Nessuno escluso: il lungo viaggio dell’inclusione nella scuola italiana

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NESSUNO ESCLUSO Il lungo viaggio dell’inclusione nella scuola italiana

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A CURA DI: F. Benedetti, F. Caprino, P. Giorgi, P. Infante RICERCHE ICONOGRAFICHE: I. Zoppi GRAFICA: P. Curina, M. Guerrini

Stampato nel marzo 2018 per conto di apice libri

Referenze fotografiche: Archivio Storico Fotografico Indire; Archivio Fotografico Indire/Giuseppe Moscato; Archivio Fotografico Istituto dei Ciechi di Milano-Museo Louis Braille; Archivio Fondazione Pio Istituto dei Sordi Milano; Associazione Italiana Persone Down Onlus; Fondazione Pubblicità Progresso.

Si ringrazia per la collaborazione alla ricerca iconografica: Dott.ssa Annalisa Dall’Asta (Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma); Istituto Comprensivo Seravezza (LU); Prof.ssa Daniela Boscolo, Istituto Tecnico Cristoforo Colombo, Porto Viro (RO), la redazione di «Per Noi Autistici», Giulio Di Martino.

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Indice

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La lunga strada dell’inclusione: una prospettiva storica… (1859-1977) Pamela Giorgi

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Dai pionieri della pedagogia speciale all’educazione inclusiva Francesca Caprino

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Uno sguardo fotografico Irene Zoppi

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Luoghi e spazi

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Metodi e strumenti

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Cura del corpo

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Socialità

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Verso il mondo del lavoro

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Inclusione sociale: includere gli esclusi Fausto Benedetti

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Integrazione: la rivoluzione della Legge 517 del 4 agosto 1977 Pierpaolo Infante

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Bibliografia

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La disabilità in ambito scolastico è un tema complesso perché è necessario affrontare molteplici aspetti legati ai bisogni degli alunni con handicap ma anche alle necessità delle loro famiglie e dei docenti che ogni giorno si impegnano nel mettere in atto strategie per migliorare i percorsi inclusivi. Compito della scuola è infatti quello di supportare la crescita personale e sociale dell’alunno con disabilità, facilitarne il passaggio nel mondo del lavoro perché si possa realizzare appieno il suo progetto di vita. Questa ricerca, grazie alla collaborazione con INDIRE, apre una finestra, attraverso una serie d’immagini, sul passato e sul presente dell’inclusione scolastica in Italia, offrendo la possibilità di guardare al futuro con una maggiore consapevolezza dei traguardi finora raggiunti. L’iconografia proposta in questo volume ci aiuta a collocare nel tempo le azioni di una didattica inclusiva alla luce della Legge 517 del 1977 e dei suoi significati pedagogici. I dati statistici selezionati e inseriti in questo lavoro sull’inclusione da un lato ci confortano per i percorsi intrapresi, dall’altro ci aiutano a capire quanto ancora dobbiamo realizzare al fine di offrire a tutti le stesse opportunità e occasioni educative. Il risultato è quello di osservare una storia, tutta italiana, fatta da una comunità in cammino che da quarant’anni si impegna per affermare i diritti degli alunni disabili, al fine di realizzare il pieno sviluppo della persona umana.

Domenico Petruzzo

Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana

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La lunga strada dell’inclusione: una prospettiva storica… (1859-1977) Pamela Giorgi, INDIRE

«Quelli che vanno nella mia scuola sono stupidi. Solo che non mi è permesso dirlo, anche se è vero. Vogliono che dica che hanno delle difficoltà nell’apprendimento o hanno delle esigenze particolari. Il termine tecnico esatto è Gruppo H. Questa sì che è una cosa stupida, perché tutti hanno dei problemi nell’apprendimento, perché imparare a parlare francese o capire il principio della relatività è difficile, ed è altrettanto vero che ognuno ha delle esigenze particolari, come mio padre che deve portarsi dietro delle pillole di dolcificante da mettere dentro il caffè per non ingrassare, oppure la signora Peters che gira sempre con un apparecchio acustico color crema, o Siobhan che ha degli occhiali talmente spessi che ti fanno venire il mal di testa se li provi, e nessuna di queste persone viene classificata come Gruppo H, anche se hanno delle esigenze particolari» M. Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. A partire dal periodo immediatamente postunitario, quando il sistema scolastico italiano diviene il medesimo per l’intero territorio nazionale, relativamente al problema dei fanciulli con disabilità lo stato opta - dopo un lungo silenzio normativo che di fatto implica un regime di esclusione in assenza di qualsiasi intervento che rimane di fatto in carico essenzialmente agli istituti religiosi – per l’istruzione separata. Gli anni ‘20 vedono la realizzazione di un sistema di istruzione per i fanciulli con disabilità a

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carico dello Stato in scuole speciali o in classi differenziali. Si giunge al radicale mutamento di questo assetto solo negli anni ’70, quando si passa all’inserimento e all’integrazione nella ‘scuola di tutti’, secondo approcci progressivamente più aperti alla cura educativa di bisogni differenti. L’intento del presente contributo è quello di tracciare un sintetica cronologia di tale evoluzione interna al sistema scolastico italiano. Le didascalie delle immagini scelte a corredo del volume consentiranno a chi lo sfoglierà di ripercorrere la storia dell’approccio educativo alla diversità. Sarà sufficiente, forse, soffermarsi sul lessico usato: tra un passato colmo di definizioni quali ‘minorati’, ‘anormali psichici’, ‘gracili’ e ‘motulesi’, sino all’oggi, corre un fil rouge che conduce dalla separazione sociale all’inclusione.

