NUOVI ORIZZONTI ANNO I n°2

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ISSN: 2036-7139

Nuovi Orizzonti Psicologia Medicina Pedagogia

Anno I - n째 2 luglio-dicembre 2009

NUOVI ORIZZONTI

Autorizzazione del Tribunale di Firenze Decreto n. 5682 29 Ottobre 2008 Periodico semestrale anno I numero 2 luglio-dicembre 2009 Modalità di Pagamento: Versamento sul C.C.P. numero 12709580 intestato a ISFAR srl Viale Europa 185/b-50126 Firenze specificando la causale “Abbonamento Nuovi Orizzonti” Abbonamento 2009 (due numeri) - per l’Italia 10 euro - per l’Estero 15 euro • Il prezzo di ogni fascicolo è di euro 7; un numero arretrato (fino ad esaurimento) è di euro 10.

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S o m m a r i o

Nuovi Orizzonti

Crescere maschio di Guido Pesci

Pag. 4

Lo sviluppo della cognizione numerica in bambini dai 6 ai 12 mesi di Erika Vinco

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7

Disturbo affettivo: ansia e depressione nella prospettiva medica di Riccardo Simoni

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10

Lo stress del bambino e del preadolescente: due esperienze di Claudio Rao

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13

Angoscia di castrazione e psicomotricità funzionale di Elena Ester Simonetta

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15

Come migliorare la performance sportiva in un atleta di Antonio Viviani

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19

Anziani stanchi: come far muovere l’anziano di Marta Mani

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22

I metodi per insegnare a leggere e scrivere a cura del Centro Kromos

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23

A sedere! Come il modo di stare seduti parla di noi di Simone Pesci

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24

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Formazioni

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Recensioni

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32

News - Ultime notizie dalla Scienza

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34

La scienza nel quotidiano

Il

test del

Grappolo d’Uva

e le sue evoluzioni

Direttore Responsabile: Simone Pesci Segreteria di Redazione: Valentina Benoni Degl’Innocenti, Sergio Gaiffi, Marta Mani, Guido Pesci, Simone Pesci Comitato Scientifico: Valentina Benoni Degl’Innocenti, Elena Gaiffi, Sergio Gaiffi, Eugen Galasso, Marta Mani, Maria Raugna, Guido Pesci, Simone Pesci, Elena Ester Simonetta, Riccardo Simoni, Antonio Viviani Editore: ISFAR® srl Direzione, Redazione, Amministrazione: Nuovi Orizzonti - ISFAR, viale Europa 185/b, Firenze Printed in Italy: Tipografia It.Comm. Srl, via di Ripoli 50/r Firenze

LUGLIO - DICEMBRE 2009

Nuovi Orizzonti

Crescere maschio Riassunto Allo psicologo giungono spesso richieste di aiuto da parte di maschi che lamentano di percepirsi e identificarsi donna. L’interesse per quello che è chiamato “Disturbo dell’identità di genere” risale agli anni sessanta e da allora gli studi e le ricerche si sono moltiplicate. La rilevanza del fenomeno è socialmente allarmante e ha richiesto una ricerca sostenuta dal proposito di individuare ciò che frena ed inibisce in un maschio l’assunzione di una identità corrispondente al sesso biologico. L’Autore sostiene, grazie anche ad una analisi della casistica, che troppo spesso i soggetti maschi incontrano nel loro percorso di vita figure femminili in quei ruoli cardine per l’identificazione e l’investimento affettivo e si auspica che ciò trovi una soluzione anche da un punto di vista legislativo.

Abstract There are several men who turn to psychologists for assistance because of their difficulty of perceiving and identifying themselves as males. The gender identity disorder first started to arouse scientific interest in the sixties and has become since then the object of countless studies and researches. The growing social significance of the phenomenon now calls for an in-depth analysis on what restrains and inhibits a male from taking on the identity related to his biological sex. Through a careful examination of clinical cases, the Author states that far too often during their lives male subjects find female figures in roles that are determinant for identification and affective investment, and hopes that a solution will be found at a legislative level.

U

na sofferente richiesta di aiuto assai frequente nella nostra epoca giunge allo psicologo da soggetti maschi che lamentano di percepirsi e identificarsi donna, quel “disturbo dell’identità di genere”, condizione in cui una persona presenta una forte e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico o comunque a quello assegnato anagraficamente alla nascita. L’interesse, pur inizialmente sfumato, verso queste persone risale già agli anni sessanta, periodo in cui esse venivano ancora appellate generalmente con termini dal significato spregiativo. Da allora gli studi e le ricerche si sono moltiplicate e si possono datare con i lavori di Gorer (1966), Money (1975), Zurcker e Bradley (1995), Di Ceglie (2002), Butler (2004), Dettore e Ristori (2005), Dettore e Montano (2009).

Nel 2002 il “Disturbo dell’identità di genere” (DIG) viene descritto e catalogato tra le nosografie del DSMIV-TR (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). Sulla collocazione nei disturbi mentali gli studiosi non hanno trovato tuttavia un consenso unanime, specie se si fa riferimento all’età evolutiva: le maggiori critiche provengono da Neisen (1992) e Wilson et al. (2002) i quali affermano che piuttosto di una diagnosi psicopatologica sarebbe più utile prendere in considerazione i diversi percorsi di sviluppo.

L’incidenza stimata è di 1 su 10-12.000 nati maschi, una percentuale che dal nostro osservatorio psicoterapeutico e di ricerca riteniamo sia assai sottostimata. I soggetti maschi che hanno forgiato la propria

identità in una forte e persistente identificazione nel sesso opposto e che convivono con questa loro difficoltà, senza potersi sottrarre al disagio e all’inquietudine provocata dalla considerazione degli altri che li valutano in base alle caratteristiche tipiche del loro ruolo di genere e li incalzano in ogni occasione di relazione, sono in gran numero.

La rilevanza del fenomeno è socialmente allarmante e ha richiesto una ricerca sostenuta dal proposito di giungere prima possibile alla pur sofisticata e specifica individuazione dei flussi che frenano, inibiscono e ostacolano nel maschio l’assurgere alla propria identità. Per questo occorreva dare impulso all’esplorazione intorno e dentro al dominio in cui il disturbo dell’identità ha trovato alimento, e mentre altri ricercatori si sono soffermati a studiare il processo dinamico che porta il ragazzo ad accedere alla mascolinità “disidentificandosi” dalla madre, attraverso i due processi di mascolinizzazione e di “defemminilizzazione”, e sulla contemporanea esigenza di una controidentificazione con il modello del padre, noi senza disattendere l’importanza di questi orientamenti scientifici, ci siamo mossi all’insegna di motivazioni tradotte nell’equazione personale dell’individuo, orientati dalle narrazioni dei pazienti (Crépault, 2009).

Fuori dagli intimi ed esclusivi travagli del ruolo del padre e della madre dove si sostiene che il soggetto corra il rischio di una maggiore vulnerabilità della sua identità di genere e un maggior rischio di “incidenti di percorso” nel suo sviluppo psicosessuale, dalla nostra

luglio - dicembre 2009

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esperienza sul campo, abbiamo voluto dare volto al significato delle sue esperienze di vita, sostare sulla parte più oscura, più buia della personalità, per aiutare l’emersione delle forze egemoni che lo hanno frenato ed impedito. Un’analisi dei costituendi modi del lento e profondo movimento che hanno favorito la sostanza delle sue tendenze minoritarie.

L’impianto della ricerca su soggetti maschi afflitti da disarmonie nell’identità di genere non ha trascurato alcun orientamento degli studi, sia quelli rivolti a valorizzare gli strati più pro­fondi della personalità, l’incidenza di fattori inconsci nella struttura e nello sviluppo della personalità sia quelli che si incen­trano sui fattori conoscitivi e coscienti, ogni opportuna modalità che potesse permettere di assumere conoscenze significative di rilevanza scientifica.

La ricchezza dei dati raccolti nell’analisi del processo di dislocazione affettiva e del consolidamento dell’identità di genere, hanno contribuito a comprendere come siano correlate a tracce di imitazione nelle varie occasioni di relazione suffragate dal sentimento, dal desiderio, influenzate da fattori ed eventi psicologici, input individuali e sociali. In particolare, si è potuto affermare che l’identità di genere è dipendente dall’escursione del comportamento appreso e sperimentato, dai modelli emulativi proposti, dall’esperienza di ciò che astraiamo, elaboriamo e definiamo, ed è comprovato che è congiunta al complesso schema di idee e di valori, alla ricchezza di emozioni, di stati d’animo e di sensazioni legate alle circostanze e alle esperienze personali, capaci di motivare e sostanziare l’agire e l’essere, una realtà sog­gettiva il cui assetto non trascura la dina­mica individuale nel gruppo, la percezione che il soggetto ha di se stesso e dei suoi ruoli nell’ambiente sociale.

Le basi scientifiche raccolte durante il viaggio esplorativo ci permettono di sostenere che la persona costruisce la sua identità sessuale pervicacemente come un continuum che la orienta nella scelta di un aspetto, di uno stile, di un gusto sessuale fino ad appartenere ad un genere sessuale. Tutto questo mentre sul palcoscenico del presente il soggetto diffonde la propria specificità contraddistinta da cataloghi di segnali personali corrispondenti ad attività, modi di vestirsi, di comportarsi e di esprimersi che, nel contesto culturale e sociale in cui viviamo, è considerata tipicamente femminile.

I maschi che richiedono l’intervento clinico si preoccupano di chiarire e superare i problemi di quella che dichiarano essere una loro caratterizzazione personale, e, con produzioni di sapore deduttivo-descrittivo, danno prova di trovare esposte nella loro storia, ampie testimonianze, fatti ed esperienze che ne hanno distinto la personalità. Prove e riflessioni sul loro scambio di genere che, con fatica, affievoliti i dubbi e le perplessità nel dichiararsi, rotto con decisione ogni disagio,

LUGLIO - DICEMBRE 2009

hanno esposto e fatto conoscere. Molti sviluppano un risultato confuso, vivono la percezione di aver ceduto, di essersi inceppati, di avere, pur senza consapevolezza, rimescolato tutte le carte, ereditato il senso dell’esistere e di un agire dipendente. Sullo svolgersi degli eventi queste persone operano assai di frequente una lettura vaga, non giustificano né assolvono, ma, allo stesso modo, non legittimano gli accadimenti e nelle circostanze intravedono importanti responsabilità.

L’esplorazione dell’originale sviluppo ci ha permesso di seguire le incrinature e la persistenza dei disagi, orientati dalla traiettoria da chiare segnalazioni che si possono ben desumere dagli stralci di sedute…

Una persona che tra le tante necessità non soddisfatte ha sofferto delle scarse stimolazioni vibro-tonematiche e della limitata presenza del padre sostiene: “Io sarei un genere di due gameti… detto così sembra che non sia esistito un accoppiamento, non una unione del maschio e della femmina, dell’uomo e della donna che mettono in contatto i gameti… spermatozoo e ovulo… e che è dalla loro unione, o fecondazione, da cui nasce l’uovo dotato di una coppia di ogni tipo di cromosomi, ciò che concretizza l’atto d’amore e di inseminazione…

Io ritengo che tenere presente questa comunione ha un significato importante poiché solo così si dimostra un più sicuro riconoscimento anche del ruolo maschile nella nascita di un figlio… […] Quando rifletto sul mio vivere nove mesi in grembo a mia madre… ho il desiderio di pensare che anche mio padre fosse con noi, il suo contatto… il suo calore… la sua voce, a dialogare tutti assieme… ma mio padre non è stato molto presente… io… solo con mia madre… […] Si dice che il bambino in utero viva e partecipi ai suoni, ai ritmi, ai rumori… perciò anche alle diverse voci che lo circondano…

Se questo è, io ho conosciuto solo la voce femminile”.

Un altro paziente si è particolarmente soffermato sui primi cinque anni ed ha lamentato come ostacoli per una migliore definizione sessuale il costante sostare in casa con due zie e la madre e, fuori da casa, con le insegnanti (donne anch’esse!); il padre non lo aveva mai conosciuto: “…di loro mi piaceva tutto… erano dolci… premurose… avevo a disposizione i loro vestiti… la biancheria intima… perfino le scarpe con il tacco a spillo… mi veniva spontaneo imitarle… I loro vezzeggi erano simpatici… anche la loro voce era sonora, timbrica, squillante… e non ho potuto fare a meno di accoglierla, farla mia… e ancora, nonostante l’età, mi è rimasta […] Anche le insegnanti mi stavano molto vicino… mi coccolavano in modo simile alle tre donne… alle amiche… che avevo in casa… simili anche nel comportamento… Pure le insegnanti si mettevano il rossetto… era simpatico vederle accomodarsi i capelli… e quel modo che avevano di stare sedute… di asciugarsi il volto con dei tamponcini…”.

Dall’analisi di una persona con esperienze di vita rite-

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nute responsabili del suo disturbo si è potuto apprendere che egli ha vissuto in casa con i genitori ed una sorella più grande di quattro anni, la madre impegnata in una professione che la obbliga a stare poco a casa e così il padre, ambedue presenti solo alla sera tardi: “Io, fin da piccolissimo, sono andato all’asilo… più grandicello andavo a scuola… come tutti del resto… In casa avevo qualche abbraccio da questa madre… che certo non mi soffocava… e molte attenzioni da parte di mia sorella… mia sorella mi è sempre piaciuta tanto e fin dove era possibile cercavo di imitarla… poi a scuola… circondato sempre da insegnanti femmine… non so perché, ma nelle sezioni c’erano sempre pochi bambini maschi… Le maestre sono state per me un tormento… in positivo intendo… stavo bene con loro… mi interessavano i loro abiti, i loro profumi, il loro continuo cambiarsi pettinatura e colore dei capelli… scherzose e litigiose con le colleghe, sarcastiche… maliziose… mi interessava ciò che si raccontavano: parlavano assai spesso del loro corpo e avevano uno strano modo di atteggiarsi. Nella scuola elementare c’era solo un maschio, il custode, cattivo, irrispettoso, freddo… agiva sempre con un fare costrittivo… Qualche insegnante maschio l’ho avuto alle superiori… altri, ma sempre in numero ridotto rispetto alle femmine, all’università. Si può dire che la mia vita l’ho trascorsa fra le femmine… nella scuola evidentemente non esistono le pari opportunità (ride)… Ho letto che l’identità di genere è un concetto utilizzato per descrivere il genere maschile o femminile in cui una persona si identifica, io non ho avuto molta scelta …”.

Stralci di incontri terapeutici che hanno permesso di confermare, in tangibile assonanza con tantissimi altri incontri ordinati su questi valori, che l’identità di genere è dipendente anche dai modelli emulativi proposti, specie se partecipati in età di massimo assorbimento e in un clima in cui la dislocazione affettiva è tanto sentita, a casa come negli altri contesti educativi.

Voci di disagio di pazienti maschi, quelle raccolte, obbligati dal paradosso di un regime educativo ormai animato da sole figure femminili, a vivere un’esclusiva, forte, intensa e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico.

Ciò sembra confermare che il genere è la conseguenza delle regole, dei valori e delle serie di coordinazioni tramite le quali una società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e i soggetti con disturbi dell’identità di genere sono il gruppo policromo di vicende, il volto di una società che è in ritardo nel condurre gli individui a divenire degli esseri, evidente esempio di una civiltà la cui cecità e superficialità che fa sempre più da sfondo al tutto, mette in crisi e rende discutibili ideologie e istituzioni.

Che lo si voglia o meno, l’educazione e l’apprendimento si basano su fenomeni di imitazione e sulla forza dell’esempio e il processo di femminilizzazione di ogni contesto educativo a cui assistiamo, specie nella scuola, fa sì che lo Stato sia responsabile di rendere più difficile ai maschi l’identificazione con soggetti dello stesso sesso, con la possibile conseguenza di mancati equilibri.

Per “crescere maschio” si chiede con forza scelte sociopolitiche coraggiose e capaci di giungere ad un immediato intervento legislativo con cui si riconosca la legittimità di dare al maschio la pari opportunità di identificarsi con un suo simile in ogni ambito educativo, una libera scelta nel caratterizzarsi con un riferimento erotico, esistenziale e semantico, emozionale e affettivo strettamente individuale e non condizionato.

Ai rigidi modelli, alle tenaci tradizioni e agli inossidabili stereotipi che hanno influenzato fortemente l’evoluzione, la maturazione e l’esercizio di un’identità sessuale davvero personale, occorre anteporre l’equazione che consente di dare solidità alla piattaforma dei fondamenti su cui l’individuo si costruisce, si progetta, si fa persona.

Guido Pesci

Bibliografia Butler, J., (2004). Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio. Milano: Sansoni.

Crépault, C. (2009). La sesso analisi. Alla ricerca dell’inconscio sessuale. Milano: Franco Angeli.

Dettore, D. e Montano, A., (2009). Immagine corporea e sessualità. In D. Dettore (ed.), I disturbi dell’immagine corporea.

Milano: McGraw-Hill.

