questa legge – riporta Wikipedia - è stata "la risposta del Congresso Usa alla crisi finanziaria iniziata nel 1929 che all'inizio del 1933 mise in ginocchio numerose banche americane. Prevedeva l'introduzione di una netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. La ratio di tale provvedimento era di evitare che il fallimento dell'intermediario comportasse anche il fallimento della banca tradizionale, impedendo che l'economia reale fosse direttamente esposta al pericolo di eventi negativi prettamente finanziari. Per via della sua successiva abrogazione, nella crisi del 2007 è accaduto proprio questo, quando l'insolvenza nel mercato dei mutui subprime ha scatenato una crisi di liquidità che si è trasmessa all'attività bancaria tradizionale". Separare speculazione e risparmio Sarebbe bastato separare le banche votate alla speculazione da quelle orientate al risparmio per scongiurare la grande truffa del Monte dei Paschi di Siena: un regalo da quattro miliardi di soldi pubblici, possibile non solo per gli intrecci tra il mondo bancario e quello politico, ma anche e soprattutto perchè le banche che giocano d'azzardo sui tavoli della finanza

"tengono in ostaggio" i risparmiatori e i loro conti correnti. Quando le cose si mettono male per gli squali della finanza, per cavarsela basta minacciare di far andare a fondo assieme a loro anche chi ha guadagnato onestamente i propri risparmi, e con questa "offerta impossibile da rifiutare" i governi ci obbligano a tappare di tasca nostra i buchi causati dall'utilizzo spregiudicato di strumenti finanziari senza regole. Strumenti finanziari senza regole Per questa ragione, ciò che andrebbe frenato e combattuto come prima misura di emergenza sono le fughe di capitali all'estero, cioè il casinò della finanza che arricchisce le grandi banche d'affari, per la maggior parte straniere, Ma i parlamentari a cinque stelle sembrano ancora troppo concentrati sui costi della Politica per studiare i danni della Finanza, e Beppe Grillo si è limitato a proporre sui temi economici una soluzione che non prende posizione: facciamo decidere ai cittadini se restare o meno nell' euro. Purtroppo però la finanza predatoria è ormai in grado di fare danni enormi sia dentro che fuori dall'euro se lasciata agire indisturbata e senza freni. E c'è anche un problema di redistribuzione del reddito tale da rendere auspicabile l'aumento delle tasse ai più ricchi per sollevare dai sacrifici le famiglie a basso reddito che finora hanno pagato da soli il prezzo della crisi con più Imu, più Iva, più accise sulla benzina e più tasse sui servizi. Per questa ragione, mi sembra piuttosto velleitario basare il rilancio dell'economia sulle decine di milioni di euro all'anno che si potrebbero risparmiare tagliando stipen-

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di e rimborsi ai parlamentari, se non si decide prima di aggredire i problemi di una finanza predatoria che sottrae ricchezza per centinaia di miliardi di euro l'anno. La finanziarizzazione dell'economia La "foga anticasta" non è cosa buona se distrae da un altro problema che per entità e dimensioni è di quattro ordini di grandezza superiore al problema che assorbe la tua attenzione. Il cancro non si cura con l'aspirina, e se arriva l'ambulanza per un grave incidente, prima si sistemano emorragie e fratture, e poi con calma si pensa a lividi ed escoriazioni. Se proprio vogliamo semplificare il discorso con slogan di facile comprensione, oltre ai nemici più noti che si chiamano mafie, sprechi, corruzione ed evasione, c'è un nemico più devastante di tutti che si chiama finanziarizzazione dell'economia. Eppure, gli strumenti ci sono C'è un alleato per combattere questo nemico: si chiama costituzione repubblicana. Ci sono strumenti che si chiamano redistribuzione del reddito basata sulla progressività del prelievo fiscale, c'è un settore di attività legalmente lecite ma moralmente odiose che si chiama speculazione finanziaria, e che va nettamente separato dalla lecita e morale attività di risparmio dei cittadini. Nel combattere questa battaglia dobbiamo essere consapevoli che il giro d'affari della speculazione ci ha succhiato negli ultimi anni centinaia di miliardi di euro, mentre i costi della “casta” non arrivano nemmeno alla decina.


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Catania/ 1

Ennio

Le indagini su Mario Ciancio Mario Ciancio

E' vicina la data dei 150 giorni fissata a novembre dalla Procura per approfondire l’inchiesta a carico di Mario Ciancio Sanfilippo

Ciancio, editore fra l'altro del quotidiano La Sicilia, proprietario lo stabilimento in cui vengono stampati i quotidiani nazionali per tutta la Sicilia, è uno dei massimi imprenditori edili siciliani. Dal marzo 2009 è indagato dalla Procura di Catania per concorso esterno in associazione mafiosa. Diversi gli elementi, reali e da accertare, al vaglio dei magistrati. ● Una intercettazione del 2001 in cui un indagato per mafia dice di aver individuato con Ciancio (avrebbe anche "garantito" per le autorizzazioni necessarie ) i terreni per un nuovo centro commerciale. Anni dopo, questi diventeranno edificabili con una variante al piano regolatore. ● Mancata pubblicazione - per «decisione insindacabile del direttore Mario Ciancio » - su La Sicilia dei necrologi del giornalista Giuseppe Fava e del commisario di Polizia Beppe Montana, uccisi dalla mafia rispettivamente nel 1984 e '85.

● Articoli pubblicati durante le indagini per il delitto Fava sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, ritenuti un tentativo di depistaggio. ● Presunti rapporti col boss Pippo Ercolano, piombato - secondo il collaboratore di giustizia Angelo Siino - nella redazione de La Sicilia per minacciare un cronista. ● Pubblicazione senza commenti della nomina di Angelo Ercolano, incensurato nipote del boss, a capo della Federazione autotrasportatori di Catania. ● Pubblicazione di una lettera (trapelata in circostanze non chiare nell'ottobre 2008) di Vincenzo Santapaola, figlio del boss Nitto, detenuto al carcere duro e quindi impossibilitato a comunicare con l'esterno. ● Aquisizione di una quota del pacchetto azionario del Giornale di Sicilia, che secondo Massimo Ciancimino avrebbe coinvolto anche suo padre don Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo vicino al boss Bernardo Provenzano.

Centri commerciali Sotto indagine anche alcune operazioni imprenditoriali di Ciancio, come il centro commerciale «nei territori limitrofi la tangenziale di Catania, direzione Siracusa». Antonello Giostra, di Scaletta Zanclea, a suo tempo condannato per bancarotta fraudolenta per riciclo di denaro proveniente da usura mafiosa, è indagato con Ciancio per riciclaggio con l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa.

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Tra i progetti da realizzare con costui, un centro commerciale da costruire a Misterbianco, per il quale Ciancio compra terreni per milioni di euro in contrada Cardinale. A un certo punto sorge l'interesse di un’altra società e di Cosa nostra (secondo la parallela indagine Iblis) a costruire un diverso centro commerciale nella confinante contrada Cubba, l'attuale Centro Sicilia: ma i due soggetti mantengono rapporti cordiali, si accordano e (come emerge da alcune intercettazioni di mafiosi) Cosa nostra si vede costretta a “rallentare” il proprio progetto per il contemporaneo interesse di Ciancio. “Personaggi vicini a Cosa Nostra” Indagate anche altre attività: l’Outlet Sicilia Fashion Village ad Agira, appaltato in associazione temporanea a imprese come quelle di Mariano Incarbone e Sandro Monaco, entrambi imputati per concorso in associazione mafiosa; il "villaggio degli americani", residence per militari Usa di Sigonella da realizzarsi a fine 2004 presso Lentini, anche stavolta in concorrenza con un progetto simile che interessava, secondo i magistrati, il boss Vincenzo Aiello. Casi che renderebbero «sempre inverosimile la casuale presenza, in occasione della realizzazione di grandi opere, accanto al Ciancio Sanfilippo di personaggi vicini a Cosa Nostra». Come nel caso del centro commerciale Porte di Catania, il primo a essere indagato.


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Catania/ 2

Ennio

In 23 anni ai Virlinzi 7 milioni in più Per la costruzione di piazza Europa, grazie a un “accordo bonario” col Comune di Salvo Catalano www.ctzen.it

7 maggio. Inaugurata stamattina la nuova piazza Europa: 2300 metri quadrati, di cui 1400 di verde pensile, mentre continuano i lavori nei piani interrati dove sorgeranno un parcheggio e attività commerciali. I cambiamenti dividono i cittadini. «Mai vista una piazza con un buco al centro», denuncia una residente. Mentre fa discutere l’accordo siglato il 2 maggio tra il Comune e la società Parcheggio Europa: un risarcimento da 325mila euro all’anno per 23 anni a causa dei cinque anni di stop ai lavori. La nuova piazza Europa torna a disposizione dei cittadini. A distanza di undici anni dal progetto voluto dall’ex sindaco Umberto Scapagnini e dopo sei anni di sequestro ordinato dai giudici per una vicenda giudiziaria risolta in appello con l’assoluzione degli imputati, stamattina i catanesi hanno potuto vedere il nuovo volto della piazza. Un restyling profondo, mentre nei piani interrati continuano i lavori per la realizzazione del parcheggio e del piano commerciale. «Come promesso, riconsegniamo ai catanesi questo parte della città», annuncia il sindaco Raffaele Stancanelli che non nasconde la felicità per il fatto che «ciò

avvenga proprio in questo momento». Cioè in campagna elettorale. «Un regalino ai Virlinzi (gli imprenditori proprietari della società Parcheggio Europa ndr)», secondo Catania Bene Comune e il candidato sindaco Matteo Iannitti. Mentre i cittadini presenti all’inaugurazione si dividono tra entusiasti e scettici. La piazza sul livello della strada copre 2300 metri quadrati, di cui 1400 di verde pensile, mentre sono 1500 i metri quadrati destinati ad attività al coperto. E poi, non ancora pronta, una piazza sul mare da 800 metri quadrati, di cui 600 a verde pensile. «I cittadini, che a differenza di qualcun altro non hanno retro pensieri sono contenti di riappropriarsi di questo bene comune», sottolinea Stancanelli. “Ma hanno rovinato la piazza” Non la pensano allo stesso modo alcune signore, residenti della zona, che, sedute su una panchina, esprimono le loro critiche al passaggio del sindaco. «Questa non è una piazza, chiamatela come volete ma non ho mai visto una piazza con al centro un buco enorme – spiega la signora Simona Mirenda – Io qui ci sono cresciuta e si poteva correre liberamente, ora non più. Ben vengano i privati quando migliorano la città, ma non è questo il caso. Sotto possono farci quello che vogliono, parcheggi, uffici, ma hanno rovinato la piazza». A far discutere è anche l’accordo bonario siglato tra il Comune di Catania e la Parcheggio Europa lo scorso 2 maggio. Accordo che cambia i termini economici del progetto. La novità è che il Comune dovrà versare alla società 325mila euro all’anno per 23 anni. E ciò avverrà tramite la concessione di 230 stalli a raso limitrofi al par-

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Ennio Virlinzi

cheggio, attualmente nella disponibilità della comunale Sostare. «Un risarcimento che ammonta a sette milioni e mezzo di euro», attacca Iannitti. In più la ditta dei Virlinzi potrà far pagare servizi come i bagni, le docce e gli spogliatoi. Per Lorena Virlinzi, amministratore delegato della Parcheggio Europa, questo è dovuto alle nuove condizioni per raggiungere l’equilibrio economico e finanziario del progetto in project financing. «L’accordo – spiega – è motivato da cinque anni di arresto del cantiere, tre aggiornamenti dei prezzi del prezziario regionale, un aumento del 25 per cento del costo dei lavori. Le spese sono lievitate da sette milioni a dieci milioni e mezzo». L’amministratore delegato sottolinea inoltre che il bando prevedeva l’alternativa di scelta per tutti i partecipanti alla gara, tra 600 stalli o il dieci per cento di superficie del parcheggio da utilizzare a discrezione del gestore, anche a fini commerciali. «Avevamo scelto gli stalli perché ci garantivano più certezza di liquidità. Ma nel 2006 il Comune ci ha chiesto di tornare indietro, per non arrecare altri problemi alla Sostare. Noi abbiamo accettato la proposta e abbiamo costruito il piano commerciale con maggiori oneri». “Potevamo ottenere di più” Adesso quindi la Parcheggio Europa avrà sia la gestione per quarant'anni delle attività commerciali realizzate nei piani interrati, sia per ventitrè anni quella di 230 stalli in superficie. «Non è un risarcimento – conclude Virlinzi – perché se avessimo voluto, avremmo potuto fare causa civile e sicuramente avremmo ottenuto di più». E’ prevista a settembre la consegna dei lavori del parcheggio e del piano commerciale.


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Muos Niscemi

Un maldestro gioco delle parti fra governi e regione Non si sa chi è Ponzio e chi Pilato... Intanto la base militare cresce, e con essa il malcontento popolare di Sebastiano Gulisano sebastianogulisano@wordpress.com

Il ministero della Difesa italiano che cita per danni la Regione siciliana è l'ultimo paradosso nella vicenda del Muos di Niscemi, il sistema di telecomunicazioni satellitari della marina militare Usa che governerà l'apparato bellico Usa nei prossimi decenni.

Il 10 maggio, al Tar del Lazio, decisione sul ricorso del dicastero guidato da Mario Mauro, ma promosso dal suo predecessore, l'ex comandante del fronte Sud della Nato, ammiraglio Giampaolo Di Paola, che vorrebbe spillare dalle tasche dei siciliani venticinquemila euro al giorno a partire dal 29 marzo scorso, data in cui l'assessorato regionale al Territorio ha revocato le autorizzazioni necessarie a realizzare l'opera, all'interno della Riserva della Sughereta di Niscemi, un sito Sic, cioè protetto dalla Comunità europea. Vicenda paradossale perché i siciliani potrebbero presto trovarsi nella situazione di dovere sborsare altri soldi qualora, com'è probabile, la Ue dovesse avviare la procedura d'infrazione per avere consentito la devastazione dell'area protetta. Insomma, c'è il rischio di dovere pagare due volte: per avere consentito lo scempio e per avere impedito che proseguisse.

Diario UNA RESISTENZA ARMATA DI PACE La vedi sventolare proprio lì dove non ti saresti mai aspettato che fosse. E sembra così vivace e stabile che proprio non sembra possibile. La bandiera NO MUOS sopra un' antenna piazzata proprio al centro della base. E' stato Nicola a portarla, mentre c' era chi in tranquillità si trovava davanti ad una tazza di caffè, chi davanti al televisore, comodamente seduto sul divano, con la camicia appena stirata e le mani pulite...e la coscienza anche., dato che con essa ci fa i conti troppe poche volte. Lì, fuori da quella base, tra i No Muos, ormai sono conosciuti Turi, col suo flauto, Nicola, Desi e Simona, che hanno raggiunto le antenne, arrampicandovisi tranquillamente sopra. Le forze dell' ordine non hanno potuto fare altro che rimanere a guardare, mentre Turi scavalcava il filo spinato che recinta la base di Niscemi e, con una naturalezza da bambino, percorreva tutto il

È un paradosso perché non si capisce a che titolo il Governo italiano sarebbe danneggiato dal blocco dei lavori di una base militare Usa (non Nato, come invece cercano insistentemente di fare credere governo e regione) costruita dal colosso bellico dell'apparato militare industriale statunitense Lockheed Martin. Vicenda paradossale Il presidente regionale, Rosario Crocetta, bolla come “infondato” il ricorso ministeriale e ricorda che la sospensione dei lavori è stata concordata dalla giunta da lui retta con governo Monti, nel corso di un incontro al quale era presente lo stesso ministro, accordo sigillato con un comunicato congiunto dal quale abbiamo appreso che il futuro del Muos sarebbe legato a un parere “indipendente” affidato all'Istituto superiore di sanità (Iss), che il 31 maggio dovrebbe esitare una relazione “scientifica” per spiegare se le

tratto che separa la recinzione dall' antenna, fino ad arrampicarsi su di essa. Ho sognato che scoppiava la terza guerra mondiale e poi è anche importante dare visibilità alla vicenda". Nulla di concordato con Nicola, Simona e Desi, che si sono lasciati trascinare da quel vento di ribellione pacifica che s'era svegliato: "Avevo buttato un berretto dentro la base e sono entrato per riprenderlo. Poi mi sono convinto che ormai ero dentro e valeva la pena di rischiare...". L' azione del 22 aprile e quella bandiera appesa su un' antenna NTRF-8 della base si portano dietro un grande merito, quello di aver creato la consapevolezza di poter fare molto di più. Con la sola forza della pace, esercitata li a Niscemi, contro una gigantesca macchina da guerra, due uomini e due donne, che al cospetto di essa appaiono come delle formiche, hanno creato coscienza, hanno dato forza e hanno allargato la visibilità di uno scempio che ancora tiene in bilico Niscemi e la Sicilia.

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Rosanna Chillemi


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“I militari Usa completano i lavori in barba alle leggi. Le autorità italiane lasciano fare. Sono solo i NoMuos a prendere sul serio decreti e leggi” Gli unici a prendere sul serio la legge

onde elettromagnetiche emesse dall'ordigno bellico statunitense possono causare danni alla salute dei niscemesi e dei residenti nei comuni del centro-sud orientale dell'isola. La situazione rasenta il grottesco se si considera che l'Iss è tutt'altro che indipendente, essendo parte del ministero della Salute, cioè dipende dal governo nazionale che il Muos lo vuole a ogni costo perché “fondamentale” per gli assetti difensivi della nazione e dei Paesi alleati (lo stesso assessore regionale Mariella Lo Bello ha più volte sottolineato che il Muos s'ha da fa). Posizioni minimizzanti Se poi si considera pure che l'Iss ha fama consolidata per le sue posizioni minimizzanti circa l'impatto sulla salute delle persone a contatto prolungato con onde elettromagnetiche, non ci vuole molto a indovinare le conclusioni. “L'Iss ce lo siamo trovati sempre contro, anche nella vertenza sull'antenna di Radio vaticana, a Roma” ricorda il professore Massimo Zucchetti, il docente del Politecnico di Torino autore, col collega Massimo Coraddu, della relazione per il comune di Niscemi che ha consen-

tito l'azzeramento delle autorizzazioni edilizie concesse per la costruzione della megaopera, che, ricordiamocelo, andrebbe a sommarsi all'attuale sistema di telecomunicazioni a bassa frequenza NRFT, composto da 46 antenne che da vent'anni deturpano il cuore della Riserva e sovente superano il limite di 6 volt/metro fissato per impedire danni alla salute delle persone. L'ironia del professore Zucchetti, al quale era stato fatto credere che avrebbe fatto parte di una commissione di esperti, sulla sua pagina Facebook si dichiara pronto a scrivere in anticipo le conclusioni cui approderanno i tecnici dell'Iss, in cambio di una granita siciliana. Ironizza, Zucchetti. E la sua ironia pare l'unica cosa seria in quest'Opera Buffa in cui si revocano autorizzazioni edilizie, urbanistiche e ambientali e si tenta di metterci una pezza con una relazione “scientifica indipendente” sulla salute che c'entra come i cavoli a merenda e, comunque, dovrebbe essere un ulteriore passaggio autorizzativo e non l'unico “semaforo” istituzionale sulla strada del Muos.

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In questo guazzabuglio, la giunta Crocetta e le istituzioni nazionali stanno inscenando un maldestro gioco delle parti svelato dal fatto che i soli a tentare di fare rispettare il decreto regionale di revoca delle autorizzazioni sono i militanti del Coordinamento regionale dei comitati No Muos, che da otto mesi presidiano pacificamente la base Usa tentando di impedire il transito di mezzi e operai, opponendo i propri corpi. Quasi finita la terza torretta Malgrado ciò e in barba alle leggi, gli statunitensi hanno quasi completato la terza torretta d'acciaio su cui dovrà poggiare una delle tre parabole del sistema bellico. Dopo il decreto del 29 marzo, né la Regione, né il Governo centrale, né la Procura della Repubblica di Caltagirone hanno mosso un dito per bloccare i lavori abusivi, nemmeno di fronte all'inconfutabile documentazione video e fotografica fornita dagli attivisti No Muos. Rimossi con la forza i blocchi Anzi: le Istituzioni hanno usato le forze dell'ordine per rimuovere con la forza i blocchi del “tappeto umano” che si oppone alla costruzione dell'opera e pretende lo smantellamento delle 46 antenne esistenti, per la salvaguardia della salute, del territorio e della pace.


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Trentacinque anni

E sembra ieri

I compagni di Peppino: cosa fanno ora? di Salvo Vitale

10 maggio 1978: davanti alla casa di Peppino, a partire dal primo pomeriggio, c’era un gruppo di persone. Il nostro avvilimento, la nostra tristezza era legata non solo alla perdita di un amico, ma anche al modo in cui si stavano conducendo le indagini, con le quali il baldo maggiore Subranni sperava di trovare, nella profonda Sicilia mafiosa, un gruppo di terroristi emuli delle bravate delle Brigate Rosse.

Arrivarono i resti di Peppino, sottoposti prima ad l’autopsia: si trattava solo del troncone di una gamba, perché il resto era stato polverizzato. A “Casa 9 maggio”, (d’ora in avanti, sia pure in modo unilaterale, la chiameremo così, perché ci siamo stancati di chiamarla ex-casa Badalamenti ed essere costretti a nominare abitualmente il nome di un mafioso assassino), esponiamo una mostra che rappresenta momenti di quel giorno, quando ci sostituimmo alle forze dell’ordine e ci mettemmo a fare le indagini: arrivammo sul posto, vedemmo la macchina di Peppino, che era stata lasciata lì, senza alcun rilievo delle impronte, raccogliemmo, per terra, sulle agavi, sui fili dell’alta tensione, i resti di Peppino, lasciati in pasto ai corvi, ne riempimmo tre sacchetti, che la sera consegnammo al prof. Ideale del Carpio, direttore dell’istituto di medicina legale di Palermo. Poi cominciarono ad affluire dal fondo del corso, i tipi più strani, capelli lunghi, zaino, bandiere rosse. Quando arrivò la bara fu una pioggia di fiori, e allora, tra la folla, per la prima

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volta gettai un grido, uno slogan che poi ci siamo portati appresso in tutti questi anni: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Sapevo benissimo che di Peppino era rimasto ben poco, che era morto, che avevano tentato di far saltare in aria, con lui, anche le sue idee, ma sentivo anche che i lunghi anni di vita politica comune, avrebbero lasciato un segno indelebile della sua presenza. “Ogni anno, prima del corteo...” Ogni anno, prima del corteo del 9 maggio penso che, come tutte le cose di questo mondo, anche la dinamica che ruota attorno a Peppino dovrebbe avere le caratteristiche, diciamo biologiche, di tutte le cose, ovvero dovrebbe invecchiare, come sono invecchiati i compagni di Peppino, come sono invecchiati tutti coloro che, a partire dai sognatori del 68 ad oggi hanno creduto che esistessero dinamiche di forte intervento dal basso per cambiare le regole della storia, cioè per costruire una società dell’uguaglianza.


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E ogni anno, inevitabilmente, constato che Peppino è rimasto giovane, che giovani, e non solo anagraficamente, sono la gran parte di coloro che partecipano al corteo, che giovani sono “le nostre idee” che “non moriranno mai”.

“Il comunismo non è un oggetto di libera scelta intellettuale, né vocazione artistica. E’ una necessità materiale e psicologica”. Così scrive Peppino. Significa che il comunismo è un elemento essenziale e basilare della condizione umana, legato alle caratteristiche biologiche dell’uomo, è un modo di esistere, è vita.

Le idee giovani Conosco molti compagni che vengono da ogni parte d’Italia per “rigenerarsi”, per “ricaricarsi” dopo tempi di delusioni, di sconfitte e di amarezze, per tornare a fare un bagno in quelle idee nelle quali in passato hanno creduto e che poi sono state, piano piano occultate dalla quotidianità, dal martellamento mediatico, dall’abbandono progressivo di tanta gente che era con noi e che, piano piano, ci ha lasciato soli. E d’altra parte possiamo calcolare che oggi Peppino avrebbe sessantacinque anni, possiamo immaginare quel che avrebbe potuto essere: di fatto egli rimane un uomo di trent’anni, si è fermato a quell’età perché la sua vita è stata rubata in quel momento.

“Due tipiche situazioni di uguaglianza ”

La sua giovinezza non è quella di Antinoo, che si uccise a vent’anni, per rimanere giovane e bello nella memoria dell’imperatore Adriano, suo amante. Oltre la bellezza, la prestanza dell’età, in Peppino ci sono le “idee”, che si possono riassumere nelle due parole che il fratello Giovanni ha fatto scrivere sulla sua tomba: “comunista rivoluzionario”. Dove il comunismo non à quella parola “offensiva” che un l’uomo più ricco d’Italia, un salame imbragato, ha fatto diventare, snaturandone il significato, soprattutto per cautelare la sua condizione. Comunismo non è la lontana utopia che il riformismo socialista ha escluso, "relegando Marx in soffitta”, come diceva Turati.

9-10-11 maggio: Forum nazionale antimafia CRONACA DI TRE GIORNATE DIMENTICATE Come al solito la stampa, sia locale che nazionale, di tutto si occupa tranne che di quello che succede nel mondo dell’antimafia e soprattutto di quel che succede a Cinisi nei giorni in cui si ricorda la figura di Peppino Impastato attraverso le sue lotte, ma anche attraverso un’attenta riflessione su quanto succede, sia in Italia che in altre parti del pianeta, nel tempo della crisi. Per quel che riguarda le iniziative del 9 maggio, si è parlato della sfilata dei sindaci, una decina, ma non della lapide lignea che i compagni di Peppino sono andati a piantare sul muro del casolare e del lavoro di pulizia dello stesso, che, quantomeno, ha reso visitabile il posto, ancor oggi affidato a un vaccaro che vi porta a pascolare i suoi animali. Doveva intervenire il presidente della Regione Crocetta, che ancora una volta ha dato forfaitt. Da lui si sperava in un impegno per l’acquisizione del casolare e per l’apposizione di un vincolo quale bene culturale.. In tal senso, per iniziativa di Radio Cento Passi, sono state raccolte online 30mile firme che al più presto saranno inviate agli organi competenti. Anche la casa di Badalamenti, attualmente suddivisa in tre parti, una del Comune di Cinisi, una dell’Associazione Impastato, una di Casamemoria, versa in uno stato di degrado e avrebbe bisogno di una ristrutturazione, ma al momento le richieste di finanziamento per il recupero del bene confiscato, sono tutte bloccate. Comunque le varie realtà che compongono il Forum Sociale Antimafia anche quest’anno ne hanno fatto il centro propulsore e organizzativo delle varie iniziative. Al piano superiore è stato installato un mediacenter, visitatissimo, che trasmetteva in diretta tutte le iniziative con commenti, interviste, testimonianze, musica.

“Una necessità materiale” E d’altronde, cosa c’è di più vicino alla natura se non la coscienza dell’uguaglian za, la consistenza di realtà in cui sia bandito il privilegio, si escluda la negazione di qualcosa al più debole, ci si senta parte di un tutto in cui ci siano uguali condizioni di partenza , senza mortificare le capacità singole? Forse che l’uomo nasce con tutti gli orpelli di cui si è circondato con la civiltà? Nasce nudo. Nascita e mor te sono due tipiche situazioni di uguaglianza, di comunismo, anche se poi i resti del più ricco riposano nella piramide o in un’artistica cappella, mentre quelli del povero finiscono nella terra nuda.

Nessun accenno, su nessun giornale, al forum tenutosi a Casa 9 maggio sul tema: ”Conflitti di classe: processi di ricomposizione da Nord a Sud”. Affollatissimo, con la partecipazione di numerose realtà, dagli extracomunitari di Rosarno, agli operai dell’Ilva di Taranto, a quelli della Fiat e di numerosi call center. Nessun accenno neanche alle mostre esposte nella casa che fu del boss Badalamenti: una di foto e documenti inerenti al Solarium di Terrasini, una sorta di stabilimento balneare che rappresenta un vero scempio paesaggistico, oltre che una sorta di furto di un bellissimo angolo di costa, sinora proprietà di tutti e che finirà col diventare proprietà di pochi speculatori. Molto belle anche le immagini sulle lotte territoriali, dagli operai Fiat di Termini Imerese, alle lotte NoMuos di Niscemi. Sono intervenute alcune madri NoMuos, una delle quali ha cantato il dramma degli abitanti di quella zona con un pezzo eseguito nel tipico stile dei cantastorie siciliani. Una terza mostra comprendeva una ventina di fotografie scattate da Paolo Chirco la mattina del 9 maggio; una quarta i quadri del pittore antimafia Gaetano Porcasi, di cui diversi dedicati a Peppino. Il 10 maggio si è parlato di solidarietà di classe, e delle varie prospettive che si riscontrano attualmente non solo in Italia ma anche in Argentina e in altre parti del mondo. Il giorno dopo, l'11, ci si è occupati del tema: “Di chi è il territorio, percorsi autogestiti di riappropriazione”, con particolare riguardo alle lotte dei No-Tav, dei No-Muos a Niscemi e contro il Solarium di Terrasini. Nel pomeriggio ha avuto luogo l’ultimo forum sul tema “Antimafie a confronto”: sono state prese in esame le varie attività antimafia, da quelle istituzionali a quelle sociali, per chiedersi quale efficacia e risultati possono avere alcune forme di antimafia troppo legate alla ritualità o ai finanziamenti dello stato. S.V.