Dall’esclusione all’istruzione in ‘scuole speciali’ e in ‘classi differenziali’ Ai propri esordi la scuola pubblica del nascente Stato Unitario non fu investita da nessuna esplicita norma legislativa che prevedesse la collocazione di alunni con disabilità al proprio interno. Infatti, il testo normativo centrale per la scuola di quegli anni, la Legge Casati del 1859 - che sanciva la nascita della Scuola di Stato, gratuita, obbligatoria ed uguale per entrambi i sessi - non contemplava affatto il diritto all’istruzione degli alunni con disabilità. Una tendenza certamente collocabile nel solco di una lunga tradizione, che, sino al XVIII secolo, aveva disconosciuto alle persone con disabilità ogni diritto, e che si mostrò ancora nel XIX secolo come quasi immemore della forte cesura segnata da uno snodo normativo fondamentale, quella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino (1789), che aveva sancita l’uguaglianza per tutti gli esseri umani indipendentemente dal ceto, dalla razza, dal sesso e, appunto, dalle condizioni fisiche e psichiche1. Tuttavia, sebbene lo Stato non avesse investito la scuola pubblica di alcun ruolo sul tema, sotto il profilo della riflessione scientifica, invece, l’Ottocento rappresentò una fase molto importante 1 F. Bocci, Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea, Firenze, Le Lettere, 2011.

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per gli sviluppi successivi. In Italia, dove gli istituti rivolti alla riabilitazione e all’educazione degli alunni con disabilità erano allora in prevalenza fondati da ecclesiastici e da congregazioni religiose, si assistette al rafforzarsi di una maggiore sensibilità sociale e culturale sul tema e all’orientamento di parte della comunità scientifica verso un nuovo approccio metodologico, teso ad un ampliamento delle possibilità di integrazione sociale degli alunni con disabilità. È in questo periodo, infatti, che si diffuse il metodo del linguaggio dei segni per i sordomuti, nel Settecento già adottato in Francia dall’abate Charles-Michel de l’Épée (1712-1789) e dopo qualche tempo diventato popolare in molti paesi d’Europa, grazie soprattutto alla facilità del suo insegnamento e apprendimento. A tale metodo si contrapponeva in quel periodo quello orale, ideato e praticato in Germania dall’educatore Samuel Heinicke (1727-1790). Tra i maggiori fautori di simile dibattito in Italia, prodromo delle posteriori riforme culturali e metodologiche, vi fu Padre Tommaso Pendola (1800-1883), impegnato non solo nell’educazione dei sordomuti, ma anche nelle definizione e diffusione, mediante la rivista «Dell’educazione dei sordomuti in Italia» (da lui stesso fondata nel 1872), di un quadro teorico condiviso tra i vari educatori della penisola e diretto a rafforzare gli studi nel settore dell’educazione speciale2. Su più fronti quegli anni videro un incremento dell’assunzione sociale e istituzionale dell’educazione degli alunni con disabilità, senza che, tuttavia, si giungesse alla risoluzione del problema del ruolo e delle funzioni della Scuola di Stato e delle istituzioni attive, escluse dalle sovvenzioni pubbliche e spesso dequalificate perché assimilate a mere istituzioni di carità. Così come non si giunse a risolvere né la difficile situazione della formazione degli insegnanti, i cui diplomi non avevano valore legale, né a superare il divario esistente, soprattutto in termini di quantità, tra gli istituti del nord e quelli del sud d’Italia. Tutti aspetti che trovarono solu2 R. Sani, Towards a history of special education in Italy: schools for the deaf-mute from the Napoleonic era to the Gentile Reforms, in «History of Education & Children’s Literature» II, 1(2007), pp. 35-55 e R. Sani, Per una storia dell’educazione speciale in Italia: le scuole per i sordomuti dall’età napoleonica alla Riforma Gentile, in «Annali Della Facoltà di Lettere E Filosofia» 35(2002), pp. 219-246.

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zione solo con la Riforma Gentile, che, oltre a sancire, per la prima volta nella storia, l’obbligatorietà dell’educazione dei ciechi e dei sordomuti, previde per gli istituti preposti di potersi avvalere dei finanziamenti dello Stato, oltre a sancire una migliore, riconosciuta e omogenea formazione degli ‘insegnanti speciali’. Tra tutte le esperienze che sul fronte dell’educazione speciale furono avviate con successo sul finire dell’Ottocento citiamo in questa sede quella per la cura e la riabilitazione dei bambini con deficit psicofisici ad opera di Sante De Sanctis (1862-1935) e la prima scuola magistrale ortofrenica diretta da Maria Montessori (1870-1952)3. La Montessori espresse i propri convincimenti relativi al problema dei fanciulli con disabilità e della loro educazione in occasione del primo Congresso pedagogico nazionale, tenutosi tra l’8 e il 15 settembre del 1898. Qui, come rappresentante della scienza medica, accusò i pedagogisti della loro chiusura riguardo la questione, ormai sociale, di coloro che la scienza medica di allora definiva ‘deficienti’, mettendo anche in evidenza lo stato in cui questi bambini erano costretti a vivere perché disconosciuti dalla società. Il discorso pronunciato dalla Montessori ebbe molto successo, tant’è che la sua proposta di introdurre le ‘classi aggiunte’ e di dare ai bambini ‘deficienti’ un’educazione speciale fu accolta da tutti i partecipanti. Essa chiedeva una scuola aperta, considerando inaccettabile e incivile una scuola chiusa e che rifiutava i bambini disprezzati e trascurati dalla società. In quella occasione Montessori affermò altresì con insistenza la necessità di un corpo insegnante preparato, che avesse una formazione a livello scientifico capace di seguire lo sviluppo psichico e morale dei bambini ritardati. Lo stesso anno del Congresso Pedagogico di Torino, la scienziata vedeva pubblicato il suo saggio dal titolo Miserie sociali e nuovi ritrovati della scienza4, nel quale riassumeva il suo pensiero circa la possibilità di edu3 G. Cives, Maria Montessori: pedagogista complessa, Pisa, Edizioni ETS, 2001. 4 M. Montessori, Miserie sociali e nuovi ritrovati della scienza, in Atti del Primo Congresso Pedagogico Nazionale Italiano (Torino 8-15 settembre 1898), Torino, Stabilimento Tipografico diretto da F. Cadorna, 1899, pp. 122-123.