Dettore, D. e Ristori, J., (2005). Disturbo dell’identità di genere in età evolutiva. In D. Dettore, Il Disturbo dell’Identità di Genere: Diagnosi, eziologia, trattamento. Milano: McGraw-Hill.

Di Ceglie, D. (2002). Gender identity disorder in young people. In Advances in Psychiatric Treatement, 6, 458-466.

Gorer, G. (1966). The danger of equality. London: CressetPress.

Money, J.(1975). Ablatio penis: Normal male infant sex reassigned as girl. In Archives of Sexual Behavior, 4,65-71.

Neisen, J. (1992). Gender identity of childhood: by whose standards and for what purpose? A response to Rekers and Money. In Journal of Psychology and Human Sexuality, 5, 65-67.

Wilson, I., Griffin, C. e Wren, B., (2002). The Validity of the Diagnosis of Gender Identity Disorder. In Clinical Child Psychology and Psychiatry, 7, 335-351.

Zucker, K.J. e Bradley, S.J. (1995). Gender Identity Disorder and Psychosexual Problems in Children and Adolescent. New York: The Guilford Press.

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Nuovi Orizzonti

Lo sviluppo della cognizione numerica in bambini dai 6 ai 12 mesi Riassunto L’articolo riguarda lo sviluppo della cognizione numerica a partire dai primi mesi di vita del bambino; nello specifico, l’Autrice intende mostrare come dai 6 ai 12 mesi si è già in grado di discriminare il gruppo più numeroso tra due gruppi di numerosità diversa. Si sostiene che tale abilità di discriminazione sia innata per gruppi di piccole numerosità composti da 0 a 4 elementi, mentre per quanto riguarda gruppi di numerosità più grande (>4) essa viene appresa nel corso dello sviluppo. Molte ricerche, quelle presentate in questo scritto, che offrono una disamina attenta e puntuale sullo sviluppo ontogenetico delle capacità numeriche e che possono permettere al lettore di comprendere un aspetto rilevante del periodo infantile.

Abstract This article focuses on the development of numerical cognition during the first months of life of children and aims in particular at proving that children from six to twelve months are already able of identifying the group with the largest number of items when presented with groups of varying consistency. The Author claims that children innately possess the ability to discriminate smaller groups with 0 - 4 items and apprehend to discriminate larger groups (with more than 4 items) during development. This article presents several researches that offer a careful and accurate analysis of the ontogenetic development of numerical skills to allow the reader to appreciate a very important aspect of the infant period.

U

no dei principali oggetti di indagine della psicologia evolutiva è lo studio della cognizione umana e del suo sviluppo ontogenetico in assenza di linguaggio simbolico-verbale.

Una prima evidenza degli aspetti innati dell’abilità di conteggio è stata fornita da Wynn (1992) attraverso il paradigma di violazione dell’aspettativa. Nello specifico, a bambini di cinque mesi venivano presentate delle sequenze di addizioni e sottrazioni corrette e non corrette di piccole quantità di oggetti (pupazzi) ed il tempo trascorso a guardare i risultati dei singoli calcoli veniva registrato (es.: “1+1=2” o “1+1=1”). I risultati mostrano che gli infanti osservano per un tempo più prolungato gli eventi che danno luogo ad un risultato non coerente con le operazioni numeriche cui assistono.

Numerose ricerche, grazie ai contributi apportati dal paradigma della abituazione-disabituazione, hanno evidenziato anche che nei bambini di cinque-sei mesi di vita è presente la capacità di discriminare le numerosità. In particolare il paradigma della abitazione-disabituazione consiste nella misurazione del decremento nella durata del tempo di fissazione visiva, in conseguenza della ripetuta presentazione di uno stesso stimolo. Tale paradigma si compone di due fasi: una fase iniziale, detta di abituazione o familiarizzazione nella quale lo stesso stimolo viene presentato ripetutamente al bambino, e una seconda

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fase, detta fase test o di violazione dell’aspettativa, nella quale lo stimolo familiare, o uno stimolo che condivide con quello familiare una o più proprietà, viene ripresentato al bambino insieme a uno stimolo nuovo, diverso da quello familiare per una o più caratteristiche (Macchi e Cassia et al., 2004).

Uno studio condotto da Xu e Spelke (2000) ha dimostrato che i bimbi di sei mesi, ai quali venivano presentati due gruppi di numerosità diversa, riuscivano ad individuare quale gruppo di elementi era il più numeroso soltanto se il rapporto tra i due era di 1:2 (vedi figura).

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Più precisamente, i bambini riconoscevano il gruppo più numeroso solo se il confronto presentato era di 16 vs. 8. Nessuna discriminazione invece avveniva quando a confronto vi erano 12 e 8 elementi, gruppi con rapporto 2:3.

In seguito, Xu (2003) ha messo in evidenza che i bambini di sei mesi sono in grado di discriminare due gruppi di numerosità diversa con rapporto 1:2 con gruppi di numerosità superiori a tre elementi.

Nello specifico, i bimbi che avevano partecipato a questa ricerca, riuscivano a discriminare il gruppo più numeroso quando il confronto era di 4 vs. 8, ma non quando era di 2 vs. 4. Inoltre, attraverso questa ricerca ed in un successivo studio in bambini di 10-12 mesi (Feigenson e Carey, 2005) si è dimostrato che i bimbi falliscono anche quando i confronti presentati sono di 3 vs. 4, 3 vs.

6 e 1 vs. 4, mentre riescono a discriminare il gruppo più numeroso dal meno numeroso quando il confronto è di 1 vs. 2, 2 vs. 3, 1 vs. 3 e 0 vs. 4.

Lo sviluppo ontogenetico della cognizione numerica Allo stato attuale, lo sviluppo ontogenetico delle capacità numeriche è stato studiato solo nei bambini (Xu e Spelke, 2000; Lipton e Spelke, 2003).

Brannon (2002) ha utilizzato il classico paradigma di abituazione-disabituazione per dimostrare come il concetto di ordinalità si perfezioni con lo sviluppo e preceda la comparsa del linguaggio. Nello specifico, ai soggetti venivano presentate sequenze di puntini con un determinato ordine (crescente, come 2-4-8 punti, o decrescente, come 12-6-3); se in abituazione venivano presentate sempre sequenze crescenti, nella fase test si presentava l’ordine opposto. I risultati documentano come i bambini di 9 mesi falliscano nell’individuare una differenza tra i due ordini, mentre a 11 mesi tale capacità è manifesta.

Lipton e Spelke (2003) hanno ripreso invece la ricerca di Xu e Spelke (2000) utilizzando però suoni che

variavano in durata. I risultati della ricerca confermano come i bambini di 6 mesi siano in grado di distinguere due pattern di 8 e 16 unità, mentre lo stesso non avviene quando a confronto vi sono 8 e 12 elementi; a 9 mesi, al contrario, anche gruppi di grandi dimensioni con rapporto numerico pari a 2:3 vengono discriminati, mentre lo stesso non si verifica con rapporti numerici pari a 4:5 (come il caso di 8 vs. 10), suggerendoci come la discriminazione di numerosità migliori nel corso dello sviluppo ontogenetico anche in assenza di linguaggio umano.

Lipton e Spelke (2004) hanno continuato le loro ricerche sull’ontogenesi della discriminazione numerica testando bambini di 6 e 9 mesi attraverso il paradigma di abituazione-disabituazione utilizzando insiemi di suoni dove la durata complessiva veniva controllata. I risultati documentano come a 6 mesi i bambini possano distinguere tra 4 vs. 8 (1:2), ma non 4 vs. 6 (2:3); a 9 mesi, tuttavia, riescono in questo rapporto sia con 4 vs. 6 che con 8 vs. 12, ma non con un rapporto di 4:5 (nel confronto tra 4 e 5 suoni), suggerendo come il rapporto critico discriminabile a nove mesi cada tra 1.5 e 1.25.

Wood e Spelke (2005) hanno utilizzato il paradigma di abituazione-disabituazione utilizzando come stimolo un pupazzo nell’atto di compiere diversi salti. I risultati documentano come bambini di 6 mesi riescano a distinguere tra 4 e 8 salti, mentre falliscono in 2 vs. 4 e 4 vs. 6. A 9 mesi, invece, 4 vs. 6 viene discriminato, suggerendo come la discriminazione di grandi numerosità si perfeziona con lo sviluppo.

Recentemente, Brannon e colleghi (2007) hanno documentato inoltre come la discriminazione di eventi temporali sia sensibile al ratio in maniera analoga ad altre discriminazioni quantitative. Interessante è il fatto che la discriminazione migliora con lo sviluppo ontogenetico: tra 6 e 10 mesi di vita, in maniera analoga a quanto descritto da Lipton e Spelke (2003)

luglio - dicembre 2009

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con stimoli uditivi, la capacità di distinguere eventi di diversa durata – attraverso paradigma di abitazione-disabituazione - diviene più precisa. In particolare a 6 mesi distinguono tra 2 eventi il cui rapporto è 1:2, ma non 2:3; a 10 mesi, invece, riescono anche in questo rapporto. Questo potrebbe suggerire come alla base dei giudizi temporali e di quantità vi sia un unico sistema (o 2 sistemi) con le medesime caratteristiche.

A riguardo, alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che vi possano essere due distinti meccanismi alla base della discriminazione numerica sia negli esseri umani e sia in altre specie animali. Secondo il modello denominato object-file, (Trick e Pylyshyn, 1994; Kahneman et al., 1992), tutti gli animali sarebbero in grado di rappresentare le diverse numerosità costruendo un’immagine mentale degli oggetti in questione. In questo modello gli oggetti verrebbero computati in parallelo e mantenuti contemporaneamente in un magazzino di memoria provvisoria: ciò permetterebbe la risoluzione di compiti matematici anche molto precisi, ma inevitabilmente circoscritti ad un numero di elementi piuttosto limitato, un massimo di tre o quattro unità (Uller et al., 2003; Hauser et al. 2000). La caratteristica principale di questo sistema è che la capacità di discriminare non varia al rapporto tra i due numeri.

Secondo il modello dell’accumulatore, invece, ogni

oggetto verrebbe rappresentato come un impulso dal sistema nervoso centrale; il sistema cognitivo accumulerebbe poi i segnali ottenuti dalla visione di ciascuno stimolo per trasferire l’informazione alla memoria a lungo termine (MLT); in tale luogo, infine, verrebbe assegnata un’etichetta al livello complessivo di impulsi raggiunti in questo ipotetico accumulatore.

Tale sistema non sarebbe preciso in quanto non riuscirebbe a rappresentare il livello esatto di impulsi quando il numero di eventi è consistente; tuttavia a differenza del meccanismo di object-file, permetterebbe di distinguere anche tra numerosità molto grandi, solo nel caso in cui vi sia un’adeguata distanza numerica tra i gruppi da discriminare, visto il margine di imprecisione del sistema. La caratteristica di questo sistema è che segue i principi della legge di Weber.

Se la maggior parte degli studiosi è concorde nell’affermare che vi possano essere due sistemi numerici indipendenti, altri autori invece sottolineano l’importanza del rapporto numerico tra le quantità confrontate, sia per piccole che per grandi numerosità, concludendo come potrebbe esistere un solo sistema sensibile alla distanza numerica tra i gruppi.

Erika Vinco

Bibliografia Brannon, E.M., Suanda, S., e Libertus, K. (2007). Temporal discrimination increases in precision over development and parallels the development of numerosity discrimination. In Developmental Science, 10, 770-777.

Feigenson, L., e Carey, S. (2005). On the limits of infants’ quantification of small object arrays. In Cognition, 97, 295-313.

Hauser, M.D., Carey, S., e Hauser, L.B. (2000). Spontaneous number representation in semi-free-ranging rhesus monkeys.

In Proceedings of the Royal Society of London: Biological Sciences, 267, 829-833.

Kahneman, D., Treisman, A., e Gibbs, S. (1992). The reviewing of object files: object specific integration of information. In Cognitive Psychology, 24, 175-219.

Lipton, J.S. e Spelke, E.S. (2004). Discrimination of large and small numerosities by human infants. In Infancy, 5(3), 271290.

Lipton, J.S., e Spelke, E.S. (2003). Origins of number sense: large number discrimination in human infants. In Psychological Science, 14, 396-401.

Macchi Cassia, V., Valenza, E., e Simion, F. (2004). Lo sviluppo cognitivo. Dalle teorie classiche ai nuovi orientamenti. Bologna: Il Mulino.

Trick, L.M., e Pylyshyn, Z.W. (1994). Why are small and large numbers enumerated differently? A limited-capacity preattentive stage in vision. In Psychological Review, 101, 80-102.

Uller, C., Jaeger, R., Guidry, G. e Martin, C.(2003). Salamanders (Plethodon cinereus) go for more: rudiments of number in an amphibian. In Animal Cogniton, 6,105-112 Wood, J.N., e Spelke, E.S (2005). Infants’ enumeration of actions: numerical discrimination and its signature limits. In Developmental Science, 8(2), 173-181.

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Disturbo affettivo: ansia e depressione nella prospettiva medica Riassunto Partendo da dati sempre più preoccupanti, forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Autore intende richiamare l’attenzione su come i disturbi di natura psichica, in particolare la depressione, costituiscano un fenomeno in aumento sul quale gli specialisti debbono impegnarsi per sviluppare ricerche in grado di fronteggiare e curare tali problematiche, migliorando la qualità della vita e le relazioni sociali delle persone. Soffermandosi in modo particolareggiato sui Disturbi dell’Umore, Riccardo Simoni articola la sua riflessione da una prospettiva psichiatrica circa i vantaggi e i benefici di una mirata terapia psicofarmacologica.

Abstract The Authors bases his article on the increasingly worrisome data provided by the World Health Organization (WHO) to emphasize the increase of psychological disorders and depression in particular and to summon specialists to focus on researches aimed at determining the best approach to meet with and treat these disorders and improve the quality of life and social relations of the people affected. Dwelling on mood disorders, Riccardo Simoni examines the advantages and benefits of a targeted psychological and drug therapy from a psychiatric perspective.

O

ltre 450 milioni di persone oggi nel mondo soffrono di una malattia mentale (OMS, 2001).

Circa il 14% del carico globale di malattia è costituito da patologie di tipo neuropsichiatrico, la maggior parte delle quali sono malattie invalidanti croniche come la depressione, le psicosi, l’abuso di alcool e l’utilizzo di sostanze stupefacenti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha previsto che nel 2020 la depressione diventerà la seconda più importante causa di disabilità e di costi sociali a livello mondiale, preceduta solamente dalla cardiopatia ischemica. Il carico delle malattie mentali è quasi sempre stato sottostimato anche a causa dell’inadeguato riconoscimento del rapporto tra salute e salute mentale. Le malattie psichiche favoriscono l’insorgenza di altre patologie e di eventi traumatici; viceversa, la maggior parte dei disturbi organici determina una sofferenza psichica: la comorbidità complica il trattamento ed influenza negativamente la prognosi. Il divario tra il tipo di cure di cui questi pazienti avrebbero bisogno e quelle che invece ricevono è, pertanto, molto ampio: anche in Paesi dotati di un sistema sanitario sviluppato, il 44-70% di coloro che soffrono di malattie mentali non ha accesso ad alcuna terapia. Le autorità della Sanità Pubblica dicono che lo stigma e la discriminazione sono i principali ostacoli che le persone con disturbi mentali

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debbono affrontare oggi: sono la vergogna e la paura che impediscono alle persone di cercare assistenza. L’OMS afferma che i disturbi mentali come la depressione possono essere curati con successo, dando la possibilità a queste persone di vivere bene nella società; importanti progressi scientifici sono stati compiuti nel ridurre la sofferenza e la disabilità che accompagnano la malattia mentale: sono stati identificati metodi efficaci per coinvolgere la famiglia e la comunità nel favorire l’integrazione. Dopo che il decennio 1990-2000 dedicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e alle neuroscienze ha visto un incredibile impulso di studi e di conoscenze sul cervello e sulle malattie mentali, l’attuale decennio dedicato alla lotta, su scala planetaria, contro lo stigma sociale della malattia mentale, sembra fondarsi sempre più su solide basi scientifiche e neurobiologiche. Le neuroscienze hanno fornito informazioni tali da costringerci a rivedere e riformulare in modo diverso sia le informazioni che le convinzioni precedenti: le attuali conoscenze sul cervello, sul suo funzionamento e sulle sue patologie costituiscono dei portati nuovi sul piano culturale tali da impegnare i filosofi, i pensatori e gli psicoanalisti moderni in un serio dibattito con i neuroscienziati e i ricercatori. Il mondo della Psichiatria Internazionale attuale si sta mobilitando con programmi di informa-

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zione e aggiornamento non solo per il mondo medico, ma anche per la gente comune che attualmente continua a mantenere un preconcetto atavico nei confronti della malattia mentale.