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“Nessuno può essere completamente libero o felice se accanto c'è qualcun altro che non è libero o che soffre” E comunque, il ricco non potrà mai comprare la vita: forse potrà solo allungarsela se riesce a trovare buoni medici e buoni protettori. Ma anche su questo, noi che siamo abituati a illuderci che “la legge è uguale per tutti” dobbiamo poi essere obbligati ad accettare il contrario, ovvero che “la furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”. Una “condizione dell'animo” E non sono bastati secoli di storia, per smontare questo assunto della diseguaglianza di fatto. Non secoli di cristianesimo a rendere concreta la condanna delle ricchezze nelle mani di pochi. Il comunismo, “necessità materiale e psicologica” conserva la caratteristica categoria marxista del materialismo storico, ma vi aggiunge quella “psicologica”. Senza bisogno di scrivere trattati, in una semplice frase, Peppino dice sempli-

Maggio 2013 SE CI FOSSE PEPPINO Se ci fosse Peppino anche oggi forse lo prenderebbero per pazzo, se ci fosse Peppino non tutti lo capirebbero, se ci fosse Peppino sarebbe facile ancora denigrarlo, isolarlo, allontanarlo, se ci fosse Peppino qualcuno degli amici e dei compagni oggi farebbe finta di niente, tranne qualcuno, se ci fosse Peppino. Lui sì, a dispetto di tutti questi nuovi rivoluzionari del "mi piace", dei cosiddetti nuovi borghesi e reazionari, contrari al vento nuovo, luì si che non avrebbe aspettato un solo attimo. Anche da solo. Altro che stelle e stelline, tanto attaccate al rigido controllo del piffero, al mediatico streaming solo virtuale, se ci fosse Peppino sarebbe un giorno bellissimo e coraggioso, sempre,se noi solo lo volessimo qui accanto a noi e non solo il nove maggio, a prescindere dai fastidi dei benpensanti e degli imprenditori del nulla, allora non dovremmo più dire "se ci fosse Peppino".

cemente che il comunismo è “condizione dell’animo”, è la situazione, per tornare a Marx, in cui “la felicità, la libertà dell’uno è condizione della libertà e della felicità di tutti”, in cui nessuno può essere libero o felice se accanto a lui o lontano da lui c’è qualche altro che non è libero o che soffre. Come siamo lontani dall’arroganza di chi esibisce le sue ricchezze e la sua condizione per dimostrare di essere al di sopra di tutto e di tutti, ma soprattutto per non preoccuparsi minimamente di chi soffre e muore di fame. Una sorta di comunità Certe distanze tra cristianesimo e comunismo diventano minime, se si esclude che il regno della presunta uguaglianza e della presunta giustizia per i cristiani è nell’aldilà, per i riformisti è un’ utopia , invece, per i comunisti, è un progetto che si realizza giornalmente attraverso le lotte e attraverso un continuo superamento dell’immobilità. Il comunismo di Peppino era, è quello di una sorta di comunità, che egli sognava di fare, costruendo in un suo terreno un centro dove avrebbero potuto ritrovarsi tutti i rivoluzionari del mondo. E qua siamo all’altro termine “rivoluzionario”. Non si tratta di ipotizzare la rivoluzione come evento finale che, prima o poi dovrà arrivare, “l’addà venì Baffone” degli stalinisti italiani. Non si tratta nemmeno del disperato che si arma per sparare su due carabinieri, davanti a Montecitorio, per uccidere un giornalista o per rapire, processare e uccidere il povero Aldo Moro, accumunato a Peppino nello stesso giorno della morte. “Sentirsi” rivoluzionario

Essere rivoluzionario è, prima di tutto “sentirsi rivoluzionario”,cioè, anche in questo caso, “una necessità materiale e psicologica,” un modo di leggere ogni momento della propria vita, ogni scelta, come un tassello, un frammento di Anonimo, 1 maggio 2013 cambiamento, uno stimolo costante di

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superamento dell’attuale momento di vita verso uno stadio successivo che comporti la liberazione progressiva di vincoli, orpelli, leggi, clausole, barriere che costituiscono la zavorra che impedisce il volo verso l’infinito. La fine dell’utopia, diceva Marcuse nel ’68. Insomma, una rinascita costante di riappropriazione di se stessi e di tutto quello che ci è stato sottratto nel corso della storia.


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“Come se in questo momento ci dicesse: guardiamoci in faccia prima di esplodere in una risata che ci faccia sentire più vicini” Protagonisti di un insieme E’ come se, in questo momento, Peppino ci dicesse: guardiamoci in faccia, negli occhi, “na 'u biancu ri l’uocchi” prima di esplodere in una risata che ci faccia sentire più vicini, non monadi isolate, ma protagonisti di un insieme in cui non c’è più tempo né spazio per compiangersi, per intristire, per avvilirsi, per odiarsi, per azzannarsi, per incupirsi. Respingere il puzzo di morte che viene dai domicili dei mafiosi, dalle stanze del potere e della politica, dagli incunaboli dove si nasconde il delitto, l’odio, la sopraffazione.

Ridere del perbenismo borghese Proviamo a ridere, ora, adesso, e poi a rifarlo ogni qualvolta che il disgusto per le perversioni che ci circondano minaccia di soffocarci. Ridere del perbenismo borghese, dell’ipocrisia di tutti quelli che ci guardano disgustati, si voltano dall’altra parte, mormorano: “Ma chi vannu circannu? Chi vannu arriminannu ancora a merda n’cannistru? Ma che stanno ancora a fare, perché non si stanno a casa, invece di venire a disturbare la nostra quiete? Non hanno avuto tutto quello che volevano? Che vogliono ancora? Perché non ci lasciano in pace?”.

Ridere delle persone in cravatta, di quelli che scendono dalla limousine o si fanno scortare, di quelli che obbediscono come pecoroni a tutti gli ordini, senza chiedersi se ce ne siano di sbagliati, ridere di chi ha bisogno di un capo cui asservirsi, di un pastore, e opertanto, accettare per se stesso il ruolo di pecora. E poi ricostruire una società E poi ricostruire, dalle ceneri di un circuito che comprenda politica, economia, banche, onorevoli, disoccupazione,

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morte, suicidi per l’impossibilità di portare avanti dignitosamente la propria vita, euro, ambizioni, droghe, pizzo, tangenti, rimborsi elettorali, ruberie vari e altre porcate, una società in cui si possa essere - come ci insegna Peppino comunisti e restare sempre rivoluzionari.


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Il verbale di un ispettore di polizia

Andreotti, Trapani e i mafiosi “Il giorno 19.8.1985, in occasione di una visita a Mazara dell'on. Giulio Andreotti...” di Rino Giacalone Giulio Andreotti uscì dal processo istruito dalla Procura antimafia di Palermo con una sentenza di prescrizione. I suoi rapporti con l’associazione mafiosa per i giudici furono veri, e passavano per la provincia di Trapani. Episodi però che risalivano ad un periodo così antico rispetto alla celebrazione del processo che l’unico pronunciamento giudiziario possibile fu quello della prescrizione. “Il giorno 19.8.1985, in occasione di una visita a Mazara del Vallo dell’on. Giulio Andreotti, fui incaricato, dall’allora Dirigente del Commissariato di P.S. di Mazara del Vallo dott. Germanà, di sovraintendere al servizio d’ordine predisposto presso l’Hotel Hopps, ove il parlamentare doveva recarsi e pernottare. Era con me altro personale del Commissariato, tra cui ricordo l’Agente di P.S. Giorgio Mangiaracina. Il mio compito era di controllare le sale dell’albergo onde prevenire pericolo di attentati, nonché di controllare le persone che entravano, per verificare se non compivano qualche atto sospetto (come ad es. lasciare borse o bagagli in qualche sala). L’on. Andreotti, provenendo dal Consiglio Comunale, giunse all’Hotel Hopps ove tenne un breve discorso in una delle sale. Dopo di ciò, io notai, innanzi alla porta di una saletta dove si trovava un apparecchio televisivo, l’on. Andreotti, il Sindaco di Mazara Zaccaria, e un giovane che riconobbi in Manciaracina Andrea.

Riconobbi il giovane perché l’avevo già visto in Commissariato e sapevo che era uno dei figli di Manciaracina Vito, quest’ultimo persona che sapevo essere agli arresti domiciliari. Ebbene, notai – come ho detto – i tre insieme, e vidi che Zaccaria presentava il giovane Manciaracina all’on. Andreotti, che gli strinse la mano. Ricordo che rimasi un po’ sorpreso di ciò, poiché pensai che l’on. Andreotti trattava cortesemente una persona del tipo di Manciaracina e magari poi a noi della polizia neanche ci guardava. Dopo la presentazione, l’on. Andreotti e Manciaracina Andrea entrarono nella saletta di cui ho detto, e chiusero la porta. Il sindaco Zaccaria rimase invece fuori della stanza, davanti alla porta chiusa, senza muoversi. Passarono circa dieci minuti, quindi, la porta si riaprì, il giovane Manciaracina uscì, e si introdusse nella stanza il sindaco Zaccaria che richiuse la porta dietro di sé. Io seguii il Manciaracina il quale si diresse verso l’uscita dell’Hotel, e andò via. Per quanto io ricordo, non vidi l’on. Andreotti intrattenersi a parlare con nessun altro, né in quella stanza, né altrove nell’albergo”. L'incontro con Mangiaracina Il verbale finito agli atti del processo contro il senatore a vita Giulio Andreotti è stato così reso da un ispettore di Polizia, Francesco Stramandino. Segna uno dei rapporti pericolosi che l’on. Andreotti nella sua carriera avrebbe avuto con la mafia. Il “bacio” con Riina è leggenda, l’incontro con Andrea Manciaracina è dato certo. In quel periodo a Mazara del Vallo trascorreva le sue “vacanze” proprio Totò Riina, “protetto” dalla potente mafia mazarese e della quale Manciaracina, padre e figlio facevano parte.

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L'”aggiustamento” del processo Rimi Antecedente al faccia a faccia mazarese vi è un altro episodio. Si tratta dell’”aggiustamento” del processo a carico degli alcamesi Vincenzo e Filippo Rimi celebratosi nei vari gradi di giudizio tra Roma e Perugia tra il 1968 ed il 1979, per gli omicidi di Giovanni Giangreco, ucciso il 5 settembre 1960 a Villabate, nel palermitano e di Leale Lupo, ucciso il 30 gennaio 1962 a Palermo: questi era figlio di Serafina Battaglia la donna che nell’aula della Corte di Assise era andata ad accusare i sicari del figlio, ucciso perchè si dava da fare per cercare di vendicarsi dei killer del padre ucciso anni prima. Lui stesso era andato ad Alcamo per cercare i due Rimi ed ucciderli. Il racconto di Buscetta Il processo ai due Rimi si concluse a Roma il 13 febbraio 1979 con l’assoluzione di Filippo Rimi, il padre era uscito dal processo, Vincenzo Rimi era morto 4 anni prima. Del processo aggiustato in favore dei Rimi per primo parlò Tommaso Buscetta, l’avvicinamento ad Andreotti sarebbe stato possibile grazie all’intervento di don Tano Badalamenti, cognato di Filippo Rimi, i due avrebbero discusso della cosa direttamente con Andreotti, a Roma, nel suo studio. Buscetta svela di averr saputo da Badalamenti che in quell’occasione Andreotti ebbe a dire a don Tano che “uomini come lui ce ne voleva uno per ogni strada di ogni città italiana”. I Rimi costituiscono da sempre uno dei riferimenti mafiosi più forti del trapanese. Il tentato golpe Borghese aveva previsto per i Rimi un ruolo preciso, la loro partecipazione per le cose che i pentiti hanno dettocome sentite dall’interno di Cosa Nostra era collegata proprio alla loro adesione al tentativo eversivo.


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Il processo “Iside 2” “Badalamenti spingeva – confermò ai giudici il pentito Calderone - spingeva moltissimo, avrebbe fatto la qualunque, voleva risolvere questo processo in qualsiasi modo e in qualsiasi maniera, tutta Cosa Nostra si muoveva intorno al processo contro i Rimi. Non ci si ferma però qui. Sparpagliati qua e là ci sono altri episodi. Nel processo sulla loggia massonica Iside 2 scoperta a metà degli anni ’80 a Trapani, la loggia dove erano scritti mafiosi, politici, colletti bianchi, super burocrati, venne fuori la circostanza che per un periodo a controllare l’aeroporto di Trapani c’erano dei massoni, che si sarebbero fatti carico di fare scomparire alcuni piani di volo particolari, tra questi quelli relativi a missioni con aerei privati che Andreotti avrebbe fatto per giungere senza essere notato in Sicilia. Trapani per lui sarebbe stato un aeroporto sicuro. Le accuse del giudice Almerighi Il nome di Andreotti compare poi sullo sfondo della vicenda processuale relativa alla corruzione dell’ex pm di Trapani Antonio Costa. Nel processo contro il senatore a vita a Palermo un giorno andò a deporre un giudice, Mario Almerighi, che da Andreotti fu definito, per la testimonianza resa, «pazzo» e «falso teste». Almerighi infatti riferì dei contatti tra il senatore Andreotti e il presidente di Cassazione, Corrado Carnevale, svelò la confidenza ricevuta da un suo collega, Piero Casadei Monti, allora capo di gabinetto del ministro della Giustizia Virginio Rognoni. E il «segreto» svelato passava per l’indagine sul giudice Costa, arrestato nel 1985. Accadeva che la Cassazione, presidente Carnevale, accogliendo una richiesta

della difesa dell’ex pm Costa, fece celebrare il processo a Messina, sottraendolo alla competenza del Tribunale nisseno. La cosa portò il pm che indagava, Claudio Lo Curto, a fare un esposto al Csm e al ministro Rognoni. Ma tutto finì in archivio. Secondo la testimonianza di Almerighi, il Csm avrebbe insabbiato il «procedimento», stando alle confidenze del capo di gabinetto del ministro, «per le pressioni di Andreotti» che all’esito di questa testimonianza rispose dandogli del pazzo. Almerighi querelò Andreotti per quelle dichiarazioni ingiuriose, e vinse la causa. Le indagini di Carlo Palermo Il nome di Andreotti compare poi nel racconto dell’ex pm Carlo Palermo, il magistrato sfuggito ad un attentato a Pizzolungo (Erice) il 2 aprile 1985. A Trapani era giunto dopo che era stato sollevato da indagini che conduceva da pm di Trento. Mentre era pm a Trento Carlo Palermo conduceva una indagine su traffici di armi e droga, su riciclaggio di denaro e su politici collusi e corrotti. Un'inchiesta molto scottante. Il 15 dicembre 1983 da pm trentino andò alla Farnesina a Roma per sentire come teste l’allora ministro degli Esteri. Giulio Andreotti. Finita quell’attività partì per Brindisi dove doveva partecipare ad un convegno. All’arrivo in serata nella città pugliese trovò una chiamata del presidente del Tribunale di Trento che gli comunicava che il procuratore generale della Cassazione aveva minacciato la sua sospensione dal servizio per avere fatto una attività di indagine nei confronti di parlamentari senza autorizzazione. Fu il primo atto questo che lo avrebbe portato nel febbraio 1985 a prendere servizio alla Procura di Trapani e dove dopo 40 giorni dall’insediamento trovò lungo

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“Carlo Palermo sopravvisse ma fu indotto a lasciare le indagini e la toga”

la strada che ogni giorno percorreva una autobomba il cui timer fu azionato dalla mafia alcamese. Carlo Palermo si salvò, vennero stritolati dal tritolo Barbara Rizzo Asta ed i figlioletti della donna, Salvatore e Giuseppe, che in auto percorrevano la stessa strada. Carlo Palermo sopravvisse ma per lo Stato fu come fosse morto. Dapprima gli fu proposto di cambiare identità e lasciare l’Italia, al suo rifiuto fu fatto in modo che lasciasse la toga e le sue indagini. Il sostegno a Giammarinaro L’ultima presenza certa di Andreotti a Trapani risale al 1991, quando venne a sostenere un suo “figlioccio”, il salemitano Pino Giammarinaro, eletto alla Regione con 50 mila preferenze e qualche mese dopo costretto a fuggire dalla Sicilia per evitare l’arresto. Pochi anni addietro Andreotti partecipò ad una cena in Senato offerta da un consorzio ittico di Mazara. Apprezzò molto ciò che venne servito a fine cena commentò che una cena del genere l’avrebbe potuta fare solo tornando in Sicilia, a Mazara, ma considerato quello che gli era capitato (l’incontro col mafioso nel frattempo svelato dal processo di Palermo) aveva deciso di non tornarvi più. Sarà stato vero? Oramai oggi non può più sapersi, questo è l’ultimo e meno importante dei segreti che si è adesso portato nella tomba.


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Michele Gambino Andreotti Il Papa nero Antibiografia del divo Giulio Giulio Andreotti, detto anche il divo Giulio, Belzebù, il Papa nero, è il personaggio più longevo della storia italiana e al tempo stesso il più controverso. L’unico politico di statura nazionale di cui sono stati accertati i rapporti con la mafia almeno fino al 1980, ma anche l’amico sincero di molti pontefici e il generoso dispensatore di oboli agli orfani e alle vedove. Ascetico nei comportamenti ma capace di accumulare enormi quantità di fondi occulti per mantenere il potere. Nemico storico della sinistra, ma anche primo fautore di un governo appoggiato dai comunisti. Da Sindona a Moro, da Pecorelli a Dalla Chiesa, dai militari golpisti a Licio Gelli, dai palazzinari romani ai mafiosi siciliani, l’intera vita di Andreotti è costellata di delitti, di misteri, di nemici per bene e di amici impresentabili. Dal secondo dopoguerra all’era Berlusconi, Michele Gambino traccia un profilo del personaggio in larga parte inedito, ricostruendone, oltre alle vicende giudiziarie e storiche, la psicologia, la religiosità, i sentimenti e le pulsioni celate dietro la maschera di cera.

Michele Gambino, giornalista, ha iniziato la carriera con “I Siciliani”, mensile fondato da Giuseppe Fava. Ha lavorato a lungo per il settimanale “Avvenimenti” occupandosi di malaffare politico e criminalità organizzata, è stato inviato e autore per molti programmi Rai e nel 1996 ha vinto il premio “Ilaria Alpi” per i suoi reportage dall’Afghanistan occupato dai Taliban. Con Manni ha pubblicato Orgogli e pregiudizi. Islam e Occidente dopo le Twin Towers (2001) e Il cavaliere B. (2001), biografia non autorizzata di Berlusconi. Attualmente è condirettore dell’agenzia televisiva “H24”.

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Documenti

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Giustizia per Lea Milano. La Corte d'Appello è riunita a giudicare gli assassini di Lea Garofalo, rapita e uccisa per essersi ribellata alla 'ndrangheta. In aula la giovanissima figlia, Denise, a testimoniare contro gli assassini di sua madre. In aula e fuori, le ragazze e i ragazzi del presidio di Libera: “Non lasciamo Denise sola” è il tam-tam che da due mesi gira in tutte le scuole della città di Valerio Berra e Sara Manisera www.stampoantimafioso.it

ATTO I: LA CONFESSIONE 13 aprile. L'udienza è finita. Gli avvocati si stanno togliendo le toghe, i giudici cominciano ad alzarsi e il pubblico già si avvia verso l'uscita. Dalla gabbia degli imputati si solleva una voce tremante, dal forte accento calabrese che chiede ai giudici di poter leggere un foglio che tiene stretto tra le mani. Sono le 14.30 di martedì 9 aprile e nel tribunale di Milano si sta per concludere la prima udienza del processo d'appello per il caso Lea Garofalo, la testimone di giustizia rapita e uccisa nel novembre 2009. A parlare è Carlo Cosco, ex compagno della donna, uomo di 'ndrangheta e condannato con altri cinque imputati all'ergastolo per il suo omicidio. La presidente della corte, Anna Conforti, invita tutti i presenti a sedersi. Davanti al microfono Cosco comincia la sua dichiarazione spontanea. «Mi assumo la totale responsabilità per questo omicidio. Chiedo di poter vedere mia figlia che è sotto protezione. Da chi deve essere protetta? Io adoro mia figlia. Guai a chi la tocca. Io prego di avere un giorno il suo perdono». Il clima di terrore La figlia a cui si riferisce è Denise, classe 1991, una ragazza che ora vive sotto protezione per aver testimoniato contro chi ha ucciso sua madre. Anche lei è in aula. Nascosta da un paravento per proteggere la sua identità, Denise ha già dovuto raccontare nel primo processo il clima di terrore in cui viveva con la madre e nelle prossime udienze dovrà testimoniare ancora. Per sostenerla, per farle sapere che non è più sola, ci sono anche molti ragazzi di Libera, alcuni provenienti addirittura da Reggio Emilia. Per tutta l'udienza sono rimasti fra il pubblico, fianco a fianco con i parenti degli imputati. Questi sono stati gli ultimi atti di un'udienza iniziata verso le 9.30 con la lettura della sentenza del processo di primo grado, che risale al marzo 2012. Dopo questo atto formale, sono state avanzate le richieste da parte degli avvocati. Il Procuratore Generale Marcello Tatangelo,

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pubblico ministero alla corte d'Assise, ha richiesto che venga ascoltato come testimone Carmine Venturino. Si tratta di uno dei condannati in primo grado per il processo, che dal luglio 2012 ha cominciato a collaborare con la giustizia. Immobilke nella cella Venturino segue l'udienza dal carcere e la sua presenza è testimoniata da una telecamera predisposta nella sua cella. L'inquadratura è fissa, l'uomo immobile, più che un filmato sembra un fermo immagine. Venturino chiede ai giudici: «Vorrei testimoniare in tribunale, non dalla mia cella. Se è possibile, se non ci sono rischi vorrei venire in prima persona a raccontare quello che è successo». Grazie alle informazioni da lui fornite, la magistratura sta ora indagando su un altro uomo coinvolto nell'omicidio, Damian Jancaza, un polacco vicino alla famiglia Cosco. Il Procuratore Generale richiede l'acquisizione dei sopralluoghi avvenuti dove si è consumato il delitto, fra cui il magazzino di Crivaro, dove sono stati trovati i resti della donna. L'avvocato di Denise Cosco, Enza Rando ha invece chiesto l'acquisizione di due denunce, che provano il furto e l'incendio dell'auto di Lea Garofalo. Avvenuti nel 2002, questi due fatti insieme al tentativo di sequestro avvenuto a Campobasso nel 2009 evidenziano quanto il rapimento della donna sia stato ben meditato e preparato da molto tempo. Gli avvocati che difendono gli imputati hanno invece proclamato ancora una volta la totale innocenza dei clienti. Alla luce di queste informazioni, le dichiarazioni fatte da Carlo Cosco al termine del processo, appaiono tutt'altro che spontanee. Più che un reale pentimento sembra una strategia difensiva in due direzioni: tentare di assumersi totalmente la colpa del delitto, scagionando così i fratelli Vito e Giuseppe; e rimarcare il proprio amore paterno – per una una ragazza di cui ha ucciso la madre - nel tentativo di mostrare un lato umano ai giudici e forse anche quella di far crollare la figlia, portandola a ritirare la sua fondamentale testimonianza.


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LA VERSIONE DI VENTURINO 20 aprile. Separato da un paravento bianco da coloro che «per tre anni sono stati – così come li ha definiti – la mia famiglia», Carmine Venturino, collaboratore di giustizia dal 31 luglio 2012, si è trovato nel secondo giorno di udienza del processo di secondo grado per la morte di Lea Garofalo a dover confermare le dichiarazioni fatte nei mesi scorsi al pubblico ministero e ad autoaccusarsi del concorso all’omicidio della madre della ragazza che lui stesso dice di amare. Il 10 aprile dichiara dunque davanti alla corte d’Assise del Tribunale di Milano: «È una scelta d’amore per Denise perché deve sapere come sono andate le cose sull’omicidio di sua madre». Con queste parole Carmine Venturino, nato a Crotone nel 1987 da una famiglia di incensurati, inizia la ricostruzione di tutte le fasi di organizzazione dell’omicidio di Lea Garofalo; dal progetto sventato a Campobasso nel maggio del 2009 fino al giorno, il 24 novembre 2009, in cui la donna viene rapita, torturata e uccisa. Strangolata con un nastro floreale delle tende dell’appartamento di Via Fioravanti, il cadavere messo in uno scatolone e alla fine trasportata in un garage. Lì l’ordine di Carlo Cosco: «La dovete carbonizzare». “La dovete carbonizzare” Poche parole quelle dell’ex compagno della donna ma soprattutto poche domande, afferma Venturino: «Non si fanno domande nella ‘ndrangheta, significherebbe poca serietà; l’unico commento di Carlo Cosco è stato ‘la bastarda se n’era accorta’». Il collaboratore poi prosegue il suo agghiacciante racconto sulla distruzione del cadavere di Lea Garofalo: «Apriamo lo scatolone e rovesciamo il corpo a testa in giù nella benzina; si intravedevano solo le scarpe. Poi abbiamo buttato la benzina ma il cadavere bruciava lentamente, così mentre il corpo bruciava venivano spaccate le ossa con un badile. Ciò che rimaneva l’abbiamo messo in una borsa e coperto da una lamiera».

Continua poi la sua ricostruzione, raccontando alla corte il recupero degli abiti sporchi di sangue di Carlo Cosco, nascosti vicino al cimitero monumentale e recuperati da Rosario Curcio perché “erano firmati”. Dettagli che lasciano intravedere lo scenario ‘ndranghetista dentro il quale si è consumato il terribile omicidio: «Lui doveva ammazzare la compagna per le regole della ‘ndrangheta; io non sono un affiliato, sono un contrasto onorato, ho preso parte a questo disegno criminoso perché facevo parte della famiglia, in quanto spacciavo per loro e quindi dovevo loro dei soldi; non potevo dire di no; a Pagliarelle non si muove una foglia che i Cosco non voglia». “Le regole della 'ndrangheta” E sulla dichiarazione spontanea rilasciata da Carlo Cosco il 9 aprile, alla fine della prima udienza, Carmine Venturino dichiara: «Secondo Carlo Cosco si doveva dovevano uccidere anche Denise; nel processo di primo grado c’è stato un episodio in cui l’avvocato ha mostrato delle fotografie rimaste appoggiate sul banco della difesa e Carlo Cosco quando le ha viste ha detto, ‘ancora davanti a me la metti questa puttana’». Carmine Venturino ha dovuto riportare tutto quello che ha detto anche nel corso della terza udienza, tenutasi venerdì 11 aprile. In questa giornata la corte ha ascoltato anche altri due testimoni, che hanno definito meglio l’ambiente malavitoso in cui si è consumato l’omicidio di Lea. L’udienza si è aperta con il contro esame da parte degli avvocati difensori, in primo luogo il legale diCarlo Cosco, Daniele Sussman Steinberg. La maggior parte delle domande era mirata ad un unico tema: la ‘ndrangheta. Sussman ha cercato di far cadere le informazioni che Venturino aveva rilasciato riguardo a quell’ambiente malavitoso in cui operava Carlo Cosco. Incalzato dall’avvocato, Carmine Venturino dichiara le doti, i gradi di potere, che avevano i membri della famiglia Cosco. Giuseppe avrebbe il grado di sgarrista, Massimo di picciotto, Vito di camorrista e infine Carlo avrebbe la dote

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di Santa, facendo così parte della Società Maggiore. Con questa dichiarazione viene quindi sollevata l’ipotesi che non solo l’imputato sia vicino alla ‘ndrangheta, ma che ne ricopra una posizione di rilievo nei vertici. Certo davanti a lui ci sono altre doti, altri gradi, da raggiungere prima di arrivare in cima, ma comunque lui sarebbe un capo zona. “Carlo Cosco era il capo” Il collaboratore di giustizia ha quindi chiarito anche alcune dinamiche interne al gruppo degli imputati. «Carlo Cosco era il capo. Rosario Curcio era uno dei suoi soldati. Suo fratello Giuseppe invece era quello più indipendente della famiglia, si occupa dello spaccio di droga». Per quanto riguarda poi la sera dell’omicidio, Venturino afferma ancora l’estraneità dei fatti per Massimo Sabatino, mentre a Giuseppe Cosco attribuisce solo un ruolo organizzativo. «Carlo non è che abbia tutto questo cervello, a preparare tutto quanto, per me può essere stato solo Giuseppe». Sembra infine che Rosario Curcio fosse già sulla lista nera dei Cosco, colpevoli di averli insultati in pubblico. «I Cosco avevano aperto un’impresa edile, la Olimpia srl, che si occupava di cartongesso. Avevano fatto diversi lavori in giro, per esempio a Desio o Buccinasco. Nella ditta c’era anche Curcio, ma lui non aveva preso nemmeno un euro per tutte queste opere. Una sera allora, dopo che si era ubriacato, aveva insultato i Cosco in mezzo al cortile, apertamente. Da quel momento Carlo ha sempre avuto l’idea di ucciderlo». Venturino non ha risposto a tutte le domande, spesso si è riservato di non parlare perché le informazioni richieste erano coperte da segreto istruttorio. L’ipotesi più probabile è che dalle sue dichiarazioni sia iniziato un altro procedimento penale, che riguarda invece l’usura, lo spaccio e tutte le altre attività criminali dei Cosco. Il processo è continuato poi con la deposizione di Giulio Buttarelli, tenente colonnello dei carabinieri, che ha riportato l’esito dei sopralluoghi fatti grazie alle indicazioni di Venturino.


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CARLO COSCO: “NDRANGHETA? IO NON LE APPARTENGO”

Ha confermato il ritrovamento di una scheda sim distrutta e poi nascosta in una grata e ha dichiarato anche che dal suo appartamento mancava la corda di una tenda, quella usata per strangolare Lea. Il coraggio di Denise Ultima ad avvicinarsi al microfono è stata Denise. La ragazza si è mostrata subito decisa, disposta a rispondere a qualsiasi tipo di domanda le venisse rivolta. La sua testimonianza è stata breve, ha dovuto solo riconoscere dei gioielli che portava la madre il giorno della sua scomparsa. Questo piccolo esame è servito per identificare ancora il corpo di Lea Garofalo, dato che, per adesso, non si è ancora riusciti ad estrarre il suo Dna dai resti. Prima di andarsene Denise ha però voluto chiarire una cosa. Era stato detto infatti che lei aveva partecipato alla festa organizzata da suo padre Carlo in occasione del suo diciottesimo compleanno. Era il 4 dicembre del 2009, pochi giorni dopo la scomparsa di sua madre. «Io a quella festa non ci sono mai andata, non volevo neanche che la organizzasse. Mia madre era appena scomparsa. Io non avevo niente da festeggiare, forse gli altri sì». Tramite il suo legale, Carlo Cosco ha infine chiesto di poter testimoniare in aula. Dopo essersi sempre dichiarato innocente fino alla prima udienza del processo di secondo grado, il principale imputato per la morte di Lea Garofalo si siederà per la seconda volta davanti ai giudici.