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care i ‘deficienti’, così come avveniva in altri paesi europei, e lo faceva riproponendo con fermezza l’esigenza di creare degli Istituti speciali in cui operassero in forte sinergia medici e docenti. La scienziata partiva proprio dalla necessità da parte dei governi di iniziare a farsi carico direttamente di tale tipo di istruzione istituendo scuole speciali statali ove realizzare interventi didattici individualizzati. Creare queste scuole avrebbe comportato per lo stato una forte spesa, ma la questione era questione sociale primaria su cui lo stato doveva necessariamente impegnarsi. Essa proponeva, nel saggio come nel convegno, le ‘classi aggiunte’, da istituire in ogni scuola elementare accanto alle classi normali. Pochi anni dopo Maria Montessori sperimenterà personalmente i risultati che potevano raggiungere i bambini ‘deficienti’ se trattati con specifici metodi: ne La scoperta del bambino5 ricorderà come fosse riuscita a far leggere e scrivere correttamente alcuni bambini internati nel manicomio, i quali poi poterono presentarsi a un esame nelle scuole pubbliche insieme ai bambini normali e superarne la prova. A valle di questo dibattito, caratterizzante tutto l’Ottocento, gli inizi del Novecento videro in alcune scuole italiane inaugurarsi esperienze di sperimentazione in cui si tentò l’accoglienza e l’istruzione agli alunni ‘ritardati’ in classi differenziali e coesistenti con le tante specifiche realtà educative (Scuole speciali) presenti sul territorio nazionale per i bambini ciechi, sordi o con altri problemi specifici. Tutto questo si collocava in un parallelo contesto europeo, ove esperienze analoghe proliferarono: classes pour arriérés in Francia, clases de niños retardados in Spagna, Hilfclassen in Germania e special classes nel Regno Unito. Nel dicembre 1904 veniva inoltre istituito per legge anche il Corso di perfezionamento per i licenziati delle scuole normali detto ‘scuola pedagogica’, di cui era relatore Luigi Credaro (1860-1939) e in cui, oltre a lui, insegnarono proprio sia De Sanctis, sia Montessori. Circa il primo intervento organico dello stato in materia, occorre menzionare la tenace opera di due giovani ciechi, Augusto Romagnoli (18761946) ed Aurelio Nicolodi (1894-1950). Proprio il loro intenso lavoro por5 M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1950.

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tò, nel 1923, all’emanazione di due importanti Regi Decreti. Romagnoli e Nicolodi realizzarono il loro obiettivo primario del pieno riconoscimento giuridico del cieco come persona e soggetto educabile. Augusto Romagnoli, in particolare, espresse la necessità di un intervento educativo e scolastico finalizzato a promuovere l’integrità umana dell’alunno cieco, ricercando il modo più efficace per lo sviluppo delle sue potenzialità, nel suo libro Ragazzi ciechi6. Qui narra la propria esperienza come educatore di fanciulle non vedenti presso l’Ospizio Margherita di Roma, in cui era riuscito efficacemente a mettere in pratica le idee circa un’educazione nuova, fondata su un’esperienza fisica capace di giungere alla realizzazione di obiettivi spirituali attraverso l’orientamento, l’esplorazione, il gioco e, quindi, la capacità di costruire, plasmare, nella prospettiva di un’integrazione dei ciechi nel contesto scolastico e poi in quello sociale fondata essenzialmente sul principio dell’autoriscatto. L’apporto di Romagnoli e Nicolodi fu determinante: lo Stato si assunse, di lì a poco, l’onere di disciplinare tutto ciò che aveva attinenza con l’educazione speciale. La disciplina normativa specificatamente dedicata si ebbe con la Riforma Gentile (Regio Decreto n. 3126 del 1923), che, nel sancire l’obbligo scolastico sino al quattordicesimo anno di età a tutti gli alunni, comprendeva anche i ciechi e i sordomuti, purché in assenza di altre patologie che ne impedissero l’ottemperanza. Qualche anno dopo la riforma del 1923 (col Testo Unico sull’istruzione elementare, post-elementare e sulle sue opere d’integrazione, contenuto nel Regio Decreto n. 577 del 1928), furono aperte dallo Stato classi differenziali per studenti con lievi ritardi, ospitate nei normali plessi scolastici, che operarono accanto a scuole speciali per sordi, ciechi ed anormali psichici, situati in strutture distinte. Per i casi più gravi vennero previsti istituti speciali, in cui gli allievi vivevano internati e separati dalle proprie famiglie. In sintesi, la riforma accoglieva per la scuola pubblica la forma dell’educazione separata per gli alunni con disabilità. I ciechi, gli ipovedenti, i sordomuti, gli ‘anormali psichici’, i ‘motulesi’ dovevano frequentare le scuole 6 A. Romagnoli, Ragazzi ciechi, Firenze, Stamperia nazionale braille, 1909

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elementari e talvolta le medie, in istituti specializzati o in classi speciali che fornivano loro personale specializzato, sussidi didattici specifici e la possibilità di confrontarsi continuamente con altri ragazzi affetti dalla stessa minorazione, senza affatto considerare come ciò comportasse lo sradicamento degli alunni dal loro ambiente familiare e sociale e, anche laddove questo non avvenisse, la mancanza di confronto con i coetanei ‘normali’. Le classi differenziali non furono tuttavia solo delle classi scolastiche destinate ad alunni ‘diversamente abili’ o affetti da disturbi dell’apprendimento o problemi di socializzazione, ma furono anche luogo ove collocare tutti quegli gli allievi che presentavano problemi di condotta o disagio sociale o familiare. A lungo sarebbe stato questo il caso dei figli degli emigranti del sud che giungevano nel nord-ovest, i quali molto spesso, di ‘anormale’ avevano solo la scarsissima frequentazione della lingua italiana e una serie di problematiche di adattamento socio-culturale al nuovo contesto.

