Sospesi fra la teoria e la prassi, tra morfologia e funzione, tra disegno e sogno. Una breve sintesi sugli esiti della Biennale Paesaggio zero 2016. di Ippolito Ostellino
La sessione Paesaggio zero della Biennale Creare Paesaggi, organizzata dal Parco regionale del Po e Collina torinese nel prestigioso contesto del Salone d’Onore del Castello del Valentino lo scorso 13 ottobre, nell’ambito della Rassegna Creare Paesaggi, ha segnato un momento di approfondimento interessante che ha posto l’accento sulla fase di transizione che stiamo vivendo, nella quale si incontrano e scontrano due tendenze opposte: da un lato il bisogno di sospendere la determinazione del disegnare un paesaggio perché emerge la necessità di destinare più energie a capire quale paesaggio “pensare”, prima di passare alla sua descrizione in particolare per gli spazi aperti e i parchi ma non solo. Dall’altro invece l’opposta domanda: quella di passare ad una gestione operativa urgente ed efficiente dei parchi e degli spazi pubblici esistenti progettati, realizzati o in corso di realizzazione, derivante dall’esistenza di un patrimonio di aree verdi che devono essere connesse tra di loro, dal giardino pubblico intracittadino al bosco che circonda una città e che ricopre le colline che la cingono. Sulla prima esigenza di passare ad una fase di attesa è stato l’intervento chiave di Claude Raffestin a porre la questione, partendo dalla valutazione di come, nelle due diverse fasi della tradizione e della modernità, si siano completamente alterati i rapporti fra la morfologia di un paesaggio e la sua funzione. Nella tradizione, questi due fattori erano infatti direttamente collegati e conseguenti il primo alla seconda, in una virtuosa produzione naturale dello scenario nel quale la società si muoveva. Una diretta conseguenza delle sue funzioni ed economie di produzione ed anche culturali. Con la modernità e lo spostamento della produzione dal territorio alla fabbrica, questo legame salta, e il paesaggio derivante si trasforma in una sorta di patchwork di più funzioni spesso tra di loro in contrasto e non più guidate da un disegno organico e unitario. Un contributo, quello del geografo svizzero, che ha anche saputo mettere in discussione la stessa definizione tradizionale di paesaggio voluta e sancita dalla Convenzione europea: il paesaggio - così come percepito da una comunità - appare, (alla luce di questo difficile legame di produzione del paesaggio da parte di una comunità che in realtà oggi è un insieme non omogeneo di soggetti), come una immaginazione difficile da costruire, ovvero difficile da ricondurre ad una definizione univoca. Di qui la tesi che lo stesso momento progettuale e della fase di “disegno” del nostro paesaggio si trovi a vivere un momento di impasse, perché non in grado di dare una risposta univoca e chiara alla domanda di paesaggio emergente e quindi per la quale si debba dare risposta con un disegno evidente e definito. Occorre dedicare la nostra riflessione allora a quale paesaggio sia da pensare prima del passare al suo disegno. Ma oltre alla dimensione del rapporto fra teoria e prassi, Raffestin ci ha spinto nei territori del quale sia la reale dimensione del paesaggio. Ovvero se sia quella visibile, composta da forme anche armoniose o perfette (ma che spesso sembrano assomigliare ad una realtà come quella di una bellissima donna dal trucco perfetto ma con il cancro), o quella invisibile delle meccaniche microscopiche e infinitesimali dei meccanismi della vita e della biologia o dei processi biogeochimici che stanno alla base della produzione dei suoli, della crescita delle comunità viventi o delle dinamiche fisiche che regolano ed oggi - ma non raggiungono più - equilibri evidenti della fisica dell’atmosfera e quindi delle dinamiche climatiche. In questa dimensione che guarda di più ai meccanismi interni della qualità della nostra vita, e non alle sole sue manifestazioni esterne, può essere presente la vera sfera di consapevolezza che può permetterci di capire ed agire sui modelli corretti di gestione del nostro territorio. Paesaggio e territorio separati nella visione contemporanea del mondo: ecco la denuncia/osservazione che il geografo svizzero ci porta a comprendere. Ma a queste riflessioni si sono affiancate le esperienze pratiche di Comuni e progetti, con la testimonianza diretta portata da amministratori e tecnici comunali, che in questi anni si sono affermate sia in Piemonte che in Liguria: i case history arrivano da Sanremo a Torino, dove due modelli analoghi di declino dell’approccio industriale si sono confrontati: 1