25 aprile. La quarta udienza di secondo grado di giudizio per l’omicidio di Lea Garofalo si è aperta martedì 16 aprile 2013 con la testimonianza dei consulenti di medicina legale dell’università degli Studi di Milano. I periti hanno riportato alla Corte i risultati dei resti rinvenuti nel tombino indicato dal collaboratore di giustizia Carmine Venturino, tra via Canonica e Via Lomazzo; risultati che – nonostante le difficoltà ad identificare la donna - «sono coerenti con i racconti del Venturino», afferma il perito. Il cadavere, infatti, bruciato ad altissime temperature, i cui resti sono stati meccanicamente frammentati in seguito alla combustione, è stato identificato grazie alle protesi dentarie comparate ad una lastra trovata dalla figlia Denise tra gli oggetti della madre. Dai dati scientifici dei consulenti tecnici si è poi passati all’interrogatorio di Carlo Cosco da parte del suo avvocato. Una difesa, quella di Daniele Sussman Steinberg, interamente costruita sull’amore di Carlo Cosco per la figlia Denise, sui difficili anni passati separati quando lui era in carcere, sulle sue preoccupazioni derivate dalla decisione di Lea Garofalo, all’epoca ventunenne, di trasferirsi a Bergamo con la figlia di quattro anni. Solo paure e ansie per la figlia Denise dunque. Tanto che, per punire la madre di sua figlia per un litigio con la suocera, Carlo Cosco ordina a Massimo Sabatino di recarsi a Campobasso –

dove all’epoca vivevano le donne – per picchiare Lea Garofalo. «Non la volevo assolutamente uccidere, ma solo darle due schiaffi, per la storia di mia madre», chiosa l’imputato. Che rivela poi i dettagli dell’omicidio, indicando nelle ragioni che lo hanno portato a compiere quel gesto solo un raptus di follia scaturita dalle minacce di Lea di non fargli vedere più la figlia. «Mi ha detto brutte parole; che non mi faceva vedere mia figlia e queste cose qua; allora l’ho presa e l’ho sbattuta a terra. Se non mi sono consegnato subito è stato per paura di perdere mia figlia; il mio errore è stato quello». “Mai fatto parte di una 'ndrina” Raptus di follia e non omicidio premeditato collegato alla cultura mafiosa. «E’ vero che fa parte di un’associazione criminale di stampo mafioso chiamata ‘ndrangheta?», domanda Steiner all’imputato, «No, assolutamente no, mai fatto parte di una ‘ndrina». Con questo tentativo, la difesa ha così cercato di mostrare sotto una luce diversa, legata a dinamiche di amore tra padre e figlia, l’omicidio di Lea Garofalo. Nello stesso tempo viene screditata anche la deposizione di Carmine Venturino, che non è fondamentale solo per questo processo, ma potrebbe far aprire anche altri procedimenti penali, legati agli affari della famiglia Cosco. Insomma, il solito delitto passionale. La ‘ndrangheta? No, di quella nessuno fa parte.

I PRESIDII DEGLI STUDENTI AL PROCESSO

Non lasciamo sola Denise! Il 15, 16 e 21 maggio avranno luogo altre udienze del processo. Gli studenti antimafiosi fanno appello a tutte le ragazze e i ragazzi di Milano perché vengano in massa a testimoniare la loro solidarietà con Lea e Denise. Per partecipare, contattare i responsabili dei presidii nelle varie giornate: - per mercoledì 15: Lucia pres.giovanimi@libera.it - per giovedì 16: Arianna pres.giovanimi@libera.it - per martedì 21: Giulio pres.giovanimi@libera.it Per ogni altra informazione: Presidio giovani di Libera pres.giovanimi@libera.it oppure Redazione di Stampoantimafioso redazione@stampoantimafioso.it

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Trapani

La miseria e le mazzette Qua in periferia come al centro, la crisi non è arrivata per caso... di Rino Giacalone E’ il mondo moderno, ragazzi. Stiamo combattendo una guerra in Europa, ma non tutti ce ne rendiamo conto. Non ci sono palazzi sfondati dalle bombe, ma ci sono intere classe sociali distrutte. Chi sostiene che lo spread è stata una invenzione per far dimettere Berlusconi, chi che la crisi serve a fare il Governo dell’”inciucio”, pardon, “di servizio” come lo chiama il giovanissimo presidente del Consiglio Enrico Letta. Come una guerra E’ guerra invece, se è vero com'è vero che ci sono famiglie che non arrivano alla fine del mese, sono lavoratori che da un giorno all’altro si trovano senza lavoro, gente che in preda a sconforto uccide e si uccide. Non c’è bisogno di sentircelo dire che siamo ancora in fondo al tunnel, guardando a quelle che accade nelle periferie del Paese, a Trapani per esempio, dove un esercito di precari, anche donne e uomini ultracinquantenni, si trova a inseguire un'assunzione qualunque, dove ci sono operai che occupano palazzi delle istituzioni, e giovani che ogni giorno lasciano questa terra per cercare fortuna altrove, come negli anni bui del dopoguerra. Certamente tutto questo non è avvenuto perché si sono mossi autonomamente i grandi eserciti dell’economia internazionale, ma perché c’è stata una politica, ci sono stati Governi che hanno colpito da dentro il Paese. A Roma come a Trapani. Le “mazzette” hanno mosso la politica. Ma nessuno, dei politici della casta, se lo vuol sentire dire.

La magistratura scopre appalti truccati, opere mal costruite, senatori - come il trapanese pidiellino-berlusconiano Tonino D’Alì - che a leggere le intercettazioni avrebbe assicurato grandi appalti a questo e a quello, e nessuno - a cominciare dai presunti avversari - si è mostrato capace di dire qualcosa.. Non “qualcosa di sinistra” alla Moretti, almeno qualcosa di buono per il Paese. “Bisogna convivere con la mafia” Restando a Trapani, di cose, malfatte, di cuis parlare ce ne sono parecchie. I risultati sono dinanzi agli occhi di tutti, il porto che doveva essere volano di sviluppo ha visto la crisi dei grandi cantieri navali. La petroliera che doveva costituire esempio tangibile di rilancio resta non consegnata al committente, per mesi qui si sono asserragliati gli operai che l’hanno costruita, licenziati su due piedi. La trasformazione del porto, fatta con fior di milioni (pubblici), è stata un'occasione di infiltrazione che la mafia non si è fatta sfuggire, e le conseguenze sono palesi. Ci sono banchine finanziate con 40 milioni di euro, che dovevano essere pronte nel 2005 e invece oggi costituiscono una grande opera incompiuta. Nessuno si aspettava che quando tanti anni fa il ministro Pietro Lunardi auspicava che lo Stato sapesse convivere con la mafia, a Trapani si facessero le prove generali di questo “inciucio”. E quando Lunardi venne a vedere i lavori in corso al porto, accompagnato dai “potenti”, il senatore D’Alì, il sindaco Fazio, il prefetto Finazzo, praticamente fu come mettere il sigillo a quell’accordo. Trapani, città del sale e del vento, c’è scritto sui cartelloni di benvenuto nei punti d'ingresso della città. Trapani città silente, città della distensione, tanta distensione che forse nemmeno piacerebbe del tutto al presidente Napolitano che in questi giorni ha fatto tanto uso di questa parola, città dove la politica segue regie trasversali, dove non ci sono steccati se non quelli apparenti che servono solo a fare scena.

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Corrotti da Cosa Nostra Uno scenario dove sparisce, per comparire solo nelle poche ore che seguono un blitz o un'operazione di sequestro e confisca, la perdurante latitanza del sanguinario boss mafioso Matteo Messina Denaro, il campiere dei borghesi trapanesi, l’interlocutore dei politici, il titolare di segreti inconfessabili sulla trattativa stato-mafia, il custode del papello di Totò Riina, lo stratega delle stragi, il colpevole delle bombe assassine di Firenze, Roma e Milano del 1993. Attorno a Matteo Messina Denaro si sono scoperte collusioni, funzionari pubblici corrotti da Cosa nostra che si arricchiva grazie al sostegno di politici, si sono sequestrati e confiscati beni e casseforti. E tutto questo è stato circondato da silenzi, o da apprezzamenti ipocriti alla magistratura e alle forze dell’ordine operanti. Poi tutto è continuato come sempre, l’area grigia della mafia ha proseguito a pulsare. Le condanne e le carriere Eppure, per citare i fatti più recenti, ci sono stati consiglieri provinciali arrestati e condannati, Sacco e Pellerito, consiglieri comunali, come tale Giuseppe Ruggirello, che si è scoperto si faceva corrompere in cambio anche di incontri a luci rosse, sindaci come quello di Valderice Camillo Iovino rimasti in carica sebbene condannati per favoreggiamento ad un imprenditore mafioso, consiglieri condannati per corruzione che, riabilitati, hanno fatto carriera come l’attuale presidente del Consiglio comunale di Trapani Peppe Bianco. Oggi a Trapani c’è una società che è costretta a inseguire i suoi bisogni che quando esauditi non suonano come un diritto riconosciuto ma come un favore concesso, e la malapolitica, come la mafia, con la mafia, ha bisogno per vivere di avere attorno gente allo stremo che chiede e che garantisce consenso sociale. E’ da questi scenari che bisogna fuggire via.


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Lombardia

Chiude la sede Dia della Malpensa Era utile per l'Expo, dove diversi cantieri odorano di mafia, ma evidentemente la sicurezza e legalità dell'Expo non è stata giudicata una priorità di Roberto Nicolini www.stampoantimafioso.it

La lotta alle infiltrazioni criminali in Expo “sarà una delle nostre ossessioni. Ovviamente lo faremo applicando le leggi, ma anche mettendoci qualcosa di più in termini di attenzione e impegno”. Diceva così il neo premier Enrico Letta pochi giorni fa, lasciando ben sperare. Ma a poche ore di distanza arriva un fatto per niente positivo: l’altro ieri il Nucleo Informativo della Direzione Investigativa Antimafia, dell’aeroporto di Malpensa viene chiuso. Stando a quanto riportato dal sindacato dei lavoratori di polizia della Cgil le motivazioni sarebbero da legare ad esigenze di ottimizzazione.

Pochi giorni fa, per voce del suo segretario generale, Daniele Tissone, la Silp Cgil aveva denunciato l’irresponsabilità dell’atto poiché non rappresenta altro che “un segnale decisamente negativo nella lotta contro la criminalita’ organizzata”. Lo stesso sgomento è arrivato anche dal sindacato Siulp legato alla Cisl che, inoltre, in un comunicato stampa ha richiamato una nota del direttore della DIA, del 12 gennaio 2012, nella quale si sosteneva l’importanza del mantenimento del Nucleo Informativo proprio in vista di Expo. Uno scenario preoccupante I lavori di Expo procedono a rilento mentre la criminalità avanza infiltrandosi sempre più. Due cantieri sono nel mirino della magistratura e un’azienda, la Ventura Spa, è già stata estromessa dai lavori di Expo perché avrebbe intrattenuto rapporti con la cosca mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, e altre imprese sono sotto inchiesta. È in questo scenario che si inserisce la chiusura della sede operativa della Dia nell’aeroporto di Malpensa, luogo che,

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vista la vicinanza alla zona dove sorgerà Expo, sarà destinato a diventare uno dei punti di snodo principali per l’evento. Oltre a questa vicinanza, Malpensa è situata nel varesotto, una zona non certo immune dalla presenza della criminalità organizzata e nella quale è stata dimostrata la presenza attiva di locali di ‘ndrangheta in due comuni limitrofi all’aeroporto, Busto Arsizio e Lonate Pozzolo, quest’ultimo adiacente all’aeroporto. Fatti, non parole Se il governo Letta è davvero intenzionato a mantenere alta l’attenzione sulle infiltrazioni criminali in Expo, dia un segnale concreto e operi affinche il Nucleo Informativo sia ripristinato. Appelli al Ministero degli Interni sono stati presentati sia dal livello locale, in maniera congiunta da Gabriele Ghezzi, vice presidente della commissione sicurezza del Comune di Milano e da David Gentili, presidente della Commissione Antimafia del Comune di Milano, sia a livello nazionale, da Emanuele Fiano capogruppo Pd in commissione Affari Costituzionali della Camera. Il governo deve rispondere e agire per tener fede alle parole pronunciate pochi giorni fa dal Primo Ministro. Come ha scritto Giulio Cavalli sul suo blog, non bisogna passare “dalla mafia che non esiste all’antimafia che chiude”.


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Cosa Nostra

Un “saggio” guida le cosche provinciali palermitane Partinico e San Giuseppe Jato riunite in un unico mandamento, quello di Camporeale di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com

L'unione fa la forza. Devono aver pensato questo le famiglie mafiose di Partinico e San Giuseppe Jato, negli ultimi anni colpite duramente da una serie di operazioni da parte delle forze dell'ordine. L'ultima di queste, avvenuta lo scorso aprile, ha portato all'arresto di 37 persone permettendo di smantellare il nuovo “supermandamento” di Camporeale, sorto dalla fusione dei due mandamenti storici. Le indagini, condotte dai Pm della Dda Francesco Del Bene, Sergio De Montis e Daniele Paci, hanno ben edivenziato l'opera di rifondazione da parte di Cosa Nostra per riorganizzare le proprie fila. L'uomo designato per il “rinnovamento” era Antonino Sciortino, 51enne allevatore di Camporeale, tornato in libertà nel 2011 dopo essere stato condannato per mafia e detenuto al carcere duro per dodici anni. Un tempo infinito in cui non ha mai risposto ad una domanda postagli dai magistrati. Una nomina non frutto dell'improvvisazione visti gli stetti legami avuti sia con i capi indscussi del mandamento di Partinico, Leonardo e Vito Vitale, che con il capomafia di Altofonte, Domenico Raccuglia, arrestato il 15 novembre 2009.

Una volta libero, seppur limitato negli spostamenti a causa delle prescrizioni e delle limitazioni imposte dalla misura di prevenzione personale della Sorveglianza Speciale, si è subito adoperato per il riassetto del territorio prendendo in mano le redini del comando, riservandosi un ruolo di supervisore, una sorta di “saggio” a cui erano tenuti a dar conti i “delegati” alla direzione sul territorio, Salvatore Mulé a San Giuseppe Jato e Giuseppe Speciale, genero di Vito Vitale, a Partinico. Un riassetto necessario nel cuore della Sicilia Occidentale che riveste una grande importanza, soprattutto economica, all'interno di Cosa Nostra. E in cinque mesi il nuovo mandamento diventa realtà. Il primo intervento è stato proprio quello di dare una nuova collocazione alle famigie mafiose di Monreale ed Altofonte, transitate nel frattempo sotto Villagrazia e Santa Maria di Gesù di Palermo. Lo stesso è valso per quelle di Montelepre e Girdinello, in quel periodo subordinate a San Giuseppe Jato rispetto all’assetto tradizionale nel mandamento di Partinico. A parlarne gli stessi boss in un'intercettazione ambientale in cui veniva evidenziato il ruolo apicale di Sciortino, appena pochi giorni dopo la scarcerazione. “I tempi cambiano” diceva Giuseppe Libranti, esponente della famiglia mafiosa di Monreale, al cugino Francesco Vassallo. E riferito a Sciortino raccontava: “ha fatto tre ore sempre a discutere lui, no però... come discutiamo noialtri!Non ti dico quando ha finito il discorso metteva l'accento, ma ti faceva capire che già là era finito e ne iniziava un'altro, finiva e ne iniziava un'altro, finiva e ne iniziava un altro!... Un cretino solo non poteva capire... tu vedi … quattro, cinque, quanti minchia erano, nessuno ha parlato!... (ride) no... passiamo al cambio, cominciava e finiva, cominciava un'altro e finiva... dalle dieci all'una e un quarto, l'una e venti che erano là... l'una e mezza, una cosa di questa!”.

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Per riorganizzarsi Cosa Nostra non aveva lasciato nulla al caso ed anzi aveva puntato ancora una volta sulla forte tradizione, come la “punciuta”, con cui venivano affiliate le nuove reclute. Una mafia che, oltre a fare affari (in particolare estorsioni e controllo nella gestione dei confini delle terre), non aveva neanche paura di tornare ad uccidere. Tra gli elementi raccolti anche un caso di “lupara bianca” con tanto di frase registrata dalle microspie degli inquirenti (“Pigliami due, tre lacci. Due tre lacci puliti prendimi”). E sarebbero stati quelli i lacci utilizzatti per uccidere Giuseppe Billitterri, scomparsi mesi fa dopo che, è l'ipotesi degli inquirenti, si era messo di traverso all'azione del nuovo capomafia. Il rapporto mafia-politica Affari, racket e appalti. Cosa nostra riparte e come sempre non manca il legame con la politica. Tra gli arrestati spicca il nome del sindaco di Montelepre, il paese noto ai più per aver dato i natali al bandito Salvatore Giuliano, Giacomo Tinervia, ex Grande Sud di Micciché, alle ultime regionali siciliane candidato con Fli. L'accusa contro di lui è di estorsione e concussione e ad incastrarlo vi sarebbero le intercettazioni. Gli inquirenti, che seguivano i passi del capomafaia del paese Giuseppe Lombardo, hanno registrato un dialogo in cui il boss ha raccontato un episodio riguardante una mazzetta intascata dallo stesso sindaco. “Che è Giacomino? Quanto ti sei fottuto? - ricordava - Minchia ma io… Quanto ti sei fottuto tu? Dice, ma che c’entra. Giacomino, allora non lo hai capito, quanto ti sei fottuto tu? Giusè, dice, che in tutto il lavoro mi può dare sei, settemila euro? Ah, lo hai messo a posto tu? Ma che c’entra, io poi te li facevo avere. Giacomino, me li facevi avere che? Gli ho detto, duemila euro? Dice,


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quelli che restavano. Quelli che restavano? Gli ho detto, ventimila euro voglio”. E dopo quell'incontro il sindaco avrebbe fatto da intermediario con l’imprenditore, per non scontentare Cosa nostra, che dovette così pagare 20mila euro come “pizzo”. Soldi che si erano aggiunti ai 7mila euro già intascati dal primo cittadino. Ma i legami con la politica si sviluppano anche nel piccolo comune di Giardinello con i boss che festeggiano l'elezione a sindaco di Giovanni Geloso. “Vedi che noialtri abbiamo fatto un figurone. Il botto noialtri lo abbiamo fatto, no loro” commenta al telefono con la propria amante il capomafia Giuseppe Abbate. Un capomafia, sì, strafottente e sicuro di sé tanto da lasciare più volte il telefono aperto con la sua donna, mentre parlava con i propri sodali o con alcuni politici locali. Come quando il boss rimproverò il consigliere comunale Vito Donato perchè aveva discusso dello spostamento di un candidato da una lista all'altra senza interpellarlo: “Vedi che si muore Vitù, la politica non si fa così, la politica noialtri la dobbiamo fare giusta, precisa”. In un altro dialogo con l'amante commentava poi la richiesta di aiuto di un altro candidato sindaco, Marcello Bommarito, mentre il primo cittadino uscente di Giardinello, Salvatore Polizzi, chiese aiuto per il figlio, candidato consigliere. Nell'operazione è stata anche sequestrata una impresa edile, riconducibile a Lucido Libranti, che ha permesso alla famiglia di far muovere grossi flussi economici, garantendo il monopolio degli appalti in tutto il territorio monrealese e l'assunzione di personale indicato nelle altre imprese. Come se non bastasse, secondo quanto emerso dalle intercettazioni, fra le azioni promosse dalla cosca ci sarebbero anche quattro distinti furti di bestiame. Altro elemento importante raccolto durante le indagini è il legame sempre vivo con la mafia statuintense. Per ammettere

nei suoi ranghi un nuovo membro la famiglia mafiosa Gambino di New York pretendeva garanzie scritte dalle cosche siciliane. Così uno degli arrestati, Salvatore Lombardo, che da 20 anni viveva in America, era tornato in Italia con una lettera dei Gambino che chiedevano per iscritto alle famiglie palermitane garanzie sulla qualità di uomo d'onore di Lombardo e la conferma che questi fosse stato messo fuori dalla “famiglia” di Montelepre, requisito minimo per poter esser affiliato formalmente negli Usa. Prima di rispondere a tale lettera, Lombardo si è visto costretto a recarsi da Salvatore Mulè, l'unico che sul momento avrebbe potuto "certificare" tale autorizzazione. Secondo il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo l'operazione “dimostra la perdurante presa di Cosa nostra sulle strutture politiche locali” e “conferma lo spiccatissimo interesse per le strutture comunali da cui può controllare gli appalti”. Inoltre l’indagine è “molto importante perché conferma la fortissima aspirazione di Cosa nostra ad accrescere la sua presa sul territorio, con l'intento dei boss di riorganizzare le strutture territoriali con l’eliminazione di due mandamenti: San Giuseppe Jato e Partinico, per formarne uno solo, Camporeale, cioè un Super Mandamento, questo per rafforzare le periferie rispetto al centro”. E proprio quest'ultimo aspetto non è da sottovalutare. Sono gli stessi boss Salvatore Mulé e Giuseppe Lo Voi, in un'intercettazione del marzo 2012, a sottolineare la forza della fusione: “Eh? Si… che questi sono passati qua… una potenza di questa maniera non c’è stata mai – dicono Io non é che sono minchia che non ho capito che Partinico è passato a San Giuseppe!”. Segno di una nuova scalata al potere della Provincia verso Palermo? Indagini sono in corso, anche se gli stessi inquirenti non smentiscono che vi siano stati contatti.

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“L'uomo di garanzia, l'unico a garantire i segreti”

Messina-Denaro in libertà L'indagine sul mandamento di Camporeale, a quanto è dato sapere, non presenta particolari elementi a indicare contatti tra il “saggio” Sciortino e il superlatitante trapanese Matteo Messina Denaro. Ma appare improbabile che il boss di Castelvetrano fosse all'oscuro di questa operazione di riorganizzazione. Le operazioni degli ultimi anni, “Perseo” nel 2008 ed “Araba Fenice” del 2011 (quella del summit mafioso a Villa Pensabene nel mandamento di San Lorenzo-Tommaso Natale), hanno dimostrato come siano le stesse famiglie palermitane a ricercare il parere della Provincie, in particolare proprio quella trapanese. Messina Denaro non rappresenta solo “l'ultimo padrino” in libertà. E' dei giorni scorsi la denuncia rivelazione dell'attuale caposcorta di Di Matteo, il maresciallo Masi, che ha parlato di indagini bloccate o intralciate tra il 2001 e il 2007 nel tentativo di catturare prima Bernardo Provenzano (arrestato nel 2006) e poi lo stesso boss di Castelvetrano. E' lui l'uomo di garanzia, capace di unire davvero le famiglie siciliane, a cui ci si affida per un parere ma anche per avere la “benedizione” sull'operato. Arrestati uno dopo l'altro Riina, Bagarella, Provenzano ed i Lo Piccolo, è sul boss trapanese che gravita la “guida” di Cosa nostra. Matteo Messina Denaro, custode di segreti inimmaginabili, è pronto a far suonare nuovamente il suono delle bombe nche ad uccidere i magistrati. L'avvertimento ricevuto da un “anonimo” da parte del pm della trattativa Nino Di Matteo, non lascia dubbi: “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. Cosa Nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d'accordo”.


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Partinico

Cronistoria di fuoco Fra Borgetto e Partinico – tradizionali domini di Cosa Nostra – trent' anni di guerra mafiosa per il controllo del territorio. La risposta della società civile di Pino Maniaci e Salvo Ognibene www.telejato.globalist.it

Mentre Giuseppe Giambrone detto “U Stagnalisi” e Nicolò Salto da alcuni chiamato “Lazzaro” continuano a passeggiare per le vie del paese e le istituzioni portano con successo a termine l’operazione “Nuovo Mandamento” sgominando l’organizzazione criminale del nostro comprensorio in fase di costituzione e riportando nella patrie galere alcuni presunti affiliati. Noi di TeleJato continuiamo instancabilmente a chiedere agli imprenditori di Borgetto, Partinico ed altri paesi del comprensorio di non cedere ai ricatti della mafia, di non pagare il pizzo e soprattutto di denunciare ogni forma di estorsione alle forze dell’ordine. Agli imprenditori che continuano a pagare il pizzo, che partecipano negli appalti seguendo il protocollo di legalità “Accordo quadro Carlo Alberto Dalla Chiesa” stipulato il 12 luglio 2005 fra la Regione siciliana, il Ministero dell’interno, le Prefetture dell’Isola, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, l’INPS e l’INAIL, in cui si impegnano a collaborare con le

forze di polizia, denunciando ogni tentativo di estorsione, intimidazione o condizionamento di natura criminale) chiediamo di denunciare, chi denuncia non è solo, noi di Telejato, insieme alle Associazioni Antiracket ed Antiusura Liber Jato, Libero Futuro e Addio Pizzo, siamo sempre pronti ad accompagnare in Questura e dai Carabinieri chi denuncia un estorsore, noi siamo disposti anche a firmare insieme alla vittime le denunce come accompagnatori solidali. Ai mafiosi diciamo che non abbiamo paura, ai mafiosi chiediamo di pentirsi e raccontare tutto il loro passato alle istituzioni, in particolar modo di far luce sugli omicidi del passato, al fine di far ritrovare i cadaveri delle persone scomparse nel tempo con il metodo della lupara bianca . Ma facciamo una cronistoria di tutti gli omicidi di mafia commessi tra Borgetto e Partinico a partire dal 1984. Lupara bianca a Borgetto Nel 1984 venne inghiottito dalla lupara bianca a Borgetto, Francesco Zuccarello, un giovane pregiudicato, di Borgetto, l’ultima persona che lo vide vivo, fu Vito Giambrone (fratello di Giuseppe Giambrone detto “U Stagnatisi”), Zuccarello infatti sali sulla sua auto e nessuno ebbe più notizie di lui. Per quella vicenda Vito Giambrone venne indagato nell’ambito della prima maxi inchiesta sulla mafia, assieme ad altri quaranta indagati indiziati ma in corte d’Assisi venne assolto per insufficienza di prove. Successivamente il Pentito Giovanni Mazzola di Montelepre lo tirò nuovamente in ballo, ma Vito Giambrone evitò l’arresto perchè per i fatti narrati dal collaboratore di giustizia era già stato assolto in via definitiva. Nel 1991 venne inghiottito dalla lupara bianca a Borgetto, Giuseppe Badalà di 34 anni, i giornali dell’epoca scrissero che

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non era un mafioso ma frequentava persone vicine all’organizzazione. Un giovane assessore che in pochi anni aveva accumulato un bel po’ di denaro, un’auto di lusso e appartamenti alle porte di Borgetto. La famiglia sporse denuncia dopo 48 ore. Il corpo non venne mai ritrovato. Corpo mai ritrovato Nel 1998 venne ucciso Salvatore Riina (omonimo del boss di Corleone), esecutori materiali del delitto, furono Michele Seidita e Francesco Salvatore Pezzino, che sparò a Riina, con una calibro 38 che Giusi Vitale consegnò al killer insieme con una bicicletta che servì a Pezzino, vestito con una tuta da ciclista con tanto di guanti bucati, per recarsi verso l’ abitazione della vittima che fu uccisa nel garage. «Chiesi a Pezzino e a Seidita – disse Giusi Vitale se preferivano una 7.65 o una calibro 38. Pezzino mi rispose che gli avrebbe fatto piacere usare una calibro 38 perchè la 7.65 poteva incepparsi». La pistola venne procurata dalla stessa Vitale . «La consegnai a Seidita, che poi la dette a Pezzino – dichiarò al processo Giusi Vitale ai Pm della Dda di Palermo, Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene – e andammo insieme nel mio garage dove recuperai anche la bicicletta. La pistola era nascosta in un soppalco tra la biancheria del mio bambino». Giusi Vitale all’epoca rese la testimonianza mentre era in collegamento il fratello, che l’ha ripudiò dopo essere venuto a conoscenza della sua collaborazione con la magistratura. «L’ordine di ucciderlo mi era stato dato da mio fratello durante un colloquio in carcere – disse la Vitale che scelse di pentirsi e collaborare per amore dei figli – Riina era vicino a Provenzano ed in paese (a Partinico) stava spargendo la voce che i Vitale non li rappresentava più nessuno.


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La cosa, mi disse Leonardo, andava fatta altrimenti quelli l’avrebbero fatta a noi». “O lo fate o lo facciamo a voi” Nel 1998 in via Crocifisso a Borgetto venne ucciso Vito Giambrone (fratello di Giuseppe Giambrone detto “U Stagnalisi”) mentre usciva dalla carnezzeria Riina, lui non si accorse di nulla, i colpi gli furono sparati alla schiena ed il colpo di grazia alla tempia, il fratello Giuseppe era stato arrestato insieme a Vito Vitale qualche mese prima, e gli inquirenti ipotizzarono che Vito fu punito con la morte poiché voleva prendere il comando del paese in accordo con la famiglia dei Nania. Nel 1999 Francesco Paolo Alduino (in contrasto con il clan Vitale-Fardazza) e Roberto Rossello persero la vita all’interno del forno che gestivano, Salvatore Bagliesi aveva pedinato le vittime avvisando il gruppo di fuoco della loro posizione. A far fuoco con il fucile era stato Michele Sedita che successivamente divenne collaboratore di Giustizia. Salvatore Bagliesi dopo anni di latitanza venne arrestato a Partinico in via delle Capre nel 2009. Nel 2002 scomparve a Partinico, il meccanico Antonino Vitale. Si pensò da subito ad un omicidio per lupara bianca” perché la sua auto venne ritrovata bruciata. Vitale era stato arrestato per favoreggiamento nel ’98 (ma successivamente scagionato) perché era l ‘affittuario di una casa di campagna dove erano stati trovati i due latitanti, Nicolò Salto, considerato il braccio destro del capomafia Vito Vitale, e Giuseppe Lo Bianco, ricercato per un omicidio. Il corpo non è stato mai ritrovato. Nel 2005, il 24 di giugno, venne ucciso Mario Rappa, Imprenditore ed affiliato alla famiglia dei Vitale, I killers gli tesero un agguato in aperta campagna, freddan-

dolo con diversi colpi di pistola.. Il corpo venne rinvenuto a Grisì, nel territorio di Monreale. Nel 2005 venne ucciso a Partinico Maurizio Lo Iacono, figlio del capomafia Francesco in carcere da diverso tempo. Un solo colpo mortale giunse a bersaglio, solo dopo essere rimbalzato sulla portiera dell’auto da cui la vittima stava scendendo. L’ucciso era sorvegliato speciale sotto processo per associazione mafiosa Ex uomo di fiducia del capomafia Vito Vitale, dopo l’arresto di quest’ultimo si sarebbe alleato a Bernardo Provenzano. Gli inquirenti ipotizzarono che l’omicidio fu ordinato da Mimmo Raccuglia, alleato dei Vitale, che avrebbe così voluto dare un avvertimento a Provenzano e una risposta all”uccisione di Mario Rappa, del clan Vitale, ucciso a giugno dello stesso anno. Una fucilata al viso Nel 2007, il 19 maggio, scomparve Antonino Frisella, meccanico, alcuni giorni dopo in contrada Cicala a Partinico, un agricoltore ritrovò l’autovettura della vittima interamente bruciata. Il corpo non è mai stato ritrovato. Nel 2007, Giuseppe Lo Baido, venne ucciso da alcuni sicari che lo attendevano nei pressi dell’abitazione di proprietà nel territorio Partinico e, dopo avergli aperto lo sportello dell’auto dallo stesso guidata, gli spararono diversi colpi di pistola a bruciapelo. Venne freddato con un colpo di fucile in viso. Nel 2007, Antonino Giambrone, figlio di Vito Giambrone ucciso nel 1998, e nipote del odierno boss del paese Giuseppe Giambrone detto “U Stagnalisi” venne ammazzato all’interno dell’officina da lui gestita all’entrata di Borgetto, i killers a bordo di uno scooter con il volto coperto

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da casco, fecero irruzione nell’officina sorprendendolo ed attingendolo con 11 colpi di pistola di cui 4 colpi al viso. Nel 2008, due killers sorpresero i due fratelli Giuseppe e Gianpaolo Riina vicino ad un Bar, a bordo di motocicletta e con il volto coperto e gli spararono diversi colpi di pistola esplosi a bruciapelo, nonostante un disperato tentativo di fuga da parte di entrambe le vittime. Giuseppe e Gianpaolo Riina erano figli di Salvatore Riina (omonimo del boss di Corleone Totò Riina) ucciso nel 1998 da Michele Sedita e Francesco Paolo Pezzino Nel 2008. Alcuni killer Tentarono di uccidere Nicolò Salto, odierno boss del paese. I killers lo attesero nei pressi della propria abitazione ubicata in Borgetto in contrada Carrubbella e, dopo essere entrati dal piazzale antistante, gli spararono 4 colpi di pistola, di cui tre esplosi da un revolver, ferendolo gravemente. Ogniqualvolta viene effettuata una retata dai carabinieri, giovani leve di mafia cercano di riorganizzarsi. A loro noi di TeleJato vogliamo dire le seguenti parole: “Nun è strata chi spunta”. La mafia vi usa a suo piacimento e poi quando vi arrestano e buttano la chiave, nessuno vi pagherà l’avvocato, nessuno darà i soldi alle vostre famiglie per campare, sarete abbandonati e le vostre famiglie finiranno in mezzo ad una strada. “Nun è strata chi spunta” Oggi siamo sempre più convinti che la mafia è destinata a scomparire, la gente non ha più paura di denunciare, ed imprenditori una volta collusi hanno saltato la barricata passando dall’illegalità alla legalità iscrivendosi anche alle nascenti associazioni antiracket. Noi di TeleJato denunciamo e denunceremo sempre ogni forma d’illegalità.