Superamento della didattica speciale: la Legge 517 del 1977 A partire dal secondo dopo guerra l’ordinamento italiano andò incontro ad un mutamento radicale rispetto al passato, trasformando il nostro modello pedagogico, fondato sulla sostanziale separazione degli alunni con disabilità, in un modello all’avanguardia in Europa, caratterizzato, appunto, dal passaggio all’integrazione. Ciò non avvenne, però, che a partire dalla fine degli anni ‘60, attraverso un processo lento e per certi versi combattuto dalla base della scuola italiana, per poi essere recepito a livello normativo solo in seconda battuta. Nonostante la Carta Costituzionale prevedesse, infatti, per tutti gli Italiani uguaglianza (art. 3), libero accesso all’istruzione scolastica, senza alcuna discriminazione (art. 34, comma 1), e specificasse come gli ‘inabili’ e i ‘minorati’ avessero diritto all’educazione e all’avviamento professionale (art. 38), per tutti gli anni ‘50 e ‘60 resistettero quelle classi differenziali volte rispettivamente ad accogliere sia alunni con disabilità gravi, sia quelli con più lievi difficoltà di apprendimento e socializzazione.

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Così l’Italia democratica e repubblicana la scuola ‘di tutti ed uguale per tutti’ era prevista nel testo costituzionale, ma non nella normativa per la Scuola, che rimaneva ancora ancorata ai modelli del passato. Questo in parte anche perché la politica scolastica di quel periodo non lasciò molto spazio alla questione dell’educazione degli atipici, considerando ben più urgente il problema del fronteggiare l’analfabetismo ancora dilagante e poco funzionale ad un’Italia alle prese con il boom economico. Uno dei pochi testi normativi in proposito, la Circolare Ministeriale n. 1771/12 del 1953, intervenuta a chiarire la differenza tra classi speciali per minorati, scuole di differenziazione e classi differenziali, ribadiva la scelta politica passata per l’educazione separata degli alunni con disabilità. La circolare così spiegava: «Le classi speciali per minorati e quelle di differenziazione didattica sono istituti scolastici nei quali viene impartito l’insegnamento elementare ai fanciulli aventi determinate minorazioni fisiche o psichiche ed istituti nei quali vengono adottati speciali metodi didattici per l’insegnamento ai ragazzi anormali, es. scuole Montessori. Le classi differenziali, invece, non sono istituti scolastici a sé stanti, ma funzionano presso le comuni scuole elementari ed accolgono gli alunni nervosi, tardivi, instabili, i quali rivelano l’inadattabilità alla disciplina comune e ai normali metodi e ritmi d’insegnamento e possono raggiungere un livello migliore solo se l’insegnamento viene ad essi impartito con modi e forme particolari». Anche un secondo intervento normativo, nel 1962, che prevedeva una vera e propria disciplina organica dello stato nell’ambito delle scuole speciali (la Legge n. 1073), non fece che qualche ritocco formale all’assetto tradizionale, ribadito, seppur non riferendosi direttamente all’ordinamento scolastico, ma solo allo stanziamento di fondi «per il funzionamento, l’assistenza igienico-sanitaria e le attrezzature per le classi differenziali nelle scuole statali e per le classi di scuola speciale da istituire anche nei comuni minori». In quello stesso anno intervenne anche la Legge n. 1859, che in via prioritaria ebbe il grande merito di sancire l’istituzione della scuola media unica, obbligatoria, gratuita, ma previde altresì classi di aggiornamento per gli alunni che presentano difficoltà di apprendimento (art. 11), l’istituzione di classi differenziali per alunni

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disadattati scolastici con un calendario speciale con appositi programmi e orari di insegnamento (art. 12). Stesso discorso vale per una circolare ministeriale di poco successiva: la quale auspicava l’incremento di tutte le scuole atte ad accogliere alunni con disabilità, ponendo l’accento su un’appurata selezione al fine di escludere «gli scolari che possono trarre profitto da un buon insegnamento individualizzato nella scuola comune […] Ai maestri che non abbiano una preparazione specifica possono essere affidate soltanto le classi differenziali nelle quali saranno accolti gli alunni le cui anomalie sono tali da prevedere un facile e rapido adattamento alla scuola comune». Ancora qualche anno dopo, nel 1967, poco era cambiato: il Decreto Presidente della Repubblica n. 1518 stabiliva, infatti, che «soggetti che presentano anomalie o anormalità somato-psichiche che non consentono la regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento e assistenza medico-didattica sono indirizzati alle scuole speciali. I soggetti ipodotati intellettuali non gravi, disadattati ambientali, o soggetti con anomalie del comportamento, per i quali possa prevedersi il reinserimento nella scuola comune sono indirizzati alle classi differenziali» (art. 30). Questa rapida carrellata di disposizioni normative mette in luce come ancora al termine degli anni ‘60, a livello normativo, continuassero a persistere sia classi speciali e differenziali internamente alla Scuola pubblica, sia, accanto ad esse, istituti speciali in cui gli alunni ricevevano, in base alle loro possibilità di apprendimento, l’istruzione obbligatoria gratuita, che, in queste scuole, durava almeno 10 anni, anche se la frequenza poteva essere protratta fino al ventunesimo anno di età «per i soggetti per i quali la preparazione professionale lasci prevedere una più completa riabilitazione». Qui i ragazzi seguivano le lezioni dalle 9 alle 16:30, compreso il sabato dalle 9 alle 14, suddivisi in classi la cui composizione numerica era variabile, seguiti da un’insegnante specializzato che applicava programmi personalizzati basati su educazione psicomotoria, educazione all’espressione, apprendimento attivo, educazione del carattere. I sistemi di apprendimento ricorrevano in larga parte a forme laboratoriali in particolare di canto, ginnastica, disegno, lavoro manuale