Il Disturbo Affettivo (Ansia e Depressione) rappresenta una delle malattie più diffuse nel mondo occidentale e la sua storia naturale più frequente è verso la cronicizzazione, con ricadute e modificazioni stabili della personalità. I Disturbi dell’Umore (Disturbi Depressivi e Bipolari) e i Disturbi d’Ansia rispondono molto bene alla terapia psicofarmacologica in quanto trattasi di malattie con importante coinvolgimento di alcune strutture del Sistema Nervoso Centrale, quali le vie Monoaminergiche. I Disturbi d’Ansia e i Disturbi dell’Umore corrispondono a due modalità di manifestazione sintomatologica clinica della stessa malattia biologica cerebrale sottostante, detta Disturbo Affettivo. Questo spiega perché Ansia e Depressione, pur avendo caratteristiche diverse, siano sempre associate e intimamente connesse. Il disturbo consiste in una vera e propria malattia di tipo neurodistrofico (alterazione del metabolismo) che colpisce i nuclei e le vie delle cellule neuronali monoaminergiche, provocando una disfunzione dell’attività cerebrale e una modificazione fissa dello stato mentale normale. In corso di malattia depressiva si assiste a una perdita della normale neuroplasticità a livello sinaptico, con dimezzamento del numero di sinapsi, perdita del normale trofismo cellulare con danni al citoscheletro, diminuzione del metabolismo e della produzione dei neurotrasmettitori (“sindrome da bassa serotonina cerebrale”), blocco nelle neurogenesi spontanea a livello dell’ipotalamo, la zona più caratteristicamente colpita con evidente atrofia, che spiega il deficit mnesico caratteristico della depressione, in ultimo, apoptosi neuronale e gliale in aree importanti quali la corteccia prefrontale e l’ippocampo.

La malattia produce in realtà una serie di lesioni neurologiche vere e proprie. La corretta terapia antidepressiva è in realtà una terapia ad azione neurotrofica che reverte in modo completo la malattia metabolica neuronale in modo spesso definitivo e completo fino alla guarigione stabile anche dopo l’interruzione della terapia farmacologica. Una più precisa conoscenza di

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tale strategia terapeutica da parte del medico può ottimizzare il controllo e la gestione di terapie farmacologiche antidepressive, che per altro rappresentano una cospicua spesa per il “budget” di ogni Medico di Medicina Generale (in Toscana circa il 10-14%) e, quindi, per il Sistema Sanitario Nazionale.

Oggi la depressione e l’ansia non si possono più considerare malattia morali o spirituali, non si possono più confondere con il “mal di vivere” in quanto alla base dei sintomi si trova una malattia neurodistrofica che porta a morte le cellule nervose. Attualmente sono stati individuati ben otto geni responsabili della malattia e si pensa che ne esistano altri. Inoltre, negli ultimi anni, si va sempre più chiarendo il ruolo dello stress che sembra in grado di indurre la malattia attraverso il ruolo delle catecolamine circolanti che a livello del DNA neuronale bloccano la produzione di fattori neurotrofici e inducono quindi neurodistrofia cellulare. La Depressione è attualmente una malattia ben conosciuta dalla medicina, nella sua eziologia genetica, nella sua fisiopatologia, nella sua cura fino alla guarigione, spesso definitiva. La Depressione è da considerarsi una malattia neurologica a espressione psicopatologica, oltre che una malattia multisistemica a partenza cerebrale i cui sintomi di base sono il dolore psichico e il dolore somatico, spesso sottovalutato, ma sempre presente in un altissimo numero di casi. La Malattia Depressiva colpisce soprattutto il Sistema Limbico nelle sue vie neuronali Serotoninergiche, Noradrenergiche e Dopaminergiche. Questa complessa struttura, di cui la neurobiologia attuale riconosce almeno dieci stazioni, dal mesence-

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falo alla corteccia prefrontale, è deputata alla formazione della vita emotiva e degli stati affettivi: il Sistema Limbico conferisce il colorito di piacevole o spiacevole alla percezione degli stimoli psichici interni o ambientali esterni. Nella depressione si ha un blocco del tono dell’umore che resta sempre fissato al polo della tristezza e perde la sua caratteristica capacità di oscillare dal polo della normale eutimia al suo opposto in relazione agli eventi e alla cognitività. Tutti gli stimoli vengono pertanto percepiti come spiacevoli a scapito della ragionevolezza del soggetto. I farmaci antidepressivi hanno una azione caratteristica prima di stimolo e poi di mantenimento del normale turn-over del neurotrasmettitore o “primo messaggero” con normalizzazione della attività sinaptica deficitaria e corretta propagazione dell’impulso elettrico e, soprattutto, del “signaling” metabolico. Gli antidepressivi triciclici mostrano attualmente l’efficacia migliore sulla Depressione Maggiore grazie alla azione pre- e post-sinaptica, mentre gli SSRI, capostipite la Fluoxetina, hanno efficacia specifica sulla Depressione Minore o Distimia. La terapia farmacologica corretta per tipo di farmaco e tempi di somministrazione, se si attiene a parametri certi e ampiamente sperimentati, induce la guarigione per reversione totale della distrofia neuronale con azione neurotrofica per attivazione della modulazione genica, che è una via metabolica naturale, che ripristina la normale produzione di fattori neurotrofici, come il BDNF (Brain Derived Neurotropic Factor), NT 4/5 ecc. e il ripristino del normale “signaling” metabolico tra i neuroni cablati in una rete. Infatti quando il neurotrasmettitore o “primo messaggero” si lega al suo recettore post-sinaptico specifico come una chiave nelle propria serratura si hanno una serie di eventi nel neurone post-sinaptico.

In realtà esistono due tipi di recettori con differenti funzioni: i recettori “ionotropi” deputati alla immediata risposta elettrica e propagazione del segnale elettrico, che sono più numerosi e più “avidi” di legame; e i recettori “metabolotropi” legati a effettori intracellulari (come la Proteina G), che sono meno numerosi e meno “avidi”, ma che attivano i sistemi

metabolici della fosforilazione ossidativa e la funzionalità del neurone stesso. La fosforilazione produce nel citoplasma la formazione di proteine fosforilate o “terzi messaggeri”, principalmente il CREB (C-amp-ciclico Response Element Binding) che migra nel nucleo e attiva i suoi recettori specifici sul DNA. Questa attivazione produce la trascrizione di un’altra proteina detta BDNF (Brain Derived Neurotrofic Factor) o “quarto messaggero”, che a sua volta permette l’attivazione e la trascrizione di altre proteine enzimatiche o di struttura di vitale importanza per la resilienza cellulare e la funzionalità normale del metabolismo neuronale. Il corretto utilizzo di antidepressivi produce la remissione completa della malattia e dei suoi molteplici sintomi correlati, sia psichici che somatici. Si assiste spesso ad un uso incongruo degli SSRI su una Depressione Maggiore, in grado di migliorare parzialmente e transitoriamente i sintomi della malattia senza arrestarla, lasciando sintomi residui in genere ingravescenti nel tempo e che vengono “coperti” con le Benzodiazepine. Infatti un indicatore indiretto di tale situazione è il consumo di Benzodiazepine nel nostro paese, farmaci sostanzialmente inutili per la loro selettiva azione sul sistema neurotrasmettitoriale del G.A.B.A, solo indirettamente coinvolto nella fisiopatologia della malattia: infatti tale sistema ad azione inibitoria occupa un ruolo marginale nella fisiopatogenesi dei Disturbi Depressivi e la somministrazione protratta risulta essere depressogena dopo tre mesi.

Inoltre, le benzodiazepine inducono i ben noti problemi di astinenza e quindi di dipendenza biologica, oltreché psicologica, e non hanno azione di blocco vero sulla produzione dell’ansia, come hanno al contrario gli antidepressivi correttamente usati. Oggi sappiamo, quindi, che l’impiego degli antidepressivi triciclici sulla Depressione Maggiore e degli SSRI (e altri) nella Depressione Minore o Distimia risulta fondamentale nel trattamento della Malattia Depressiva e in grado di produrre una guarigione stabile e definitiva alla sospensione della terapia in un altissimo numero di casi.

Riccardo Simoni

Bibliografia OMS - World Health Organization (2001). World Health Report 2001. www.who.int/whr/2001/en

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Lo stress del bambino e del preadolescente: due esperienze Riassunto L’Autore propone in questo articolo la storia di Jennifer e Leonardo, soggetti “ansiosi e fortemente inquieti” di fronte alle pressioni scolastiche, sociali e familiari. In particolare Jennifer, di dieci anni, dimostra un comportamento aggressivo nei confronti degli altri, mentre Leonardo porta il peso di una vita frenetica, divisa fra impegni scolastici e numerose attività extrascolastiche. Due storie che, pur dissimili fra loro, ci permettono di comprendere alcune reazioni che soggetti in età evolutiva possono mettere in atto di fronte agli stress quotidiani.

Abstract In this article, the author describes the story of two children, Jennifer and Leonardo, portrayed as “anxious and very restless” as a result of school, social and family pressures. Jennifer who is ten years old appears to be very aggressive with others, while Leonardo feels overwhelmed by his frenetic life made up by school and several after-school activities. Two dissimilar stories that enable us to better understand how some subjects react to daily stress during the development period.

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a qualche anno ormai medici, pediatri, neuropsichiatri, ma anche psicologi, psicoterapeuti e pedagogisti clinici ricevono in consultazione soggetti in età evolutiva “ansiosi e fortemente inquieti” di fronte alle pressioni esercitate dai sistemi scolastici e sociofamilairi. Ragazzi che possono mostrarsi aggressivi, violenti o depressi e che spesso manifestano scarsa autostima. Ad un’analisi più approfondita molti di loro temono le situazioni in cui vengono messi alla prova, giudicati o valutati come, per esempio, le verifiche scolastiche; altri si sentono a disagio con i propri compagni e coetanei, appaiono timidi e hanno paura di essere oggetto di scherno o di burla.

Qui di seguito sono presentati due casi, Jennifer e Leonardo, molto diversi tra loro, ma che sono certamente testimonianze che ci permettono di comprendere, dalla viva voce dei protagonisti, molto di più riguardo lo stress dei bambini e dei preadolescenti.

Jennifer La storia di Jennifer può essere assai interessante e può stimolare utili riflessioni in noi professionisti dell’aiuto alla persona. A 10 anni Jennifer presenta un comportamento particolarmente aggressivo; ha una storia caratterizzata da difficoltà di adattamento all’ambiente scolastico. Già nel rapporto con la maestra della scuola dell’infanzia si potevano annotare delle conflittualità: la bambina non capiva le consegne, si lamentava e si rifiutava di partecipare; l’insegnante la umiliava pubblicamente sia verbalmente che fisicamente, cercando di isolarla dal resto della classe. Solo

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quando alla fine dell’anno scolastico la maestra ha sollecitato una segnalazione al neuropsichiatra infantile, i genitori hanno potuto ricostruire il sofferto percorso della bambina. La prima classe della scuola primaria ebbe un inizio doloroso: Jennifer non voleva recarsi a scuola, si isolava e piangeva durante gli intervalli; atteggiamenti attraverso i quali scoprì di attirare l’attenzione suscitando interesse e compassione.

Dotata di fervida immaginazione, si è rapidamente creata una storia immaginaria in cui era una povera orfana, vittima di abusi e maltrattamenti. Se i compagni furono soggiogati dal suo comportamento e passarono gli intervalli ad ascoltarla, farle regali, offrirle merendine, anche i servizi sociali territoriali finirono per interessarsi al suo “caso”. Quando la verità venne a galla però le cose cambiarono e Jennifer fu vittima delle conseguenze del suo gioco. I suoi compagni finirono per isolarla, considerandola una “bugiarda”, escludendola anche in modo aggressivo dai giochi e insultandola. Bruno, in particolare, un bambino noto già per i suoi atteggiamenti irruenti e violenti, durante le ricreazioni in cortile, la allontanava e la picchiava. Per quanto Jennifer potesse riferire agli adulti, questi ultimi non le davano credibilità a causa delle storie che aveva raccontato in passato.

Dopo circa un paio d’anni, Bruno propone alla bambina uno scambio: non l’avrebbe più picchiata se lei avesse rubato per lui. Dapprima soldi, a casa, in seguito effetti personali dei propri compagni di scuola. Rapidamente scoperta, Jennifer diventa un “caso”, un concentrato di diversi comportamenti devianti, considerato particolar-

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mente grave dagli addetti ai lavori. Quando giungerà nello studio di una collega specializzata in neuropsichiatria con cui poi ho condiviso l’intervento per qualche settimana, la bambina era passata dalla fase di vittima a quella di aggressore, era notevolmente ingrassata, presentava segni di bulimia nervosa e, avendo ripetuto l’anno, era diventata una delle più grandi della sua classe. Oltre a Bruno, del quale si è ampiamente vendicata, ne faceva le spese chiunque non volesse giocare con lei o non la rispettasse, ivi compresi gli insegnanti a cui venivano proferiti insulti e minacce.

Quello che era avvenuto era che, dopo essere stata sottomessa ad eventi stressanti importanti per cinque anni, Jennifer – la quale non aveva alcuna predisposizione allo stress – aveva elaborato un aggiustamento alle circostanze, un comportamento di adattamento per fronteggiare come poteva l’aggressività ambientale.

Leonardo Altro caso significativo è quello di Leonardo, undici anni. La mamma, durante uno degli incontri iniziali, esordisce con un dottore, mi aiuti lei, io non so più che fare: mio figlio non riesce a concentrarsi nelle sue lezioni di solfeggio! La professoressa dice che pensa solo a giocare e a distrarsi. Dopo una rapida indagine vengo a sapere che il bambino va a lezioni di pianoforte già da tre anni e che è più impegnato di un dirigente d’azienda. Questa la sua settimana: il lunedì dopo la scuola va a lezione di piano: tre ore tra solfeggio e pratica mediamente si allena allo strumento per tre quarti d’ora al giorno; il martedì ha lezione di scacchi (sa, lui adora giocarci con suo padre…); il mercoledì va a catechismo; il giovedì frequenta il laboratorio extrascolastico di lettura (ho un po’ insistito perché mi sembra non legga volentieri; all’inizio non era d’accordo, ma ora gli piace, sa?!); il venerdì va in piscina perché il pediatra mi ha detto che non fa abbastanza movimento; e il fine settimana è d’obbligo passare il tempo nella casa di campagna (sa, dottore, Leo non vede l’ora d’andarci!). Un rapido calcolo comprensivo di ore scolastiche e di lezioni assegnategli ci lascia velocemente intravedere l’orario settimanale in cui Leonardo è impegnato.

Durante le attività a scuola gli viene richiesta una prestazione di quantità: in termini di impegno, attenzione, partecipazione e lucidità di presenza. Durante l’esecuzione di compiti e la memorizzazione delle le-

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zioni tale perspicacia gli sarà ugualmente preziosa. In più, Leonardo dovrà concentrarsi al meglio per acquisire la tecnica del solfeggio e trasferirla sui brani e le arie suonate al pianoforte. Negli scacchi poi, ragionamenti strategici e concentrazione attentiva devono essere al massimo. Anche il catechismo inoltre si richiama alle stesse esigenze scolastiche. L’istruttore di nuoto infine difficilmente accetterà atteggiamenti superficiali e di stampo eccessivamente ludico e ricreativo. E così possiamo dire, che neanche un adulto sarebbe in grado di sostenere a lungo tali ritmi! Ritmi ai quali vanno aggiunti l’impegno dell’organismo nella crescita in una fase come quella preadolescenziale, la gestione delle relazioni interpersonali tra coetanei, il rapporto fra il sé e le diverse discipline e tra sé e le relative figure professionali adulte che quelle veicolano, il tutto stando ben attento a mantenersi serio, concentrato, al massimo delle proprie potenzialità.

La metabolizzazione dei vissuti e delle esperienze è indispensabile ad una buona gestione dello stress, ad una crescita armonica, a relazioni sociali più mature e responsabili.

Il bambino dovrebbe potersi concedere e dunque, noi adulti, dovremmo concedergli ugualmente questa opportunità attraverso un’igiene di vita consona, ma anche permettersi e permettere lassi di tempo che, richiamando l’otium latino, offrano pause feconde per metabolizzare vissuti ed esperienze con l’aiuto anche della fantasia e dell’immaginario. Sono questi i momenti in cui, per tornare all’infanzia e alla preadolescenza, il soggetto espelle catarticamente per mezzo della fantasia i vissuti negativi impersonandosi in eroi ed eroine, maestri e genitori o in personaggi sorti dal nulla. È il libero procedere della fantasia il canale privilegiato per l’evacuazione degli stress quotidiani: il tempo “perso” in camera, i giochi in famiglia, le liti tra fratelli e sorelle, i disegni e i peluche, le costruzioni e le bambole, le collezioni e le macchinine possono essere dei formidabili strumenti di autogestione dello stress.

Noi adulti, genitori, educatori, insegnanti, professionisti della salute, a volte rischiamo di dimenticarlo con conseguenze complesse e rischiose per gli adulti di domani. Casi emblematici come Jennifer e Leonardo ci richiamano con solerzia alle nostre responsabilità… forse insegnandoci qualcosa.

