Nino D'Angelo - Trianon Viviani

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A TTUALITÀ

Enrico Fedocci:

il giornalista televisivo cresciuto in caserma di Luigi Di Mauro | dimauro.luigi@gmail.com

E

nrico Fedocci è uno dei più stimati inviati del gruppo Mediaset che, sin dall’inizio della sua carriera giornalistica, ha seguito e segue i principali fatti di cronaca nazionale ed internazionale. Tra i casi che lo hanno maggiormente impegnato, quello di Yara Gambirasio. Un noto volto di Studio Aperto, un giornalista dalla penna acuta e critica che, con la sua professionalità, personalizza interviste e servizi coinvolgendo il pubblico in commenti e riflessioni. Perché la scelta di seguire casi di cronaca nera? «Sono figlio di un Ufficiale dell’Arma e sono cresciuto in caserma. Ricordo quando mio padre comandava il Gruppo di Modena e i giornalisti venivano a cercar notizie. Erano gli anni '70, ricordo che mio padre coordinò le indagini per due sequestri di persona. Guardando i cronisti che raccontavano questi avvenimenti di cronaca ho cominciato a fantasticare su quello che sarebbe stato il mio futuro e le strade erano due: o fare il carabiniere o il giornalista».

Quali sono le sensazioni che un inviato prova quando si reca sulla scena di un crimine? «Scatta subito l’adrenalina data dalla notizia. Devi saper raccontare i fatti in maniera corretta e veloce, soppesare le testimonianze. In televisione, poi, i tempi sono stretti. Con l’all-news hai la possibilità di andare subito in diretta, i telespettatori ti accompagnano in questa tua ricerca della verità mentre raccogli voci e cerchi di spiegare che cosa è successo».

Ho cominciato a fantasticare su quello che sarebbe stato il mio futuro e le strade erano due: o fare il carabiniere o fare il giornalista

Visto che ha insegnato ed è stato direttore di scuole per giornalismo, che consiglio darebbe a coloro che vogliono intraprendere la sua stessa carriera? «Di crederci e di provarci. Certo, ci sono situazioni contingenti non sempre favorevoli, la necessità di un lavoro stabile potrebbe portare gli aspiranti giornalisti a tentare altre strade più concrete. L’editoria è in crisi, cominciare oggi è più difficile».

Una sua riflessione sull’omicidio di Yara Gambirasio? «È stata una storia che mi ha cambiato profondamente. Sono stato otto anni tra via Rampinelli a Brembate Sopra, il campo di Chignolo d’Isola, Procura e Tribunale a Bergamo e Brescia. Una vicenda triste, per la famiglia di Yara e per quella di Bossetti». Come vede la condanna inflitta a Bossetti dalla Suprema Corte di Cassazione? Come ha reagito nel ricevere una lettera scritta da Bossetti qualche giorno dopo la sentenza definitiva, dove manifestava la propria innocenza? «È stato incivile non consentire ad un uomo che rischiava l’ergastolo di verificare gli elementi a suo carico. Il fatto che mi abbia scritto dopo la condanna definitiva rappresenta una soddisfazione. Significa che ha colto il mio atteggiamento garantista, visto che io ho sempre detto pubblicamente che lo ritenevo colpevole. Ma le impressioni devono essere supportate dalle prove, avrebbero dovuto consentirgli l’analisi del Dna in contraddittorio». Si è mai trovato a dover seguire un caso in cui la vittima era una persona a lei conosciuta? «Purtroppo sì. Ero in ferie e dalla redazione mi segnalarono che una ragazza era stata uccisa a Verona. Era una mia cara amica, uccisa dall’ex che non si rassegnava alla fine della loro storia. Il giorno del funerale feci la diretta durante il telegiornale. Subito dopo aver concluso il collegamento, mi commossi fino alle lacrime. Stavo raccontando anche il mio dolore. Feci presente al mio Direttore, che ai tempi era Mario Giordano, che temevo di non avere lucidità. Lui mi disse: racconta Lucia rimanendo te stesso».

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Dicembre 2018

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