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quale falegnameria, cartonaggio, tipografia e lavori domestici femminili, con un’assistenza che si estendeva talvolta anche in ambito extra-scolastico, esempio con l’organizzazione di centri estivi presso i locali della scuola, colonie estive e invernali. Tale impianto metodologico venne nuovamente ribadito sino al 1968, quando la Legge n. 444, relativa alla scuola materna statale, trattando il problema dei bambini ‘handicappati’, affermava: «Per i bambini dai tre ai sei anni affetti da disturbi dell’intelligenza o del comportamento, da menomazioni fisiche o sensoriali, lo Stato istituisce sezioni speciali presso scuole materne statali e, per i casi più gravi, scuole materne speciali». A questo proposito occorre sottolineare come quella logica di separazione sottesa dal sistema delle classi e delle scuole differenziali, che abbiamo visto resistette così tenacemente nel secondo dopo guerra, si confrontò (e si scontrò) proprio in quella fase storica, con un elemento caratterizzante lo sviluppo socio-economico: laddove, infatti, le grandi città industriali italiane affrontavano la forte immigrazione dal sud - con famiglie sradicate dal paese di origine e con difficoltà forti di integrazione, i cui figli subivano sovente ricadute sull’apprendimento - è facile immaginare il crescente numero di studenti inseriti nelle classi differenziali, che sorgevano pressoché in tutte le sedi scolastiche, in risposta al bisogno sociale emergente collegato appunto con il fenomeno migratorio. Quest’ultimo fu forse uno degli elementi scatenanti, alla fine degli anni ’60, la polemica riguardo alle classi differenziali: si accusò la scuola, infatti, non solo di aver ghettizzato coloro che per particolari ragioni non erano simili fisicamente agli altri, ma anche di farlo con chi era socialmente svantaggiato. Fra gli alunni con disabilità venivano, infatti, tradizionalmente compresi anche i ‘disadattati del carattere e del comportamento’: il termine era così estensivamente applicato sia ad individui portatori di gravi lesioni organiche e/o di gravi deficit psicologici sia a quelli le cui problematiche erano riconducibili unicamente a particolari condizioni socio-familiari. In tale prospettiva si inserirono alcune esperienze determinanti, tra cui quella di don Lorenzo Milani (1920-1967) prima a San Donato in Calenzano (Fi) e poi nella celebre attività scolare di Barbiana. Si cominciò così a parlare di ‘inserimento’ degli alunni con disabilità nella

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‘scuola di tutti’, cercando con nuovi metodi, con nuovi ordinamenti e con l’introduzione degli organi collegiali, di attuare quanto era sancito dalla Costituzione, ovvero che «la scuola è aperta a tutti». Grazie ai contributi della pedagogia speciale e della neuropsichiatria infantile, l’ormai secolare distinzione tra recuperabili e irrecuperabili, posta a fondamento della separazione, venne messa in discussione: l’attenzione si spostò invece sulle potenzialità e sui margini id recupero dei soggetti, cercando di sollevarli dalla secolare condizione di isolamento e di separazione. D’altronde le idee della contestazione, partita già nel 1966 dalla Berkeley University, stavano ormai facendo breccia anche in Europa. Uno degli aspetti più significativi del movimento che dilagò nel mondo occidentale in quegli anni riguardò proprio la critica a tutte le forme discriminative ed emarginati: accanto agli svantaggi sociali e agli svantaggi per età (vecchi e bambini), stavano anche le persone con disabilità psico-fisica. Il vecchio approccio al problema della disabilità ne rimase travolto. Una delle maggiori artefici dell’inclusione degli alunni diversamente abili nel sistema scolastico italiano, Mirella Antonione Casale (1925-)7, ma con lei molti altri, ebbero l’audacia di negare l’ottica esclusivamente medico-specialistica con cui la questione era storicamente stata sempre affrontata, legando l’architettura di ogni persona in funzione del suo deficit (infatti tutti gli appartamenti ad una categoria nosografica venivano percepiti e trattati come relativamente omogenei fra loro). Venne sottolineata invece l’importanza dei fattori socio-politico-culturali nella genesi e nel recupero degli alunni con disabilità attuando una critica radicale all’impostazione puramente medico-biologico che appariva strumentalizzabile ai fini di una emarginazione di persone ritenute meno ‘funzionali’. Furono anche altre le motivazioni con cui si contestò l’inserimento in strutture mono specialistica e la metodologia della separazione (dai coetanei e spesso anche dalla famiglia): il danno arrecato al processo educativo dalla mancanza assoluta di socializzazione esterna di chi era colpito da disabilità e pertanto costretto all’educa7 M. Antonione Casale, P. Peila Castellani, F. Saglio, Il bambino handicappato e la scuola, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

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zione speciale; e l’impossibilità di educare all’accettazione del diverso e a sentimenti di sincera solidarietà quei bambini e quei ragazzi delle scuole ‘normali’ che diventavano uomini senza aver mai parlato o giocato con un loro coetaneo colpito da una minorazione. La contestazione ebbe il merito di presentare quello dell’alunno con disabilità come un problema non solo del singolo ma della società, alla quale veniva ricondotta la responsabilità nella genesi di alcune problematiche. Sulla base di questo il trattamento doveva essere essenzialmente pedagogico-sociale e doveva coinvolgere la Scuola tutta. La critica fu ampia e trovò grande adesione nella parte più progressista della scuola di base, tanto che furono gli stessi operatori delle scuole differenziali a sollecitare i genitori degli alunni perché tentassero l’accesso alla scuola ‘normale’. Il fenomeno degli inserimenti scolastici di alunni con disabilità contra lege o extra lege fu massiccio e parecchie decine di migliaia di giovani disabili lasciarono gli istituti e le scuole speciali: tra il 1968 e il 1975 il sistema delle scuole speciali perse più di 22.000 iscritti e migliaia di studenti con disabilità vennero iscritti alle scuole comuni senza alcuna previsione normativa né particolari attenzioni o sostegni materiali o educativi. Quest’esperienza fu così caotica e precipitosa da guadagnarsi il nome di ‘inserimento selvaggio’. Gli inserimenti dovettero il loro successo al clima proprio di quegli anni: nella società e nella scuola era maturata una consapevolezza della necessità di cambiamento e un clima di innovazione ben rappresentati nella Lettera a una professoressa8. L’accoglienza degli alunni con disabilità, favorendo il rinnovamento e la sperimentazione didattica, rientrava precisamente in quella volontà di cambiamento. La prima risposta normativa a queste sollecitazioni, che ormai arrivavano dalla pratica didattica, fu la Legge n. 118 del 1971: contenente una significativa individuazione del principio dell’integrazione, essa stabiliva come anche gli alunni disabili dovessero adempiere l’obbligo scolastico nelle scuole comuni, ad eccezione di quelli più gravi (fra i quali si conside8 Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana (cur.), Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.