Claudio Rao

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Angoscia di castrazione e psicomotricità funzionale Riassunto In questo contributo l’autrice intende mettere in evidenza la correlazione esistente tra i disturbi d’ansia di separazione, di personalità dipendente e dei disturbi reattivi dell’attaccamento con gli aspetti psicomotori funzionali dell’età evolutiva; in particolare delinea una nuova tipologia di disordine relativo alla funzione psicomotoria denominato “aggiustamento disordinato”. Attraverso l’analisi dell’evoluzione psicomotoria funzionale, l’esposizione della funzione di aggiustamento globale disordinato e la presentazione degli effetti derivanti dall’angoscia di castrazione sulle manifestazioni della psicomotricità l’autrice propone una riflessione sugli aspetti teorico pratici dell’intervento rieducativo psicomotorio e della terapia psicomotoria.

Abstract In this article the author aims at stressing the correlation between separation anxiety, dependant personality and reactive attachment disorders and functional psychomotory aspects during the developmental age. In particular the author outlines a new type of disorder related to the psychomotory function or “disordered adjustment”.

This paper aims at inducing a reflection on the theoretical and practical aspects of psychomotory reeducation therapies and psychomotory therapy through a careful analysis of the functional psychomotory evolution, the global disordered adjustment function and the presentation of the effects produced by castration anguish on psychomotricity.

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uesto articolo si propone l’obiettivo di presentare le manifestazioni psicomotorie del disagio infantile e dell’età evolutiva quali aspetti corporei dei disturbi collegati a un difettoso sviluppo dei processi di separazione-individuazione e dell’attaccamento. I disturbi d’ansia di separazione, di personalità dipendente e quelli reattivi di attaccamento vengono inseriti nel DSM-IV come manifestazioni delle patologie infantili. Ciò che desidero mettere in evidenza in questa sede è la correlazione tra questi disturbi e gli aspetti psicomotori funzionali dell’età evolutiva.

In particolare, s’individua con il termine di aggiustamento disordinato, una nuova tipologia di questa funzione psicomotoria, collegata alla incompleta o carente evoluzione della funzione di aggiustamento globale.

Questo aggiustamento disordinato si presenta nelle situazioni terapeutiche dove il bambino non riesce ad attivare modalità usuali di aggiustamento, come quello spontaneo-impulsivo e quello controllato. In queste situazioni l’inadeguato aggiustamento è collegabile agli effetti sulla corporeità dell’angoscia di castrazione, vero fattore insopportabile per il bambino.

L’evoluzione psicomotoria funzionale Sul piano dello sviluppo psicomotorio a due mesi

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circa la Funzione di Veglia è la prima a comparire e corrisponde all’apertura percettiva del bambino verso l’ambiente circostante come manifestazione dell’interesse che egli prova. La seconda funzione che compare è quella di aggiustamento che introduce il bambino nella tappa del corpo vissuto. Questo periodo è fondamentale da un punto di vista psicomotorio perché la parte essenziale dello sviluppo avviene attraverso l’esperienza motoria. L’unità della persona a livello motorio, affettivo e cognitivo si costituisce attraverso l’azione che progressivamente il bambino esercita sul suo ambiente. Fino ai sette mesi circa l’esperienza corporea di relazione con il mondo ha essenzialmente un significato affettivo, perché si situa in uno stadio pre-percettivo nel quale le informazioni sono integrate essenzialmente a livello sotto-corticale. È la funzione di aggiustamento nella sua espressione globale che permette alla motricità di rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente. A partire dai sette mesi circa, l’acquisizione della permanenza dell’oggetto, conseguenza dell’evoluzione percettiva, oltre che allo sviluppo affettivo, permette alle coordinazioni motorie derivanti dall’aggiustamento, di essere sempre meglio adattate alle condizioni dell’ambiente. In particolare si arricchiscono gli scambi con le persone del nucleo familiare. A metà circa del secondo anno di vita, inizia l’attività

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rivolta al raggiungimento di uno scopo. Contemporaneamente l’evoluzione della funzione simbolica verbale consente al bambino di programmare la sua attività motoria mentalmente allo scopo di raggiungere quello o quell’altro obiettivo. È l’inizio del periodo dell’esplorazione in cui comincia a manifestarsi la curiosità del soggetto per gli oggetti nuovi. In questo modo si stabilisce una relazione tra l’individuo e il suo ambiente: gli scambi tra la persona e il mondo esterno avvengono attraverso l’azione della muscolatura striata, quindi tramite il movimento; mentre la comunicazione tra il mondo esterno e l’individuo avviene attraverso gli organi di senso. Per un buon sviluppo è fondamentale che questa esperienza intenzionale di confronto con il mondo sia favorita dall’ambiente familiare. Parallelamente il bambino si deve confrontare con le esigenze sociali: l’educazione alimentare, la pulizia, l’abbigliamento.

In seguito la libertà dell’aggiustamento infantile deve essere equilibrata attraverso l’accettazione di alcuni limiti. Questo è un elemento molto importante sul piano dello sviluppo per permettere la manifestazione della funzione di controllo. L’aggiustamento impulsivo e spontaneo necessita di diventare controllato perché l’equilibrio tra spontaneità e controllo è un elemento fondamentale per la persona. Il ruolo dell’ambiente è quindi quello di permettere progressivamente al bambino di realizzare i suoi aggiustamenti intenzionali, nel quadro dei limiti imposti. Lo stadio del corpo percepito, in cui emerge la terza funzione psicomotoria, corrisponde al periodo in cui avviene il passaggio dallo Schema Corporeo incosciente ad uno Schema Corporeo cosciente. È a partire da questo periodo evolutivo che l’integrazione delle informazioni propriocettive e cinestesiche potrà diventare cosciente. La funzione d’interiorizzazione, che corrisponde alla possibilità di portare l’attenzione su questa o quella parte del corpo, consentendone la presa di coscienza, permette di realizzare la percezione del proprio corpo. Lo stadio del corpo rappresentato, dopo i sei anni, è il periodo evolutivo in cui il bambino accede alla possibilità di avere un’immagine del corpo operatoria, cioè una rappresentazione mentale del proprio corpo, che gli permette di effettuare la realizzazione di una prassia a partire dall’immagine cosciente di un programma motorio. Ciò significa che il soggetto è diventato in grado di disporre della propria immagine del corpo per programmare mentalmente azioni motorie e gesti.

La funzione di aggiustamento globale disordinato In ambito clinico, la non adeguata evoluzione della funzione di aggiustamento globale, si può interpre-

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tare come manifestazione di disagio infantile. In particolare è possibile riconoscere a questa funzione psicomotoria la valenza di esprimere, oltre alle modalità con cui si organizzano i poli espressivo e prassico della motricità, anche gli aspetti psichici non adeguati o carenti dell’Io Corporeo. Nella concezione metodologica della psicomotricità funzionale è possibile quindi inserire una nuova modalità della funzione di aggiustamento globale: l’aggiustamento disordinato. Questo aspetto dell’aggiustamento ha un significato molto importante nell’ambito della terapia psicomotoria, in quanto è l’espressione funzionale delle difficoltà psichiche profonde del soggetto.

Posso quindi aggiungere la modalità disordinata dell’aggiustamento globale a quelle di aggiustamento spontaneo-impulsivo e a quello controllato. Attraverso la modalità della funzione di aggiustamento, che definisco “disordinata” nel senso di entropica, il bambino organizza una risposta motoria intenzionale spontanea decontestualizzata e caricata di angoscia. L’entropia è un concetto affrontato nella terza legge della termodinamica e individua la misura del disordine di un sistema fisico e più in generale dell’universo. In base a questa definizione possiamo dire che quando un sistema passa da uno stato ordinato a uno disordinato, la sua entropia aumenta, ma diminuisce la quantità d’energia utilizzabile nel sistema stesso. L’evoluzione naturale della funzione di aggiustamento, viene a essere impedita o rallentata dall’azione negativa “del fattore insopportabile al bambino”, che ha a che fare con l’angoscia di castrazione, che determina una mancanza di ordine a livello evolutivo e diminuisce la quantità di energia utilizzabile per consentirgli un adeguato adattamento all’ambiente.

Angoscia di castrazione e manifestazioni della psicomotricità L’angoscia di castrazione è un punto di condensazione di angosce precedenti e un elemento strutturale di angosce future. Nel rapporto tra l’angoscia di castrazione e il complesso di castrazione con i suoi precursori si evidenzia una doppia genealogia: da una parte quella di una rappresentazione e dall’altra quella di un affetto. L’affetto si chiama ansia o angoscia impensabile. L’affetto della rappresentazione è un’angoscia impensabile, così grande che è impossibile rappresentarla e quindi viene agita nel corpo con una motricità afinalistica e disorganizzata. Tra la rappresentazione e l’angoscia c’è una dissociazione riguardante un evento psichico che non ha a che fare con la realtà attuale. La genealogia della rappresentazione nell’ansia di castrazione è costituita dalla vicissitudine di un fantasma teorizzante: il fantasma

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della separazione. La genealogia della castrazione è legata al distacco e alla separazione, che è il punto più profondo. Le ansie di separazione possono essere anali, orali, falliche. La castrazione non riguarda solo il pene, ma ci sono angosce più profonde: perdere il capezzolo, staccarsi dalle feci ecc.

L’angoscia di castrazione nella significatività qui presentata riguarda anche le femmine. La mancanza di ordine nella risposta motoria è da attribuirsi “all’agire con il corpo” che diventa sostituto della rappresentazione dell’angoscia di castrazione e che si manifesta in modalità differenti. La prima riguarda l’aspetto della riattualizzazione delle emozioni non superate e non integrate.

Queste emozioni diventano parte essenziale del movimento, attraverso l’organizzazione tonica, che, in questo caso, si organizza in funzione del sostenere un’angoscia esterna primitiva. La condotta non adattata alla situazione esterna, in quanto risposta a un bisogno primitivo interno del bambino, risulta essere non adeguata alla situazione reale e, per tanto, disordinata. La seconda manifestazione dell’aggiustamento disordinato si presenta con una risposta disorganizzata al contesto ambientale: la disorganizzazione della risposta è la conseguenza dell’angoscia del bambino che non lo lascia essere in sintonia con le richieste dell’ambiente. Nelle sue attività il soggetto preferisce seguire lo stimolo che cattura la sua attenzione, passando senza coerenza, da uno stimolo all’altro, in modo anarchico e confuso. La terza manifestazione “del fattore insopportabile per il bambino” è collegata alla sua passività e quindi alla necessità da parte dell’ambiente di indurre un aggiustamento, necessità che si presenta soprattutto collegata a particolari situazioni depressive. Solo dopo aver ricevuto una sollecitazione ad agire, il soggetto intraprende un’azione o un’attività, ma non sempre la porta a termine in modo razionale e logico. Spesso abbandona il suo agire senza aver avuto efficacia né aver potuto esprimersi a livello emotivo. L’angoscia di castrazione-separazione anche qui non trova la possibilità di venir rappresentata, ma solo agita nella corporeità.

Conclusioni L’esperienza clinica porta a ritenere che solo dopo

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che il soggetto ha agito e vissuto, con l’esperienza corporea, l’angoscia di castrazione o la paura di ciò che resta dopo la separazione, può progressivamente passare all’esperienza di essere solo di fronte a qualcuno realizzando una progressione evolutiva che lo può portare a superare questa angoscia. Winnicott (1981) scrive in “Sviluppo affettivo e ambiente” a questo proposito: …“La capacità di stare solo è un fenomeno altamente raffinato che nello sviluppo di una persona può presentarsi dopo l’istituirsi di relazioni triangolari, o anche è un fenomeno del primo periodo di vita che va studiato con particolare attenzione perché la forma raffinata della solitudine si fonda su di esso”… e ancora… “La capacità di essere solo si fonda sull’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo la capacità di stare solo ha un fondamento paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona.”… …lo stadio “dell’Io sono solo” implica l’apprezzamento da parte del bambino della continuità dell’esistenza della madre attendibile… La capacità di essere solo è basata sull’esperienza di essere solo in presenza di una persona, e secondo cui, se questa esperienza non è stata sufficiente, la capacità di essere solo non può svilupparsi… Solo dopo aver acquisito la capacità di essere solo in presenza del terapeuta, il bambino può iniziare e esercitare la funzione di aggiustamento in una modalità spontanea – impulsiva, più adeguata al contesto ambientale, base per il proseguo dell’evoluzione funzio-

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nale. La disponibilità corporea che scaturisce e la coordinazione dinamica generale non sono solo manifestazione della efficacia motoria, ma hanno anche una profonda ripercussione emotiva e cognitiva sulla personalità del bambino.

La disponibilità corporea è fondamentale per la persona e per il suo sviluppo: vivere il corpo come qualche cosa di efficace porta ad avere una certa sicurezza sul piano mentale e un certo equilibrio emotivo sul piano affettivo La possibilità di accedere alla disponibilità corporea è per il bambino una conquista che si ripercuote sul suo sviluppo menta-

le affettivo e relazionale con le persone e con gli oggetti che lo circondano: è uno degli elementi di base per l’evoluzione della “relazione oggettuale”.

La positività affettiva deriva proprio dal senso di soddisfazione e di efficienza risentito a livello corporeo: questa è la condizione indispensabile perché lo sviluppo psicomotorio e mentale si prolunghino nella realtà concreta e nella possibilità di organizzare la creatività necessaria agli apprendimenti scolastici.

Elena Ester Simonetta

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Come migliorare la performance sportiva in un atleta Riassunto Molti sono gli atleti che possiedono sicurezze interiori che permettono loro di ottenere risultati sportivi apprezzabili. Tuttavia, con l’aumentare delle richieste sono accresciuti i fattori di stress. Allo specialista viene così affidato il compito di trasformare lo stress negativo e sollecitare l’atleta verso percorsi che gli permettano di giungere ad uno stress positivo. L’Autore, attraverso la presentazione di un caso clinico, dopo aver mostrato le caratteristiche anamnestiche e i risultati dei test psicodiagnostici proposti al paziente, traccia delle possibili linee di intervento per migliorare la performance sportiva di un atleta.

Abstract Many athletes possess an inner confidence that enables them to achieve significant results. However, growing external pressure and the need to perform at higher levels increases their levels of stress. Health specialists must therefore step in to transform negative stress and rouse in athletes the personal approach required to develop a positive stress. Through the analysis of a clinical case, the author illustrates the anamnestic characteristics and diagnostic investigations proposed to patients, in addition to outlining possible therapeutic approaches to improve the sports performance of athletes.

N

elle gare agonistiche, specie quelle espletate a grandi livelli, ci si è basati per molti anni sull’importanza degli allenamenti, nella loro parte motoria, funzionale, tecnica. L’atleta è seguito dall’allenatore, esperto in quella disciplina, che ha certamente conseguito licenze e “patentini” per svolgere al meglio la propria funzione e che ha seguito ore di preparazione di psicologia dello sport (in realtà, spesso, la dizione risulta essere “psico-pedagogia”, come se la seconda scienza dovesse interamente dipendere dalla prima) (Most, 1983; Cratty e Pigott, 1988).

Se per molti aspetti ciò è sicuramente encomiabile e ci rassicura sulla formazione che riguarda gli aspetti relazionali, in genere, non può tuttavia essere condizione necessaria e sufficiente per raggiungere risultati che richiedono, oltre che grandi doti di tipo fisico, l’acquisizione di enormi capacità di concentrazione e gestione dello stress, che risulta essere “qualsiasi condizione o evento che eserciti sull’organismo una stimolazione eccessiva, per intensità o per durata, tale che l’individuo non può sopportarla o superarla senza subire uno squilibrio passeggero oppure permanente” (Pesci, 2002, p. 96) nonché necessitare di ampie spinte motivazionali.

Molti sono gli atleti che possiedono sicurezze interiori tali che permettono loro di ottenere discreti e, in alcuni casi, ottimi risultati. Tuttavia, con l’aumentare delle richieste (si pensi, ad esempio, alla continua istanza di vittoria in ambienti formati da tifosi e di-

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rigenti di squadre che militano in serie A dei vari sport, alle pressanti aspettative economiche…) è chiaro anche che sono aumentati gli stressor. Ecco che le società più fornite di cultura sportiva hanno avuto la perspicacia di dotarsi di altre risorse umane, tanti specialisti che hanno iniziato ad affiancare il medico sportivo ed il massaggiatore: psicologi, psicoterapeuti, pedagogisti clinici, psicomotricisti ecc.

Varie tipologie di professionisti i quali, in ambiti diversi, hanno offerto la loro competenza per far ottenere il massimo dei risultatati agli atleti (Dragoni, 2003; Trabucchi, 2003).