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Bruciata l’auto al sindaco anti-discarica Da anni Mario Foti, sindaco di Furnari nel messinese, è impegnato contro gli abusi e gli effetti della vicina discarica di Mazzarrà Sant’Andrea e gli interessi criminali legati al ciclo dei rifiuti di Carmelo Catania

Pochi giorni prima aveva avuto sentore di un possibile attentato ai suoi danni (da una “strana” conversazione tra due persone casualmente ascoltata da una sua parente) e per sicurezza, aveva fatto installare diverse telecamere attorno alla sua abitazione e chiesto un intervento anche dei carabinieri per monitorare gli spostamenti sul territorio. I responsabili – tre giovani del luogo poco più che ventenni – sono stati subito individuati dai carabinieri proprio grazie alle riprese delle telecamere e alle dichiarazioni del sindaco e dei suoi familiari. Atto vandalico di balordi, o esecutori su mandato altrui? Ha colto nel segno Foti nel sostenere che sono state le sue denunce contro la discarica a scatenare la rappresaglia di certi ambienti criminali? C’entra la discarica?

«Da mesi subisco delle minacce per le mie denunce contro gli affari delle cosche che ruotano attorno alla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea che si trova vicino al mio comune». È la spiegazione che Mario Foti, avvocato, sindaco di Furnari nel messinese si dà per l’attentato incendiario che ha distrutto la notte del 16 aprile l’autovettura che utilizzava per i suoi spostamenti.

Una battaglia – quella contro la discarica e i connessi impianti industriali per i trattamento dei rifiuti attualmente in costruzione – che Mario Foti, porta avanti da tempo, ancora prima dell'elezione. Grazie anche alle sue denunce, la procura di Barcellona P.G. ha attivato diverse indagini sulla discarica riscontrando numerose anomalie gestionali e attualmente sono sotto processo l’attuale amministratore delegato di Tirrenoambiente Pino Innocenti e l’ex presidente della stessa società Nello Giambò – condannato in primo grado a 14 anni per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Vivaio alla mafia delle discariche. Al centro delle inchieste penali sono fi-

SCHEDA MARIO FOTI Mario Foti, 57 anni, avvocato, dal 1984 al 1997 ha ricoperto la carica di consigliere comunale e anche di Presidente del Civico consesso furnarese. È stato eletto sindaco nelle elezioni amministrative indette anticipatamente nel novembre del 2011 dopo 18 mesi di commissariamento seguiti allo scioglimento per infiltrazione mafiosa degli organi amministrativi del Comune di Furnari nel dicembre del 2009. Tra il 2008 e il 2010, le indagini condotte dal Ros e dalla Dda di Messina – da cui sono scaturiti i procedimenti denominati “Vivaio” e “Torrente” – in particolare le intercettazioni telefoniche ed ambientali, hanno dimostrato un pesante condizionamento del voto esercitato dal clan dei Mazzarroti sulle elezioni

nite anche le strane modalità attraverso cui la Tirrenoambiente ha ottenuto le autorizzazioni a costruire l'impianto di produzione di energia elettrica dalla combustione di biogas – sequestrato dalla magistratura – e l'impianto fotovoltaico. “Difendo la salute dei furnaresi” Un’opposizione a tutto campo e in tutte le sedi istituzionali. Lo scorso 7 dicembre due sentenze del Tar di Catania – accogliendo il ricorso di alcuni privati cittadini furnaresi – hanno annullato i due decreti regionali del 2009 con i quali si consentiva lʼampliamento della discarica, la realizzazione di un impianto di biostabilizzazione e quindi l’esercizio dell’attività di smaltimento rifiuti. Per i giudici amministrativi «Non è stato valutato, secondo le previsione di legge, lʼimpatto sulle popolazioni vicine dei cattivi odori. Non si è considerato che a pochi passi dalla discarica di Mazzarà esiste lʼabitato di Furnari». I “vizi formali” Il Cga di Palermo – in attesa di pronunciarsi sul merito – ha intanto accolto il ricorso di Tirrenoambiente e sospeso l’immediata esecutività delle sentenze. Ha prevalso la tesi, sostenuta dai legali di Tirrenoambiente, che deve prevalere l'interesse generale su eventuali vizi formali in quanto la discarica ha una funzione di pubblico servizio nelle emergenze igienico sanitarie di ben 78 comuni siciliani.

amministrative nel Comune di Furnari nel maggio 2007, con una serie di appoggi elettorali che sarebbero stati messi in atto a favore del candidato Salvatore Lopes e a danno di Foti, sconfitto per soli 17 voti. Lopes una volta eletto avrebbe poi ricambiato gli esponenti del clan dando appalti per lavori pubblici e concessioni per l’apertura di attività commerciali. Il “patto” prevedeva la spartizione tra le imprese “amiche” delle somme urgenze affidate dopo l’alluvione del dicembre 2008 nei Comuni di Mazzarrà Sant’Andrea e Furnari. L’operazione Torrente, portò nel 2010 all’arresto anche dell’ex sindaco furnarese Lopes, attualmente imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’omonimo processo in corso presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto (Me) dove Foti oltre ad essersi costituito parte civile è anche uno dei principali testi dell’accusa.

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Sicilia

Antimafia in una piccola città Il sindaco si sta inoltre opponendo al progetto della stessa società (in fase di approvazione presso l’Arta) di ampliamento e completamento di un impianto di smaltimento dei percolati da discarica, ritenuto pericoloso per la salute «considerato che in quel luogo, a meno di 300 metri, esiste una riserva idrica protetta, i pozzi del Comune di Furnari utilizzati per il consumo umano e a circa un chilometro il mare con porti e strutture turistiche ed alberghiere». Un episodio a sé o una strategia? È legato all’attività amministrativa del sindaco – sembra che gli inquirenti stiano indagando in tal senso – oppure c’è un filo rosso che lega l’attentato a Foti con gli altri gravissimi episodi che in poche settimane hanno colpito un maresciallo dei Carabinieri della Compagnia di Barcellona, il cronista della Gazzetta del Sud, Leonardo Orlando, l’imprenditore barcellonese Coppolino proprietario degli storici Magazzini Lea, ed un altro sindaco della zona tirrenica, Alessandro Portaro primo cittadino di Castroreale? Un “colpo di coda” dei “Barcellonesi” i cui vertici sono stati decapitati dalle ultime operazioni antimafia e dalle defezioni di alcuni dei principali esponenti del suo “gotha” che hanno deciso di collaborare con la giustizia? Di certo è inquietante la recrudescenza degli atti criminali ed intimidatori indice che sono saltati gli equilibri nel barcellonese. Per l’associazione antimafie “Rita Atria” «l’attentato intimidatorio che ha distrutto i “Magazzini Lea” di Barcellona certifica che siamo in “guerra”. Una guerra condotta a colpi di pistola, teste mozzate di animali, auto bruciate e, ora, l’incendio di ben quattro piani di un magazzino storico. Una “guerra” dichiarata da una criminalità organizzata che, persi, almeno momentaneamente, i propri riferimenti storici, tenta di riprendersi il territorio con il terrore».

A Falcone, non lontano da Furnari, intanto... di Rossana Chillemi «Micciché dice è stato un errore intitolare l'aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, perché chi arriva in Sicilia si ricorda di essere in terra di mafia… No! Si ricorda piuttosto di essere in terra di antimafia!». La manifestazione “Venti di legalità democratica”, organizzata dall'associazione Un’altra storia a Falcone, piccolo centro della Messina tirrenica, è stata l’occasione di parlare dell’antimafia che parte dalla società civile e non più chiusa dietro le mura dei tribunali, un’azione sociale con cui ogni cittadino può eliminare dalla propria vita la minaccia del potere mafioso.. Le due facce della mafia «La mafia ha due facce - dice Santo Laganà dell’Associazione Rita Atria - Quella impresentabile dei vari boss che si sono resi famosi per una serie di omicidi, e quella presentabile di coloro che frequentano i salotti borghesi. E' qui che occorre colpire: negli ambiti della politica, locale o nazionale, della finanza, nei settori che con le loro scelte condizionano la società. Se la mafia è questa, l'antimafia non può solo essere fatta di cortei, slogan o ricordi. È antimafia l’azione di denuncia verso i mafiosi, ma soprattutto verso i loro compari che non sono indicati come mafiosi dalla Giustizia». Oggi la denuncia non è più una questione di coraggio, ma forse d’intelligenza e ne è la prova l’esperienza di Giuseppe Scandurra, un imprenditore che ha reagito e che ne ha trascinato con sé altri, tessendo un percorso di reazione per chi li seguirà. «La risposta dello Stato deve essere sicuramente migliorata, però è anche vero che c’è gente che di fronte all’uccisione di un genitore non collabora, ma di fronte alla confisca di un bene, al sequestro di un

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bene decide di farlo. Anche noi dobbiamo collaborare affinché si cambi». Cambiare è possibile, basta evitare la zona grigia, quella in cui tutti sono complici ma nessuno appare esserlo, affiancando alla necessità di una politica trasparente quella di una collaborazione attiva della società, che deve avvenire attraverso un approccio culturale nuovo e la mobilitazione di idee, penetrando nelle coscienze della gente, indignandosi di fronte a chi fa affari con soggetti dalle posizioni discutibili, boicottando l'economia del malaffare. Azioni semplici ma efficaci se rese concrete da tutti e da ogni singolo cittadino. Semplici azioni da buon cittadino «Non sono obbligato ad entrare in quel negozio se so che il titolare è in odor di mafia, c è tanta altra scelta, basta prendere le distanze, scegliere da che parte stare». Non si può in ogni caso chiudere gli occhi di fronte al passato; questo nuovo vento di speranza che si respira innegabilmente, è sicuramente importante ma è la memoria, la capacità di ricordare che deve insegnare – soprattutto ai giovani – che il ricordo non può essere il confine ultimo di ciò che è stato. Ricordare sempre, parlarne, senza paura, come la madre di Attilio Manca: «Parlare di mafia non era possibile fino a qualche anno fa a Barcellona P.G. ma oggi, possiamo dire che le tre C, mi riferisco a Cassata, Canali e Cattafi, sono state estirpate e Barcellona ora è più libera». Un grande insegnamento la nostra società ha da percepire, un antidoto a questa cappa irrespirabile: il ricordo delle stragi, delle vittime cadute per mano mafiosa, la memoria che diventa maestra di una società malata e soggiogata dalle logiche dell’omertà e della connivenza, ma soprattutto il dovere che essa ha di risvegliarsi, d’ indignarsi, e di compiere l'abbraccio ad una legalità che parte dal basso, dalla coscienza dei cittadini, in un terra che per troppo tempo ha sopportato il fardello di essere conosciuta come terra di mafia.


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Periferie/ Istanbul

Le guerre ”diverse” Parla un giovane curdo, che non può dire il suo nome. Parla di vite martoriate dalla violenza. In nome di un razzismo – turchi contro curdi – che forse è solo l'etichetta di un conflitto fra emarginazione e potere. Come qui da noi, nei nostri ghetti di Alessandro Romeo e Giovanni Caruso www.associazionegapa.org

“Spiegherò i problemi che il popolo Curdo ha qui in Turchia. Voglio parlare prima di tutto del passato e di come siamo arrivati a questa situazione. Quando guardiamo indietro vediamo i Curdi sotto una continua oppressione. La loro identità non riconosciuta”. Ci vuole parlare Halil della sua gente, quando diciamo di essere italiani, di essere interessati alle vicende curde è lui a chiederci di essere di ascoltato, vuole rilasciare un’intervista “politica”. “Il Governo cominciò una politica fascista discriminatoria. A causa di ciò molti giovani Curdi furono imprigionati e torturati. Questo diventò motivo per molti di spostarsi sulle montagne in gruppi e da lì combattere per mettere fine a questa tortura ed oppressione verso il proprio popolo. Cominciarono un offesa militare nominandosi partito PKK "Partiya Karkeren Kurdistan”, che in Turco significa Partito dei lavoratori Curdi”. Un'intervista “politica” Come hai detto molti giovani hanno deci-

Le vie strette, i bambini che giocano in strada e gli anziani nei bar, le piccole botteghe colorate, le strade un po sporche animate da quella parte della società legata a lavori umili, alle scelte obbligate o precluse. Periferie. Halil è un giovane universitario, ha vent'anni poco più e tante idee in testa, come ogni suo coetaneo ha il sogno e la volontà di cambiare se non il mondo almeno il suo mondo. Halil vive la sua periferia due volte, in quanto circoscritta ad una zona vecchia e povera della città (ma piena di bellezza e di storia, come spesso accade anche nelle nostre “periferie del centro”), ed in quanto periferia dei diritti dei popoli. Perché Halil vive e studia ad Istanbul ed e’ di etnia curda, che in Turchia significa appartenere non solo una minoranza, ma ad una cultura in ostaggio.

so di nascondersi sulle montagne del Kurdistan per iniziare una resistenza partigiana. Quali ideali hanno portato ad una decisione cosi’ difficile?

“Il PKK cominciò l'offesa militare per liberare il proprio popolo, per la propria identità. Molte persone persero la vita. Curdi e Turchi morirono in questa guerra. Ma essendo una guerra, le persone muoiono da entrambe le parti. Il motivo di tutto questo è che i fascisti Turchi non vogliono accettare e riconoscere il popolo Curdo. Ma i Curdi arrivano dalla Mesopotamia, dalla loro terra. I Turchi vi hanno allargato i loro confini e colonizzato i Curdi che non accettano questa sottomissione e decidono di resistergli”. Credi che oggi, dopo tutte le morti da entrambe le parti, abbia ancora senso una resistenza militare?

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“L'offesa militare non ha perso la sua importanza anche se i Curdi cercano di ottenere i loro diritti legalmente, democraticamente, lavorando anche diplomaticamente. Come fanno? Cominciarono in Turchia con il loro partito politico, prima HADEP, poi DTP ed oggi BDP. HADEP e DTP furono chiusi a causa delle oppressioni fasciste turche. Molte persone furono imprigionate, torturate ed alcune persero la vita. Ma nonostante tutto, oggi i Curdi sono più organizzati ed ancora continuano a combattere per i loro diritti in maniera diplomatica”. Cosa impedisce allora di trovare un punto di incontro, di pace, tra il popolo curdo e quello turco?

“In migliaia hanno perso la vita. Per questo motivo, Curdi e Turchi oggi vogliono la pace. Ma alcuni non vogliono che questa pace avvenga. Forse è l'Iran o la Syria. Tre donne attiviste del PKK sono state uccise [il 10 Gennaio nei locali dell’Istituto curdo di Parigi], un massacro. Può essere stata la mano Turca, o Iraniana o Siriana. I Curdi oggi sono molti e organizzati e vivendo anche in questi paesi c'è la paura che possano muoversi bene anche lì. Può essere che il massacro delle tre attiviste sia stato fatto per prevenire questa pace. Noi Curdi la vogliamo la pace, e credo che anche i Turchi la vogliono. Sono sicuro che arriverà presto e che vivremo pacificamente insieme”. “Un giorno vivremo in pace insieme” La libertà di un popolo passa sicuramente dalla sua capacita’ di avere dei figli istruiti. Tu hai deciso di non limitarti al liceo e iscriverti all’università’.

“Essere uno studente è difficile perché studiare è possibile solo se hai soldi. Ciò crea ingiustizie e disuguaglianze. Una famiglia che lavora regolarmente non può educare i suoi figli come vorrebbe.


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“Territori militarmente occupati: il Kurdistan o un quartiere siciliano. Da un esercito in divisa oppure da un potere mafioso”

Nella civile Italia, invece... Quindi alcuni di loro interrompono lo studio per il lavoro, mentre quelli che continuano a studiare non riescono ad ottenere a scuola i loro diritti. I bambini di famiglia burjuva possono frequentare qualsiasi università vogliano, anche se non studiano, perché queste sono private. Gli studenti devono indossare un solo tipo di uniforme. Non siamo contro le uniformi ma vengono imposte come se fossero militari. In alcune università c'è la polizia che non vuole che gli studenti abbiano una propria visione ideologica e quindi li opprimono”. Polizia nelle università E della condizione delle donne curde cosa puoi dirci?

“In Turchia le donne Turche e Curde hanno gli stessi problemi. Ma con una leggera differenza per le donne Curde. I loro figli sono stati perseguitati e le "Madri del Sabato", come le chiamiamo noi, sono madri che cercano i loro figli dispersi. In linea generale l'uomo predomina sulla donna. Accade che le donne non possano camminare da sole in strada e che gli uomini irrompono in ogni parte della vita di una donna, limitandone i diritti”. In Turchia parlare della situazione curda può essere pericoloso, perciò hai chiesto di non essere ripreso per timore di rappresaglie della polizia. Hai voluto invece essere rappresentato da un quadro con un fiore.

“Il colore del fiore è rosso, verde e giallo. Fatto artigianalmente da un amico in prigione, i colori simboleggiano la bandiera Curda. Noi lo guardiamo come un fiore che si apre alla libertà”.

Via delle Salette, quartiere di San Cristoforo, Catania. Un vento primaverile spazza le strade e svuota i cassonetti stracolmi per via dello sciopero dei netturbini, accanto a questi un uomo e una donna anziani litigano: “stu cassunettu è do me!” l’altro risponde: “No, arrivai prima iù!” Si, litigano perché la miseria e la povertà li ha portati a questo punto, sono armati di due bastoni con uncini e con questi rovistano i cassonetti, chissà o per cercare qualcosa da poter vendere, o semplicemente per cercare qualcosa da mangiare. Certo è strano che a Catania in Sicilia, in Italia, fra gli otto paesi più ricchi del mondo si possa assistere a queste scene. “Mi chiamo Cettina, sono già una donna matura, quasi anziana e da tanti anni lavoro presso un’organizzazione religiosa, come donna delle pulizie, e dai preti non me l’aspettavo che mi sfruttassero! Infatti è da diversi mesi che mi danno sempre meno lavoro e nelle ore che mi rimangono mi fanno lavorare anche di più. Ho paura, ogni settimana mi dicono di ridurre i giorni di lavoro, ho paura che mi vogliano licenziare, cosa farò? Come andrò avanti con un figlio che non riesce a trovare lavoro?” “Non riesce a trovare lavoro” “Ho sedici anni e mi chiamo F. ho tanta voglia di fare un regalo alla mia ragazza, ho tentato di trovare un lavoro e l’ho trovato, mi danno venti euro alla settimana per scaricare i camion pieni di confezioni d’acqua, mi ammazzo di fatica e a causa di questo non vado più a scuola, anche perché la scuola non mi piace più, non mi dà più niente!

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Mi hanno proposto di “iri a’ spacciari, mi dissuru ca si vadagna bonu, a’ cosa m’interessa, accussì ci possu fari u rialu a’ me carusa, i me cumpagni mi dissuru di stari attentu, picchi a galera è brutta e su dicuni iddi ca’ l’hannu pruvatu, fossi è veru!” Questi frammenti di storia vissute nel quartiere di San Cristoforo a prima vista possono non essere paragonate alla storia di Halil ragazzo curdo che vive in Turchia? Certo a San Cristoforo non c’è la guerra, almeno quella guerreggiata, ma esiste la guerra “a bassa intensità”. Una guerra “a bassa intensità” L’esercito turco che opprime con le armi il popolo curdo potrebbe essere la mano armata delle mafie o la mala politica che ti toglie il diritto di avere diritti, togliendoti le scuole senza possibilità di futuro, che ti compra un voto “per un pacco di pasta”. Un potere politico e mafioso che speculando sulla povertà dei quartieri fa in modo di organizzare “un’economia mafiosa” che costringe intere famiglie a vendere droga. Famiglie che durante la notte subiscono le irruzioni armate dentro casa da parte delle forze dell’ordine che cercano gli stupefacenti, unica risorsa per guadagnare quel tanto per vivere la giornata, perché quelli che guadagnano veramente sono i pusher e le cosche mafiose del quartiere. Certo, diversi anni fa anche qui c’era una guerra guerreggiata e i morti ammazzati erano a decine sui selciati delle strade di San Cristoforo, adesso non si spara più per uccidere ma la guerra esiste ancora, così come non esiste la libertà di ogni abitante del quartiere di scegliere la propria vita, la propria onestà, di essere considerati uomini e donne in un Paese che si dice democratico e si chiama Italia.


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Periferie/ Catania

Il cielo è più grande qui a Librino Ghetti dove i bambini giocano al buio, fra i rifiuti, fra carcasse d'automobili e odore di liquami... Non è il Terzo mondo, ma la faccia nascosta delle nostre città

di Stefania Di Filippo www.associazionegapa.org “Sei della televisione?’ Con questa domanda mi sorprendono dei ragazzini alti poco più di un metro. Devo proprio dare l’impressione di un corpo estraneo al contesto. Il palazzo visto da giù appare una massa inerte, sventrata. Un cadavere con gli occhi cavi. I liquami fognari occupano interamente la superficie del piano terra, colano giù dal soffitto, per i gradini delle scale, rendono il passaggio impraticabile, l’aria insalubre. Rifiuti d'ogni genere Rispondo che... no, non sono della televisione. Mi infilo dentro un buco praticato nel muro e mi fanno da guida nel buio di questo mondo sotterraneo, che è per loro un grande parco giochi.

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“Non vivono qui. Ci giocano e basta”


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Non puoi dire a nessuno che vivi qui No, loro non vivono qui, ci giocano e basta. Non lo puoi dire a nessuno che abiti dentro al palazzo. E’ un’onta che persino un bambino capisce fin troppo bene. Sarà passata un’ora, due, ho perso ogni riferimento con l’esterno, nemmeno

I garage sono pieni di rifiuti di ogni genere. Brandelli di materassi, carcasse di elettrodomestici, di automobili bruciate. Ogni oggetto sembra essere stato catapultato qui all’interno con l’unico scopo di depositarsi al suolo e iniziare lentamente a decomporsi. Natura morta con caos.

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i rumori trapassano più il cemento. Fino a quando sono di nuovo fuori, alla luce. Sembra più grande il cielo, qui a Librino..


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I Siciliani 49 Sicilia igiovani p g v ni – pag.


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I Sicilianigiovani – pag. 50


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I Sicilianigiovani – pag. 51


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n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.

I

r–esistenza precaria

C

L

l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.

erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

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ISBN 9788897194002

ISBN 9788897194026

ISBN 9788897194019

ISBN 9788897194033

I Siciliani 52 Sicili igiovani p giov ni – pag.

a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.


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S C A F F A L E

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Periferie

Munnizza e omertà Pochi teppisti e molti che fanno finta di niente. E la diossina dilaga di Domenico Pisciotta www.associazionegapa.org

Angolo via del Principe – via Mulino a Vento, è notte a San Cristoforo, quartiere del centro storico di Catania. Un uomo si agita, nervosamente, in mezzo alla strada. La sua voce risuona tra le case mentre chiede, telefonicamente, l’intervento dei pompieri. Alle sue spalle un intero angolo di strada, ricoperto da spazzatura, sta prendendo fuoco.

Altri roghi sono accesi in via Cordai e in via Plebiscito. Colonne di fumo si alzano un po’ ovunque. Sono, ormai, giorni che gli operatori addetti alla raccolta sono in sciopero. Cumuli di rifiuti ingombrano le vie, gli incroci e i marciapiedi, rendendo difficoltosa la circolazione stradale e pedonale. Mi fermo con la macchina vicino a un gruppo di persone e li informo che vicino le loro abitazioni stanno prendendo fuoco alcuni cassonetti. Loro allungano lo sguardo nella direzione da me indicata, e poi tornano a chiacchierare come facevano prima che li disturbassi. Nessuna preoccupazione segna i loro visi. Non so se si tratta di disinteresse o complicità verso chi ha acceso i roghi; ad ogni modo, mi allontano stupito dal loro disinteresse, per qualcosa che sta accadendo a dieci metri da loro, per qualcosa che produce diossina

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che può nuocere a loro e alle loro famiglie. Mi allontano, mentre risuonano le sirene dei vigili del fuoco e mentre un palo della linea telefonica, già gravemente devastato da precedenti incendi, subisce il colpo di grazia, lasciando l’intero isolato senza collegamenti telefonici per qualche settimana. Giorni dopo, mentre, ancora, un odore acre si alza dai cumuli di immondizia, andata a fuoco, una signora, dal primo piano della sua abitazione, mi ferma e mi chiede di gettare, nell’unico cassonetto rimasto indenne, una bottiglia di plastica vuota. Una strana sensazione sulle spalle Compiuta l’operazione mi fermo a parlare con lei e, a fine discussione, le dico: “Certo signora che qualcuno, sicuramente, avrà dato fuoco ai cassonetti, lei che dice?”, la signora allarga le braccia e, successivamente, si porta l’indice della mano destra davanti al naso. Me ne vado con una strana sensazione sulle spalle.Munnizza e omertà.


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Sicilia

L’emergenza rifiuti, l’incubo Tares e la miopia della politica Palermo, Caltanissetta, Messina. Sono solo le ultime, in ordine di tempo, "emergenze" rifiuti che da più di dieci anni tormentano l'Isola del Sole in un Mare di Luce. di Carmelo Catania

Quotidianamente i telegiornali, anche nazionali, ci riversano addosso immagini di chilometri e chilometri di munnizza accatastata per le strade. Ci sono stati anche amministratori pubblici che hanno addirittura invocato lo stato di calamità, come se la smisurata produzione di rifiuti degli isolani sia paragonabile ad un terremoto o ad un alluvione. Non scherziamo. La disastrosa situazione in cui ci troviamo non è frutto di eventi imprevedibili e incontrollabili dall'uomo, anzi è proprio l'opposto. È proprio colpa nostra!

Siamo noi con il nostro ormai non più sostenibile modello di sviluppo e consumo a produrre troppi rifiuti e troppo velocemente per la capacità finanziaria e gestionale degli enti locali. È stata la miopia dimostrata dalla politica, a tutti i livelli, che ha generato lo stato attuale di emergenza finanziaria degli enti. Ce lo dice l’Europa Qualche esempio? A Messina, capoluogo e provincia producono circa 350.000 tonnellate all’anno di rifiuti, il cui costo di conferimento in discarica è di decine di milioni di euro. Sembrerebbe dunque ovvio che per affrontare l’emergenza, sanitaria e finanziaria, i principali e più urgenti provvedimenti dovrebbero essere tesi ad una riduzione dei quantitativi che vengono conferiti in discarica. In verità il Decreto Legislativo n. 205 del 3/12/2010, che ha recepito la Direttiva Europea 2008/98/CE “La società del Riciclaggio”, stabilisce che prima del conferimento in discarica si debbano attuare in ordine di priorità a) la prevenzione dei rifiuti; b) il riuso ed il recupero dei materiali post-consumo; c) il riciclo; d) l’eventuale recupero energetico e in ultimo, per quel poco che resta, e) lo smaltimento. Tutti gli enti locali che non operano secondo questa gerarchia sono dunque fuorilegge ed esposti sanzioni europee, con ulteriore aggravio dei costi per i

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contribuenti. Le soluzioni pratiche ci sono, come quella portata avanti dalla Rete nazionale Rifiuti Zero – che in questi mesi sta raccogliendo le firme per una legge di iniziativa popolare – improntata al massimo recupero dei materiali post-consumo. Sembrerebbe l’uovo di Colombo e visto che la raccolta differenziata in Sicilia è ferma a pochi punti percentuale, bisognerebbe chiedersi quali interessi economici la riduzione dei rifiuti lede. La Tares peggiorerà la situazione Intanto l’emergenza finanziaria sarà ulteriormente aggravata dall'entrata in vigore, ancora non si sa quando, ma è solo questione di pochi mesi, della Tares, la nuova imposta comunale che accorpa in sé tutta una serie di servizi (strade, illuminazione pubblica) tra i quali la gestione del servizio di igiene urbana. Un’imposta che per come è stata, malamente, concepita porterà al raddoppio dell’imposizione e, conseguentemente, all’evasione. Essendo basata sulla metratura degli immobili invece che sulla produzione effettiva dei rifiuti, non incentiverà il cittadino a tenere separati in casa i rifiuti e meno che mai a servirsi delle isole ecologiche, visto che pagherà quanto chi, meno responsabilmente, produce montagne di spazzatura. Una soluzione insostenibile che non incentiva la riduzione dei rifiuti e quindi non risolverà l’emergenza.


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Modica/ Prestiti a tassi minimi per truffare le aziende

Attenti al miracolo tarocco... Profonda crisi, profondo rosso: aziende in panne davanti al miraggio di un prestito a tassi minimi. Ma la truffa è dietro l'angolo di Francesco Ragusa www.ilclandestino.info

Una congiuntura finanziaria, divenuta praticamente uno status quo, continua a mettere in ginocchio le piccole e medie imprese. Una crisi cronica di liquidità per le aziende che innesca un circolo vizioso paradossalmente letale: fidi bancari esauriti, serie di cartelle Serit / Equitalia come incubi, RID rispediti al mittente, nuovi ordini bloccati, Enel sul piede di guerra. É a questo punto che prende il via una faticosa ed estenuante, ma allo stesso tempo vitale, ricerca di denaro. Corsa a ostacoli che può contare su metodi più o meno legali per raggiungere l'obiettivo. Primo e naturale approdo è rappresentato dagli istituti bancari, assai restii negli ultimi tempi a concedere credito. Ragioni più o meno valide conducono al rifiuto della richiesta di prestito. Un “no” pesante che porta l'imprenditore a rivolgersi ad “amici” in grado di prestare denaro con tassi di interessi a livelli di usura. Ma non basta: c'è chi propone vie d'uscita miracolose, a mò di specchietti per allodole, nel tentativo di trarre in “trappola” soggetti già duramente colpiti a livello economico. É il caso di S. J., truffatore francese che ha scelto Modica e la provincia di Ragusa come terreno di battaglia..