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ravano i ciechi, i sordi, gli intellettivi ed i motori gravi come i tetraplegici, cioè con impossibilità a muovere i quattro arti e spesso anche a parlare), la legge altresì prevedeva facilitazioni per l’accesso all’istruzione con l’abbattimento delle barriere, assistenza durante l’orario scolastico degli invalidi civili non autosufficienti e frequentanti la scuola dell’obbligo. Tendeva, inoltre, a rendere ‘normali’ le sezioni speciali superstiti ove il programma svolto avrebbe dovuto essere uguale a quello delle classi elementari ‘normali’. Di lì a poco, nel 1972, l’autodenuncia di un gruppo di genitori circa l’iscrizione dei propri figli con disabilità alla scuola ‘normale’ provocò una sentenza di legittimità da parte della Corte Costituzionale. Diritto poi successivamente sancito dalla Legge n. 360 del 1976, senza però che vi si dicesse nulla sulle modalità con cui l’inserimento dovesse realizzarsi. Nel 1975 la commissione parlamentare guidata dalla senatrice democristiana Franca Falcucci aveva pubblicato una relazione centrale sul tema, qui si affermava come: «una struttura scolastica idonea ad affrontare il problema dei ragazzi handicappati [...] non deve essere configurata in nessun modo come un nuovo tipo di scuola speciale o differenziale». La relazione sosteneva inoltre come la scuola dovesse «rapportare l’azione educativa alle potenzialità individuali di ogni allievo» e dovesse essere «la struttura più appropriata per far superare la condizione di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati». Infine, come il «criterio di valutazione dell’esito scolastico» dovesse «fare riferimento al grado di maturazione raggiunto dall’alunno sia globalmente sia a livello degli apprendimenti realizzati, superando il concetto rigido del voto o della pagella». Il concetto d’integrazione aveva ormai iniziato a farsi strada anche a livello normativo: la Legge n. 118 del 1971 era intervenuta anche sul terreno dell’assistenza economica e sanitaria (gratuita fruizione e adattamento dei mezzi trasporto pubblico) e dell’abbattimento delle barriere architettoniche (art. 27). Il Decreto Presidente della Repubblica n. 970 del 1975 aveva introdotto nell’ordinamento giuridico la figura dell’insegnante di sostegno formato e specializzato per poter favorire l’integrazione scolastica. Ma la vera svolta si realizzò con la Legge n. 517 del 1977

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contenente l’affermazione definitiva nel nostro paese di un modello pedagogico-educativo avanzatissimo, basato sull’integrazione scolastica. La legge portò innovazioni che si ispiravano ad una visione egualitaria e non selettiva della scuola: recependo quanto enunciato dalla commissione Falcucci, stabiliva l’integrazione in classe dell’alunno con disabilità, abolendo le classi differenziali e individuando modalità organizzative specifiche per rendere effettivo questo principio. «Al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni [...] sono previste forme d’integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicap da realizzare mediante l’utilizzazione […] In tali classi devono essere assicurati la necessaria integrazione specialista, il servizio psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale» (art. 7).

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Dai pionieri della pedagogia speciale all’educazione inclusiva Francesca Caprino, INDIRE

Gli ineducabili La vicenda dell’educazione e dell’integrazione scolastica di bambini e ragazzi con disabilità in Italia non può prescindere dalle connessioni con il contesto storico e culturale che l’ha accompagnata, dallo sguardo della società sulla disabilità, sulla malattia e sulla diversità in generale. Pensare a questa storia come un procedere lineare verso il miglioramento sarebbe un errore, a grandi avanzamenti sono talvolta succedute battute d’arresto, innovazioni pensate per realizzare un maggior grado di integrazione hanno con il tempo rivelato la loro componente marginalizzante. La complessità è il segno distintivo dell’avventura dell’educazione inclusiva, un’avventura che ha portato il nostro paese a fare scelte avanzatissime che ne fanno tuttora un unicum nel panorama europeo e mondiale. Per lunghi secoli le persone con disabilità hanno subito il rifiuto e la marginalizzazione da parte della società, vedendosi negati anche i più elementari diritti. Nel mondo antico la presenza di una menomazione era vista come uno stigma divino, la prova tangibile del peccato, il segno di un sortilegio. Le prime risposte, nel medioevo, date ai bisogni di questi individui si limitano a iniziative di stampo assistenziale: sorgono asili caritatevoli che ospitano persone con caratteristiche diverse e spesso accomunate dalla povertà. In questo contesto la questione dell’educazione di bambini e ra-

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gazzi con disabilità non poteva essere posta né tantomeno affrontata, occorrerà infatti attendere il secolo dei lumi perché ciò avvenga.

