Edoardo De Angelis: «L'Italia non esiste, esistono gli italiani»

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S TORIA

Casertavecchia: la casa delle bifore di Teresa Coscia | teresa_coscia@yahoo.it

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borghi medievali hanno un non so che di oscuro. Tortuosi, nebbiosi, il perfetto scenario per un malinconico viaggiatore oscuro e solitario, affamato di tranquillità, desideroso di solitudine, in fuga dal mondo: ognuno ha in sé un alter ego incompreso. Doveva sentirsi proprio così Ursula Pannwitz, artista tedesca alla quale Casertavecchia è debitrice di uno dei suoi luoghi più affascinanti: la Casa delle Bifore. Situato poco distante dal Duomo, alle pendici dei Monti Tifatini, questo piccolo gioiello sorge probabilmente nell’XI secolo come Chiesa di San Pietro, per poi essere tramutato in una dimora gentilizia nel XV secolo, successivamente abbandonata. Ridotto ormai ad un rudere, l’edificio fu acquistato negli anni ’70 da Ursula, che scelse di riportarlo alla luce mattone dopo mattone, mantenendo intatte le caratteristiche finestre a bifora gotica dalle quali prende il nome. A questa eccentrica artista sono legati anche gli “spiritelli”, oggi considerati l’emblema di questo borgo medievale. Si tratta di vasetti di terracotta

decorati con faccine spiritose, all’interno dei quali è conservato un bigliettino con inciso un desiderio, destinato ad avverarsi con la rottura del vaso. Nei vasetti, inoltre, vivono piccoli spiriti che proteggono le case in muratura e che popolano le notti dei vicoli incantati del borgo. Del resto, “Casam Hirtam”, cioè “villaggio in alto” (così Casertavecchia è menzionata in un documento dell’861), con la magia ha un rapporto particolare: famosa è, infatti, la leggenda della contessa Siffridina, consuocera di Federico II di Svevia, fortemente legata a questo piccolo borgo. Si narra che il suo spirito aleggi ancora presso il torrione del Castello, al quale fu strappata dopo l’invasione normanna. Trascorse, infatti, un lungo periodo di prigionia presso il Castello svevo di Trani, in Puglia, soffrendo più la lontananza del suo amato borgo che lo stato di prigioniera: scelse quindi di farvi ritorno, come spirito, per l’eternità. Insomma, sarà il caso di attendere la luce del sole per ammirare i fasti di questo borgo incantevole? Superstiziosi o non, è forse il caso di dire: non è vero ma ci credo!

Word Water Day: l’Acquedotto Carolino di Teresa Coscia | teresa_coscia@yahoo.it

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occiola, scroscia, travolge, sommerge, non esiste nulla di più essenziale dell’acqua: ogni piccolo villaggio è sorto sulle sponde di un fiume e con questo si è diramato fino a diventare città. A questo bene così prezioso devono la propria bellezza monumenti quali la Reggia di Caserta, famosa anche per le vasche del suo Giardino all’italiana, alimentate dall’Acquedotto Carolino, protagonista della Giornata Mondiale dell’Acqua a Caserta. Alla celebrazione di un bene vitale come l’Acqua, la Reggia di Caserta ha ben pensato di affiancare l’iniziativa del MiBAC, #IoVadoAlMuseo, aprendo gratuitamente i cancelli del suo giardino per ammirare e raccontare la storia dei famosi giochi d’acqua delle sue vasche. Esteso fra le province di Benevento e Caserta, l’Acquedotto Carolino nasce per volere di Carlo III di Borbone (da cui prende il nome), che sceglie di commissionarne la progettazione all’architetto Luigi Vanvitelli, sia per alimentare piscine, fontane e stanze della futura Reggia di Caserta, sia per risolvere i problemi di approvvigionamento idrico

in zone del Regno quali Carditello e San Leucio. Per Carlo, la costruzione dell’acquedotto sarebbe stata emblema di grandezza, della capacità di emulare le grandi opere degli antichi romani; per Vanvitelli, invece, fu una vera e propria impresa, spesso ostacolata degli operai stessi, scoraggiati dalle troppe difficoltà e dai pericoli. Dal 1997 Patrimonio dell’umanità tutelato dall’UNESCO, la sua costruzione fu avviata nel 1753, abbracciando un percorso suddiviso in tre parti: dal monte Fizzo al monte Ciesco, da questo al Garzano, fino alla Reggia. Non fu difficile individuare nella zona di Airola le sorgenti da sfruttare per alimentare l’intero progetto, ma era impensabile che da questa zona l’acqua riuscisse a raggiungere Caserta. L’architetto, invece, decise di realizzare due collettori, ricordati come Car-

carella e Ficucella, con lo scopo di raccogliere le acque da più sorgenti per farle confluire nelle Vasche del Fizzo: da qui l’acqua avrebbe incontrato un percorso prettamente sotterraneo, tranne che nelle zone a valle, attraversabili tramite la costruzione di ponti. Fra questi, i Ponti della Valle di Maddaloni sono sicuramente i più famosi: un record per l’Europa dell’epoca, con i loro 529 metri di estensione e che tuttora conservano intatta la loro solidità, sopravvissuta a tre terremoti disastrosi e alla Battaglia del Volturno, qui combattuta da garibaldini e truppe borboniche durante la spedizione dei Mille. “L’architettura è il grande libro dell’umanità”, diceva Hugo, per questo dovremmo tutelarla, un po’ come l’acqua: senza l’una non c’è corpo, senza l’altra, anima.

Aprile 2019

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