Tutto parte da un messaggio, assai allettante, inserito strategicamente su diversi siti di annunci: si offrono prestiti, fino al milione di euro, con interessi al 2%, rimborsabili in un lasso di tempo a scelta. Fino a un milione, al 2% di interesse Roba da far sbrilluccicare gli occhi ad un imprenditore in panne che si ritroverebbe davanti ad una manna dal cielo in versione 2.0, un'iniezione di liquidità con tassi praticamente nulli rispetto a quelli proposti dalle banche (nell'ordine dell'8%). Basta mandare una mail, e chiedere maggiori informazioni. Alla richiesta la controparte, con il nome italianizzato S. G., risponde in una lingua evidentemente ricavata da una traduzione fatta con Google Translate. Si ribadisce la disponibilità del prestito e si invita ad inviare una serie di dati, alcuni sensibili: nome, cognome, città, carta d'identità, iban su cui ricevere la somma richiesta. E poi reddito mensile, durata del prestito, occupazione. Si chiede qualche delucidazione, le risposte possono sembrare sensate. Vengono inviati i parametri del credito: importo richiesto 100.000 euro rimborsato in sessanta mesi. Rate mensili di 1.752,78 euro, la prima nel Giugno 2013. Il totale rimborsato, dopo i cinque anni, sarà di 105.166,56 euro, interessi veramente minimi. Non si chiede nessuna garanzia, nessuna prova dei dati poco prima inviati. Cosa succede nel caso che una rata non venga pagata? Giusto una “piccola” penale di 48 euro. A questo punto entra in campo un nuovo soggetto, assolutamente fittizio: il notaio. Contratto maccheronico Nel giro di poche ore giunge una bozza di contratto, anch'esso redatto in una lingua “maccheronica”, da rimandare indietro firmato e scannerizzato. Si tratta di un pdf, sullo sfondo un logo con la scritta “le notaire”. L'aria è fortemente farlocca. Indicazione del prestatore, del mutua-

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tario. E qualche clausola: “L'istituto di credito concede in comodato per l'uso principalmente rimborso in conformità con le disposizioni degli articoli 1875 e seguenti del codice civile, che il destinatario lo accetta, secondo le condizioni, i termini e gli obblighi di legge e la pratica, e specialmente in quelli specificato nel presente contratto, il seguente importo: 100.000,00 € (euro) / tasso di interesse: 2%. Scopo del prestito via [indirizzo indicato poco prima via mail]”. Firma del prestatore, spazio per la firma del mutuatario, e il timbro del notaio appositamente tagliato nel punto in cui dovrebbe essere indicata città e numero di telefono. Una piccola genialata. Il contratto, compilato, viene rispedito via mail. A questo punto la svolta: per il prestito è tutto ok, basta fare un piccolo versamento per spese notarili di 330 euro, e poi la somma di 100.000 euro sarà accreditata nel giro di quarantotto ore. Sembra quasi un miracolo. Miracolo francese, miracolo tarocco. S.J. chiede di ricevere la somma tramite trasferimento Western Union. Western Union è, in maniera assai rinomata, la modalità di pagamento preferita dai truffatori e quella meno tracciabile dalle Forze dell'Ordine. I 330 euro inviati, considerati a mò di obolo per spese notarili, appaiono come un sacrificio accettabile per poter risolvere i problemi economici. Il truffatore, intascato il contante, scappa via. E scompare. Ogni suo riferimento è falso, il magheggio è compiuto. Tutto è pronto per “colpire” un nuovo soggetto. L'annuncio è ancora lì, e attende un'altra azienda della provincia.


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Ottantanove inchieste hanno partecipato alla seconda edizione del “Premio Gruppo dello zuccherificio per il giornalismo d’inchiesta”. Fra i vincitori diverse "firme" della rete dei Siciliani giovani: Antonio Mazzeo per l'inchiesta “Mafia-Stato. La trattativa continua ora”, Claudia Campese per “Confiscate e abbandonate” (su CtZen), i ragazzi del "Clandestino" di Modica per l'inchiesta "Amici strozzini", Ester Castano per le inchieste su "Stampoantimafioso" e "Altomilanese".

Giornalisti coraggiosi Un premio speciale - per il lunghissimo e costante impegno di giornalismo e militanza antimafia - è stato assegnato a Fabio D'Urso, uno dei primissimi redattori dei Siciliani giovani che domenica 19, insieme a Luciano Bruno e altri colleghi, parlerà al meeting dell'informazione libera su “Combattere la mafia... questione di coraggio?”.

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Italia/ Minori sotto tiro

Achtung ragazzini Roma, pesante operazione nei centri accoglienza. Tre minorenni finiscono al Cie di Bruna Iacopino www.liberainformazione.org

Valentina riaggancia il telefono e la gioia esplode sul suo viso. L'incubo sembra essere finito, i ragazzi sono tornati al centro di accoglienza dopo la notte passata al Cie di Ponte Galeria. “Andiamo a trovarli?” dice guardando Eva con gli occhi pieni di lacrime. “Certo che ci andiamo” risponde Eva, allargando le labbra in un sorriso. La tensione accumulata negli ultimi giorni vola via in pochi secondi. Eva e Valentina sono due volontarie dell'associazione Yomigro, e negli ultimi giorni, alla vigilia di Pasqua, sono state involontarie protagoniste di un caso di “mala gestione” da parte del comune di Roma ai danni di alcuni minori stranieri non accompagnati, ospiti di uno dei tanti centri sorti nella capitale anche in seguito alla cosiddetta emergenza Nord-Africa. Una vicenda con pesanti anomalie ma che per essere capita necessita di un paio di passi indietro. Ottobre 2012. La cronaca locale di Repubblica titola: “La Procura indaga sui finti minorenni - Nel fascicolo i nomi di 400 falsi adolescenti. Ai raggi X gli atti dei vigili e i certificati medici, nel mirino ci sono gli immigrati indagati per aver detto il falso.”

In sostanza sembra che a un certo punto, in seguito alla gestione emergenziale e caotica seguita agli ingressi del 2011, con l'emergenza nord Africa, ci si sia accorti che la maggior parte delle persone che avevano ricevuto ospitalità dentro i centri tutto fosse tranne che minorenne, grazie anche all'aiuto di medici, avvocati e vigili compiacenti. Un business vero e proprio alimentato abbondantemente dai fondi stanziati per l'emergenza e ormai finiti. Passano i mesi e dell'inchiesta non si trovano notizie o riscontri recenti. I centri però continuano a riempirsi di nuovi ragazzi che nulla hanno più a che fare con l'emergenza Nord-Africa e che per la maggior parte provengono dal Bangladesh. Ottocento ragazzi Primi di marzo 2013. Ai centri di accoglienza per minori cominciano ad arrivare una serie di fax con elenchi di nomi di presunti finti minori a cui viene richiesto di presentarsi in dipartimento per una verifica: “ Qui ai ragazzi viene offerta la possibilità di dichiararsi maggiorenni, lasciare immediatamente il centro e beccarsi un'espulsione” si legge nel comunicato diramato da Yomigro. “In caso di rifiuto, il giorno seguente vengono sottoposti ad una seconda visita medica di accertamento dell’età presso l’Ospedale militare del Celio, e lì dichiarati maggiorenni. Allontanati immediatamente dal centro con un provvedimento di espulsione e una denuncia penale per esibizione di documenti falsi, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato.” L'operazione, sostiene Yomigro, potrebbe riguardare fino a ottocento ragazzi. Il tutto, dicono le due volontarie senza che sia data loro una spiegazione ed, essendo minori (anche se presunti), senza la possibilità di una tutela legale essendo tutore per loro il responsabile del centro.

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Direttamente a Ponte Galeria L'incubo inizia martedì 26 marzo, di sera verso l'ora di cena. Tre ragazzi bengalesi, precedentemente portati al Celio per l'accertamento dell'età in seguito ad una visita piuttosto invasiva e che niente hanno a che fare con gli arrivi dell'emergenza Nord Africa, mi spiegano le due volontarie, vengono prelevati dal centro di accoglienza San Michele e, in quanto giudicati maggiorenni, “buttati” letteralmente in strada insieme ai loro effetti personali con l'obbligo di presentarsi il giorno dopo presso l’U.O. di Sicurezza Pubblica della Polizia Locale di Roma Capitale a Ponte di Nona. Quando arrivano a Ponte di Nona con un giorno di ritardo rispetto a quello loro indicato, dopo aver vagato per la città e aver passato un'altra notte all'addiaccio accade il peggio: in quanto maggiorenni vengono accompagnati direttamente al Cie di Ponte Galeria per non aver ottemperato all'obbligo di recarsi all'ufficio operativo il giorno stabilito. Visibilmente molto giovani I tre, visibilmente molto giovani anche agli occhi del personale del Cie, vengono sottoposti ad una nuova visita, e per uno di loro la minore età verrà dichiarata la mattina successiva, in ogni caso dovrà trascorrere la notte al Cie, nella sezione maschile.Per gli altri due l'attesa sarà più lunga. In seguito alle pressioni esercitate dall'associazione, e, probabilmente in virtù dei dubbi ancora legati alla loro età anagrafica, i due ragazzi rimasti trascorrono la notte di venerdì nella sezione femminile, in una stanza a parte. Potranno uscire solo nel pomeriggio di sabato 30 marzo, dopo ulteriori accertamenti fatti in altre strutture.


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“Nessuno giochi con le nostre vite”

Vittime due volte “Noi non sappiamo se dietro la storia dei finti minori ci sia un business vero e proprio- commenta Valentina prima di correre dai “suoi ragazzi”- quello che sappiamo per certo è che con questa operazione sono vittime due volte, vittime della tratta, di cui peraltro nessuno si è preoccupato di chiedere loro conto, vittime di questa operazione che colpevolizza loro, ultimo anello della catena spingendoli verso le dimensione del nero e del sommerso.” “Quando tutto questo sarà finito si legge ancora nel comunicato di denunciaquanti minori non accompagnati avranno ancora il coraggio di emergere? Quante giovani e giovanissime vittime di traffico o truffe saranno disposte a denunciare chi si è approfittato di loro? Sicuramente pochissimi. Gli altri troveranno nuovi faccendieri, pronti a vendergli a caro prezzo la speranza di un futuro migliore.” L'emergenza Nord Africa I centri di accoglienza per minori, stando al sito del comune di Roma sarebbero solo sei, divenuti molti di più ( 19 in tutto il Lazio) con una capienza che si aggira intorno alle 2.000 persone in seguito all'emergenza Nord Africa e foraggiati fino a dicembre dello scorso anno dai fondi stanziati per la stessa dal Ministero dell'interno. In data 20 febbraio il sindaco Alemanno scrive così in una lettera inviata al ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, e al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro per chiedere il rimborso di quanto anticipato dal comune in fatto di accoglienza minori: ''Roma Capitale vive da anni la difficile condizione di “Città di secondo sbarco”, per ciò che riguarda la

tematica dei Minori Stranieri Non Accompagnati (i cosiddetti 'Misna') che pone nella diretta responsabilita' del Sindaco della Città nella quale viene identificato il minore, l'onere della protezione dello stesso. Già prima degli eventi socio politici che hanno interessato il Nord Africa, Roma sopportava l'accoglienza del 30% dei Misna presenti sul territorio nazionale (1.500 su un totale di 5.000), con uno sforzo a carico del Bilancio comunale di circa 15 milioni di euro, solo parzialmente coperto dai trasferimenti dello Stato (circa il 20% delle risorse necessarie). Dalla emanazione dell'Ordinanza 3933 del 2011, stiamo inoltre affrontando la difficile situazione dei Minori provenienti dall'Emergenza Nord Africa per la quale Roma Capitale ha subito il raddoppio delle ordinarie presenze di minori che sono divenuti quasi 2.800, comportando una spesa straordinaria nel 2012 di quasi 20 milioni''. Stando alla cronaca, e all'inchiesta avviata dalla procura, la cifra versata per ogni ospite si aggirerebbe intorno ai 70 euro al giorno, cifra che tuttavia, denunciano alcune associazioni, non corrisponderebbe a effettivi servizi erogati, a partire dai kit personali, alla biancheria, al pocket money, fino all'abbonamento per i mezzi pubblici. E che il più delle volte, come sembra ormai accertato va a coprire anche quelli che sono i falsi minori. Quante anomalie in questa vicenda Secondo Salvatore Fachile avvocato dell'Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) che sta seguendo la vicenda nel complesso e nello specifico in seguito al mandato affidatogli da 4 ragazzi ormai ex-ospiti dei centri di accoglienza, le anomalie in questa vicenda sarebbero molteplici.

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Senza ordine della magistratura “Quello che sappiamo per certo è che si tratta di un controllo a tappeto a partire dagli ultimi arrivi per andare a ritroso nel tempo fino agli arrivi della cosiddetta emergenza nord Africa; la procedura è di carattere amministrativo dunque non c'è un ordine individuale da parte della magistratura - e qui sta il suo punto debole, sottolinea Fachile - Diventa penale solo successivamente, quando l'ospite, dichiarato maggiorenne, oltre al decreto di espulsione viene accusato di reati pesantissimi”. “Come Asgi - continua - ci stiamo muovendo per intraprendere azioni di carattere politico e poter fermare questa assurda procedura”. La protesta delle associazioni Quanto al caso dei tre ragazzi bengalesi riconosciuti minorenni in seguito alla visita fatta nel Cie, Fachile non ha dubbi: “Questa è la dimostrazione di come la macchina messa in moto abbia diverse falle e gli accertamenti fatti al Celio non siano infallibili, il caso di questi tre ragazzi ne è la dimostrazione... e poi c'è il fatto grave che tre minori abbiano dormito dentro un Cie...”. Ovvero tutti gli estremi per intraprendere un'azione legale pesante quanto questa operazione. A reagire però in maniera convinta sono stati i ragazzi ospiti dei centri, che in prima battuta hanno deciso di presidiare il dipartimento delle politiche sociali in via Merulana per un'intera mattinata e successivamente, accompagnati da associazioni e comitati, hanno fatto sentire il loro grido di protesta a piazza Venezia, come a dire: “ Nessuno giochi con le nostre vite...” ottenendo la promessa di un interlocuzione con il Comune. Peccato che, a distanza di un mese, attendano ancora di essere convocati.


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Società civile

Il Sud, le mafie Le donne si raccontano Magistrate, letterate, sociologhe, amministratrici, fotografe e giornaliste. Insieme per costruire una nuova antimafia di Norma Ferrara www.liberainformazione.org

Alla Casa internazionale delle donne, tre giorni di dibattiti, performance teatrali e musicali, analisi e confronto su “I Sud e le mafie e le donne” universi per troppo tempo considerati distanti e raccontati per stereotipi. L’iniziativa, organizzata in collaborazione con la Società Italiana delle Letterate, Libera e daSud, ha messo al centro l’analisi delle “trasformazioni messe in atto dalle donne nel contesto in cui vivono, portando al centro del convegno da un lato le testimonianze delle donne impegnate in prima linea contro mafie e corruzione e dall’altro la narrazione del sé e dei tanti Sud in cui le donne vivono e operano, come luogo di partenza e ”re/esistenza” alle mafie. E ha ragionato sui tanti ”Sud” come paesaggi interiori, come luoghi dell’immaginario, che entrano in relazione con le donne, diventando da luogo dell’assenza e dello spaesamento, luogo della presenza, dell’essenza e della trasformazione collettiva del sé e della società.

Molte di loro sono giornaliste, impegnate nei Sud dell’informazione, come Angela Corica, Marilena Natale e Ester Castano. Altre sono amministratrici locali, “le sindache” Elisabetta Tripodi, prima cittadina di Rosarno, Maria Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace. Ma anche registe, scrittrici, studiose del femminismo, come Gisella Modica e Emma Baeri. Tre giorni in cui la storia di donne come Lea Garofalo, uccisa a Milano nel 2009 e Giusi Pesce, attuale collaboratrice di giustizia in Calabria, sono state al centro della riflessione attuale sul potere di cambiamento e rottura dei sistemi e della subcultura mafiosa che le donne hanno dentro e fuori dall’organizzazione criminale nei tanti Sud in cui vivono. Un punto di ri-partenza Franca Imbergamo, magistrata, ha ricordato alle donne che l’unico modo per capire e contrastare un fenomeno così radicato nella nostra società come quello criminale, nel quale le donne hanno fatto anche la loro parte, è abbandonare l’atteggiamento dell’entomologo “quello di chi studia un insetto, un qualcosa che è altro da sé. L’unico modo per essere efficaci è sporcarsi le mani, scegliere la giusta di stanza dal fenomeno che vogliamo capire, trovare il coraggio di guardare interrogandoci con maggiore franchezza, con più onestà”. Un convegno che è un punto di ri-partenza, che ha permesso a molte donne impegnate da anni sui territori di prendere la parola, confrontare i metodi dell’analisi narrativa e sociologica, per un nuovo percorso antimafia che parta soprattutto dalle tante donne che sui territori, dalla Cala-

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bria alla Lombardia, hanno scelto da che parte stare nella battaglia antimafia. Una lotta che per molte di loro coincide con l’affermazione di sé dei propri diritti di persona, una battaglia individuale che diventa immediatamente politica. E che appartiene, dunque, immediatamente a tutti noi. Alcuni interventi della tre giorni “I Sud, le mafie. Le donne si raccontano” La sindaca di Rosarno, Elisabetta Tripodi – “Chi me lo fa fare? il mio senso civico, la necessità di non restare alla finestra a guardare il disastro che si stava compiendo sotto i nostri occhi” Maria Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace, interviene via skype al convegno e racconta la sua lotta contro la ‘ndrangheta fatta solo di buona amministrazione, di un comune che funzioni, di un territorio che valorizzi le sue risorse culturali e storiche. Ludovica Ioppolo, ricercatrice e sociologa, impegnata con Libera. Al convegno porta il suo contributo di analisi dell’impegno antimafia delle donne sui territori, la loro lotta per “re/esistere” alle mafie, le storie di “Al nostro posto” il libro scritto a quattro mani con Martina Panzarasa, che racconta le storie di sei donne impegnate sul fronte ”antimafia”. Alessandra Clemente, figlia di “Silvia Ruotolo”, vittima innocente della camorra. Attualmente è neo assessore al Comune di Napoli. Alessandra è impegnata da anni nei percorsi di educazione alla legalità e memoria. In questi mesi ha intrapreso una nuova sfida: portare questo percorso antimafia direttamente al servizio dei giovani, attraverso l’azione dell’amministrazione pubblica. “Una sfida che mi appassiona, che mi mette anche un po’ di paura. Ma è più forte la voglia di farcela”.


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Memoria

'U Parrinu “Storia di Padre Pino Puglisi ucciso dalla mafia”. La vicenda di un cristiano che ha difeso il suo popolo, senza odio e senza paura

di Claudio Zappalà Nel ventesimo anniversario della morte di Padre Pino Puglisi, la Chiesa, il 25 maggio, lo proclamerà Beato. La cerimonia si svolgerà allo stadio Barbera di Palermo e si prevede un’affluenza di 35 mila persone. Tra gli eventi che fanno da contorno alla cerimonia di beatificazione si inserisce lo spettacolo U parrinu – Storia di Padre Pino Puglisi ucciso dalla mafia che andrà in scena il 22 maggio nella chiesa di S.Gaetano a Brancaccio. Lo spettacolo è scritto e interpretato da Christian Di Domenico, attore e insegnate di recitazione 44enne, figlio di genitori meridionali, vissuto in Lombardia per trent’anni e che adesso, per un caso di emigrazione al contrario, vive e lavora a Bari.

Titoletto Come affronti il tema della mafia in questo spettacolo, tu che la mafia l’hai sempre vista da lontano? “Non vivendo quelle realtà ho avuto solo la possibilità di sfiorare episodi. Ho passato, da quando ero piccolo fino all’adolescenza, ogni estate tra Gela e Manfria, e ogni estate episodi ne accadevano, e avevano a che fare, non voglio chiamarlo malcostume, con attitudini. Poi ho avuto una ragazza calabrese, e cambiamo settore, Ndrangheta, e per sette anni le estati le passavo li. Adesso vivo a Bari, e i miei suoceri hanno dovuto aprire e chiudere diversi negozi per non pagare il pizzo. Tutto questo io non so se sia mafia, o quella mafia. Sicuramente sono molto lontano da Palermo e dalla Sicilia.” Lo storia che Christian vuole raccontare, più che del Beato Padre Pino Puglisi, o del prete antimafia, è la storia di una persona di famiglia: “Mia madre era finita in collegio a Palermo e in quegli anni ha avuto la fortuna di conoscere Padre Pino come guida spirituale, come confessore, come insegnante di religione. Quando poi è emigrata in un paese vicino Monza, a Brugherio, dove io sono nato, sono sempre stati in contatto; è venuto a celebrare il matrimonio dei miei genitori; ogni anno, quando poteva, qual-

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che giorno di vacanza li veniva a passare da noi”. Lo spettacolo del 22 maggio in realtà è un evento speciale, più che una prima nazionale: “Ho voluto offrire questo ricordo. Non volevo essere al di fuori dell’organizzazione della Chiesa di Palermo. Stiamo ancora cercando fondi per avere una produzione che mi permetta di raggiungere le parrocchie senza avere una ricaduta sul costo dei biglietti per i ragazzi.” Lo spettacolo infatti verrà rappresentato principalmente negli oratori di tutte le chiese d’Italia che vorranno ospitarlo. “Vorrei caricarmi della piacevole responsabilità di portare a quanti più ragazzi possibile questa storia, far conoscere questa parabola; ma non l’apologia di un santo, ma le azioni semplici che lui conduceva da uomo, profondamente radicati nella Fede e nel senso del giusto. Lui diceva: Se ognuno di noi fa qualcosa allora si può fare tanto”.


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Dalla Sicilia a Bologna

Gli omaggi di William Manera Nella città di Lucio Dalla è successo qualcosa... di Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it Abbiamo conosciuto William Manera l’anno scorso, grazie a Bologna e agli amici di Caracò (qui) suonava il piano con un’incredibile allegria e ironizzava “sul suo naso” con fare cabarettistico. In estate ha pubblicato il suo album “I miei omaggi”, un disco da ascoltare e riascoltare. Dieci canzoni uguali e diverse tra loro. Uguali perché è facile intuirlo, riconoscerlo, nei testi mai noiosi e incolore. Diversi perché le sue basi musicali spaziano dal blues allo swing al jazz con una straordinaria facilità. Manera è uno che si diverte con le parole e col pianoforte, e si vede. Testo e musica, un binomio esplosivo che si riversa nella quotidianità di un siciliano che vive a Bologna da anni. La città che gli ha regalato il premio più importante della prima edizione di “Una canzone per Bologna”, vinto a casa di Lucio, a Piazza Maggiore, “A due passi da qui”. L’abbiamo incontrato qualche giorno fa, in un bar sotto le due torri. William Manera, dalla Sicilia a Bologna. “I miei omaggi”. I miei omaggi a te, è il titolo dell album no? C’è molta sicilianità nel titolo, se lo dovessimo spiegare ad un bolognese? (ride) Ha una duplice iniziativa, la prima “i miei omaggi” detto da un siciliano è una cosa bella, positiva ed ossequiosa (in modo simpatico). Inoltre il mio album è un contenitore di omaggi a persone, luoghi e circostanze che sono avvenute. Nei tuoi testi descrivi sempre bene quello che ti circonda e che c è intorno, anche di Bologna, dove di recente hai vinto un premio abbastanza importante. Si c’è tanto di Bologna, del mio paese di origine, di persone che hanno influito sul

mio modo di essere, non solo sotto l’aspetto artistico ma anche umamente. Uno di questi è Vincenzo Consolo, un illustre vicino di casa, a cui dedichi la traccia numero nove… “Tra la mensola e il muro”. Consolo ha avuto una voce importante nella letteratura del ‘900, per me è stato un prezioso esempio, soprattutto nel modo che ha avuto di vivere il distacco dalle origini. E Bologna? Vivi qua da dieci anni… Bologna è bellissima ed è la città dove ho trascorso un terzo della mia vita, gli altri due terzi li ho passati in Sicilia. Sono delle proporzioni che rispetti anche nel disco? Direi che il disco è un 50 e 50. Ci sono dei rimandi a Dalla, Guccini ma anche alla musica popolare. E’ un miscuglio e di canzone in canzone viene fuori una parte, o l’altra, o anche tutte e due assieme. C’è anche un brano dedicato a Paolo Borsellino, una bella sorpresa… E’ stata una sorpresa per molti, non tanto per il tema della canzone ma perché è la traccia che più si discosta dalla soluzione del genere musicale che ho trovato per l’album ossia lo swing e il blues. È di intermezzo… Appunto sta al centro del disco ed è ovviamente un omaggio. È un brano più riflessivo, più intimo rispetto a tanti altri che sono espliciti e anche grazie a questo è messo in risalto. Sciascia divideva l’umanità in cinque categorie, gli ultimi erano i quaquaraquà “che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre...”. Come sono i tuoi quaquaraquà? Devo dire che è una parola foneticamente spettacolare, senti già cosa vuol dire (ride). Il quaquaraquà è un personaggio particolare che fa poco ma fa capire di far troppo, che parla, parla, promette… ne conosco parecchi anche da queste parti... Un 2012 da incorniciare: un premio importante nella tua città, un premio importante anche a Bologna, il 2013 com’è iniziato?

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Siamo ancora in fase promozionale ma stiamo lavorando abbastanza, vogliamo farci trovare pronti per quello che diventerà il passaggio alla fase due, far conoscere il disco e il progetto. L’album è in vendita su tutto il territorio nazionale e dal 22 marzo anche in 107 webstore online. Continueranno a fioccare date perché la mia musica trova la giusta dimensione dal vivo, sarò in gara in qualche concorso, talvolta con band al completo, talvolta con soluzioni più acustiche. Stiamo pensando ad alcune sorprese... Quindi? Live, presentazioni in tutta Italia, maggiori città dove poter acquistare l’album e… le cose belle per l’estate non le posso ancora dire. E Lucio Dalla? Noi di Dieci e Venticinque gli abbiamo dedicato il mensile di marzo… Io ricordo che Bologna un anno fa era a lutto. Ma non era un lutto con strazio e dolore bensì un lutto allegro, ci ha lasciato di stucco ma in bellezza. Quando se ne va un grande artista sei contento per quello che ha fatto e lo saluti con il sorriso. Lascia un vuoto enorme a Bologna. Era come lo zio burlone della famiglia. Quello che ti fa ridere e a cui vuoi tanto bene. Quello che risolve le cose e con il quale vivi momenti felici. Quello che quando muore lo ricordi sempre con un pizzico di tristezza ma col sorriso stampato in faccia. Punti vendita: @Bologna: Disco D'Oro, Via Galliera 23. @Milano: MusicaMusica, Via Giulio Romano 21. @Roma: L'Allegretto Dischi, Via Oslavia 44. @Firenze: Dischi Fenice, Via Santa Reparata 8. @Napoli: Giancar, Piazza Garibaldi 44. @Taranto: Musica è, Via Cesare Battisti, 23. @Modena: We Rock Music Store, Via Bacchini 11. @ReggioEmilia: Tosi Dischi, Via Emilia S.Pietro 57. @S.Agata Militello: Tabaccheria Ninone; Edicola stazione. @Varese: Record Runners Varese, Via Albuzzi 8. oppure via mail richiedendolo a williammaneraofficial@gmail.com www.williammanera.com williammaneraofficial@gmail.com www.facebook.com/WilliamManeraOfficial @WilliamManera www.youtube.com/user/WilliamManeraChannel


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Storie d'amore

“Lei disse sì” Foto di Grazia Bucca

Un matrimonio contrastato nell'Italia del Medioevo di Teresa Campagna www.arcisicilia.info Lorenza: A volte un po’ “burbi” (burbera) ma con un cuore tenero, da 7 anni è fidanzata con Ingrid che la sopporta e supporta nonostante tutto… Mediatrice di conflitti per studi e lavoro, non è in pace se non sente armonia tra le persone che la circondano e per questo è promotrice, con Ingrid, di pranzi, cene, concertini tra amici in cui stare bene tutti insieme... Dopo anni di basket si è data alla pallavolo con scarsissimi risultati. Vorrebbe un cane (ma non lo dice ad Ingrid perché altrimenti domani potrebbe trovarselo già a casa). Ingrid: Ha il passaporto svedese ma è nata a Firenze e cresciuta a Rifredi. Un’educazione “tormentata” tra religione e pianoforte. Architetto per passione, chef per talento, oggi insegna visual design e comunicazione. Di facile entusiasmo, ha la sventata tendenza a volare troppo in alto e per questo è eternamente riconoscente a Lorenza che l’aiuta a tenere i piedi per terra. Avrebbe voluto la proposta di matrimonio in ginocchio e con un diamante ma non demorde, è pronta ad aspettare le nozze d’argento. Una storia normale “Lei disse si" è una normale storia d’amore. Ma in Italia, la normalità per le coppie omosessuali è fantascienza. Due giovani donne fiorentine che hanno deciso di mettere in piazza il loro privato per cercare di sfondare delle porte che in Ita-

lia sembrano essere inesorabilmente chiuse. E quindi il loro racconto in giro per l’Italia, scanzonato ed ironico, ha un risvolto sociale: parità di diritti per tutti. Perché in Italia no? Il loro scopo è quello di sensibilizzare l'opinione pubblica italiana su un argomento così delicato e dibattuto come l'unione civile tra persone dello stesso sesso. Ingrid e Lorenza per fare questo hanno messo su un blog (Lei disse si), sono su Repubblica D con una rubrica fissa, sono apparse in tv (con un servizio su LA7) e radio nazionali, ed ora hanno anche avviato un crowdfunding (racolta fondi) per autofinanzare "dal basso" la produzione di un documentario. Ecco cosa scrivono sul sito della"Produzioni dal Basso". "Lei disse sì" è il racconto dei mesi che precedono il matrimonio di Ingrid e Lorenza, che si sposeranno a giugno in Svezia perché in Italia due persone dello stesso sesso non possono farlo. Ingrid e Lorenza raccontano che l'esperienza del matrimonio è la stessa per tutti e che per organizzarlo i passi tradizionali sono sempre quelli: annunciarlo a parenti ed amici, trovare un posto in cui fare la

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festa, fare la lista degli invitati, pensare agli abiti, alle fedi, al cibo, etc. "Lei disse sì" è un progetto crossmediale che attraverso un blog attivo da dicembre 2012 e una pagina facebook sta raccontando questo percorso, in modo più o meno leggero, incontrando la partecipazione di un'intera community. “I diritti che spettano a tutti” Ingrid e Lorenza sono state due giorni a Palermo, invitate da Arci Palermo, che ha voluto dare un suo contributo per Verso il Pride 2013. Hanno incontrato gli studenti del duca Abruzzi, rispondendo con semplicità e gioiosità a tutte le domande dei ragazzi, cercando di far capire l’obiettivo delle loro iniziative: “siamo normali e vogliamo una vita normale, con i diritti che spettano a tutti”. Hanno partecipato ad un incontro istituzionale con il Comune di Palermo e con il comitato del Pride 2013. Nessuna differenza E ancora, hanno preso parte ad un incontro in cui hanno messo a confronto la loro esperienza pre matrimonio con una giovane coppia etero sposata da pochi mesi. Risultato: nessuna differenza. Ingrid e Lorenza, dopo il matrimonio in Svezia, torneranno in Italia e cominceranno la loro battaglia, fra carte, avvocati e tribunali, per rivendicare il diritto, non solo loro, a vivere una vita normale.