Agli albori dell’educazione speciale Le prime esperienze di educazione formale delle persone con disabilità di cui si conservi notizia sono principalmente rivolte a bambini e ragazzi con disabilità sensoriali. Antesignano dell’educazione dei sordi, in Italia, è l’abate Tommaso Silvestri che, dopo essersi recato in Francia presso l’abate Charles-Michel de l’Épée che qui aveva fondato, nel 1770, una scuola speciale e che aveva messo a punto un sistema convenzionale di lingua dei segni, fonderà a sua volta un istituto per sordi a Roma, nel 1784. Silvestri, che dirigerà la scuola sino all’anno della sua morte, adotta un metodo di istruzione bilingue descritto nell’opera Maniera di far parlare e di istruire speditamente i sordi e i muti di nascita basato oltre che sulla lingua dei segni, utilizzata come forma di comunicazione primaria, anche sulla lettura del labiale. L’uso di una lingua dei segni, che aveva rappresentato un importante progresso per l’inclusione dei sordi, subì una pesante battuta d’arresto nel 1880 quando i delegati del Congresso Internazionale per il Miglioramento della Sorte dei Sordomuti di Milano votarono una risoluzione che stabiliva il primato del metodo oralista e l’abolizione della lingua dei segni, sotto lo slogan «il gesto uccide la parola». Ci vorranno molti decenni perché la lingua dei segni, che pure continuerà a essere un veicolo di comunicazione informale tra sordi, riacquisti piena dignità e venga reintrodotta nei contesti scolastici. Il primo istituto di istruzione per ciechi sorge invece nella Napoli borbonica del 1818, presso l’Ospizio dei Santi Giuseppe e Lucia; nel corso dei decenni successivi sorgeranno altre scuole presso Padova (1838), Milano (1840) e Roma (1868) ma solo con i decreti del 1923, che rendono obbligatoria l’istruzione dei ciechi, si avrà una diffusione su scala nazionale di queste istituzioni. Sotto il profilo metodologico, queste scuole utilizzano inizialmente dei metodi mutuati da quello elaborato dal francese Valentin Haüy (1745-

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1822) basato sull’uso di caratteri alfabetici convenzionali messi rilievo per mezzo di un sottile filo di rame, adottando, in seguito1, il più razionale sistema a sei punti elaborato da Louis Braille nel 1829 che permetteva, oltre alla lettura, anche la scrittura per mezzo di strumenti specifici (una tavoletta sulla quale scorre un regolo e un piccolo punteruolo), un metodo che segnerà un punto di svolta per il diritto all’istruzione dei ciechi. Sebbene le prime scuole speciali, come abbiamo visto, sorgano per accogliere bambini e ragazzi con deficit della vista o dell’udito, la nascita della pedagogia speciale viene per convenzione ricondotta agli studi di Jean Marc Itard, colui che per primo ipotizzò l’educabilità di quanti venivano allora chiamati ‘idioti’. La vicenda di Itard ha contorni romanzeschi. Nel 1800 il medico francese, allora appena ventiseienne, incontrò un bambino di circa 12 anni, abbandonato e vissuto in una foresta dell’Ayveron, nella Francia meridionale, senza alcun contatto con la civiltà. Il bambino, a cui darà il nome di Victor, venne giudicato dai luminari dell’epoca, tra cui il celebre psichiatra Pinel, un selvaggio ineducabile, un ‘idiota’ in balia di insopprimibili istinti animaleschi. Ma questo giudizio inappellabile non scoraggerà Itard che per anni, testardamente, sperimenterà con il ragazzo nuovi approcci educativi. L’ipotesi di Itard è che i numerosi deficit del bambino, scrupolosamente registrati dai medici che lo avevano in precedenza osservato, non dipendessero da una condizione congenita ma dalla carenza di stimoli e di interazioni sociali esperita per molti anni. Sono cinque gli obiettivi dell’educazione di Victor che il giovane medico si prefissa: «legarlo alla vita sociale, svegliare la sensibilità nervosa, estendere la sfera delle sue idee dandogli dei nuovi bisogni e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri che lo circondano, condurlo all’uso della parola ed infine esercitare le operazioni dello spirito sugli oggetti dei suoi bisogni fisici più semplici determinando successivamente l’applicazione su degli oggetti d’istruzione»2. 1 Decisivo per la diffusione del braille fu un Congresso Internazionale tenutosi a Parigi nel 1878 che lo dichiarò codice ufficiale di scrittura e lettura per non vedenti. Notizie della sperimentazione del braille in Italia si possono rinvenire in un documento dell’Istituto dei Ciechi di Milano redatto nel 1868 (si veda sito dell’Istituto Ciechi di Milano). 2 A. Canevaro, J. Gaudreau, L’educazione degli handicappati, Roma, Carocci, 1988.

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Sebbene l’ostinata azione educativa di Itard fosse destinata a non raggiungere gli obiettivi che si prefiggeva, il lavoro del medico francese aprirà la strada alla moderna pedagogia speciale, introducendo metodi come l’osservazione sistematica e la proposta di compiti di difficoltà graduale, destinati a conoscere un durevole consenso scientifico.

Affermazione della pedagogia speciale Il novecento è il secolo che vede, in Italia, l’affermazione della pedagogia speciale e la proliferazione degli istituti di istruzione speciali. Figura chiave dell’educazione dei bambini con disabilità è sicuramente Maria Montessori. Un filo rosso lega la celebre pedagogista alle pioneristiche esperienze di Itard. Nel 1896, la Montessori, poco dopo il conseguimento della laurea e dopo aver già trascorso un internato presso la clinica psichiatrica di Santa Maria della Pietà, dove aveva avuto modo di constatare le condizioni inumane in cui vivevano i bambini qui ricoverati, si dedicò a un periodo di studio a Parigi durante il quale incontrò Bourneville lo psichiatra che all’epoca dirigeva il manicomio di Bicêtre,e che le fece conoscere i lavori di Itard e del suo allievo, Séguin, l’ideatore della ‘pedagogia scientifica’. Il soggiorno parigino fu senz’altro il momento più determinante per le future scelte professionali della Montessori: «Fu così che interessandomi agli idioti, venni a conoscere il metodo speciale di educazione per questi infelici bambini ideato da Seguin e in genere a penetrare l’idea allora nascente anche tra i medici pratici dell’efficacia di cure pedagogiche per varie forme morbose come la sordità, l’idiozia, il rachitismo»3. Medico di formazione, la Montessori si fa pedagogista, aprendo a Roma un gabinetto (l’istituto medico-psico pedagogico) dove per due anni si dedicherà senza interruzioni all’educazione di bambini con disabilità intellettive giudicati ineducabili nelle scuole elementari e sperimentando il metodo che successivamente perfezionerà ed esporterà in tutto il mondo. La Montessori fu tra i primi a comprendere la necessità di su3 M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1948, nuova edizione Milano, Garzanti, 2013.