Allo specialista, fornito di una formazione eclettica, polifunzionale, che sappia coniugare le abilità relazionali e l’intervento “corporeo” (in un’ottica unitaria, olistica, di tipo bio-psichico) il compito di mutare lo stress negativo (distress) e sollecitare l’atleta verso percorsi che gli permettano di giungere allo stress positivo (eustress), che sviluppa e nutre situazioni e contesti polidinamici, che innalzano l’edificio della personalità attraverso elaborazioni attive, vissute con soddisfazione, nella costruzione di obiettivi stimolanti. Ecco si tratta da parte nostra di fornire quelle modalità di rilettura, anche di eventi negativi (la sconfitta), come possibili, che appartengono alla realtà dell’atleta professionista, il quale ha bisogno di abilità rielaborative edificanti che gli consentano, dinamicamente, di riprendersi e continuare “verso la vetta della montagna” (cfr. Pesci, 2006).

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Un caso clinico Colloquio anamnestico Si presenta al nostro studio1 R., di 29 anni, sportivo di livello nazionale dell’atletica leggera, settore salti.

Un fastidioso incidente al piede lo aveva messo in condizione, nonostante l’esito positivo della guarigione dal punto di vista medico e riabilitativo-funzionale, di avere minore fiducia in se stesso, ansia nella prestazione sportiva, anche negli allenamenti, tanto da non riuscire a saltare.

Il colloquio non è stato strutturato da domande né richieste da parte dello specialista che, al contrario, ha utilizzato una modalità che respinge ogni procedimento che si affida sull’incoraggiamento, sulle interpretazioni e sui consigli (Pesci e Viviani, 2003).

Si è agito un metodo che ha consentito lo sviluppo di una situazione di agio, nella quale R. si sentisse in primis una persona e, quasi secondariamente, un atleta. La finalità degli incontri anamnestici è stata soprattutto quella di creare occasioni di riflessione da parte di R. sulla sua vita all’interno della famiglia di origine e dei suoi rapporti affettivi, della relazione professionale con l’allenatore per capire se e quanto tutto ciò poteva influenzare anche gli aspetti prestazionali. Uno scambio comunicazionale tra lo specialista e la persona in difficoltà che ha permesso a quest’ultima di poter sostare su ogni parola, sui silenzi che permettevano ulteriori approfondimenti costruiti all’interno di sé e, talvolta, trovavano in lui la volontà di essere esplicitati all’esterno. Da parte dello specialista nessun consiglio né orientamento, bensì una presenza che ha permesso a R. di rileggersi, di CESAPP (Centro Studi Applicazioni Psicologiche e Pedagogiche) di Grosseto, www.cesapp.org 1

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togliere e spazzare via quelle situazioni ritenute disadatte e disfunzionali.

Con una madre attenta e premurosa, è emersa la forte figura del padre, sempre presente agli allenamenti, molto esigente, in conflitto con il figlio già da alcuni anni, un genitore “con un certo peso e per di più sempre nervoso”, come asserì R. durante un incontro nel quale affermò, subito dopo, di dovere chiarire che si sarebbe sentito meglio e “più leggero” senza “quegli occhi puntati addosso”.

Allo specialista non sono certo sfuggiti i lemmi offerti da R., relativi a stati di impedimento, collegati alle richieste nella performance sportiva, che necessitava, al contrario, di “leggerezza”, “forza” ed “esigenza di elevazione”, vista l’appartenenza della persona-atleta al settore salti, peraltro con ostacolo da superare. A casa era peggiorata l’atmosfera familiare, ambiente dove era già precaria la comunicazione, poiché il padre faceva spesso domande, puntando l’attenzione sugli aspetti negativi della vita di R. (quando si presentavano sconfitte, nei momenti di difficoltà negli studi, nelle liti con la fidanzata).

Lasciatosi da poco con la compagna, nutriva dissapori con alcuni colleghi atleti che si allenavano con lui prima dell’incidente, oltre che con l’allenatore. Inoltre il periodo della diagnosi è coinciso con nuove responsabilità di lavoro, all’interno delle Forze Armate.

R. entra nello studio senza dare la mano, si mette seduto sulla parte terminale della poltroncina, con i piedi che toccavano il suolo sulle punte, le mani “aggrappate” ai braccioli.

Approfondimento diagnostico Al colloquio anamnestico è seguito un approfondimento diagnostico sostanziato da test proiettivi (Test dell’Albero e Color Lüscher Test), da test “oggettivi” di personalità come il 16-PF, dalle rilevazioni delle manifestazioni di stati ansiosi e depressivi e dall’analisi della tensionalità muscolare, quest’ultima evidente già dalle narrazioni avvenute durante i primi incontri (dalla evitata stretta di mano alle modalità nello stare seduto, alle auto-dichiarazioni di stati che denunciavano manifeste alterazioni psicosomatiche, come ad esempio debolezza, facile stancabilità, dispnea, palpitazioni, difficoltà nell’addormentamento, tensione fisica diffusa). Erano presenti anche mutamenti comportamentali, tendenza all’evitamento, scarso potere di concentrazione che facevano emergere manifestazioni ansiose. Alla Scala Holmes-Rahe conseguiva un punteggio di 213,

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con una risultante di stress medio.

Ai test grafo-proiettivi e di espressività cromatica sono emerse: preoccupazione, agitazione, autocontrollo, bisogno di farsi valere, considerazione, di avere il possesso della sua decisione e di agire a modo suo contro ogni opposizione e resistenza. Cerca tranquillità, benessere, vuole rilassarsi. Vuole che la sua attività gli porti successo. Talvolta corre il rischio di pretendere troppo. È alla ricerca di migliori condizioni, impulsivo, esplosivo, con evidente stato di incertezza; caparbio, con un ingorgo negli affetti e timore nella realtà. Gentile, di buone maniere, tende all’introversione. Manifesta distrazione, inquietudine, tensione, impazienza. Ha la tendenza ad avere un forte controllo delle emozioni, ha bisogno di approvazione e di ammirazione.

Dalla diagnosi all’intervento L’ipotesi di aiuto si è strutturata su due aspetti, in sinergia tra loro: l’abbattimento degli stati tensionali e il potenziamento ergico dell’Io. Ciò è stato possibile attraverso l’uso di metodi vari, finalizzati a ricreare comunque uno stato di piacere e soddisfazione, di ben-essere, di godimento nello stare con se stesso, in armonia con le proprie elaborazioni intrapsichiche, sia cognitive che affettivo-relazionali. Un percorso che aveva come obiettivo finale quello della ripresa di quella forza interiore, della stima di sé, che in precedenza lo aveva del resto condotto ad ottimi risultati (tra i cinque migliori risultati nazionali di tutti i tempi).

Inizialmente con R., che aveva già fatto rilevare disagi al contatto (anche attraverso dichiarazioni di disagi narrati e ambientati in situazioni sessuo-affettive con la partner), si è utilizzato una tecnica che ha permesso l’uso di una palla vibro-cromatica quale og-

getto mediazionale (Pesci, 1987). Successivamente si è proseguito con il Metodo Jacobson (Jacobson, 1952; Rolla e Manca, 1986; Pesci, 2007) su base contrattivo-decontrattivo muscolare, quindi con il Metodo Wintrebert (Pesci e Avataneo, 1994; Pesci, 2007), attraverso la mobilizzazione passiva dei movimenti.

Infine si è provveduto ad utilizzare un training induttivo (Pesci, 2002), modalità verbalizzata che ben si è amalgamata con le successive proposte di immagini mentali, prima di carattere generale (albero, mare, siepe, montagna), poi in riferimento a locations relative alle gare sportive. In quest’ottica è stata importante la collaborazione con l’allenatore che mi ha fornito di un lessico adeguato, di video che spiegavano le azioni motorie necessarie e che potevano essere ricreate attraverso le immagini proposte da me, con il soggetto in detente psico-neuro-muscolare.

Rilevata una debolezza nell’autostima che impediva una maggiore edificazione delle strutture profonde di personalità, dopo le tecniche di rilassamento e l’abbattimento degli stati tensionali si è provveduto all’innalzamento dell’Io attraverso l’utilizzo delle immagini mentali che hanno messo in condizione l’atleta di sentirsi leggero, ma forte come un “leone”, sicuro di sé, ottimista, vincente come “un’aquila” (Pesci e Viviani, 2005).

Dopo due mesi e mezzo, con appuntamenti bisettimanali, l’atleta è tornato ad allenarsi con sempre maggiore sicurezza, ha ripreso a saltare prima in palestra (indoor) e successivamente all’aperto (al 4° mese). Al 6° mese R. partecipava nuovamente alle gare a livello prima regionale, in seguito a carattere nazionale. Dopo otto mesi d’intervento è arrivato primo ad una gara internazionale.

Antonio Viviani

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Anziani stanchi: come far muovere l’anziano In molti hanno definito l’ozio il veleno del corpo e della mente capace di rendere insoddisfatti, inquieti, nauseati, “affogati nei sospiri”, e hanno decretato che la vera felicità non si può trovare nello stato di torpore delle facoltà o nel passivo letargo.

L’anziano è tra i più minacciati dalla monotonia dell’inattività e il generoso intento di distoglierlo dagli effetti deleteri del tedio, si traduce spesso in proposte di attività che, oltre ad originare impegni e distrazioni, hanno anche il fine di prevenire o ritardarne il più possibile l’invecchiamento.

“Si muova!”

C’è chi, per garantirgli l’opportunità di soddisfare il bisogno di dare un senso e un contenuto alla vita, si affanna ad incitarlo a muoversi, con prescrizioni del tipo “lei deve fare ginnastica”, un frequente invito che l’anziano raccoglie da quanti si preoccupano della sua salute.

Ma quale ginnastica per l’anziano?

Una domanda a cui non si vuole dare risposta con un elenco delle tante proposte, bensì con l’intento di riflettere su quale possa essere una ginnastica che non sia una sommatoria di esercizi fisici mal concepiti e non accuratamente dosati. Non ha molta importanza la definizione, può essere semplicemente ginnastica, animazione corporea, oppure espressione corporea, ciò che occorre è offrire adeguatamente risposte ai reali bisogni.

In questa ottica, quindi, non esercizi ripetuti e sfibranti per un allenamento forzato rivolti ad un corpo inteso come una macchina da “correggere”, ma esperienze e stimoli capaci di dare significato ad un movimento i cui valori si ritrovano in quella grammatica che è arte del parlare corporeo e che propone nella sua sintassi il dialogo psico-tonico-posturale, il dinamismo del gesto, il rapporto fra ritmo e spazio, fra mimo e tono della voce. Una esperienza che, abbattute tutte quelle paratie che impediscono qualunque espressione di libertà, raggiunge il suo obiettivo nel rendere al soggetto coscienza del proprio sé corporeo e della propria gestalttonica e con ciò mantiene attiva la sua capacità ad esprimersi e comunicare.

A chi affidarsi? Di chi fidarsi?

Tutto questo fa veramente comprendere il valore e l’importanza di distogliere l’anziano dal suo vivere nell’ozio in una condizione di rassegnazione, un chiaro proposito possibile solo se quanti si definiscono maestri o istruttori sono corredati di una valida e specifica formazione. Non un trainer perciò che basa la sua professione sul più semplice e comune “buon senso” o con la caratteristica capa-

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cità di mortificare col suo acrobatismo, oppure che proponga una danza di alta performance anziché mantenerla nelle sue più elementari forme, o un trainer comunque distaccato dalla cultura dell’anziano.

Ai professionisti che sono chiamati in questo impegno deve essere richiesta un’ampia conoscenza dei veri bisogni dell’anziano e la capacità di dare significato al valore della ginnastica e ai suoi effetti salutari. Professionisti con cognizione esatta di tutti quei sintomi, quali i reumatismi articolari e cronici, l’esistenza di osteoporosi, l’obesità, il diabete, la difficoltà respiratoria, gli effetti dell’indebolimento dell’acutezza visiva, della decadenza della capacità percettivo-uditiva, la memoria ridotta nelle sue capacità di fissare messaggi ecc.

Attenzioni conseguenti alle diverse difficoltà, abilità e disponibilità professionali che chiedono di saper operare con misurata e adatta gradualità, nel rispetto di quel ritmo con cui l’anziano si presenta richiedendo modificazioni prudenti idonee a rendere piacevole l’esperienza e capaci di risvegliare profonde sensazioni positive.

Una ginnastica che trovi valore nella lentezza e nel dosaggio delle sollecitazioni, in modo che i movimenti non siano troppi bruschi o troppo rapidi, che non siano forzate le articolazioni ribelli e che, nel tentativo di inseguire la performance sia raggiunta la fatica.

Non solo movimento Grazie alla capacità dell’operatore e a queste obbligate attenzioni, la ginnastica potrà sviluppare vissuti capaci di disancorare il soggetto dai limiti della sua espressività corporea, consentendogli di comunicare relazioni topografiche, localizzazioni, spazialità, distanze, sviluppare la forza vitale, conseguire una estinzione sintomatica non da repressione, ma da soluzione.

Perciò egli dovrà generare opportunità per favorire le buone abitudini posturali: ad esempio, come ci si deve piegare per raccogliere un oggetto, come rialzarsi dalla posizione seduta ecc.; svolgere un’attività che aiuti a vincere i disturbi della digestione, a rendere efficiente la respirazione, facilitare la tensione muscolare e la sua energia per evitare il venir meno dell’elasticità della colonna vertebrale. In questa occasione l’anziano può trovare l’antidoto alla tendenza dell’eccessivo riposo, al riposo a tutti i costi, per riconciliarsi con il proprio corpo, ascoltarne le ragioni, rispettarne le esigenze, allentare le tensioni e le difese che lo frenano e lo inibiscono, fino ad uscire dall’indifferenza e dalla sofferenza.

Marta Mani

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I metodi per insegnare a leggere e scrivere “Quale sarà la scuola migliore per mio figlio?”, “Quali sono gli insegnanti più preparati per far apprendere in modo corretto il mio bambino a leggere?” o, ancora, “Che cosa gli insegneranno a scuola?”. Queste sono le domande che più sovente i genitori si pongono allorquando si accingono ad iscrivere i loro figli alla scuola primaria, preoccupazioni e interrogativi a cui ogni genitore, orientato dalla volontà di fornire la migliore istruzione possibile al proprio bambino, tenta di dare risposta.

Scuole e frequentemente anche classi dello stesso comprensivo didattico, adottano sistemi assai differenti di insegnamento per l’apprendimento della lettura e scrittura, metodologie di cui le famiglie sanno poco o nulla. Se però il malato ha diritto di scegliere come curarsi, vale anche il diritto di scegliere come apprendere.

In questa sede intendiamo rendere consapevoli e più consci i genitori, spesso ignari, di quali siano i metodi e i percorsi di insegnamento della lettura e della scrittura affinché possano, all’atto dell’iscrizione, chiedere ai dirigenti scolastici informazioni più dettagliate e precise, una autodeterminazione non soltanto utile all’utente, bensì alla stessa Scuola che in tal modo sentirebbe una maggiore esigenza di ricerca e di concorrenzialità.

I metodi cui hanno fatto affidamento gli insegnanti fino ad oggi sono un gran numero, fra i tanti possiamo segnalare il metodo psicologico che attribuisce ai problemi emozionali la responsabilità dei disturbi negli apprendimenti. Il metodo prevede l’uso di testi esclusivamente incentrati sui loro specifici interessi fanciulleschi, abolizione di richiami e ammonizioni e incentivazioni di elogi, libero sfogo ed esposizione delle lagnanze. Un altro metodo è il metodo tattile che richiede al bambino di seguire con le dita la traccia di ciascuna parola e di pronunciarla, un modo per connettere la sensazione tattile della parola con quella visiva, auditiva e fonetica. Il metodo naturale è un metodo dialettico, si considera che il segno aiuta la scoperta del senso, il senso aiuta a cogliere il segno. Si tratta di scritto-lettura e non di “letto-scrittura”, perché viene data la priorità al pensiero e alla sua espressione scritta, sostenuti dal principio che bisogna dall’inizio fare dei tentativi per esprimere il proprio pensiero e non attendere di aver dato sufficienti prove di capacità di decodificare il pensiero altrui per essere infine autorizzati a esprimere il proprio. A tutti questi metodi si devono aggiungere il metodo fonetico o alfabetico e il metodo globale. Il primo richiede al bambino di scomporre le parole nelle lettere o nei suoni che le compongono, pronunciare bene i suoni e dare significato alle lettere; l’altro, il globale sostiene invece che per il bambino sono di più facile acquisizione brevi e semplici frasi con senso compiuto, anziché parole, sillabe o lettere. Le divergenze tra i sostenitori del metodo globale che obbligavano a soffermarsi per lungo tempo nel primo stadio dell’apprendimento ed usare fino a 400 parole in media, ed altri che, affidati sempre al metodo globale iniziavano invece fin dalla prima lezione ad attirare l’attenzione sulle lette-

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re o suoni presenti nella parola, hanno portato a ideare un nuovo metodo definito misto.