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Storia

Ma chi fu Antonio Canepa? Il fascismo e la sua fine, la guerra e la Resistenza, il separatismo e la sua guerra furono gli ambiti in cui si svolse la turbinosa esistenza di Antonio Canepa di Elio Camilleri Il delitto Matteotti (10 giugno 1924) indusse il giovane Canepa, che non aveva ancora compiuto sedici anni, ad esprimere tutto il suo sdegno contro il governo fascista. Questa ostilità contro il fascismo si materializzò nella preparazione di un attentato a Mussolini: attraverso un passaggio segreto aveva progettato di giungere addirittura nella Sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia, ma la chiusura del passaggio fece fallire il piano. Ma, poi, nel 1937 ottenne la cattedra di Dottrina del Fascismo, con tre volumi dal titolo “Sistema della Dottrina del Fascismo. Una formidabile contraddizione che lo stesso Canepa ammette, ma che invita a sciogliere attraverso una lettura attenta del testo, dal quale si può capire che il fascismo è pericoloso per l’Italia e per gli altri Stati, che il fascismo si può combattere, che ci sono molti scrittori che lo giudicano negativamente. Allo scoppio della seconda guerra mondiale entrò in contatto dei servizi segreti britannici, preparò ed attuò con successo, la notte del 10 giugno 1943, l’attentato all’aeroporto di Gerbini, neutralizzando i caccia tedeschi, distruggendo bombe, armi e munizioni.

Come si sa bene, dopo trenta giorni gli angloamericani sbarcarono dalle parti di Gela non incontrando, anche per merito del sabotaggio alla postazione tedesca di Gerbini, un’adeguata resistenza. A questo punto ecco un altro fatto inspiegabile o, quanto meno, difficile da spiegare: Canepa lasciò la Sicilia e si recò tra l’Abruzzo e la Toscana a fare il partigiano. La lotta partigiana intrapresa da Canepa fu assolutamente finalizzata alla liberazione dai nazifascisti in particolare dei territori in cui operò tra l’Abruzzo e la Toscana. Avendo conseguito questo risultato e giunto a Firenze nel maggio del 1944, lanciò un’operazione politica di segno divergente rispetto alla linea politica dei CLN e del governo: in nome del Partito Dei Lavoratori, diffuse, il 20 giugno, un appello in cui, per un verso si ringraziavano gli alleati per il decisivo aiuto fornito per la liberazione dai nazifascisti, per un altro si chiedeva agli Alleati di collaborare con i partigiani ed in particolare con la componente comunista, per l’instaurazione di un governo liberato dalla “borghesia – un pugno di capitalisti, di speculatori e di parassiti – (che) ha portato l’Italia alla rovina”. I contenuti del manifesto non potevano essere condivisi neppure dagli Alleati, sicché Canepa – Tolù perse i riferimenti con il SIS (Secret Intelligence Service), il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) lo arrestò e lo condannò a venti giorni di reclusione con la condizionale e a mille lire di multa. Decise, quindi, nell’autunno del 1944, di tornare in Sicilia, di morire come Canepa –Tolù e di rinascere come Mario Turri. Molto probabilmente dopo l’eccidio di Palermo, il 19 ottobre 1944, Mario Turri incontrò Andrea Finocchiaro Aprile , riuscendo a convincerlo dell’opportunità di istituire l’EVIS.

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Canepa tenne conto, necessariamente, degli intendimenti espressi da Finocchiaro Aprile e da Togliatti: certamente nel primo, il “fatto” istituzionale contava di più di quello sociale e non poteva che essere così (non dimentichiamo che Andrea Finocchiaro Aprile faceva parte di un triunvirato in cui c’era il conte Luigi Tasca, latifondista, e Calogero Vizzini, ex gabelloto e ora latifondista mafioso), mentre per Togliatti, condizionato ancora dalla “svolta di Salerno”, e lui stesso al governo, considerava la soluzione “autonomistica” quella più avanzata, oltre la quale non era lecito, per impedimenti nazionali ed internazionali, pensare di potere andare; in ogni caso, per Togliatti, restava la monumentale questione sociale della riforma agraria ancora da risolvere e i comunisti ne sarebbero stati ancora i grandi protagonisti. Indipendentista o comunista? Non si sa bene se Canepa fu più indipendentista o comunista, ma, forse, Tasca, Finocchiaro Aprile e Vizzini lo considerarono più comunista e forse anche per questo fu tolto di mezzo a Murazzu ruttu il 17 giugno 1945, colpito a morte in uno scontro a fuoco con una pattuglia di carabinieri che lo intercettarono a bordo di un furgone guidato da Pippo Amato. Assieme a Canepa quel giorno morirono Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice. Nessuno ha mai saputo come si svolsero i fatti, chi dette inizio alla sparatoria, chi avvisò i carabinieri di Randazzo del passaggio del furgone, perché i corpi furono sepolti in tombe senza nome. La storia della Sicilia è soprattutto storia di persone difficili da capire, di fatti difficili da capire e da spiegare perché volutamente censurati e tacitamente dimenticati.


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Storie

Alla ricerca del tempo perduto Girotondi, marce, manifestazioni, l'impegno di una vita: ma ne valeva la pena, per poi vedere alla fine il partito di Prodi allearsi con quello di Berlusconi? di Jack Daniel

dajackdaniel.blogspot.it/

. Gli insetti, per esempio. Leggi qua, un interessantissimo resoconto della Società italiana delle Scienze del 1853 :”È innegabile la somma affinità della Thoreyella coi Rafigastri. Le particolarità delle antenne dello scutello e delle ale superiori sono differenze di poco momento e non escono dalle file de caratteri meramente specifici. Ma non così quelle della struttura del capo. Il notevole avvanzamento delle gene al di là della fronte è sufficiente a dimostrare l’ impossibilità dell’ innalzamento del primo articolo della mascella al di sopra dell’ asse longitudinale del corpo durante l’atto della manducazione, impossibilità che non sarebbe manifesta nei casi frequenti in cui l’origine della mascella è attigua all’ apertura della bocca e in cui l’apertura della bocca è all’ estremità anteriore della testa.”. Decisivo, chissà perché mi era sfuggito sino ad ora... Nel silenzio di casa mia Non solo: mi rendo conto di aver trascurato, e molto, anche la mineralogia. Illuminante questo ricordo di Pini del 1832, strano che non l’abbia letto prima: “I feldspati trovati dal Pini sul S Gottardo erano generalmente o bianchi, o lattei, e tra questi secondi alcuni pochi ave-

vano una tinta verdiccia; non crepitavano al fuoco, sebbene cristallizzati, il che, come nota il N.A., è un'eccezione al principio asserito da Kirvan, il quale sembra perciò non avere conosciuti i feldspati del S Gottardo: la maggior parte, spezzati, esalano un odore quasi simile a quello della pietra suilla, indizio dello sviluppamento di qualche sostanza volatile combinata con qualche acido”. Ma cosa è questo fracasso? Ah, la televisione dei vicini a tutto volume. Il telegiornale: voto di fiducia al Governo, Berlusconi e il partito di Prodi votano insieme. “Analizzando poi scrupolosamente e coll’ appoggio di apposite figure la struttura lamellare di questi feldspati trova il Pini ch’essa è ben diversa da quella, che il signor De Saussure ha riconosciuta in altre pietre di tale natura, e che il signor De l’Isle non solo riguarda come generale ai feldspati, ma assume anche come un principio per ispiegare le diverse cristallizzazioni de medesimi.” Quanto tempo ho sprecato… Perché, in tutti questi anni, non ho letto queste pagine? Cosa mi ha distratto? E la bellezza della matematica? Perché non l’ho coltivata? Senti, senti... “Dunque: il seno iperbolico è la lunghezza della perpendicolare calata dall’estremità dell’arco iperbolico corri-

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spondente ad un dato settore, sul prolungamento dell’asse principale che passa pel vertice della iperbole equilatera. La lunghezza CP dicesi coseno iperbolico. Dunque: il coseno iperbolico è quella distanza che corre tra il centro della iperbole equilatera ed il piede del seno." La tv dei vicini Ancora la televisione dei vicini. Le notti passate ad aspettare i risultati elettorali. Chilometri di girotondi, marce, manifestazioni contro Berlusconi. Ma non distraiamoci ”La retta AT dicesi tangente iperbolica del settore ACM onde : La tangente iperbolica è quella porzione della tangente al vertice della iperbole equilatera limitata da quella retta che partendo dal centro va all’estremità dell arco corrispondente al settore. La retta CT dicesi secante iperbolica onde...” Applausi in aula. Deputati del PD stringono la mano ai berlusconiani. Quanto tempo buttato. “La seconda iperbolica è quella porzione della retta, la quale dal centro della iperbole equilatera andando al punto estremo dell’ arco corrispondente al settore...


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Politica

Le incredibili ragioni di un governo forzato E' cambiato moltissimo – nei fatti – il sistema istituzionale italiano. Dietro la ripetizione dei riti, cosa c'è davvero? di Giovanni Abbagnato Non servono riferimenti tecnicopolitici per definire un governo – quello nominalmente affidato a Enrico Letta - “condannato ad esistere” da un’incredibile serie di vicissitudini incrociatesi tra il complessivo decadimento del sistema politico-istituzionale e le vicissitudini interne al Partito Democratico. Quello che è forse più interessante - e anche più significativo - è provare a ragionare sulle mutazioni, di fatto intervenute nel sistema istituzionale italiano che, come la storia insegna, sono la spia più evidente di una disgregazione della sostanza delle Istituzioni stesse. Conseguenzialmente, tali mutazioni di fatto - rendono, più che obsoleto, pressoché insignificante il complesso della normativa e delle prassi che in tutti i sistemi democratici sta a guardia della solennità, in senso di importanza e straordinarietà, dei passaggi modificativi di atti costitutivi delle Istituzioni.

Non è, infatti, insignificante, per il presente e per gli sviluppi futuri, una trasformazione “ in automatico” in questa fase politica del ruolo del Presidente della Repubblica, dalla funzione di rappresentatività e garanzia a quella più squisitamente di governo. Attenzione, funzioni di governo ancor più cogenti perché prescindono dalle scelte tecnico-politiche di un Esecutivo “nominato”, come in una sorta di “grande fratello” e, quindi, obbligato a fare quello che in buona parte è già scritto, non essendo prevista la sottrazione In questo senso cambia pure il ruolo del Presidente del Consiglio, che oggi definire ancora Premier suscita qualche amara ilarità, perché in realtà si tratta di un esecutore di indicazioni che non hanno nemmeno un preciso profilo tecnicopolitico del Presidente, come può succedere ai capi del governo, per esempio francesi o russi. Giaculatorie prive di senso In Italia, ormai, c’è solo un Presidente del Consiglio che dovrà portare avanti un governo. Il resto – programmi, prospettive programmatiche, ecc. – sono solo giaculatorie prive di senso e, come tutto quello che è privo di senso in politica può diventare pericoloso per la democrazia, almeno quella sostanziale. In estrema sintesi, questo è un terreno che potrà piacere o no, che potrà essere considerato inevitabile o no, ma che in ogni caso sfugge al senso politico delle cose perché non si baserà più su scelte orginali, nel senso letterale del termine, ma su di un paradigma di governabilità

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fine a se stesso che, paradossalmente, avrà un rapporto assai relativo con le reali necessità del Paese. C’è un governo. Punto. E questo basti. In questo ulteriore passo verso l’abdicazione della politica, è evidenza logica che chi potrà trarre il massimo dei vantaggi da questa situazione sarà Silvio Berlusconi, il più “im-politico” dei soggetti in campo che confermerà il valore dell’immagine del Caimano, sempre vivo e mimetizzato, che un preveggente film ha consegnato alla cronaca. Alle condizioni di Berlusconi Il cavaliere potrà mostrare al mondo quanto ingiusto e insensato era il giudizio di impresentabilità su di lui e i suoi ministri ai quali è richiesta adesso “leale” collaborazione dopo averli demonizzati considerandoli irresponsabili incompetenti attentissimi solo ai “casi loro” e del loro principale. Potrà dire che è vero che la legittimazione elettorale può consentire di superare norme di ineleggibilità, di attaccare, senza limiti e con occupazioni, delle loro sedi tutte le Istituzioni più importanti – dalla Magistratura alla Corte Costituzionale – perché, se non fosse così, non si chiederebbe a lui di risalire sul suo predellino stavolta per vestire i panni dello Statista che, addirittura calma i suoi più facinorosi sottoposti per consentire al governo di vivere, almeno fin quando vorrà lui e i suoi avvocati. In estrema sintesi, avere fatto il governo alle condizioni di Berlusconi è considerato un atto di grande responsabilità istituzionale. Incredibile ma vero.


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Politica

La casta nella casta e il fallimento del Pd Un governo democristiano, con in più Berlusconi: è l'esito finale di un progetto politico che, partito per unire “anime” politiche differenti, ha finito col sacrificare i valori della sinistra ai disvalori delle destre

“Mai al governo col Pdl” “Mai al governo con il Pdl”, aveva giurato il segretario dimissionario Bersani, ma la diga è crollata al primo soffio. Era chiaro che, nel momento in cui si sarebbe dovuto passare dalle parole ai fatti, il Pd avrebbe scaricato Vendola, tagliato fuori Grillo e guardato a destra, fino ad accettare come vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno il “pupazzo” di Berlusconi (gli altri ministri non contano, ad eccezione di Saccomanni, che guiderà l’economia con l’auricolare della Bce).

di Riccardo De Gennaro

“Una parte è ricattabile”

Un presidente della Repubblica di 88 anni, che ne avrebbe 95 alla fine del suo secondo mandato, un governo Letta-Alfano che ricorda quelli del vecchio pentapartito a guida democristiana, ma con l’aggravante dell’anomalia Berlusconi, il quale vincolerà ancora una volta le decisioni all’andamento dei suoi processi.

Come ha detto Barbara Spinelli in una recente intervista, “parte del Pd è ricattabile”. Non è difficile individuare quale, basta trovare i 101 franchi tiratori spuntati in occasione della votazione di Romano Prodi e sapere chi li ha armati. Qualche anno fa uno scrittore ungherese, ricordando i fatti del ’56, mi disse questa verità: “Quando i comunisti prendono il potere i primi ad essere eliminati sono i comunisti”. Funziona così anche da noi: quando la sinistra potrebbe prendere il potere i primi a tagliare fuori sono gli uomini di sinistra.

L’Italia non è un paese per giovani, l’Italia non è un paese votato al cambiamento. Dopo il congresso del Pd potrà anche nascere un nuovo soggetto politico di sinistra, costruito intorno a Vendola, Rodotà, Barca, Civati, Cofferati e quant’altri, ma le forze della conservazione continueranno a prevalere su quelle che vogliono davvero cambiare le cose.

Perché faceva paura Rodotà C’è cattiva coscienza nel mancato appoggio a Rodotà: Fassino l’ha spiegata col fatto che era un candidato grillino,

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Fassina dicendo che non aveva i numeri, ma la verità è che l’ex garante della privacy e presidente del Pds si sarebbe schierato, in primo luogo nella scelta del presidente del Consiglio, a favore di quel cambiamento (rispetto agli interessi dei potentati economici, nazionali ed europei) che in Italia non è dato. “Io non la sento, la base” Tra il sostegno a Rodotà e quello a Berlusconi (che qualcuno addirittura prevede già senatore a vita e successore di Napolitano al Quirinale), il gruppo dirigente del Pd ha scelto la seconda innaturale opzione, infischiandose della maggioranza dei suoi elettori. Come ha detto la dalemiana Finocchiaro all’uscita del cinema Capranica: “Io non la sento la base”. Il problema della credibilità Un errore che i dirigenti del Pd, quasi una casta nella casta, pagheranno sicuramente caro alle prossime elezioni. Il problema che riassume tutti i problemi è che non hanno più credibilità. È questa la ragione principale del fallimento di un progetto che, per ragioni di potere, puntava a tenere insieme anime politiche totalmente differenti tra loro e che, a partire dalla legge sul conflitto di interessi e da quella sui Dico per arrivare al governo Letta-Alfano, ha portato a sacrificare i valori della sinistra a favore dei disvalori delle destre.


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Palermo/ Cantieri navali

La mafia sottovalutata A Palermo non fanno a tempo ad abbassarsi gli echi dei proclami di improvvidi osser vatori di un presunto declino inarrestabile delle cosche mafiose che la cronaca s'incarica di palesare esattamente il contrario di Giovanni Abbagnato L'ultimo esempio di queste “scoperte”, di norma frutto di gravi sottovalutazioni, ha riguardato il cantiere navale, l'ultimo stabilimento industriale del Capoluogo ancora degno di tale definizione, nonostante il suo notevole ridimensionamento produttico e occupazionale. Uno stabilimento che fin dall'inzio del '900 ha rappresentato un sito da aristocrazia operaia, significativamente sindacalizzata e capace di una notevole attività vertenziale, fin dai tempi del segretario della Fiom Giovanni Orcel, assassinato nel 1920. Maestranze, quelle del Cantiere, in grado di condurre, oltre ad evolute vertenze contrattuali, un contrasto con la mafia del quartiere Montalbo-Acquasanta, da sempre interessatissima al controllo delle attività economiche nel cantiere e nel porto.

Questo scontro è culminato nel 1947 in uno scontro nel quale gli sgherri del boss Nicola D'Alessandro spararono a degli operai che a loro volta stavano per impiccare un mafioso e pretesero l'allontanamento del dirigente fascista Emilio Ducci, voluto dalla proprietà dei Piaggio e connivente con i mafiosi. Nei decenni successivi si è attenuata notevolmente la capacità di reazione democratica e antimafiosa degli operai e della dirigenza politico-sindacale e tanto era impunita quanto risaputa la presenza invasiva nello stabilimento dei mafiosi dell'Acquasanta, soprattutto i Galatolo. Questa antica ed influente dinastia mafiosa controllava, il quartiere del cantiere, avendo addirittura in mano la locale Stazione dei Crabinieri, e facendo il bello e cattivo tempo nello stabilimento controllando i subappalti e il caporalato dei lavoratori avventizi. Le denunce di Basile Verso la fine degli anni '80 la situazione esplose quando le indagini della Procura di Palermo dimostrarono la fondatezza delle denunce dell'operaio Gioacchino Basile - minacciato dai mafiosi, licenziato dalla Fincantieri e perfino espulso dal sindacato della Cgil – circa l'asfissiante controllo del cantiere ancora ad opera dei Galatolo e dei loro affiliati. I conseguenti provvedimenti giudiziari, oltre a colpire alcuni esponenti influenti della cosca, suscitarono alcune utili iniziative extragiudiziarie come l'adozione di un protocollo di legalità, ma senza approfondire adeguatamente le responsabilità, personali ed oggettive, del management del cantiere che pure dalle carte giudiziarie non usciva con una buona immagine. Sembrava a qualcuno che il clamore di quella indagine, con i suoi sviluppi giudiziari, potesse avere creato una sorta di

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cordone di legalità attorno allo stabilimento, ma, in realtà, chi viveva nel quartiere coglieva i segni non scalfiti del potere dei Galatolo, con i suoi esponenti e affiliati a piede libero, non solo nel cantiere, ma anche nel porticciolo turistico dell'Acquasanta. La realtà raccontata da recentissime indagini, culminati in una retata di mafiosi, hanno confermato il controllo mafioso dei Galatolo – direttamente ma anche mediante il prestanome Giuseppe Corradengo, tutt'altro che insospettabile come titolato dai giornali - non solo del cantiere di Palermo, ma anche di quelli di Trapani, Messina e di altri cantieri del nord come Porto Marghera e La Spezia. Questa vicenda suscita parecchi dubbi e, tuttavia, è probabilmente utile concentrare la riflessione in due domande-chiave. Nello specifico, c'è da chiedersi se non c'è una costante sottovalutazione della capacità di adattamento della mafia anche da parte degli organi investigativi tendenti a svolgere indagini troppo legate ad episodi eclatanti e non ad un controllo costante del territorio che potrebbe monitorare per tempo l'effettiva presenza e pericolosità delle famiglie mafiose. Le responsabilità aziendali Dalle azioni repressive a seguito delle denunce di Basile ad oggi sono trascorsi circa 25 anni in cui del declino del controllo mafioso del territorio del cantiere navale non si è accorto nessuno. Inoltre, c'è da chiedersi come mai il management del Cantiere reiteratamente non ha notato nulla di sospetto dentro lo Stabilimento e se non sarebbe il caso di approfondire responsabilità di gestione aziendale, a partire delle procedure per l'affidamento e la gestione complessiva dei subappalti in Fincantieri, visto che la Magistratura sostiene che da Palermo si controllavano anche gli altri cantieri del nord?


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Messina

Un sindaco “bene comune”? Un candidato anomalo in una “normale” catastrofe: come finirà? di Tonino Cafeo Renato Accorinti, professore di educazione fisica, è diventato - in quarant’anni di battaglie civili, pacifiste e ambientaliste - quasi un'icona dell’impegno disinteressato e della politica fatta per passione, in strada. Renato era a Comiso negli anni ottanta, era a Messina quando i quattro gatti che si opponevano allo scempio del Ponte sullo Stretto sono piano piano diventati ventimila e poi sempre di più. E' stato con i rom e tutti gli emarginati, con le vittime di mafia come Graziella Campagna e Attilio Manca, con i ragazzi e le ragazze del Teatro Pinelli Occupato. Nel campetto di atletica “ Santamaria “ ex Gil, in quella che una volta era la periferia sud di Messina, ha allenato generazioni di giovani atleti che lo ricordano più come un maestro di vita che come un semplice trainer. Come le centinaia di ragazzi che lo hanno avuto per insegnante alle medie, in ore che – fra una canzone di de Andrè e un ricordo di Don Milanisono state molto più che semplice scuola dell’obbligo. La candidatura a sindaco di Renato Accorinti matura in un momento drammatico della storia messinese. In una città ancora una volta commissariata, dopo un’amministrazione di centrodestra sui cui uomini si addensa un fondato giudizio di assoluto disinteresse per il bene comune, tremila cittadini dalle più varie estrazioni sociali e culturali, firmano una petizione in cui gli chiedono di mettere la faccia per la prima volta anche in una battaglia franca ed esplicita di conquista delle istituzioni.

E’ l’autunno 2012, quello dello Tsunami grillino e dello sfacelo politico: il Pd pensa al fidanzamento con l’Udc sperimentato a Palazzo dei Normanni, persino Sel di Nichi Vendola (che Renato non ha mai nascosto di apprezzare) si limita a rivolgergli un appello a partecipare alle primarie. Finisce che, dopo un momento di incertezza, Accorinti, in una fredda mattina di gennaio, annuncia la sua corsa in solitaria a una emozionata e gremita platea, nel Salone delle Bandiere del municipio di Messina. Gruppi parrocchiali, volontariato... Da quel giorno è un crescendo di adesioni e di iniziative. Renato batte, come del resto ha sempre fatto per le innumerevoli cause per cui si è impegnato, strade e villaggi. Uno per uno. Rifondazione Comunista è con lui, così come la galassia del sindacalismo di base e del movimentismo messinese. Ma questo schieramento non si cristallizza in un’etichetta. Aderiscono a “Cambiare Messina dal Basso” (come la lista di Accorinti s'è voluta chiamare) soggetti e personalità non riconducibili al piccolo mondo della sinistra antagonista. Molto volontariato cattolico, molti gruppi parrocchiali di periferia, intellettuali miti e ragionatori come l’economista Guido Signorino, la “mente” accademica del movimento. E soprattutto la cosiddetta gente comune. Mai prima d’ora a Messina, per strada, nei mercatini rionali, nei villaggi in collina, un candidato dal look così apertamente “alternativo” era stato applaudito o perlomeno ascoltato senza pregiudizi quanto Renato Accorinti. Ma perché un uomo che a sessant’anni mantiene l’aspetto gioioso e un po’ naif degli hippies anni 60 riscuote un successo così vasto in una città in fondo provinciale e venata di bigottismo come Messina? Sicuramente c’entra molto la crisi del vecchio sistema di potere. Potenti clientele mantenute nel corso dei decenni con un sapiente controllo della spesa pubblica sono in affanno per le ricadute della crisi del debito sulla realtà siciliana.

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Il clan di Totò Cuffaro e quello - tutto sommato omologo - di Raffaele Lombardo sono crollati sotto i colpi delle inchieste giudiziarie e soprattutto per il prosciugamento delle risorse che alimentavano stipendifici e fabbriche di privilegi. Il welfare locale, mai di alto livello, è definitivamente entrato in affanno a causa dei debiti che stanno portando le finanze del Comune sull’orlo del default. a città è quotidianamente percorsa da cortei e punteggiata da presidi di lavoratori disperati, che non hanno più nemmeno una controparte con cui scontrarsi. I punti di maggior sofferenza si chiamano Servizi sociali, Teatro Vittorio Emanuele, Birra Messina, ATM (trasporti pubblici). In questo quadro drammatico il Partito che fu di Bersani non ha saputo nè voluto candidarsi a rappresentare un’alternativa credibile, preferendo il piccolo cabotaggio degli accordi coi pezzi del vecchio potere in fuga da posizioni discreditate. Una città da cui si fugge Se a livello regionale questa strategia si è concretata nell’esperienza per certi versi anomala della giunta Crocetta, a Messina la proposta politica del PD in sostanza consiste nel patto fra i due golden boys dei giovani Dc anni '80: Francantonio Genovese e il neo-ministro Giampiero D’Alia. Troppo poco per una sinistra priva di memoria e marginale, e soprattutto troppo poco per una città in cui si vive male, da cui i giovani fuggono a gambe levate. Accorinti ai messinesi parla di cose antiche come la politica come servizio, la dignità, la qualità della vita. Quando racconta delle scuole materne di Reggio Emilia o delle biblioteche pubbliche berlinesi allude a cose che in un paese civile sarebbero persino banali ma che in riva allo stretto sembrano fantascienza. I cittadini, però, sembrano credergli davvero. Forse perché prima delle parole astratte l’esperienza politica di Renato è costruita sulla quotidianità di una persona che parla come pensa e agisce allo stesso modo.


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Catania

L'acqua la città la polis Sara Giorlando è stata una delle protagoniste del forum dell’acqua che ha portato alla vittoria del referendum “acqua bene comune”. Una grande vittoria di popolo che ha sancito il diritto alla partecipazione democratica e il principio che le decisioni d'interesse comune debbono partire da una “polis” costruita dal basso di Giovani Caruso

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Puoi raccontarci in breve le motivazioni ideali che ti spinsero a partecipare ai movimenti dell’acqua bene comune? È stato un percorso naturale, fin dai collettivi studenteschi ci siamo resi conto che stavano privatizzavano la scuola, l’università, i saperi. Nel frattempo arrivò Seattle, il movimento no-global, e così ci siamo accorti che ci battevamo, in tanti e in Paesi diversi, contro la mercificazione dell’esistenza.

Poi nel 2000 migliaia di persone manifestarono a Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, venduta ad una multinazionale. Una risorsa indispensabile alla vita veniva trasformata in una merce. Un piccola rete di cittadini E così, anche, in Italia nacque una piccola rete formata da chi pensava che la privatizzazione dell’Acqua fosse l’emblema degli effetti delle politiche neoliberiste di sottrazione degli spazi e dei beni comuni. Per noi parlare di acqua vuol dire parlare di tutte le privatizzazioni dei beni pubblici e dei danni che crea questo modello economico. Inoltre, ha permesso di unire approcci e percorsi diversi: perché parlando di acqua parliamo di tutela del territorio, di cambiamenti climatiche, di grandi infrastrutture; di mafia e di guerre dell’acqua, di immigrazione; di salute e di qualità delle acque; di inquinamento, risparmio, riuso e riciclo; di lavoro; di che tipo di agricoltura e di che produzione vogliamo, quali bisogni soddisfare, come soddisfarli e con quali priorità. Nel frattempo discutevamo anche di democrazia partecipativa, guardando a Porto Alegre, e arrivammo alla costituzione del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, che dal basso e mettendo insieme l’esperienza dei tecnici e dei militanti dei vari comitati locali, scrisse una legge di iniziativa popolare, che però rimase chiusa in un cassetto e così, coraggiosamente ci lanciammo nell’avventura del referendum. I movimenti per l'acqua bene comune vinsero nel 2011 il referendum e i “si” furono la stragrande maggioranza, pensi che a due anni dal referendum questa vittoria sia stata rispettata

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dalle amministrazioni ed enti pubblici in tutto il territorio nazionale? Purtroppo no. Anche il Comune di Catania, in barba al referendum, qualche mese fa ha tentato di privatizzare la Sidra, la società di gestione dell’acqua, ma presidiando il Consiglio Comunale siamo riusciti ad impedirlo. Abbiamo dimostrato che la lotta paga, che l’unico modo per difendere i diritti e i beni comuni è partecipare. Il nostro assedio continuo al consiglio comunale ha dato i suoi frutti. Se non fossimo stati lì presenti per mesi a spiegare che non era vero che la privatizzazione fosse un obbligo e che privatizzare l’acqua fosse addirittura illegittimo non avremmo ottenuto questo risultato. Tuttavia abbiamo salvato solo l’acqua: l’amministrazione ha imposto di votare una delibera con cui ha deciso di privatizzare le altre società partecipate. Però il referendum ha cambiato tante cose e da lì dobbiamo ripartire. Innanzitutto, ha dimostrato che la maggioranza degli italiani si sta risvegliando dal “pensiero unico”, che non è vera la favoletta del “privato è bello” e che possiamo sperimentare un pubblico nuovo basato sulla partecipazione diretta dei cittadini. Un salto di qualità Cosa ti ha fatto decidere di entrare in un movimento politico come “Catania bene comune”, che parteciperà alla competizione elettorale per le amministrative catanesi del 9 giugno? Penso che i movimenti debbano continuare il proprio percorso compiendo un ulteriore salto di qualità: proporsi come capaci di amministrare. Ed è proprio dal livello comunale che si possono sperimentare nuove forme di governo partecipato ed è da qui che si può organizzare una mobilitazione vincente contro le politiche di austerità.


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“Prendersi cura della città”

Ciò si può fare, innanzitutto, chiarendo che la creazione del debito comunale è andata a vantaggio di pochi e non della maggioranza delle persone. Occorre dire che non abbiamo intenzione di pagare debiti che riteniamo illegittimi, perché sono serviti non a realizzare politiche di sviluppo sociale della città, ma a coltivare gli interessi di pochi. Partendo dalla ripubblicizzazione dei servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, energie…) si può pensare un’economia nuova, che salvaguardi insieme ambiente, occupazione, redditi ed equità; che valorizzi le professionalità e le esperienza esistenti; che valorizzi i quartieri riscoprendoli e rispettandoli, che grazie ad una pianificazione urbanistica partecipata rilanci un turismo equo e sostenibile. Questo è “Catania Bene Comune”. “Catania Bene Comune” Ma l’idea di partecipare alla costruzione di “Catania Bene Comune” nasce, per me, anche da un’altra esigenza: dire che sono di sinistra e lo sono perché voglio invertire le politiche dei ricchi contro i

poveri, perché voglio liberarmi dal fascismo, dalle mafie e dall’affarismo. Uno dei limiti del movimento è stato quello di non far emergere esplicitamente come vi sia una classe sociale che paga e arricchisce le altre e di non essersi soffermato ad analizzare da chi è composta questa classe. Adesso credo sia giunto il momento di farlo. Per l’affermazione di tali diritti, per la tutela del territorio, per la salvaguardia delle periferie e dei quartieri di Catania, ritieni che l’ostacolo più grande siano la corruzione e le mafie? E come pensi di combattere questi due fenomeni in modo concreto? L’esperienza che ho raccontato sopra sul consiglio comunale è l’esempio di un’Amministrazione che utilizza i servizi pubblici come ammortizzatori sociali, i lavoratori come bacino di voti e i consigli di amministrazione per piazzare i politici non eletti. È l’ulteriore riprova che i Comuni oggi sono svuotati di legittimità. Un Comune che trasforma i propri cittadini in “clienti” addirittura del proprio Sindaco (azionista dentro le partecipate) rompe ogni idea di comunità e quindi di democrazia. Tutto ciò nel nostro

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territorio vuol dire lasciare spazio ai poteri affaristici e mafiosi. Ricostruire da basso il “Comune” Per questo l'unica arma capace di sconfiggere le mafie è ricostruire dal basso il “Comune”, liberare pezzo per pezzo questa città combattendo l’abbandono scolastico, creando delle scuole nuove che sappiano essere inclusive e aperte ai bisogni dei quartieri, creando un’alternativa economica che non si basi sullo sfruttamento del territorio, ma su piccoli interventi decisi insieme agli abitanti, che crei spazi di socialità e condivisione (orti collettivi, luoghi per lo sport e il gioco…) e quindi di democrazia e responsabilità. Un Comune che risponda alle reali esigenze dei suoi abitanti. Una nuova idea di città, che parte dal prendersi cura della città stessa. Il percorso è solo all’inizio ed è lungo, anche perché richiede un profondo cambiamento culturale, ma se non iniziamo a coltivare il sogno di una Catania diversa questa non vivrà mai. Foto di Pasqualino Cacciola


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Sicilia/ Società civile

Palagonia, la primavera ferita Fra debiti e vandali,un anno dopo le elezioni del rinnovamento di Claudia Campese www.ctzen.it Si aspettavano le casse vuote, ma hanno trascorso i primi 12 mesi di nuova amministrazione tra i conti pignorati e i continui atti di vandalismo verso scuole, strutture comunali e persino la stessa auto del presidente del consiglio Salvo Grasso. E’ il bilancio del primo anno del sindaco Valerio Marletta e della sua giovane giunta. I palagonesi, intanto, restano in attesa: «Per come ha trovato il Comune, è passato ancora troppo poco tempo per giudicare» Un anno fa gridavano alla liberazione.

Oggi è ancora di attesa l’aria che si respira a Palagonia, dove i cittadini conservano un ricordo di quella che doveva essere la primavera palagonese in parte sbiadito dai tanti problemi di questi mesi. Dopo anni di governo gestito da una sola famiglia – i Fagone, nonno, padre e figlio – e macchiati da indagini e processi antimafia, l'elezione di un sindaco, una giunta e un consiglio per lo più giovani e provenienti da Rifondazione comunista erano stati il riscatto di una comunità. Col settanta per cento A dirlo, lo scorso maggio, un ballottaggio lampo, durato meno di un'ora, con il quale Valerio Marletta si è imposto sullo sfidante Francesco Di Stefano con oltre il 70 per cento delle preferenze dei palagonesi. Eppure a quell'entusiasmo sembra essersi sostituita la stanchezza del primo cittadino Marletta e del presidente del consiglio comunale Salvo Grasso, così

Scheda SICILSALDO: IERI PAGAVA LA MAFIA OGGI PIGNORA ILCOMUNE Il passato del Comune di Palagonia è spesso al centro delle udienze del processo Iblis, che si svolgono nel carcere di Bicocca di Catania. A marzo, mentre la nuova amministrazione stringeva la cinghia al limite, a testimoniare in aula è stato Angelo Brunetti, titolare della Sicilsaldo, la stessa ditta che in un primo momento aveva ottenuto il pignoramento delle casse pubbliche palagonesi. Una delle tante aziende vittime di estorsione non solo da parte di Cosa nostra, secondo i magistrati, ma anche dell'area grigia tra mafia e politica. Un caso di imprenditoria connivente, invece, secondo i legali della difesa di alcuni imputati. E quello che viene tratteggiato in aula è in effetti uno scenario contorto. Rappresentante della ditta appaltatrice dal 1999 di diversi lavori a Palagonia - dalla via di fuga «da un paio di milioni di euro» al metanodotto -, Brunetti racconta che «fin dal primo lavoro, il sindaco Salvino

come la rassegnazione dei cittadini. Che da mesi assistono a continui atti vandalici contro le scuole e altre strutture del Comune. “Eppure nessuno ha parlato” «Non può essere un caso», commentava il sindaco a proposito del raid vandalico di novembre contro le scuole materne di via Amedeo e via Archi. Arredi distrutti, libri e quaderni strappati, i nuovi pannelli fotovoltaici scomparsi. Un danno di circa cinquemila euro, secondo l’amministrazione. «Una risposta da parte di qualcuno ce l’aspettavamo, ma è anche impossibile che nessuno dei cittadini abbia visto niente – continua Marletta – Eppure nessuno ha parlato. Noi l’avevamo detto chiaramente: non era cambiando l’amministrazione che si creava il bene comune, ma preservandolo»

Fagone mi aveva detto che dovevo rivolgermi a ditte e personale del luogo, anche se noi avevamo tutte le attrezzature». Società di personaggi oggi imputati o condannati in primo grado per associazione mafiosa o ancora sospettati di concorso esterno a Cosa nostra. Dal subappalto alla richiesta della cosiddetta messa a posto il passo è stato breve: in due tranches da 50 e 60mila euro. Richieste che però non sarebbero bastate a Brunetti per prendere le distanze dai suoi presunti estorsioni, ipotizzano gli avvocati della difesa. C’è chi mostra una foto del testimone a una cerimonia di famiglia a casa di un imputato. E chi ricorda invece come la moglie di Brunetti, proprietaria di una cantina vinicola, abbia fatto affari vendendo il proprio vino nel bar del distributore di benzina del presunto boss di Ramacca Rosario Di Dio. Di certo c'è solo che, 14 anni dopo e ormai trascorsi diversi governi di Fagone padre e figlio, la Sicilsaldo avanza e richiede un credito dal Comune di Palagonia per due milioni e 400mila euro.

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“Quando dici di no e imponi le regole della legge, a qualcuno dà fastidio”

E che non si tratti di comuni atti di vandalismo è dimostrato anche dall'ultimo caso quando, pochi giorni prima del 25 aprile, l'impianto elettrico della basilica di San Giovanni, dove l’amministrazione aveva deciso di festeggiare la ricorrenza della Liberazione, è stato danneggiato e il contatore rubato. L'automobile bruciata Il motivo di questi attacchi, secondo i nuovi amministratori, sarebbe il nuovo corso della gestione della cosa pubblica inaugurato a Palagonia. Servizi sociali controllati «mentre prima erano gestiti in modo clientelare», appalti pubblici ad importi più contenuti, convenzioni a titolo gratuito come per il fotovoltaico o il wifi libero. «Quando dici dei no e torni a regolarizzare tutto, a qualcuno dà fastidio», spiega Salvo Grasso. Che ha dicembre ha ritrovato la sua auto bruciata. Un evento di certo doloso, ma sul quale i carabinieri stanno ancora indagando. «Colpendo me hanno voluto avvertire l’amministrazione», commenta Grasso, senza lasciarsi

tropo trasportare dall’emozione. «Abbiamo visto Salvo tranquillo e anche la sua famiglia, quindi l’intimidazione non ci ha sconvolto più di tanto», aggiunge il sindaco. Anche perché di cose a cui pensare, a Palagonia, in questi mesi ce ne sono state tante. Il macigno più pesante per la nuova amministrazione è stato di certo il contenzioso con la SicilSaldo. Azienda – tra le protagoniste del processo Iblis sulle presunte collusioni tra politica, mafia e imprenditoria nel Catanese – che aveva svolto alcuni appalti nel Comune. La SicilSaldo Correva l’anno 1999 e, da allora, nessuno aveva mai pagato alla ditta gli adeguamenti di fine lavori. Una cifra che, nel tempo, è lievitata fino a raggiungere un credito di due milioni e 400mila euro. L’azienda in un primo momento ottiene il pignoramento delle anticipazioni di cassa del Comune. Si tratta del prestito che ti concede la banca per pagare la spesa corrente: dagli stipendi dei dipendenti alla manutenzio-

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ne spicciola – spiega Grasso – Il necessario per andare avanti quotidianamente». I netturbini non raccolgono più i rifiuti. I dipendenti comunali non ricevono gli stipendi. «Da due mesi siamo costretti a mettere anche di tasca», spiega il sindaco. Fino alla decisione del giudice, arrivata lo scorso 27 marzo, di sbloccare le casse comunali. Comunque vuote. E il passato ritorna ancora una volta a Palagonia a fine aprile, quando al Comune vengono chiesti altri 400mila euro per un debito che risale al 2003: il mancato pagamento del conferimento in discarica dei rifiuti. «I debiti che hanno lasciato gli altri, se li è caricati lui», sospira un anziano cittadino. Un debito di dieci anni fa «Per quello che c’era al Comune, che era disastroso, è passato ancora troppo poco tempo», aggiunge un ragazzo. «Cambiamenti ce ne sono stati pochi, però il signor sindaco ha la buona volontà di rimettere in sesto questo paese che va a rotoli da dieci anni», gli fa eco un altro. Non tutti sono d’accordo. «L’ho votato perché mi sembrava una persona perbene, ma sicuramente ha da mangiare qualcosa anche lui – commenta un giovane – Qua lavoro non ce n’è, non c’è niente, Palagonia fa schifo». Una voce non del tutto isolata, ma che sembra comunque minoritaria nel clima di attesa generale. I più disillusi sono gli anziani palagonesi, che tante ne hanno vissute in questi anni. «Se fosse stato per me – sentenzia un cittadino, interrompendo la sua partita a carte – Io avrei dato le dimissioni».


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Napoli

Il fortino assediato Un sindaco in bilico, stretto all'angolo e stritolato da proteste e ritorsioni. Un saldatura tra ambienti apparentemente lontani che puntano su Palazzo San Giacomo di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it

Cosa sta accadendo a Napoli? Un clima pesante sembra aver avvolto la città. Esplosione di ordigni sotto la sede del Comune di Napoli, finti funerali, ripetuti allarmi bomba contro il municipio e le stazioni della metropolitana, blitz improvvisi e occupazioni dei palazzi delle istituzioni. Serrate a tappeto dei commercianti contro i provvedimenti di Ztl (zona a traffico limitato), blocchi stradali, improvvisi scioperi dei dipendenti dello stesso Comune in coincidenza con manifestazioni internazionali. E se non bastasse anche la strana convergenza di una parte dei media con gruppi di pressione “talebana” sorti come funghi sui social network. Non è solo legittimo dissenso ma qualcosa in più. I successi dell'amministrazione arancione restano sullo sfondo: l'organizzazione di

grandi eventi, (Coppa America, Giro d'Italia, concerto di Bruce Springsteen), l'aver cacciato una variegata vegetazione di lobbisti e strani personaggi borderline, l'aver ridotto il debito accumulato dalle gestioni precedenti e aggravatosi con i tagli dei trasferimenti del Governo e gli effetti della spending review sugli enti locali. Un assalto continuo Il sindaco Luigi de Magistris è sotto scacco. Un assalto continuo. Un assedio al fortino che scatena gli istinti più primordiali e naimaleschi. Un rancore e un odio che cova sotto le ceneri di una città abituata ai compromessi, al mercanteggiare, al barare con il gioco delle tre carte. E' difficile capire una città, dove normalmente non si capisce nulla. La domanda ritorna : Cosa sta accadendo a Napoli? E' in corso una saldatura

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tra ambienti apparentemente lontani che trovano un inaspettato coagulo e sintesi nella contrapposizione al primo cittadino. Commenti, per usare un eufemismo, al limite della diffamazione sono venuti fuori dai social network dopo la notifica di un avviso di garanzia al sindaco e al suo assessore al traffico per una presunta responsabilità oggettiva per la presenza delle buche nelle strade partenopee. Un venticello che soffia e fa il paio con ciò che si muove nella piazza. Strategia di spodestamento Chiariamo: non ci troviamo di fronte al legittimo protestare o l'espressione del sacrosanto dissenso; è un qualcosa che ha il sapore della ritorsione, della vendetta, delle restaurazione più bassa. Una sorta di lenta ma implacabile strategia di spodestamento. C'è la palese volontà d'imporre e dettare un'agenda al governo della città, un tentativo di riportare indietro le lancette della storia, aprire varchi per riportare dinosauri e interessi particolari nelle stanze del municipio.


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Memoria

Pio La Torre trentun anni dopo La legge La Torre, fondamentale per il controllo dell'imprenditoria mafiosa, venne approvata solo dopo l'assassinio del suo promotore. Di cui, tanti anni dopo, sono ancora sconosciuti gli assassini e a malincuore tollerate le idee Il 30 aprile del 1982, la vigilia della festa dei lavoratori, veniva ucciso a Palermo Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista. Insieme a lui veniva trucidato il suo collaboratore Rosario Di Salvo. Morivano due comunisti, si riannodava dopo più di trent'anni anni un filo tragico: la strage di Portella Della Ginestra, l'eccidio di magistrati, sindacalisti, giornalisti e tanti altri uomini che hanno combattuto a viso aperto il sistema politico-mafioso. Alla fine degli anni 70 Pio La Torre, allora deputato al parlamento, inizia a preparare la legge che introdurrà l'artico-

lo 416 bis del codice penale. Il 31 marzo del 1980 l'on. Pio La Torre presenta alla Camera Dei Deputati la proposta di legge dal titolo "Norme di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso e costituzione di una commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo". La legge che porta il suo nome viene approvata ma solo dopo la sua uccisione. Pio La Torre si era battuto contro l'installazione della base missilistica a Comiso, aveva percepito quanto fosse pericolosa questa miscela di interessi locali ed intenazionali. Alla fine Pio La Torre viene ucciso anche perchè isolato dentro il suo partito.

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Dopo la sua uccisione si incomincia a parlare di una cosiddetta "pista interna". La moglie di La Torre dichiarò più volte che Pio era tornato in Sicilia per fare pulizia nel partito. Rifiutò la Costituzione di parte civile nel processo nella convinzione che ciò spettasse al partito. Dopo trentun anni dall'eccidio ignoti rimangono i mandanti. Il male profondo ha un solo nome, si chiama isolamento, solitudine, voglia di dimenticare. E' accaduto per Pio La Torre, sarebbe accaduto per tante altre vittime del sistema politico-mafioso.

Antonio Cimino


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Mestieri

Le “compagne” della sartoria Un vecchio laboratorio di taglio e cucito, nel cuore del quartiere. Ma forse qualcosa di più di Marcella Giammusso foto di Paolo Parisi www.associazionegapa.org

“Sin da bambina mi piaceva cucire, e quando da ragazzina cominciai a lavorare in una fabbrica tessile, dove io facevo piccoli lavori di manovalanza, mi piaceva osservare le operaie che tagliavano le camice o i pantaloni. Avevo tanta voglia di imparare quel mestiere! Così quando una capo operaia si accorse della mia vocazione e mi diede la possibilità di imparare il taglio dei capi ne fui molto felice. Tagliavo le stoffe per molte ore della giornata, ma siccome le forbici erano molto pesanti e molto grandi rispetto alla mie piccole mani, spesso mi venivano le piaghe alle dita. Ma non mi importava, mi importava solo di imparare a tagliare e cucire!” Insegnare l'arte Con queste parole Antonella Motta, la sarta del quartiere di San Cristoforo a Catania, l'anno scorso ha iniziato il primo incontro del laboratorio di sartoria nella sede dell’associazione Gapa in via Cordai 47. Un laboratorio proposto dalla stessa Antonella e sostenuto dai volontari del Gapa con l’obiettivo di insegnare a chi ne avesse voglia l’arte del cucire e nella speranza che questa potesse diventare un mezzo di lavoro e di guadagno per chi ne avesse voglia, capacità ed entusiasmo. Già, perché l’entusiasmo per il suo lavoro, la gioia di insegnare e la generosità verso gli altri sono le caratteristiche che distinguono Antonella.

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“Io qualcosa la so fare, però mi piace frequentare perché imparo cose nuove e faccio qualcosina per me, e poi mi piace perché trovo gente accogliente e disponibile” dice Maria. “Vengo per imparare”, interviene Melina “così compro la stoffa e mi faccio i vestiti picchì sugnu ponchia.” Dopo le prime lezioni teoriche si è passati subito alla pratica e sotto la guida dell’insegnante le partecipanti hanno cucito dei capi per loro stesse, per le loro figlie e per i loro mariti ed a fine corso c’è stata una bellissima sfilata con la premiazione degli abiti più belli. Adesso siamo al secondo anno del corso di sartoria e grazie al passaparola fra le signore del quartiere c’è un’affluenza maggiore. Al laboratorio partecipano anche due ragazze laureate, Vanila e Cristina, che hanno un lavoro precario, che vogliono imparare a tagliare e cucire sia per potere guadagnare qualcosa cucendo abiti

e vendendoli, sia perché questa attività può aiutarle a realizzare altri oggetti artigianali. Le signore vengono in sede, tirano fuori dalle proprie borse le stoffe, tagliano i capi, imbastiscono, cuciono, provano, riprendono le cuciture, allargano, stringono. Solidarietà e amicizia Ma il corso di sartoria non è solo questo, è qualcosa di più. E’un modo per intrecciare rapporti di amicizia e solidarietà attraverso la concretezza di un’attività manuale. Infatti durante tutta questa attività di taglio e cucito c’è un continuo parlare fra le donne, un assiduo confronto fra persone che vivono le stesse ansie che hanno le stesse preoccupazioni. Un continuo raccontare i propri problemi familiari. Il marito che non c’è più, i figli che non trovano lavoro, i soldi che


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“I figli senza lavoro, i soldi che non bastano mai...”

TEATRO MESSINA,26 MAGGIO POPOLARE AL PINELLI

“LIBRINO”

non bastano mai. E poi il loro ruolo di donne, un ruolo pesante che non viene mai riconosciuto, ma che viene sempre portato avanti con responsabilità, forza e volontà. Occuparsi della casa e del marito, badare ai figli e spesso anche ai nipoti, farsi carico dei genitori anziani e malati e poi quando il marito non lavora quello di sbracciarsi le maniche e fare qualsiasi lavoro, anche il più umile. Senza piangersi addosso Ne parlano senza piangersi addosso. Trovano solidarietà fra loro e si danno consigli utili a superare i grossi problemi. “Qui siamo come una famiglia” afferma Lucia “ organizziamo incontri, a volte andiamo a mangiare fuori e stiamo bene insieme.” Mimma, 75 anni ”Avevo 23 anni quando sono andata in Belgio a lavorare ed ho fatto la pantalonaia per 10 anni perciò so cucire. Faccio la nonna, la mamma, la sorella e la badante. Ma nonostante tutto

sono una donna solare ed allegra e vengo qui perché mi piace stare in compagnia e perché mi piace fare qualcosa per gli altri... Qualche giorno mi ritiro a casa con gli occhi neri perché mi interesso sempre agli altri!” “Peccato che non sono venuta prima”! “Ho cresciuto i miei figli, i miei nipotini ed adesso ne sto crescendo un altro.” dice Enza “Ad un certo punto non mi sentivo realizzata e volevo fare qualcosa di diverso per tenere la mente occupata, anche perché ho avuto un po’ di depressione perché ho mio figlio che non lavora. Venire qui mi fa sentire bene e non penso a niente. E’ bello anche per le persone che ci sono. Peccato che non sono venuta prima!” Poi all’improvviso Mimma tira fuori una battuta di spirito e allora si ride insieme, si sdrammatizza, si parla d’altro. Basta piagnistei, basta pensare ai problemi giornalieri. Quella mattinata è dedicata a noi donne della sartoria e ce la dobbiamo godere tutta.

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"Librino" è una parte della mia vita da ragazzino nel mio quartiere a Catania. Non è un monologo, è la mia storia raccontata agli amici. Sono i miei umori, e le voci della strada che mi sono portato dappresso; dal momento in cui sono andato via da quella periferia. Che senso ha, portarlo qui al Teatro Pinelli? Il senso sta nella voglia di denuncia di ogni violenza, di ogni violenza implicita, rimosso dai silenzi Il senso sta nel provare a incontrare qui, persone e voci e storie che legano la periferia di Catania, a quella di Messina, e di ogni altra periferia. Non voglio restare in silenzio. Tra stare zitti e gridare, preferisco la possibilità di essere solidale con ogni altra violenza, vissuta in questo paese: la violenza a quella donna, il licenziamento sul lavoro di quell'operaio, la malasanità, la compravendita del diritto a non soccombere. Dei giornali, della televisione, dei dibattiti, della piazza virtuale, dei mercati, della pubblicità, da questo o quella condizione, possiamo decidere di morire senza gridare. Oppure uscirne insieme.

Luciano Bruno

https://www.youtube.com/watch? v=t21vw8OBwu0


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Pianeta

La moneta senza banche

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale

Le nozze segrete fra Google e Assange L'incontro, riservatissimo, è venuto fuori solo ora. Schimidt e Assange hanno parlato a lungo di strategie, e soprattutto di moneta elettronica e Bitcoin di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com

Poco più di un anno fa (Siciliani giovani, feb.2012) scrivevamo che il presidente di Google Eric Schmidt aveva rivelato l'intenzione della sua compagnia di studiare una moneta elettronica. Adesso, la trascrizione di un incontro finora segretissimo - tra Schmidt e il fondatore di Wikileaks Julian Assange conferma l'interesse di Google per la moneta elettronica.

Scheda BRANI DI CONVERSAZIONE

L'incontro è avvenuto nel giugno del 2011, con un Assange quindi non ancora barricato nell'ambasciata equadoriana ma già in stato di fermo in una casa della campagna inglese. Si sapeva che numerosi personaggi del mondo tecnologico e alternativo - come Steve Wozniak, co-fondatore di Apple erano andati a visitare Assange durante le sue peripezie. Ma che fra loro ci potesse essere il capo del principale brand del pianeta nessuno l'aveva mai lontanamente immaginato. La trascrizione completa Wikileaks pubblica ora la trascrizione completa, con tanto di audio, delle cinque ore di incontro fra "il capo della gilda dei ladri" - diciamo così - e il massimo potentato dei Sette Regni. C'erano anche Jared Cohen, ex consigliere del Segretario di Stato di Hillary Clinton e coautore con Schmidt di The New Digital World (pubblicato il mese scorso), Lisa Schields, vicepresidente del Council on Foreign Relations e Scott Malcomson, speechwriting director dell'ambasciatrice Usa all'Onu Susan Rice. A un curioso Schmidt, Assange spiega l'evoluzione dei sistemi crittografici. Poi il discorso cade sul Bitcoin. "I link magnetici e così via stanno iniziando a venire. C'è

Assange: Questa è la cosa più ottimista che sta accadendo. La radicalizzazione di giovani istruiti con internet. Le persone che ricevono i loro valori da internet ... e poi quando le trovano compatibili ne creano un'eco. L'eco è ormai così forte che annega le dichiarazioni originali. Completamente. Le persone che hanno affrontato, dal 1960... I radicali che hanno contribuito a liberare la Grecia e... Salazar. Dicono che questo momento è il più simile a quello che è successo in quei periodi di movimenti di liberazione negli anni '60, che hanno visto...

anche un bel paper in giro su Bitcoin, che... Ma tu sai qualcosa di Bitcoin?". "No". "Ok, Bitcoin è qualcosa che si è evoluto dalle cypherpunk un paio di anni fa ed è una alternativa a... si tratta di una moneta senza stato. Ha un algoritmo con cui chiunque può creare, chiunque può essere la propria zecca. Un modo semplice per dirlo è... c'è una ricerca continua di sequenze di bit zero. Una ricerca random. Quindi un sacco di lavoro di calcolo. Con ogni software Bitcoin che viene distribuito il lavoro aumenta algoritmicamente. Quindi la difficoltà di produrre Bitcoin diventa sempre maggiore col tempo. Schmidt matura un'idea... È qui che è maturata l'idea per Schmidt di creare una moneta elettronica (dei "Google bucks", scrivemmo allora sul modello di Bitcoin, o magari di utilizzare Bitcoin stesso? E presto, prima di un'eventuale concorrenza (un Amazoncoin, per esempio)? Al momento dello straordinario incontro, Bitcoin cominciava appena ad essere diffuso. Ma già allora Assange precisa che Bitcoin inizia a essere scambiato in dollari, e azzarda un paragone con un metallo prezioso come l'oro.

Cohen: Lo vedi in ordine di grandezza diverso da quanto abbiano fatto negli anni '60? Assange: E per quanto riguarda ciò che è entrata in Occidente, perché ci sono alcune regioni del mondo, io non sono a conoscenza, ma per quanto mi rendo conto che - e naturalmente non ero in vita nel 1960 - ma come... Per quanto posso dire, questa affermazione è vera. Questa è la formazione politica di tecnici apolitici. È straordinario, nello stesso modo che il giovane... Schields: Apolitico? Vuoi dire una parola? Assange: Una parola. La gente sta andando a... I giovani stanno andando dall'apolitico alla politica. Si tratta di un passaggio molto interessante da vedere.

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Saperne di più wikileaks.org/Transcript-Meeting-Assange-Schmidt#688 www.pcmag.com/article2/0,2817,2417957,00.asp it.wikipedia.org/wiki/Hash

Per la facile divisibilità, per la facilità con cui se ne puà saggiare l'autenticità, e perchè se sotterrato non decade "come mele o bistecche" Il clima dell'incontro è molto informale, Assange viene chiamato Julian, e non mancano scene memorabili come il balzo felino di Assange che capovolge il notebook di Lisa Schields per salvarlo dall'acqua distrattamente versatogli su dalla vicepresidente mentre si parlava di Pgp e di Zimmerman. Un clima molto informale "Se il sistema non fosse così inefficente - fa Jared Cohen, a proposito di tasse tutti avrebbero i loro soldi offshore". "Non credo ai martiri - proclama Assange

Fabio Vita Senza banche Bitcoin, la moneta di Internet

- Moglio combattere e scappare". "Non è trasparente, il Patriot Act" fa Eric Schmidt. Poi Assange si butta sulla filosofia. “Una battaglia in corso” "C'è una battaglia tra tutte queste cose in corso. Con persone diverse, economie diverse... non vedo una differenza tra governo e grandi corporations e piccole imprese. In realtà è tutto un continuum, sono tutti sistemi che cercano di ottenere quanto più potere possibile. Ecco, questo sono. Un generale che cerca più potere per la sua parte dell'esercito, e così via. Pubblicizzano, producono qualcosa che secondo loro è un prodotto, la gente lo compra, la gente non lo compra, lo rendono “complesso” per nasconderne i difetti... Non vedo una grande differenza tra governo e non-governativi. Ci sono differenze quanto a forza coercitiva, ma anche lì si vede che le società ben collegate sono in grado di sfruttare governo e sistema giudiziario e riescono a implementare... efficacemente anche la forza coercitiva, con l'invio di forze di polizia per fare requisizioni o buttare fuori a calci i dipendenti dell'ufficio".

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Il re e Robin Hood... Va avanti a lungo, lo strano incontro fra il re e Robin Hood. Il superhacker ricercato da decine di polizie e il megamanager galattico si scambiano suggerimenti e opinioni, lontani dai riflettori dei media (che per quasi due anni non ne sapranno niente) ed anche da qualsiasi riflessione su un qualsivoglia potere statale, che qui appare non meno obsoleto del regno di Bisanzio o del Sacro Romano Impero. Google e i servizi di pagamento Eric Schmidt nel lasciare il ruolo di Ceo (amministatore delegato) di Google - dal 2001 al 2011: l'epoca d'oro della compagnia - per diventarne presidente disse che, nonostante tutti i traguardi raggiunti, nel campo nel social network c'era ancora molto da fare, inventandosi servizi adeguati, per raggiungere Facebook e Twitter. Da allora, Google ha investito molto in sistemi di pagamento, puntando soprattutto all'uso dello smartphone con i servizi Nfc. Ma forse Schmidt si chiede se ha perso tempo prezioso nei confronti dei "rivali" Paypal e soprattutto Bitcoin.


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Giornalismo

Ma qua ormai l'informazione è precaria Si parla di giornalismo al convegno importante... di Attilio Occhipinti www.generazionezero.org

L’International journalism festival, che si è tenuto a Perugia dal 24 al 28 aprile, è giunto alla sua settima edizione. Si tratta di un momento importante per l’informazione, uno di quei momenti che spinge alla riflessione matura e onesta sulla situazione attuale del giornalismo nel mondo e, soprattutto, nel nostro Paese. “Per fare il giornalista in Sicilia ci vuole anche un avvocato”. Fermi tutti, forse sarebbe opportuno chiarire. L’appuntamento con questo importante festival ci ha fornito un’occasione particolare, quella cioè di prendere una bella lente di ingrandimento e di puntarla dritta sulla Sicilia. Perché? La risposta l’ha già data Vincenzo Barbagallo, giornalista e videomaker, con l’affermazione di cui sopra. Insomma, quale migliore occasione per parlare della condizione in cui verte il giornalismo siciliano di nuova generazione. A che punto siamo?