Il genitore come si capisce non dovrà limitarsi ad accogliere il nome di un metodo seguito nella scuola o nella classe dove verrà iscritto il proprio figlio, bensì dovrà chiedere di essere messo a conoscenza se l’insegnante si muove tenendo conto che il funzionamento del processo seguito non sia la regola per tutti gli scolari. Ormai lontani da quando i docenti si schierarono perfino politicamente: a sinistra il metodo globale, accusato dalla destra in difesa del metodo fonetico-sillabico, di essere la causa prima del crescente numero di bambini con difficoltà di lettura.

I genitori devono sapere che la ricerca ha confermato che nessun metodo utilizzato con modalità esclusive ha dato un qualche progresso immediato nei bambini con disturbi della lettura e della scrittura e solo in pochissimi casi una sostanziale soluzione. Ebbene non è questo o quel metodo a risolvere le sorti degli scolari, è l’abilità professionale che permette all’insegnante di riconoscere quale variabile può accelerare o rallentare interessi e abilità ad apprendere. Vi sono bambini portati verso una concezione analitica particolarmente efficiente, che resterebbero turbati da un richiamo troppo pressante al globalismo, che distinguono con sicurezza le componenti e sono talvolta tentati di trascurare l’insieme; altri, al contrario, globalisti nati vedono meglio gli insiemi, e che debbono essere ricondotti allo studio attento dei particolari che condizionano gli insiemi. L’insegnante deve sapere che le strutture della codifica e decodifica scrittoria sono l’oggetto di una conquista diversa da bambino a bambino, perciò dovrà evitare di essere frettoloso e pressante, capire che possono esserci delle difficoltà e saper accogliere ed esaltare tutti gli sforzi di costruzione che il bambino fa impegnando le sue migliori forze intellettuali e di ricerca.

I genitori, oggi che i bambini iscritti alla scuola primaria rischiano di trovarsi fra il 14% dei dichiarati disabili già prima del terzo anno per disturbi degli apprendimenti ed in particolare etichettati “dislessici”, obbligati a sostare in banchini differenziali e seguiti con “percorsi facilitati”, o in alcune ore pomeridiane, trasferiti in aule differenziali, è giusto che si preoccupino, si interroghino e scelgano con accuratezza la scuola in cui, per capacità degli insegnanti, si ovvia al rischio di queste assurde elevate percentuali di bambini dichiarati con Disturbi Specifici degli Apprendimenti.

A cura del Centro Studi Specialistici Kromos

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A sedere! Come il modo di stare seduti parla di noi Milioni sono i gesti, i movimenti, le mimiche, le espressioni, le posture del corpo proprie e altrui di cui ogni giorno, nei diversi contesti di natura sociale e personale, siamo osservatori e/o protagonisti; carpire le sfumature e i significati di particolari comunicazioni non verbali che formuliamo e di cui siamo spettatori non è sempre un compito lineare, ma spesso soggetto a fraintendimenti o a cattive interpretazioni.

Ogni comunicazione ha una sua dimensione sotterranea e implicita, un messaggio insito nelle pieghe di un modo di porsi ed è il linguaggio corporeo a veicolare segnali emozionali e di relazione, a volte codificati dal e nel contesto sociale, che spesso vengono inviati e colti a diversi gradi di consapevolezza. Tra questi segnali non verbali è possibile considerare quelli provenienti dal gesto, dal movimento, dagli aspetti paraverbali della voce oltreché dalla postura e, in particolare, dal modo di stare a sedere… Cosa vogliamo dire quando assumiamo una certa posizione seduta? Come le persone dispongono le parti del corpo sulla sedia e come scelgono di occupare lo spazio? Sono sostanzialmente due i fattori predominanti che dettano le regole dei nostri accomodamenti: la relazione fra gli interlocutori e le caratteristiche psicologiche personali. Per esempio, inclinare il busto in avanti indica un atteggiamento positivo e di interesse, rinforzato dalla prossimità fisica e da un contatto visivo più intenso. Tuttavia, occorre tenere presente che spesso è anche il contesto che suggerisce una postura più appropriata e, a volte, la situazione modifica il significato di un comportamento non verbale: essere protesi in avanti può voler dire anche invadere l’altro. Ma vediamo più da vicino alcuni significati che si possono evincere dalle principali modalità di stare seduti (Birkenbihl, 2002; Guglielmi, 2004).

• Sedersi al centro della sedia con schiena dritta e gambe appoggiate a terra, non accavallate: posizione in cui ci si sente attenti e interessati a ciò che succede intorno. È una posizione di accoglienza.

• Stare sul bordo della sedia: molto probabilmente la persona ha delle riserve sull’interazione che sta vivendo oppure può essere tendenzialmente impaziente e precipitosa, specie nel “saltare” alle conclusioni.

• Cambiare spesso posizione: chi cambia frequentemente posizione sulla sedia potrebbe, più o meno consapevolmente, manifestare il suo essere inquieto oppure mostrare di avvertire, in quella situazione specifica, un senso di disagio.

• Occupare tutta la sedia o la poltrona: la persona, assai probabilmente, cerca di impressionare l’altro/gli altri, cercando di celare il più possibile eventuali insicurezze.

• Sedere con il busto ripiegato su se stessi: è la cosiddetta posizione di “fuga” poiché è la modalità posturale preparatoria ad alzarsi e andarsene, a testimonianza di un atteggiamento interiore di evitamento. In altri casi la persona necessita del contatto con l’interlocutore, può sentire il bisogno di essere aiutata e può essere molto sensibile alle critiche.

• Muovere freneticamente gambe o talloni: segno di un probabile mancato ascolto partecipato dell’altro, presi

dalla necessità di inserirsi nel discorso; la persona può essere desiderosa di dire la sua, può ritenere di avere ragione o che le sue spiegazioni sono migliori di quelle di colui che sta parlando.

• Tenere le braccia incrociate dietro la testa e/o sprofondare nello schienale della poltrona: se c’è molta intimità fra gli interlocutori, può essere segno di “stare bene” nella situazione o nella relazione. Se invece l’intimità non è molta, ciò può voler dire che il soggetto manifesta presunzione o noia per il contesto o per gli altri.

• Incrociare le gambe: se la persona tiene incrociate le gambe (da considerare in rapporto al contesto e agli aspetti culturali che regolano tale postura) può comunicare uno stato momentaneo di tensione, nervosismo o di chiusura.

Tenere le gambe accavallate nella stessa direzione dell’interlocutore, in alcune circostanze, può essere indice di sintonia, mentre tenerle accavallate e orientate in direzione opposta può avere un significato di disaccordo circa il contenuto della discussione o circa la relazione stessa.

• Sedere con le mani tenute strette tra le gambe: questa postura di attesa può mostrare che la persona sta avvertendo una forte sensazione di ansia. È un modo di stare seduti con significato analogo a quello in cui la persona allunga le gambe tenendole incrociate, mantenendo una mano in tasca.

• Sedere con il busto all’indietro, le gambe accavallate e le mani incrociate sulle cosce: in alcuni casi veicola un messaggio di supponenza e di presunzione, di chiusura egocentrica nei confronti dell’interlocutore.

• Sedere a gambe larghe: per i maschi indica desiderio di dominio sugli altri, una manifestazione non consapevole di virilità e di ostentazione.

• A cavalcioni: sedersi a cavalcioni appoggiati con le braccia sullo schienale della sedia dichiara una apparente rilassatezza e disponibilità, sentendosi coraggioso e al sicuro. Denota inoltre una persona che pur avendo il desiderio di dominare la situazione, è frenata dalla propria insicurezza.

• Dondolarsi sulla sedia: la persona dichiara impazienza e frettolosità riguardo al discorso del suo interlocutore; indica di aver colto “il nocciolo” del problema e la sua soluzione induce l’altro ad affrettarsi alle conclusioni.

• Sedersi con la gamba appoggiata ad un bracciolo: modo rilassato e informale di sedersi quando si è tra persone con una certa intimità, ma, in circostanze un po’ più “serie”, indica superficialità e indifferenza.

Lontani dal compiere una lettura di tipo causalistico o deterministico delle posture sopra esposte, ma con l’intento di collocarle adeguatamente nel loro contesto e nella dinamica che si va instaurando o perpetrando tra gli interlocutori, è interessante conoscere ed essere consapevoli che anche un semplice modo di stare, su cui spesso non riflettiamo, è rivelatore di emozioni, pensieri e stati interiori, di significati, di modi di rivolgersi e proporsi agli altri.

Simone Pesci

Bibliografia Birkenbihl, V. F. (2002). I segnali del corpo: Come interpretare il linguaggio corporeo. Milano: Franco Angeli.

Guglielmi, A. (2004). Il linguaggio segreto del corpo. Alessandria: Piemme.

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Il test del Grappolo d’Uva e le sue evoluzioni Viste le ricerche che si sono susseguite a partire dagli anni trenta e che hanno dato luogo a numerose modificazioni, abbiamo ritenuto interessante riportare all’attenzione del lettore un metodo diagnostico di tipo proiettivo che ha trovato notevoli conferme nel corso del tempo, ma che forse non gode di una popolarità adeguata alle sue peculiarità e potenzialità. È per questo che qui di seguito diamo voce a due autori che, durante gli anni sessanta, hanno promosso uno studio sul reattivo del “grappolo d’uva”, modificando e riattualizzando un metodo che nasce all’interno della cornice della Scuola di Oswald Kroh (1887-1955), psicologo e pedagogista tedesco, docente universitario e Presidente della Società Tedesca di Psicologia.

Il test del grappolo d’uva (die Weintraube) di Hans Lamparter consisteva inizialmente nel fornire al soggetto in esame dei piccoli dischi rotondi colorati in grigio ed in azzurro, un foglio di carta ed una forbice e nell’invitarlo a costruire un grappolo d’uva il cui raspo e le cui foglie dovevano essere ritagliati a suo piacimento (in quanto a forma e grandezza). Il Lamparter tendeva essenzialmente a precisare - tramite lo stesso elaborato e le modalità con cui era stato eseguito - se il soggetto in studio (si trattava di bambini) aveva preso in considerazione soprattutto il colore o la forma, cioè se apparteneva al gruppo dei Farben-Beachtern (Fa-B) o dei Formen-Beachtern (Fo-B). Una attenta disamina dei risultati portò l’Autore a precisare come le creazioni estetiche dei Fo-B fossero essenzialmente schematiche, frutto di una unilaterale preoccupazione alla “configurazione” del grappolo e non dettate da una tendenza più o meno manifesta ad adeguarsi alla realtà che, anzi, veniva idealizzata nella formazione di un “tipo” del contenuto da rappresentare; i prodotti creativi dei Fa-B, soggetti che “vedevano” il colore, ed il loro stesso comportamento nell’esecuzione della prova denotavano una preoccupazione costante a tradurre in opera la realtà oggettuale adeguandovisi nei limiti delle loro possibilità espressive.

Successivamente Sanguinetti e Sigurtà nel tentativo di rendere più spedita la prova e più corretto ed obbiettivo l’esame dei protocolli, hanno apportato numerose modifiche al test di Lamparter, avendo di

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mira il suo impiego nell’ambito delle malattie mentali. Tutte le varianti introdotte dagli Autori ci appaiono logiche e, grazie al loro procedimento di “scoring”, potremmo sin d’ora concludere come, a tutt’oggi, il “test del grappolo d’uva” sia entrato nel novero de test mentali di rapida esecuzione e di facile lettura, requisiti che - in tale campo - ci appaiono indispensabili per una standardizzazione dei risultati e per un proficuo lavoro interpretativo.

Le modificazioni di Sanguinetti e Sigurtà, correlate in parte ad una diversa finalità di ricerca ed in parte ad una più completa elaborazione dei criteri che sottendono la stessa indagine, riguardano sia le modalità di esecuzione della prova sia il tipo in genere del materiale impiegato sia il colore degli acini forniti al soggetto in esame. Tali varianti - ci pare utile il ripeterlo - non sono state adottate con l’intento di fornire al test una impronta personale, ma rispondono a precise esigenze d’esecuzione e d’interpretazione della prova, tenendo conto della possibilità di un suo impiego in Neuropsichiatria.

A differenza ad esempio di Lamparter che si soffermava in dettagliate richieste sul come i soggetti intendevano costruire il grappolo d’uva e sulle loro preferenze, gli Autori si sono limitati ad annotare diligentemente le varie osservazioni ed il comportamento degli esaminandi durante lo svolgimento della prova, registrando, a test ultimato, le risposte pertinenti alle domande sui “perché” della scelta di un

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particolare o di determinati colori.

Così pure Sanguinetti e Sigurtà hanno abbandonato il metodo di invitare i soggetti a ritagliare - secondo le proprie preferenze - il raspo e le foglie da un foglio di carta loro appositamente fornito, preferendo invece che l’esaminando scegliesse per la costruzione del grappolo quei gettoni ritenuti più adatti alla costruzione del grappolo stesso, fra un gran numero di comuni gettoni da gioco, in materiale plastico, di varia forma (rotonda o rettangolare) e grandezza (quattro misure per i rotondi e due per i rettangolari).

Risultano così ovvi i benefici arrecati, con questa modifica, all’economia generale del test che è divenuto più semplice, maneggevole e rapido.

Gli Autori hanno infine impiegato una gamma di colori (giallo, verde, rosso, rosa, bianco, azzurro e turchino) assai più vasta di quella di Lamparter (grigio e azzurro) per dar modo, al soggetto che “vede” il colore di scegliere agevolmente fra quelli che gli appaiono più adatti a tradurre nella composizione la sua impressione cromatica dell’uva; tale modifica d’altra parte fa sì che l’individuo che si preoccupa prevalentemente della forma possa rendere ancora più chiara all’esaminatore tale sua tendenza in quanto, avendo a disposizione un gran numero di colori, sarà indotto alla strutturazione di composizioni policrome inadeguate (ad es. acini di vario colore, ma non evocanti i vari stadi maturativi dell’uva), precisando così - senza possibilità di equivoci - la sua appartenenza al gruppo dei Fo-B. Come completamento della tecnica di “costruzione” del grappolo d’uva, Sanguinetti e Sigurtà si sono serviti poi di fogli di carta bianca, quadrati, di cm.

50 di lato, su cui l’esaminando è invitato a disporre i gettoni di varia forma e colore a sua disposizione per la costruzione del “grappolo”: ciò dà la possibilità - come meglio diremo in seguito - non solo di conservare ed eventualmente riprodurre le composizioni dei soggetti in studio, ma anche di agevolare la stesura dei protocolli.

Il test del “grappolo d’uva”, benché reso agevole nell’applicazione e nella lettura dai succitati Autori non ha ricevuto, ci pare, a tutt’oggi quell’interesse che sicuramente merita, per le sue doti di semplicità, in campo neuropsichiatrico: poco numerose sono infatti le indagini eseguite, assai spesso con discordanti risultati. Ciò ci ha fatto ritenere non inutile un suo impiego su larga scala in gruppi ben selezionati di pazienti psichici e di soggetti normali suddivisi per età, sesso e grado di istruzione. In questo nostro lavoro siamo stati avvantaggiati dalle precisazioni e modifiche apportate da altri Autori alla metodica di Sanguinetti e Sigurtà ed allo studio dei vari “fattori” del test: ovviamente ci siamo serviti fra esse solo di

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quelle che, a nostro avviso, giovavano all’economia generale del test ovviando ad inconvenienti, sveltendo l’esame dei protocolli e schematizzando e suddividendo gruppi di dati troppo farraginosi, se considerati nell’insieme. Dobbiamo precisare infine che noi stessi abbiamo ritenuto opportuno introdurre nel test alcuni nuovi elementi: essi consistono nell’impiego di forme quadrate, nella valorizzazione delle varie grandezze in cui il grappolo viene costruito e nell’uso di gettoni a tinta diversa.

Metodica Materiale impiegato Fogli di carta bianca di forma quadrata (con lato di cm. 40). N. 660 sagome di plastica (ci siamo serviti in parte di comuni gettoni da gioco ed in parte di materiale costruito su nostra ordinazione) di forma rotonda (360), quadrata (60) e rettangolare (240) ognuna delle quali di varia grandezza (diametri delle forme rotonde: cm. 1,5 e cm. 2; lato delle forme quadrate: cm. 2; lati delle forme rettangolari: cm. 1 x 5 e cm. 1 x 3) e di vario colore (bianco, nero, verde, rosso, giallo e azzurro per le forme rotonde, bleu e rosso per le forme quadrate; nero, verde, marrone, rosso, giallo e azzurro per le forme rettangolari). Più

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grappolo d’uva e ad avvisare l’esaminatore non appena ritiene di aver terminato la composizione”. Subito dopo le istruzioni si inizia a calcolare il tempo d’esecuzione della prova annotando diligentemente gesti, commenti e richieste dell’esaminato. Se il soggetto chiede suggerimenti e consigli gli si risponde invariabilmente “faccia come vuole”. A prova ultimata si segnano sul foglio di carta su cui è stato costruito il “grappolo” i contorni dei gettoni impiegati e si redige un protocollo in cui figurino l’età, il sesso ed il grado d’istruzione del soggetto, la malattia da cui è affetto, il tempo impiegato, il suo comportamento durante l’esecuzione del test. Riesce utile, a tal punto, anche un breve interrogatorio dell’esaminando volto soprattutto a chiarire eventuali incertezze sulla perdita o meno del “fattore colore”.