Sull'equo compenso Per sfruttare al massimo questo momento abbiamo chiesto ad alcuni nostri amici e colleghi di chiarirci meglio (e di chiarirlo soprattutto a voi lettori) che cos’è il mestiere del giornalista, soprattutto se lo si relaziona al precariato, agli esigui pagamenti, all’incontro tra informazione e informati, quindi, alla Sicilia. D’altronde negli ultimi mesi si è intensificato il rapporto tra le varie realtà dell’informazione siciliana per far fronte comune contro una condizione che chiamarla precaria è poco, specie se parliamo di equo compenso: “La battaglia sull'equo compenso, portata avanti dal Presidente Iacopino e dai vari gruppi regionali di giornalisti, certifica lo stato in cui ci troviamo, gente sfruttata per fare andare avanti le piccole redazioni come le grandi redazioni di giornali ed emittenti nazionali. Purtroppo non credo che questa legge risolverà i problemi. La legge sarà applicabile solo per gli iscritti all'Ordine, ma ci sono tantissimi che, non essendo iscritti all'Ordine dei giornalisti per diversi motivi, continuano ad essere pagati, quando lo sono, una miseria”, così continua Vincenzo Barbagallo. Sempre sulla questione legata all’equo compenso l’opinione di Saul Caia, giornalista free-lance e collaboratore di diversi quotidiani, è che “l'approvazione della legge sull'equo compenso è certa-

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mente una grande vittoria per i giornalisti, freelance e precari che siano, ma bisognerà capire come ogni regione ed Ordine recepirà la nuova norma e come sarà attuata. Conosco colleghi che per una notizia sono pagati da un minino di 2 ad un massimo di 10 euro, per non parlare dei video, dove spesso ricevi 5 o 10 euro, mentre se sei più fortunato puoi arrivare a 15/20. Questo deve cambiare. Non si può certo lavorare per la gloria”. Andrea Sessa, giornalista e collaboratore de Linkiesta, è molto diretto nel dire che si tratta di “una vittoria indubbiamente, ma che lascia l'amaro in bocca. Ancora oggi essere pagati 4 euro al pezzo per tanti nostri colleghi è normale. Se un cameriere lo pagassero 5 euro per 3 ore di lavoro farebbe la rivoluzione. Un giornalista non la fa e ti ho detto tutto”. Ed è stata proprio la proposta sull’equo compenso per i giornalisti che ha dato il la alla costituzione del Coordinamento Giornalisti Precari Siciliani, con tanto di sito internet. Un gruppo unito di giornalisti precari, pubblicisti, professionisti, freelance che ha le idee chiare su quanto accade nella loro (nostra) terra. Sul mestiere in Sicilia “Uscire per strada e andare a caccia di notizie è diventato un lavoro per pochi privilegiati. E’ più comodo stare a casa e scopiazzare gli altri dal proprio computer. Credo che bisognerebbe rimettere un serio ordine nel giornalismo, sia sotto l'aspetto dei pagamenti e del compenso, sia per quanto riguarda le categorie e le regole”, così Caia specifica il suo punto di


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“A un giornalista precario c'è ben poco da dire: se capisce che non ci guadagnerà nulla, eppure continua lo stesso, allora comincia a far parte di quello sparuto manipolo di eroi sporchi d'inchiostro” vista riguardo alla qualità del nostro giornalismo e gli fa eco Barbagallo poiché “fare il giornalista e fare più in generale informazione in Sicilia è quasi una missione, o per lo meno si dovrebbe interpretare così”. Ordine e missione, due parole che vogliono dire tanto e che dovrebbero stare alla base di questo mestiere, ma forse, specialmente se parliamo di ordine, siamo ancora lontani. “Pippo Fava parlava di Catania come di una donna meravigliosa e meravigliosamente facile, e credo che questo renda bene l'idea. La voglia di svelarla era troppa, e indomabile. Fatale. In Sicilia se scegli di fare il giornalista, e di raccontare la terra senza tralasciare alcun dettaglio, allora scegli di vivere di passione, ma devi farci i conti”, le parole di Sebastiano Ambra, giornalista e autore di Agendaerre, sono chiare, nette, non lasciano nulla al caso perché, precisa Giorgia Landolfo, giornalista free-lance, “essere giornalista, sottolineo precario, in Sicilia, significa lottare ogni giorno contro la legge dell'omertà che schiaccia e appanna la volontà di denuncia. Significa raccontare una terra meravigliosa ma piena di contraddizioni, nella quale peraltro senza uno stipendio che possa reputarsi tale né la possibilità di progettare il futuro, è molto difficile conservare l'entusiasmo”. Un percorso ad ostacoli quello che si affronta ogni giorno per una notizia, per una foto, per una testimonianza e a volte “ci rimetti tanto, e decidi tu quando è troppo. Conosco qualcuno che ha deciso che non sarà mai troppo, e attorno a lui la terra, adesso, è irrimediabilmente nera. Ma l'aria, quella no, è pura”, e di questo Sebastiano Ambra ne è sicuro.

D’altronde la temperatura in Sicilia è alta e siamo sempre in guerra, questo non bisogna dimenticarlo: allora diventa complicato lavorare in certe condizioni, con il signorotto pronto a minacciarti con la querela o peggio e con l’altro signorotto, quello per cui lavori, che ti dà due lire. Eppure a questa guerra partecipano tanti soldati, molti di loro con spirito rivoluzionario. Sui consigli a un precario Se il meccanismo dell’informazione in Sicilia s’inceppa ed è sempre più complicato andare avanti, allora che cosa fare? In questa terra strana e pazza, colma di contraddizioni, ma dal sangue caldo, bella e dannata, ragazze e ragazzi a volte prendono una penna e scrivono, altre volte schiacciano il bottone di una macchina fotografica e immortalano luci e ombre dei nostri paesaggi. A tutti loro si rivolgono le attenzioni di Giorgia perché “fare rete tra noi inoltre è fondamentale per condividere idee e riflettere sui nostri diritti, per allontanare quel senso di solitudine nella quale spesso un cronista precario può sprofondare”. E a chi ha paura di zoppicare Saul consiglia “di non ricercare costantemente lo scoop o la notizia bomba, basta fare bene quelle piccole cose quotidiane. Evitare di scopiazzare dai colleghi (in caso citare la fonte), cercare sempre di confrontare bene quello che dice il proprio contatto o la propria fonte, e quando si snocciola un comunicato stampa è sempre meglio fare qualche chiamata in più, per avere un'intervista o un diritto di replica che possa aggiungere nuovi dettagli a quello che già si sa”. Lo spettro del precariato aleggia costantemente: “Più in generale direi ai tan-

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ti ragazzi di essere coscienti che di giornalismo non si campa: io per tirare a fine mese, il pomeriggio faccio lezioni private e, al mattino, faccio la guida turistica”, così prudentemente parla Andrea. Ma a prescindere dai compensi e dalla fatica “ad un giornalista precario oggi posso solo consigliare di fare il proprio mestiere con passione e con dovizia. Mirare alla qualità che alla lunga viene sempre premiata, non appiattirsi alle notizie di agenzia e di cercare sempre l'inedito anche a rischio di sembrare "inopportuno" o "aggressivo" secondo il potere”, questo il parere di Vincenzo. “L'unica vera paga” E in conclusione Sebastiano si rivolge ai giovani con molta onestà, perché dopotutto “ai giornalisti precari di utile non c'è molto da dire: chi continua a scrivere pur avendo coscienza della propria condizione retributiva, allora comincia a far parte, in questa buia epoca che vede sempre più distanti i ricchi dai poveri, di uno sparuto manipolo di eroi sporchi d'inchiostro. E a questi bisogna solo fare forza. Ai giovani giornalisti, piuttosto, quelli che affacciano la testa sul mestiere - magari dopo aver sparso manciate di parole sui social media - bisogna presentare la realtà com'è, ricordando loro che l'unico modo per non dare adito a chicchessia di attaccarli è attenersi sempre, scrupolosamente - senza mai cedere alle immancabili e pesantissime inclinazioni dell'animo - alla verità sostanziale dei fatti. E quella, per gli irriducibili precari di ogni età, vuoi o non vuoi è la prima paga. L'unica vera, spesso”.


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Un laboratorio di giornalismo antimafioso

Scrivere di mafia: studiando s’impara Succede a Milano, alla facoltà di Scienze Politiche. Ecco brevi estratti degli articoli prodotti

Sempre la verità

Perché la negazione aiuta la mafia di Alice Bertola Negli anni Settanta a Palermo non si riusciva a parlare di mafia. Non era una possibilità accettabile socialmente e quindi negata politicamente . Circa trent’anni dopo, questa volta a Milano, si fa ancora fatica a capire l’infiltrazione delle mafie in Lombardia nonostante i processi, le condanne e gli omicidi. Pare che sia la negazione il filo conduttore tra spazio e tempo, dalla Sicilia alla Lombardia, come un disco rotto o una barzelletta raccontata troppe volte e che ormai davvero non fa più ridere. Ed è proprio questa negazione codarda che ha generato conseguenze, tragiche e varie, raccontate con precisione da due film-documentario: “Global mafia”, diretto dalla redazione di Stampo Antimafioso dell’Università degli Studi di Milano, e “Uomini soli” prodotto da Attilio Bolzoni con Paolo Santolini.

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I documentari

Per strada e nel mondo di Adelia Pantano Due diversi modi di fare giornalismo, due diversi modi di rivelare un fenomeno. Da una parte c'è Global Mafia, ideato dai ragazzi di stampoantimafioso.it, mentre dall'altra c'è Uomini Soli che Attilio Bolzoni, realizza nel 2012, anno di ricorrenze eccellenti. Con Bolzoni si cammina per le strade di una città che ricorda le sue vittime ad ogni angolo, Palermo appunto. Con Global Mafia sì gira per il mondo, per denunciare i numeri di un fenomeno che fa paura.

Reti collettive e solitudine dei singoli di Valentina Duosi “Global Mafia” e “Uomini Soli”. Due racconti di denuncia e un grande paradosso: da un lato le “reti” alle spalle delle organizzazioni mafiose, dall'altro quelle alle spalle degli uomini delle istituzioni. Ai gemellaggi culturali, ai legami indissolubili, a un gruppo capace di mantenere una forte e compatta chiusura interna, si contrappone la drammatica solitudine degli uomini di Stato, di coloro che più di ogni altro avrebbero dovuto essere protetti dalla propria “comunità” di riferimento e invece sono stati lasciati soli a combattere la loro guerra personale. Il risultato è una lotta alla mafia personalizzata: la centralità delle singole persone come somma di scelte individuali.

Stampo antimafioso - pag. I

“Fuori la mafia dallo Stato”

A colpi di tamburello di Vincenzo Raffa Palermo. La città mattatoio. La città come dei morti ammazzati. “Palermo come Beirut” dice qualcuno. “No è anche peggio” gli fa eco qualcun altro. Profumi di mercato. Delle verdure vengono esposte in bella vista da mercanti dalla gola secca per quanto pubblicizzano la loro mercanzia: “pesce fresco”. Una foto di un giocatore del Palermo calcio primeggia sorridente appesa ad una parete sporca di una delle tante vie della conca d’oro. Poco più in la un boato squarcia la tranquillità di un pomeriggio nella cittadina siciliana di Capaci. Un altro a via d’Amelio. Corpi dilaniati. Macchine sventrate. Morte. Tanta morte. Un fumo acre di qualche decina di metri sale imperioso e nero segnalando al mondo che qualcosa di brutto era appena successo. Le strade sono interamente divelte. I cancelli delle case sono un vago ricordo. Cocci ovunque. Un odore amaro ristagna nei polmoni ed inquina l’aria. Polvere. Il silenzio è rotto da pianti e singhiozzi di chi conosceva le vittime. Chi non piange per loro, lo fa perché ha gli occhi pieni di polvere. La folla si rivolge urlante ai politici accorsi per i funerali solenni di Falcone e Borsellino: “fuori la mafia dallo Stato”.


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Ricordare, sempre e ovunque

Un percorso formativo

Il laboratorio

Il giornalismo antimafioso esiste. È una combinazione di conoscenza, abilità stilistica e sensibilità civile che fa i conti con un vuoto di spazio nel sistema informativo mainstream. Un vuoto che si fatica a colmare, però, e questo è paradossale. Di più: è inaccettabile, a Milano, capoluogo della Lombardia colonizzata dalla ‘ndrangheta. Da questa premessa prende le mosse il laboratorio di giornalismo antimafioso. Ideato dal professor Nando dalla Chiesa, la redazione di Stampo Antimafioso si è cimentata nel ruolo di tutor. Universitari, una studentessa liceale, un paio di giornalisti, un maresciallo dei carabinieri: loro sono gli iscritti che, da gennaio a marzo, hanno ripercorso la storia del giornalismo antimafioso, si sono misurati con i generi della scrittura, hanno ragionato sulle sfide poste dal giornalismo digitale. Ma soprattutto hanno capito che non si può scrivere di mafia senza averla studiata. E che non basta studiarla: è importante anche imparare a raccontarla. Contro l’invisibilità, saper nominare la mafia per denunciarla.

Ser vitori dello Stato

La forza dell'onestà di Giorgia Venturini

Parlare di mafia vuol dire anche raccontare di chi ha sempre creduto nel riscatto di un popolo onesto. Vuol dire non dimenticare persone come Nino Agostino, il poliziotto ucciso a Palermo da <<ignoti>>. Talmente ignoti che lo stesso Totò Riina aprì un inchiesta interna a Cosa Nostra per scoprire chi sparò. Ha giurato sul nome del figlio, Vincenzo Agostino, padre di Nino. Ha giurato che finché la giustizia non gli darà un colpevole, lui, la sua barba non se la taglierà mai. Ancora dopo anni, però, quella barba, è sempre più bianca e più lunga.

Percorsi di Memoria di Gemma Ghiglia

La facoltà di Scienze Politiche.

Salvatore Borsellino di Silvia Macellaro "...C’è un uomo poi, un uomo che resta sulle sue, nascosto rispetto agli altri; forse per cercare conforto in un ricordo, forse per rabbia. Un uomo con le spalle ricurve, con le braccia che cadono lungo i fianchi e con la testa china sul pavimento. È Salvatore Borsellino. Una testimonianza forte, dura, “un pugno nello stomaco”. Una memoria, la sua, che non è stata solo ricordo, è stata lotta, è stata ricerca della verità, benché questa non sia mai stata trovata. Rabbia, foga, sete di giustizia nelle sue parole. Un nodo alla gola, la voce spezzata dal dolore e una lacrima che gli segna il viso: “Paolo Borsellino è vivo”. Lo sdegno nei confronti delle istituzioni, il rammarico per un fratello ucciso due volte: una prima dalla mafia e una seconda dall'omertà delle persone. Un’omertà che ha massacrato ripetutamente chi era già stato ammazzato, celando con il silenzio quelle verità forse troppo sconvenienti."

Stampo antimafioso - pag. II

L'ultimo intervento, il più toccante, è di Salvatore Borsellino. Il punto del suo discorso è semplice e chiaro: la memoria come lotta. Lotta contro un sistema: "Troppo spesso il più grande vilipendio delle Istituzioni è stato fatto dalle stesse persone che lavorano per esse". Lotta insieme a chi dopo la morte di Paolo ha avuto il coraggio di dire, a Palermo, "Io sono contro la mafia".avuto il coraggio di dire, a Palermo, "Io sono contro la mafia". Dopo vent'anni l'urgenza comunicativa è ancora irreprimibile, il ricordo ancora intenso, la lotta ancora accesa. Si alza in piedi, con il braccio e nella mano una delle sue agende rosse: la pagina è aperta su una foto del fratello. Alta, visibile a tutti. Un gesto che vale più di ogni parola.

La memoria è lotta di Adriana Varriale Milano, 22 febbraio. Presentazione del Coordinamento lombardo dei familiari delle vittime di mafia A conclusione della serata interviene Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Per lui la memoria è la lotta contro coloro che gli hanno portato via il fratello e non permettono giustizia. Ricorda come l’omicidio di Paolo non fu una morte di mafia bensì una morte di Stato. Riporta alle menti dei presenti gli attimi successivi la morte del fratello, ricordando la scomparsa dell’agenda rossa su cui probabilmente si sarebbero trovati i mandanti dell’omicidio. Un discorso commovente e coinvolgente, una narrazione quasi urlata di quello che accadde. “La memoria è lotta” e Salvatore Borsellino lotta per la verità.

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Attenzione al nord

Tempo di agire

di Daniele Cavalli

di Marco Bruno

La memoria è il tema che è si fatto strada durante l’incontro svoltosi a Vittuone il 9 Febbraio scorso, organizzato dalla sezione locale dell’ANPI. Al Nord la memoria è finita spesso in un angolo: la gente, fino all’ Operazione Crimine Infinito del 2010, non si convinceva del fatto che qui la mafia esiste, eccome. Alla base sta il problema dell’incapacità di leggere gli eventi, ma anche quello della voglia di rimuovere i segnali. C’è anche la memoria rivendicata con fervore da chi si attiva contro la mafia. Questa corre però il pericolo di essere strattonata o di perdere la propria solidità e, anche involontariamente, di allontanare da un efficace contrasto alla criminalità organizzata, in ogni luogo questa operi.

All'interno dell'aula magna del “Liceo Bartolomeo Zucchi" di Monza, lo scorso 6 febbraio si è svolto l'incontro tra gli studenti e Stefano Paglia, volontario di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. L'oratore ha stuzzicato i liceali chiedendo loro come possano contrastare questo fenomeno, proponendo tre modalità di contrasto: non acquistare droghe, esprimere sempre la preferenza nelle schede elettorali e pretendere lo scontrino fiscale dopo aver acquistato qualcosa.

Mafia e memoria nell'Italia del Nord

Mafia e politica: il dissenso della società civile di Vittuone di Andrea Zolea Il 9 febbraio nella sede del Comune di Vittuone, ad ovest di Milano, la sezione locale dell'Anpi ha organizzato un convegno antimafia con ospiti illustri: Nando dalla Chiesa, il sindaco Fabrizio Bagini e i giornalisti del settimanale 'L'Altomilanese' Ersilio Mattioni e Ester Castano. L'evento, realizzato per approfondire le questioni giudiziarie sui rapporti tra 'ndrangheta e politica dell'area magentina, ha visto molti cittadini esprimere un forte disaccordo sull'operato di esponenti politici della zona. Vincenzo Capuozzo, segretario dell'Anpi di Sedriano/Vittuone ha marcato il senso dell'incontro ''quello che accomuna la lotta alla mafia di oggi alla lotta della resistenza durante la seconda guerra mondiale è la battaglia per la libertà''.

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Occhi aperti allo Zucchi

DISEGNO DI MARCO BRUNO

Dubbi e domande sulla gestione Aler

La nave della legalità

di Luana Petre

Siamo noi gli unici che possono cambiare. La vita fatta come regalo per liberare chi libero non lo è. Chi vive nelle catene della mafia e non solo: una vita fatta di prostituzione, di vessazioni, di scorte, di denigrazioni, di male parole, di usura. Questa non è vita. Allora si evince che è giunto il tempo in cui noi dobbiamo fare noi stessi. Non cittadini ad intermittenza quindi, come ripete più e più volte un energico Ciotti. La scuola è l’unica che può dire ad un bambino in età scolare, che risolvere i problemi con la forza non è giusto! Che ricevere dei soldi in cambio di favori, non è giusto! Che chiedere il pizzo o praticare l’usura, non è giusto! La scuola come “progetto corale” per educare non solo una persona, ma anche tutte quelle in cui quest’ultima vive e riceve insegnamenti extrascolastici. Riuscire a staccare il figlio alla mafia, vista come madre perché ai suoi bambini questa da una forte identità (quella che secondo alcuni questo Stato oggi non dona), è l’obiettivo principale per rigenerare la società. Ma bisogna farlo subito.

Milano, Audizione in Commissione Antimafia. Loris Zaffra giustifica la nomina di Di Chiano come una prestazione d'opera che in realtà non è mai avvenuta. Nel 2012, essendo stata ALER sottodimensionata, si è deciso di ampliare l'organico, assumendo nuovo personale, tra cui Di Chiano, il quale riportava anche la certificazione di invalidità civile. Rilevanti sono i fatti collegati a Di Chiano, il suo tentato suicidio, l'intestazione di una casa dal Comune di Milano ubicata in via Ca' Granda, la condanna per associazione mafiosa, l'assunzione realmente avvenuta nonostante non abbia mai esercitato la professione presso l'azienda, la sua certificazione di invalidità ancora da verificare.

Stampo antimafioso - pag. III

di Vincenzo Raffa


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I Siciliani 85 Sicilia igiovani – pag. p


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mondo su

NORD

&SUD

mondo giù a cura di Tito Gandini

Padri, figli

Poveri ariani

Armi chimiche 2

Francia, matrimonio gay, il problema non è tanto il matrimonio, quanto la possibilità o meno di esercitare il ruolo genitoriale e questo, paradossalmente anche sui figli propri, oltre che su figli adottivi. Ma se la questione si risolve in maniera positiva per i figli propri ovviamente ne consegue la possibilità di adozione.

Nueva Germania è in Paraguay, una colonia fondata da due razzisti tedeschi nel 1887 con l’obbiettivo di creare una razza pura a partire da 14 famiglie ariane DOP. In capo a pochi anni il progetto fallì, malattie, povertà, manie di grandezza fecero sì che alcune famiglie siano tornate in Germania e che altre si siano progressivamente acconciate alla vita locale, superando qualunque vincolo DOP, per concentrarsi sulla mera sopravvivenza. Oggi la colonia esiste ancora, molti hanno ancora cognome tedesco, ma la "razza", quella è assolutamente indistinguibile dal resto dei paraguaiani. Tanto per dire, noi ancora ci preoccupiamo dell’impatto politico dello Ius Soli.

Siria, pare che adesso si faccia uso di armi chimiche, ma dalla parte sbagliata. Carla Del Ponte, sostiene di avere degli indizi che siano i ribelli ad usarle. Ovvero i buoni, quelli che gli Usa vorrebbero sostenere. Nelle ultime settimane gli americani avevano iniziato a dire che se il Governo siriano avesse deciso di utilizzare armi chimiche contro i ribelli sarebbero intervenuti e ora? Ma chi li rifornisce i ribelli? Intanto Israele per non saper ne leggere ne scrivere, ha bombardato siti militari strategici a Damasco, riuscendo a tirarsi contro la lega araba. Il timore di Israele è che le armi dei depositi siriani, finiscano nelle mandi degli Hebollah. Come dargli torto? Se armi chimiche finissero per essere utilizzate contro Israele, avremmo la base strutturale di un conflitto enorme. Nethaniau si è catapultato in Cina per discuterne e ne ha parlato al telefono con Putin.

E BUROCRAZIA

Armi chimiche 1 SIRIA: LE USA IL GOVERNO?

Siria. L’amministrazione USA, ritiene di avere prove sufficienti che dimostrino l’utilizzo di armi chimiche, in dosi non massicce contro gli insorti. Considerato che Obama aveva determinato come punto di non ritorno per un coinvolgimento diretto degli USA proprio l’utilizzo di armi chimiche, adesso bisogna vedere che succede.

(E POVERO CHI CI CREDE)

Scuse

La bpmba

Serbia. Il presidente nazionalista, Tomislav Nikolic, chiede scusa per il massacro di Sebrenica: “M’inginocchio e domando che la Serbia sia perdonata per il crimine commesso a Sebrenica, mi scuso per i crimini che sono stati commessi in nome del nostro stato, da qualche individuo del nostro popolo.” Allusione piuttosto evidente a Ratko Mladic, comandante in capo delle forze serbe e che comandò personalmente l’attacco all’enclave, che secondo la croce rossa è costato la vita a 8000 persone.

Boston. Una decina d’anni fa, furoreggiava una vignetta che imitando le istruzioni di montaggio Ikea spiegava come costruire una bomba. Bene pare che le pentole a pressione di Boston, con la polvere da sparo estratta dai fuochi d’artificio, con la scelta di un evento all’aperto (quindi senza controlli d’accesso e di security), fossero fatte su istruzioni comunemente scaricabili da web. L’autore era morto per un attacco dei droni americani un paio d’anni fa, ma si sa le idee circolano.

PER UN MASSACRO

FAI-DA-TE

Récord

SENZA GLORIA

3224600 disoccupati in Francia, è record. Tre su cinque hanno accesso al sussidio di disoccupazione che copre il 69% del loro ultimo stipendio.

I Sicilianigiovani – pag. 86

SIRIA: LE USANO I RIBELLI?

Inquinare

NON E' PIU' UN AFFARE

I certificati CO2 avevano raggiunto un valore di 40 dollari la tonnellata in agosto 2008, questo costo incoraggiava le aziende a sostituire infrastrutture obsolete e a progettare riduzioni strutturali degli agenti inquinanti emessi. Poi è venuta la crisi e le aziende hanno cominciato a produrre tanto di meno. Il business case sugli investimenti per ridurre le emissioni è cambiato drammaticamente. Oggi il valore del certificato è sceso a 2 dollari la tonnellata, le aziende sono piuttosto incoraggiate a tenere le vecchie infrastrutture, finché la crisi non sia passata.


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mondo su

NORD

&SUD

mondo giù a cura di Tito Gandini

Baa-bo-cho-nee WHAT MEANS IT?

Gran Bretagna, gli inglesi scoprono i bamboccioni, secondo un recente studio pare addirittura che il 43% dei giovani compresi tra i 18 e i 30 anni abbia chiesto soldi ai genitori per comprare da mangiare, il 36% abbia confessato di chiedere aiuto per pagarsi le ferie , il 16% per ripianare debiti, l’8% per comprarsi casa. Insomma pare che addirittura il 31% dei ragazzi non si senta indipendente economicamente. (Ma in Italia abbiamo rinunciato a farle queste indagini?)

In Germania LI PROCESSANO (I NAZI)

Germania, si apre il processo per 24 omicidi ad un gruppetto neonazista di tre persone. L’obbiettivo non era avere visibilità, era uccidere, uccidere uno straniero era una cosa buona. In realtà sotto processo ci finisce tutto il lavoro di un decennio della polizia e dei servizi segreti, tutte le negligenze e le eventuali connivenze, tutto un sistema di burocrazia elefantiaca o sviste paradossali che hanno permesso al gruppetto di agire indisturbato. La Germania si auto processa in casi del genere, ed entrano in tutti i micro dettagli dei perché e dei percome e sono disposti a mettere in crisi tutto il sistema. (Diciamolo per Cucchi, Aldovrandi, …)

Proteste

Mi son fatto

Mosca, dicembre 2011, malgrado un freddo boia, migliaia di attivisti invadono le strade di Mosca per protestare contro la corruzione. Nella primavera 2012 la protesta aveva raggiunto la provincia, sfidando i sindaci del partito di Putin Russia Unita e spingendoli a varare delle riforme locali. La protesta raggiunse il proprio culmine a poche ore dalla rielezione Putin alla presidenza, dopo una pausa di quattro anni. Poi però scattò la controffensiva: un’ondata di arresti per atti di hooliganismo, gli Usa furono accusati di fomentare le proteste, l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale è stata ridimensionata, la Usaid è stata cacciata malamente, ogni leader dell’opposizione fu controllato per capire se avesse o meno rapporti con organizzazioni internazionali. Ora alla velocità del bradipo la giustizia sta celebrando i processi di quella stagione e l’opposizione è ridotta al lumicino.

Una pistola vera, realizzabile tramite una stampante 3d, in plastica dura, è stata testata con successo dall'associazione americana Defense Distributed.

ANTICORRUZIONE (IN RUSSIA)

LA PISTOLA

India e Cina

E LA GUERRA DIMENTICATA

Conflitti dimenticati: India e Cina si contendono dal 1962 un territorio di frontiera sull’Himalaya. Adesso stanno disarmando.

Europei

TUTTI IN GERMANIA!

Nel 2012 369000 persone sono immigrate in Germania, +32% rispetto all'anno prima, oltre il 50% vengono da altri Paesi europei.

Per oggi

NON LI LANCIO PIU'

La Corea del Nord ha tolto i propri missili dalle basi di lancio.

900 operai AMMAZZATI

Presidente

FIGLIO DI PRESIDENTE

Malesia, Najib Razak è stato rieletto presidente, conservatore, a sua volta figlio dell’ex presidente del consiglio Abdul Razak. Non ci si aspetta grande innovazione.

I Sicilianigiovani – pag. 87

Bangladesh: 912 morti in un crollo di una fabbrica tessile il 24 aprile. Si continua a scavare. E' praticamente impossibile sapere se questa mia felpa ora, sia stata fatta in quella fabbrica. Indizi? Economica, comprata al mercato di Isola a Milano. (Fra gli utilizzatori finali, anche Benetton).


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IL FILO

Il potere in Italia di Giuseppe Fava

Questa è la povera storia di un sindaco siciliano di tanti anni fa, uno che non vole scendere a patti con la mafia. Il partito lo scaricò, i mafiosi lo ammazzarono. Solo un giornalista coraggioso si ricordò di lui, e ce ne ha tramandato il nome Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana, c'era un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della DC, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

politico del partito, in una zona fino allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il Comune. Con un gesto di temeraria dignità, rifiutò le tessere. La segreteria della DC Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora la domanda alla segreteria provinciale della DC, retta in quel tempo dall'ancora giovane Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella DC come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose

ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che, se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico, medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale s'incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell'attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne. Due scariche di lupara Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria. I Siciliani, gennaio 1983

I Siciliani giovani – pag. 88


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Lorenzo Baldo, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Grazia Bucca, Tonino Cafeo, Elio Camilleri, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Giulio Cavalli, Teresa Campagna, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Rossana Chillemi, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Tito Gandini, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giulia Giordano, Giuseppe Giustolisi, Carlo Gubitosa, Max Guglielmino, Sebastiano Gulisano, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Michela Mancini, Sara Manisera, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Massimiliano Nicosia, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Pietro Orsatti, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Francesco Ragusa, Antonio Roccuzzo, Alessandro Romeo, Vincenzo Rosa, Luca Rossomando, Giorgio Ruta, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Coordinamento: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles

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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.

Lo spirito di un giornale "Un giornalismo fatto di veritĂ impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalitĂ , accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo". Giuseppe Fava

Una piccola


libertĂ

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Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / Dir.responsabile Riccardo Orioles/ Associazione culturale I Siciliani giovani, via Cordai 47, Catania / 30 agosto 2012

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Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

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