I fattori della prova

precisamente, intendendo D = diametro, C = colore, L = lato, abbiamo: • gettoni rotondi: D. cm. 1,5: C. verde, rosso, giallo, bianco, azzurro e nero; numero dei pezzi 180 costituito da sei serie (una per colore) di 30 pezzi ciascuna. D. cm. 2: C. verde, giallo, bianco, azzurro e nero; numero dei pezzi 180 costituito da sei serie (una per colore) di 30 pezzi ciascuna.

• gettoni rettangolari: D. cm. 1 x 5: C. nero, verde, marrone, rosso, giallo ed azzurro numero dei gettoni 120 costituito da sei serie (una per colore) di 20 pezzi ciascuna. D. cm. 1 x 3: C. verde, marrone, rosso, giallo, azzurro e nero: numero dei pezzi 120 costituito da sei serie (una per colore) di 20 pezzi ciascuna.

• gettoni quadrati: L. cm. 2: C. bleu e rosso: numero dei pezzi 60 in due serie di 30 pezzi ciascuna.

Esecuzione del test L’esaminando siede ad un tavolo ben illuminato, ha alla sua destra i gettoni mescolati fra loro in un apposito contenitore e davanti il foglio di carta bianca prima menzionato; l’esaminatore gli siede davanti; l’esaminando è invitato a “comporre con le forme a sua disposizione, scegliendo i gettoni che vuole ed usandone nella quantità che ritiene necessaria, un

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Colore Può risultare “conservato” oppure parzialmente o totalmente “perduto”. È conservato se la composizione monocromatica o policromatica - risulta aderente alla realtà o almeno traduce gli sforzi dell’esaminando di adeguarsi ad essa. […]. Nell’evenienza poi che il “grappolo” venga composto con gettoni dei più diversi colori fornendo in modo inequivocabile l’impressione che il soggetto non si è affatto preoccupato - nell’esecuzione del test - del fattore cromatico, il colore deve essere considerato come “perduto”. Difficile e piuttosto soggettivo riesce infine, almeno a nostro avviso, l’apprezzamento di una perdita parziale del colore, per cui occorre andar cauti nell’esprimersi in tal senso […]. Sul fattore colore possiamo affermare come nella maggior parte dei casi l’orientamento sia agevole sulla “perdita” o “conservazione”; se dovessero sorgere perplessità è bene che si chiedano chiarimenti all’esaminando e, se anche tale espediente dovesse riuscire inefficace riteniamo si debba concludere senz’altro per una “perdita parziale”: sottolineiamo ancora comunque che una presa di posizione in tal senso debba caso per caso essere attentamente valutata […].

Forma È generalmente “conservata”; la si considera “perduta” a solo quando, nell’elaborato, non è più riconoscibile un “grappolo d’uva”.

Rilievo È costituito dalla sovrapposizione dei gettoni in più strati, che può essere casuale oppure voluta dal soggetto il quale tende così ad ottenere nelle sua composizione un effetto tridimensionale: i caratteri com-

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plessivi dell’elaborato rendono facile la distinzione fra queste due evenienze.

Simmetria (e sua esagerazione: stereotipia).

Si ha quando i vari costituenti dell’elaborato sono disposti su piani eguali e ad identiche distanze: ne sortisce per lo più un grappolo triangolare formato da un numero di acini regolarmente decrescente dalla base alla punta (ad esempio quattro gettoni, tre gettoni, due gettoni, un gettone).

Configurazione a cerchio Come la stessa denominazione lascia intendere, si ha quando il grappolo presenta un vuoto centrale bene evidente assumendo, grossolanamente, la forma di una circonferenza o di una semicirconferenza.

Lacunarità È una variante della configurazione a cerchio e consiste nella presenza di spazi più o meno ampi fra un gettone e l’altro oppure fra vari gruppi di gettoni.

Prestrutturazione del raspo Si ha quando il soggetto inizia la sua composizione con il disporre sul foglio di carta una intelaiatura di gettoni rettangolari riproducenti il raspo intorno ai quali dispone in seguito i gettoni rotondi che raffigurano gli acini.

Prevalenza del raspo Il raspo vieni costruito contemporaneamente alla parte acinosa del grappolo, ma, a composizione ultimata, appare prevalente per estensione, ricchezza di ramificazioni e numero di gettoni.

in secondi. Secondo Landriani, che l’ha per primo introdotto nella lettura degli elaborati, tale rapporto darebbe una immediata e probante indicazione sulle effettive capacità di prestazione dei singoli soggetti esaminati; sempre secondo l’Autore, tanto più elevato è il suo valore numerico tanto maggiori sono le capacità del soggetto (purché, ovviamente, la forma risulti conservata). […]

Uso di forme inadeguate Si riferisce all’impiego, da parte del soggetto, di gettoni quadrati per gli acini o di gettoni rotondi per il raspo.

Grandezza dell’elaborato Si considera grande un grappolo che occupi tutto il foglio, piccolo quando ricopre un quarto (o meno) del foglio e medio qualora le sue dimensioni oscillino fra questi due estremi.

Coartazione ed espansione Il primo termine sta a designare composizioni povere, raccolte in uno spazio esiguo e talora eccentriche rispetto al foglio; il secondo, elaborati eccessivamente ricchi, costruiti con numerosissimi gettoni per lo più disposti a contatto fra loro.

La differenza fra una composizione “piccola” ed una “coartata” non è descrivibile e precisabile in poche parole: si ricordi comunque che un elaborato coartato oltre che occupare uno spazio ridotto è anche povero cioè costituito da pochi gettoni, in genere piccoli; la stessa considerazione può valere per una differenziazione fra un “grappolo grande” (che può essere costituito anche da pochi gettoni sparsi per tutto

Numero di gettoni usati Si considera la quantità complessiva dei gettoni impiegati e, volendo, si stabilisce un rapporto fra il numero dei gettoni rotondi e quello dei rettangolari.

Tempo di esecuzione Viene misurato facendo scattare il cronometro subito dopo aver impartito le istruzioni e fermandolo non appena l’esaminando abbia dichiarato di aver terminato la sua composizione. […]

Rapporto gettoni usati/tempo impiegato in secondi Per ottenerlo si divide il numero dei gettoni per il tempo impiegato

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il foglio) ed un grappolo in cui sia presente il fattore “espansione”, che è essenzialmente caratterizzato come già abbiamo riferito - dall’impiego di numerosissimi gettoni strutturati in forme più o meno elaborate. Esistono casi comunque in cui a prescindere dall’impressione globale fornita da un primo esame dell’elaborato e che risulta in proposito di grande aiuto riesce difficile lo attribuire alla composizione del soggetto uno o l’altro dei vari attributi (grande, piccolo, coartato ecc.) su menzionati; tuttavia è raro che ci si trovi di fronte a difficoltà insormontabili, soprattutto se si tiene conto - come regola generale - che i fattori coartazione ed espansione si riferiscono oltre che alla superficie del foglio occupata dai gettoni anche al loro numero, mentre il fattore grandezza si limita a valorizzare solo le dimensioni di quella parte della superficie del foglio occupata dai gettoni, prescindendo dal loro numero.

Gesti e commenti durante l’esecuzione del test Ogni atteggiamento o richiesta dell’esaminando nel corso della prova viene accuratamente annotato. Riteniamo utile, al riguardo, la schematizzazione delle modalità di comportamento proposta da Landriani: l’Autore distingue gli esaminandi in quattro catego-

rie e precisamente: A. Soggetti che accolgono la formula di invito senza fare commenti o chiedere spiegazioni ed eseguono la prova in silenzio.

B. Soggetti che accettano la prova, ma indugiano prima, durante e subito dopo la sua esecuzione in richieste di spiegazioni o commenti di vario tipo.

C. Soggetti che si dichiarano incapaci ed eseguono e terminano la prova continuando a protestare la loro incapacità.

D. Soggetti che assumono verso l’esaminatore un contegno aggressivo e che criticano la prova già prima di porvi mano continuando in tal senso durante e dopo il suo svolgimento.

Condotta di svolgimento della composizione Si deve soprattutto porre attenzione al fatto se il soggetto, nella strutturazione del grappolo, pare o meno seguire un piano prestabilito: ciò è ricavabile dalla sicurezza con cui procede nello scegliere e disporre i vari gettoni oppure dalle esitazioni e ripensamenti che lo costringono a mutare posto continuamente alle varie forme, per cui l’elaborato risulta costruito per tappe successive in una evoluzione creativa che sfocia in un prodotto finale imprevedibile all’inizio del test.

[Tratto da Cazzato, G. e Carucci, G. (1965). Il test del grappolo d’uva: suo impiego in campo psichiatrico. In Rivista Sperimentale di Freniatria e Medicina legale delle alienazioni mentali, Vol. LXXXIX, Sasc. VI, 31 dicembre 1965, pp.

1518-1525.]

Bibliografia di riferimento per il Test del grappolo d’uva Cazzato, G. e Carucci, G. (1965). Il test del grappolo d’uva: suo impiego in campo psichiatrico. In Rivista Sperimentale di Freniatria e Medicina legale delle alienazioni mentali, Vol. LXXXIX, Sasc. VI, 31 dicembre 1965 Kroh, O., Lamparter, P. e Lamparter, H. (1932). Experimentelle Beitraege Zur Typenkunde. In Zeitschrift Für Psychologie und Physiologie der Sinnesorgane. Ergänzungshand 22 Band III, Leipzig: Johann Ambrosius Barth.

Landriani, F. (1954). Il test del grappolo d’uva. In Note e Riv. Psich., 30, 23, 1954.

Landriani, F. (1954). Ulteriori considerazioni sul test del grappolo d’uva. In Note e Riv. Psich., 30, 286, 1954.

Laricchia, R. e Beretta, P. (1954). Il test del grappolo d’uva di Sanguinetti e Sigurtà su di un gruppo di 100 soggetti schizofrenici. In Neurone, 2, 307, 1954.

Lusso, A. (1954). Sulla utilità del test di Lamparter nella pratica clinica. In Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria, 15, 169, 1954.

Sanguinetti, I. e Sigurtà, R. (1951). Il test del grappolo d’uva in psichiatria: Nuovi risultati della sua applicaizone nel campo delle psicosi organiche. In Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria, 12, 218, 1951.

Sanguinetti, I. e Sigurtà, R. (1951). Modificazione del test di Lamparter detto del “grappolo d’uva” e primi risultati della sua applicazione in neuropsichiatria. In Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria, 12, 35, 1951.

Sanguinetti, I. e Sigurtà, R. (1952). Il “test del grappolo d’uva” su gruppi omogenei di soggetti normali. In Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria, 13, 198, 1952.

Treves, G. e Papo, I. (1952). Risultati dell’applicazione del “test del grappolo d’uva” (modificato da Sanguinetti e Sigurtà) su di un gruppo di militari. In Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria, 13, II, marzo 1952.

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LUGLIO - DICEMBRE 2009

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Nuovi Orizzonti

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Alfredo Carcano e Vito Viganò

La violenza nel cuore Dalla cronaca nera alla quotidianità del male Erickson, Trento 2007, pp. 207

“L’aggressività in senso proprio è la forza di cui ciascuno dispone per aggredire, affrontare in modo sano le difficoltà e superare gli ostacoli che impediscono un vivere soddisfacente [...] La violenza è un fatto relazionale, è un modo, tra i tanti possibili, di entrare in contatto e di interagire tra le persone. La violenza è l’azione di qualcuno che impiega la sua forza per ottenere come risultato un disagio, una sofferenza in qualcun altro, qualcosa che lo disturba e gli fa male”. È dalla definizione di violenza, contrapposta a quella di aggressività, che gli Autori partono per spiegare le dinamiche psicologiche che occasionano l’atto violento. Così come ogni altra azione umana, anche quella violenta è responsabilità di chi la compie. Il male compiuto è la risultante di motivazioni, di desideri che portano il soggetto ad individuare nell’atto violento il giusto modo per raggiungere i propri scopi.

Far riflettere i lettori sui meccanismi che muovono al male e sulle conseguenze che un’azione violenta comporta nella vittima risulta essere lo scopo del libro: un’attenta analisi critica dell’accaduto è necessaria per evitare di sbagliare, per cogliere le storture delle azioni umane e imparare a guardarsene.

Nell’intento di perseguire l’obiettivo i due Scrittori, un giornalista e uno psicologo, alternano spiegazioni di carattere psicologico a trafiletti di cronaca nera che, al pari delle illustrazioni dei libri, riescono a raffigurare a chiari toni gli innumerevoli “sbagli del vivere” che la non-riflessione e una cattiva gestione delle proprie forze e delle dinamiche interiori comportano.

Aida Rizzo

Thomas Schafer

Se la bella addormentata non si sveglia più.

L’interpretazione delle fiabe con il metodo delle costellazioni familiari Tecniche Nuove, Milano, 2008, pp. 148

Attraverso illustrazioni di numerosi casi clinici, l’Autore arriva a dimostrare l’esistenza di una relazione tra la fiaba che la persona indica come la più importante della propria infanzia e un “copione”, ovvero uno scenario ricorrente di vita familiare che ha contribuito in modo significativo all’eziologia della patologia di cui il soggetto è portatore. Aspetto saliente dell’approccio analitico transazionale è infatti l’analisi dei “copioni” che possono essere individuati informandosi sulla fiaba, il film o il fumetto preferito.

All’interno di ogni capitolo, Schafer propone l’analisi del contenuto di alcune tra le più note fiabe, evidenziando come sia possibile rintracciare delle tematiche che si riscontrano frequentemente nelle storie di vita dei pazienti.

L’analisi dei copioni familiari viene fatta adottando una prospettiva “multigenerazionale”, ovvero tenendo in considerazione l’influenza che eventi significativi avvenuti all’interno del sistema familiare, anche nelle generazioni passate, possono continuare ad esercitare un ascendente sull’individuo.

Il metodo delle costellazioni familiari, messo a punto da Bert Hellinger, consente al paziente di mettere in scena tali copioni all’interno di un setting gruppale, permettendo l’individuazione delle dinamiche familiari disfunzionali che sono all’origine della sofferenza.

La rappresentazione può quindi costituire il contesto all’interno del quale il paziente può modificare tali dinamiche compiendo delle “azioni risolutorie”.

L’esperienza clinica ha infatti dimostrato che l’atto di pronunciare ad alta voce ed in presenza di altre persone alcune parole

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nei confronti dei rappresentanti dei propri familiari, può aiutare il paziente ad assumere consapevolezza dell’infondatezza delle proprie convinzioni che alimentano la sofferenza.

Luce Ternullo

Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli

Mio figlio mi legge nel pensiero

Arnoldo Mondadori, Milano, 2009, pp. 274 Un manuale-guida rivolto ai genitori che ripercorre tutte le fasi di vita dei loro bambini, dalla gravidanza all’ingresso nella scuola: è questa la veste di Mio figlio mi legge nel pensiero edito da Arnoldo Mondadori. Il tema centrale è la cosiddetta “sintonia emotiva” tra genitori e figli, che viene illustrata attraverso la descrizione di particolari forme di relazione, di sistemi motivazionali interpersonali e, soprattutto, di recenti scoperte nel campo della neurofisiologia e psicobiologia dello sviluppo.

Gli Autori sostengono la necessità di particolari e speciali sintonizzazioni emotive realizzate da genitori attenti, presenti e sicuri, affinché i bambini non si perdano e crescano serenamente fin dal primo istante di vita. Pertanto è fondamentale, soprattutto nella nostra epoca, una connessione di sintonia emotiva che lega i bambini ai propri genitori, in modo che il figlio senta che il genitore sente quanto lui sta provando e percependo in quel momento. Il testo si basa sulla rivoluzionaria scoperta di una classe particolare di neuroni, i neuroni a specchio, che, insieme ad altri centri nervosi, permetterebbero ai bambini, anche appena nati, di sintonizzarsi sulle emozioni e le percezioni dei genitori, interpretandone le intenzioni. Questi neuroni favorirebbero nei piccoli la percezione di ciò che l’altro sta percependo e sentendo in quel momento, come se leggessero nel pensiero dei propri genitori. Attraverso questi circuiti neurali e la ricerca di un attaccamento genitore-figlio sicuro, di un ambiente sereno e tranquillo, e attraverso l’empatia, la cooperazione e la disponibilità, si può realizzare una continua e profonda sintonia emotiva che dà vita ad un incontro tra adulto e bambino, colmo di gioia e serenità.

Agnese Mangiabene

Robin Stern

Come mi vuoi? Imparare a difendersi dalla manipolazione emotiva Corbaccio, Milano, 2009, pp. 312

L’Autrice, psicoterapeuta da oltre vent’anni, ha proposto il termine gaslight (angoscia) ad indicare la dolorosa ed insidiosa condizione di manipolazione emotiva, un tipo di dinamica che è possibile riscontrare in qualsiasi relazione. Presupposto perché si verifichi tale manipolazione è la presenza di un “manipolatore” che intenda soddisfare un urgente bisogno di avere la ragione dalla sua parte per rafforzare la percezione di sé, e di una vittima che, idealizzando e sublimando l’altro, desidera la sua approvazione e il suo affetto.

Nel presente volume l’attenzione è concentrata in particolar modo sul legame uomo-donna, soprattutto quello di natura sentimentale, e l’Autrice, dopo aver dato una chiara definizione di cosa sia la manipolazione emotiva e aver delineato in modo esemplificativo i tre stadi attraverso cui si esplicita, suggerisce semplici “tecniche” per imparare a riconoscerla nei nostri rapporti quotidiani offrendo consigli per interrompere la sua danza.

Con uno stile narrativo efficace e diretto, di semplice comprensione ed in alcuni casi divertente, viene fornita al lettore la possibilità di ritrovare scene o situazioni di vita propria e la possibilità di riflettere su di esse. Ricordando che la manipolazione emotiva affonda le sue radici nelle paure che tutti noi nutriamo e cioè quelle di non essere capiti, stimati e amati, possiamo avvicinarci a questo libro con la curiosità di scoprire se nei nostri rapporti giochiamo più spesso il ruolo di vittima o quello di manipolatore.

Monia Lucci

luglio - dicembre 2009

Nuovi Orizzonti

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Lapo Marini

Robert E. Emery

Erickson, Trento, 2007, pp. 101

Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 254

Nella Bolla. Come si vive con l’autismo Un’autobiografia affascinante, commovente e al contempo divertita; un insieme di ricordi ed emozioni che Lapo Marini esprime raccontando la propria esperienza di persona autistica. Chiuso in quella che lui stesso definisce una “bolla”, passa in rassegna luoghi, eventi e persone significative per la propria esistenza. Narrando delle difficoltà a relazionarsi con gli altri, ricorda come i genitori lo considerassero “un essere speciale, incapace di affrontare una vita normale” ed il loro conseguente tentativo continuo di “mantenerlo in un ambiente controllato”. Il padre lo ritiene “inadeguato”, mentre la madre, egoista e ossessionata dalla paura di restare sola, considera il figlio “un qualcosa tra un animale di compagnia e un cameriere” un “mite, addomesticato conforto dei suoi anni futuri”. La vita appare dunque all’Autore come un “insopportabile orrore”, un’esistenza da cui cercare di fuggire costantemente, “per non sentire minacciata la propria identità”. Ecco che la “bolla autistica” diventa un rifugio sicuro, una “tana”, un luogo protetto entro cui abitare.

La storia personale di Lapo Marini da un lato sembra dare conferma a vecchie posizioni teoriche, come quella della “madre frigorifero”, ormai ritenuta obsoleta dalla comunità scientifica; dall’altro offre interessanti spunti di riflessione circa l’esistenza di reali differenze fra le varie forme in cui l’autismo si manifesta (sindrome di Asperger, autismo ad alto funzionamento ecc).

Parlando in prima persona della propria vita, l’Autore apre ad una fattiva comprensione di aspetti intimi e soggettivi dell’autismo, troppo spesso ignorati o poco conosciuti.

Sara Lorenzetti

Ruth King

La rabbia. Come trasformare un sentimento represso in equilibrio ed energia Frassinelli, Milano, 2008, pp. 275

La rabbia è la figlia di traumi fisici ed emotivi - abusi, perdite, carenze, abbandoni - vissuti nell’infanzia che intrappolati inconsapevolmente nel corpo generano un’energia travolgente causando malessere e disagio.

L’assunto fondamentale di Ruth King è che la rabbia irrisolta dei traumi infantili è ancora ingabbiata nel corpo e nella mente; è un’energia che essendo bloccata si manifesta nella vita quotidiana di adulti con dei travestimenti della rabbia (Dominio, Provocazione, Dedizione, Dipendenza, Depressione), modi in cui ci rapportiamo alla vita senza viverla davvero. Questi mascheramenti diventano schematismi, parte integrante della vita che si conduce dimenticando la sua vera origine. Apparentemente le operazioni di dissimulazione di questa emozione vengono messi in atto per salvaguardare la sofferenza del passato, anche se in fondo non fanno altro che perpetuarla, in modo che la rabbia divenga una caratteristica che si lascia in eredità o che si è ereditato rinnovando il suo “retaggio”.

L’Autrice, grazie e tramite la sua storia biografica e professionale, offre gli strumenti per intraprendere un viaggio di profonda introspezione, un percorso di autocoscienza in rinnovata consapevolezza e pace interiore affinché questo sentimento possa essere trasformato in potenziale positivo. Un viaggio che la scrittrice illustra nelle sue diverse tappe, partendo dal passo preliminare e imprescindibile - di ammettere a se stessi l’esistenza della propria rabbia, individuando le maschere che essa assume impedendoci di vederla, fino a giungere ai consigli e alle indicazioni per guarirne. Il volume raccoglie numerosi questionari di autovalutazione, “consigli”, pratiche spirituali e fisiche che spaziano dalla meditazione all’esercizio del perdono e della compassione.

Questo libro non promette di debellare per sempre la rabbia, perché le condizioni che la scatenano continueranno ad esistere: l’obiettivo non è eliminare questo sentimento, ma acquisirne consapevolezza in modo da lasciarlo fluire e farne una fonte di equilibrio ed energia.

Sara Solinas

LUGLIO - DICEMBRE 2009

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La verità sui figli e il divorzio

L’Autore, terapeuta e mediatore familiare, fa tesoro della sua esperienza ventennale come ricercatore per offrire consigli pratici e strategie su come affrontare una separazione o un divorzio. I bambini sono il tema centrale di questo libro, in quanto l’obiettivo primario è di rendere i genitori in grado di gestire al meglio la relazione con i figli e tra di loro, senza farsi sopraffare dalle emozioni negative generate dal dolore e dalla perdita, e senza perdere mai di vista l’interesse comune ad entrambe: proteggere i figli dal proprio risentimento. Il divorzio per i bambini è una transizione dolorosa e difficile, ma non rimane tale per sempre. La maggior parte di loro sviluppa una certa resilienza. Se un matrimonio è fallito, un divorzio può avere successo e ciò accade se i genitori lavorano cooperativamente per affrontarlo e per limitare il coinvolgimento dei figli nei conflitti, dando loro l’opportunità di continuare ad essere bambini e questo comportamento responsabile e adulto permette di promuovere nei bambini una reazione positiva, uscendone emotivamente sani e resilienti. Emery illustra nel libro una serie di casi da lui affrontati mostrando come poter gestire le emozioni potenzialmente negative che una separazione comporta e affianca alla sua esperienza professionale anche quella personale di genitore divorziato, cercando di dare un senso al proprio dolore e imparando dai propri errori, con la consapevolezza però che l’amore per i propri figli permette di controllare la bufera delle emozioni negative e permette di assicurare ai bambini un legame positivo con entrambi i genitori. Il testo si propone come strumento utile per i genitori che stanno affrontando una separazione, ma anche per quanti si occupano di mediazione familiare, consulenza tecnica e psicoterapia del divorzio.

Marilena Porcelli

Maria Rosa Pizzamiglio, Laura Piccardi e Antonella Zotti

Lo spettro Autistico. Definizione, valutazione e riabilitazione in neuropsicologia.

Franco Angeli, Milano, 2007, pp. 272.

Le Autrici si propongono di descrivere i disturbi dello spettro autistico, noti anche come disturbi pervasivi dello sviluppo in quanto caratterizzati dalla destrutturazione della persona in tutti i suoi aspetti chiave e conseguentemente da un inadeguato funzionamento sia a livello cognitivo che comunicativo e sociale. Le patologie descritte nel testo non possono essere identificate in una lesione riconducibile ad una singola area. Si tratta invece di più regioni cerebrali, ognuna delle quali coordina funzioni necessarie per un corretto sviluppo. Il testo affronta, illustrando nel dettaglio, tutti quei disordini che erroneamente vengono identificati con l’autismo. Troviamo descritti i punti comuni e i tratti distintivi che portano ad una diversa “classificazione” della patologia in esame. La presentazione dei capitoli volge verso una descrizione iniziale in cui sono presentate l’eziogenesi e le caratteristiche cliniche, proseguendo poi verso una maggior identificazione dei fattori distintivi che consentono una diagnosi differenziale. Un’attenzione particolare è rivolta a tutte le metodologie impiegate per la riabilitazione dei processi che risultano deficitari, illustrate in descrizioni approfondite di casi clinici in cui viene riportata sia la diagnosi che il conseguente miglioramento, a seguito di terapie mirate, nelle diverse aree dello sviluppo. Per una riabilitazione efficace è necessario attingere dai vari orientamenti teorici, ognuno dei quali predilige l’utilizzo di test e metodologie specifiche, descritte nel dettaglio nell’ultima parte del testo. Le Autrici riescono quindi a trasmettere l’importanza della sinergia tra i vari rami della psicologia per un corretto processo riabilitativo.

Ilaria Racioppi

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Nuovi Orizzonti

NEWS

Ultime notizie dalla Scienza Le donne hanno più naso

I bambini bilingue sono più “svegli”

STATI UNITI - Secondo una ricerca pubblicata sul Flavour and Fragrance Journal da un gruppo di ricercatori del Monell Chemical Senses Center, in collaborazione con l’Università della Pennsylvania e il Dartmouth College, c’è una differenza nel modo in cui donne e uomini percepiscono gli odori del corpo proprio o altrui. Le donne risultano infatti più consapevoli rispetto agli uomini dell’odore corporeo e mostrano di individuarne differenze qualitative. Nella ricerca si evidenzia che le donne, a differenza degli uomini, mantengono questa capacità anche quando l’odore corporeo è mescolato ad altre fragranze come i profumi (Repubblica.it).

MILANO - Secondo una ricerca pilota pubblicata sulla rivista Cortex e condotta attraverso risonanza magnetica su 21 giovani volontari, la “comprensione di affermazioni false – spiega il preside della facoltà Prof. Cappa - attiva le porzioni più anteriori della corteccia cerebrale prefrontale destra, mentre quella di frasi vere coinvolge un’area posteriore, la corteccia parietale sinistra e il nucleo caudato, ovvero uno dei gangli della base che è conosciuto per il suo coinvolgimento nell’elaborazione di stimoli gratificanti”. Una ricerca che, nonostante sia stata amplificata dai media nei suoi aspetti più riduzionistici, apre la strada alla comprensione dell’attività cerebrale nella comunicazione interpersonale (Adnkronos).

Trieste – Crescere in una famiglia bilingue è una grande fonte di stimolazione per l’intelligenza dei bambini che imparano a destreggiarsi tra la lingua di papà e quella di mamma, hanno un cervello più agile e scattante, dotato di maggiori capacità cognitive. Lo afferma uno studio di Jacques Mehler e Agnes Melinda Kovacs della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste pubblicato sulla rivista Science. “Crescere in una famiglia bilingue conferisce al bambino un vantaggio cognitivo”, accresce le funzioni esecutive, processi fondamentali per eseguire compiti non solo verbali, ma di gestione e pianificazione di attività, coordinazione delle azioni, per distribuire l’attenzione. Sono stati osservati bambini di 12 mesi – sei bilingui, sei monolingui – impegnati in un compito che richiede il controllo delle funzioni esecutive e confrontate la loro performance. “Ancora prima di iniziare a parlare, – spiega Mehler – un bambino esposto a due idiomi sa distinguere le lingue materna e paterna e riesce ad apprendere regole linguistiche più velocemente di un bambino monolingue. Il cervello di un bambino bilingue, é quindi più duttile perché allenato a distinguere gli stimoli verbali della lingua paterna da quelli della lingua materna, senza che le due lingue interferiscano tra loro […] Ciò non significa che un bimbo bilingue è più intelligente, ma di certo è in grado di acquisire più velocemente e distinguere diverse strutture linguistiche rispetto a un coetaneo monolingue”.

Così lo studio dimostra che lo sviluppo cognitivo trae vantaggio dal bilinguismo (Adnkronos).

Contare il denaro aiuta a sentirsi meglio…

Mamma che stress!

STATI UNITI - Uno studio pubblicato su Psychological Science da un gruppo di ricercatori dell’Università del Minnesota diretti da Xinyue Zhou ha mostrato, attraverso una serie di esperimenti, il forte potere psicologico e simbolico del denaro: quando ci si sente giù di corda è preferibile mettersi a contare banconote, meglio se di grosso taglio. I ricercatori hanno chiesto a un gruppo di volontari di contare ottanta pezzi da 100 dollari, mentre al gruppo di controllo sono stati dati altrettanti pezzi di carta senza valore. In seguito i volontari hanno giocato con un videogame, strutturato in modo tale da costringere alcuni dei partecipanti a sentirsi esclusi: si è scoperto che chi aveva contato i dollari finiva per essere stressato dal gioco molto meno rispetto a quanti avevano maneggiato della semplice carta. “Il denaro ha un considerevole potere psicologico - spiegano gli studiosi - sufficiente ad alterare le reazioni legate a difficoltà come, ad esempio, l’esclusione sociale” (Adnkronos Salute).

STATI UNITI - Shahla M. Hosseini e i colleghi dell’Università della Pennsylvania affermano che le donne che sperimentano elevati stress e avvertono notevole ansia durante la gravidanza hanno percentuali più alte di conseguenze negative per il neonato.

Grazie ad uno studio longitudinale promosso all’interno del Maternal Health Practices and Child Development Project i ricercatori hanno esaminato l’associazione tra sintomi di ansia nelle donne durante la gravidanza e le conseguenze perinatali del bambino. Secondo i risultati emersi, infatti, l’ansia, misurata attraverso lo STAI (State-Trait Anxiety Inventory) riportata al secondo e al terzo trimestre predice un peso alla nascita più basso e una gestazione più corta. Grazie a questi ricercatori si ha una ulteriore conferma dell’importanza di considerare la vita intrauterina come un periodo ricco di esperienze che hanno un peso fondamentale per lo sviluppo successivo del bambino (Medscape Medical News).

Occhio, Pinocchio!

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luglio - dicembre 2009

Centro Studi Specialistici

Kromos

Psicologia - Psicoterapia - Pedagogia Clinica Reflecting - Psicomotricità Funzionale Viale Europa 153-155 50126 Firenze tel. 0556531816 - 0556821548 - 0556532802 www.centrokromos.it

Il Centro Studi Specialistici Kromos, fondato nel 1985, è un Centro privato nel quale viene svolta attività clinica e di consulenza rivolta a persone di ogni età singoli, coppie e gruppi.

Psicologia e Psicoterapia La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità […] attività di sperimentazione, ricerca e didattica (art. 1, Legge 18 febbraio 1989, n. 56). L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato a una specifica formazione professionale da acquisirsi […] mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali (art.

3, legge18 febbraio 1989, n. 56).

SERVIZI PSICOLOGICI: Psicodiagnosi e valutazione, consulenza e sostegno psicologico, psicologia dello sport, interventi abilitativi e riabilitativi, interventi psicoeducativi, progetti di intervento psicologico.

SERVIZI PSICOTERAPEUTICI: Psicoterapia, ipnosi clinica.

Pedagogia Clinica Il pedagogista clinico, basandosi sulla globalità della persona, utilizza metodi educativi, tecniche e tecnologie innovative con l’intento di rafforzare le capacità individuali e soddisfarne i bisogni.

SERVIZI: Osservazione e diagnosi, interventi educativi con finalità di prevenzione e di recupero, progetti pedagogico-clinici.

Reflecting Il Reflector facilita l’individuo a riflettere su di sé, sul proprio essere e sul proprio esistere, utilizzando prevalentemente le proprie risorse personali.

SERVIZI: Aiuto alla riflessione per conoscersi e rintracciare in sé le risorse per fronteggiare e superare gli stati di disagio.

Psicomotricità Lo psicomotricista, per mezzo di esperienze motorie, genera motivazione e stimola l’intenzionalità per far eseguire alla persona movimenti convenienti, un modo di essere efficace sull’ambiente con un’azione appropriata e adatta ad ogni circostanza.

SERVIZI: Bilancio Psicomotorio Funzionale, interventi e progetti di educazione psicomotoria Altri servizi del Centro: Progetti di orientamento; Consulenza tecnica e peritale; Supervisione; Corsi e Seminari di prevenzione, aggiornamento e formazione per scuole, enti pubblici o privati.

Collaborano con il Centro: Psichiatri, Neuropsichiatri infantili, Altri Consulenti sanitari e legali.

Professionisti Prof. Dr. Guido Pesci Psicologo, psicoterapeuta (Ordine degli Psicologi della Toscana, n. 651), pedagogista clinico, reflector Dr. Simone Pesci Psicologo (Ordine degli Psicologi della Toscana, n. 4843) Prof.ssa Marta Mani Pedagogista clinico (Ass.ne Nazionale Pedagogisti Clinici, n. 2051), psicomotricista, reflector