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perare l’approccio strettamente medico, proponendo un nuovo metodo pedagogico su base scientifica: «Io però, a differenza dei miei colleghi, ebbi l’intuizione che la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica; e mentre molti parlavano nei congressi medici del metodo medico pedagogico per la cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione morale al Congresso Pedagogico di Torino nel 1898; e credo di avere toccato una corda molto vibrante poiché l’idea , passata dai medici ai maestri elementari , si diffuse in un baleno come questione viva interessante la scuola»4. La sua proposta è incentrata su alcuni elementi cardine tra i quali occupa un posto di primissimo piano l’allestimento degli ambienti e la predisposizione di materiali progettati per stimolare i sensi del bambino e le sue capacità intellettive (ad esempio cubi, torri, perle, aste numeriche, spolette cromatiche, alfabetieri mobili, tavolette bariche). Ben presto la Montessori si preoccupa della necessità di poter disporre di personale docente competente, per questo motivo si adopera, di concerto con la neonata Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti alla fondazione della Scuola Magistrale Ortofrenica di Roma, istituto di cui assumerà l’onere della gestione, nel 1900, insieme a un giovane collega conosciuto presso la clinica psichiatrica dell’università di Roma, Giuseppe Ferruccio Montesano, il medico che per primo volle realizzare delle classi differenziali presso le scuole comuni. La Scuola Magistrale Ortofrenica si rivolgeva a maestri elementari impartendo loro nozioni di biologia, di anatomia, di fisiologia, di igiene e di didattica speciale, affiancando la teoria a esercitazioni pratiche e fornendo loro spunti per l’osservazione e per la documentazione. Progressivamente Maria Montessori comprende che i metodi sviluppati per l’educazione dei fanciulli ‘frenastenici’ possono essere con successo applicati alla così detta infanzia normale. «Fin da quando nel 1898 mi dedicai all’istruzione dei fanciulli deficienti, credetti d’intuire che quei metodi non avevano nulla di speciale all’istruzione degli idioti - ma contenevano 4 Ibidem.

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principi di educazione più razionale di quelli in uso: tanto che perfino una mentalità inferiore poteva esserne ingrandita e svolta. Questa intuizione divenne la mia idea dopo che ebbi abbandonato la scuola dei deficienti; e a poco a poco acquistai il convincimento, che metodi consimili applicati ai fanciulli normali, avrebbero svolta la loro personalità in un modo meraviglioso, sorprendente»5. Se l’opera di Maria Montessori segna uno spartiacque nell’educazione dei bambini con disabilità intellettiva, la tiflo-pedagogia, o educazione dei ciechi, ha in Italia come principale riferimento l’opera di Augusto Romagnoli, primo non vedente, nel nostro paese, ad ottenere una cattedra nelle scuole pubbliche, nel 1908. Nel corso del suo lavoro, nei primi anni ‘10, come direttore didattico dell’ospizio per ciechi Regina Margherita di Roma, un istituto caritatevole che accoglieva bambine e ragazze cieche o con gravi deficit visivi, Romagnoli, non estraneo al clima innovatore delle ‘scuole nuove’ sperimentò, con un primo nucleo di alunne dai 5 agli 8 anni, un metodo pedagogico che valorizza l’autonomia personale (autonomia di movimento, abilità di orientamento) e sfrutta le capacità compensative dei sensi integri, un metodo che successivamente elaborò organicamente nell’opera Ragazzi ciechi 6. L’ottica è sempre quella di una ‘pedagogia riparatrice’ ma Romagnoli sembra non perdere mai di vista la motivazione del bambino, l’esperienza liberante e gioiosa del gioco. Il programma messo a punto presso il Regina Margherita comprende una grande varietà di esercizi di affinamento sensoriale e di motricità fine e grossolana di difficoltà graduata: esercizi tattili, manipolativi e di costruzione (per quali il Romagnoli adottò alcuni dei materiali montessoriani), attività fisiche come la corsa o il salto, proposte in forma ludica ed evitando ogni tipo di coercizione. Romagnoli è un fermo sostenitore di un approccio scientifico e sistema5 M. Montessori, Il metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini, Città di Castello, S. Lapi, 1909, nuova edizione critica Roma, Opera Nazionale Montessori, 2008. 6 A. Romagnoli, Ragazzi ciechi, Firenze, Stamperia nazionale braille, 1909, nuova edizione Roma, Armando Editore, 2002.

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tico all’educazione speciale che superi sia gli atteggiamenti assistenzialistici e pietistici che l’empirismo; è anche un fautore della co-educazione, ovvero della necessità di educare i bambini ciechi insieme ai bambini vedenti, facendo tesoro dell’aiuto che questi ultimi possono dare ai primi, anche se è lucidamente consapevole del fatto che questa condizione, che pure considera ideale, è difficilmente realizzabile nel periodo storico che si trova ad attraversare. Un ruolo fondamentale il Romagnoli lo ebbe anche nella formazione degli insegnanti specializzati, nel 1926 istituì infatti a Roma una scuola di Metodo per gli educatori dei ciechi, scuola di cui fu direttore fino all’anno della sua scomparsa, nel 1946. Va infine ricordato che già negli anni ‘10 comprese la necessità di poter disporre di assistenti, anche essi specializzati, che coadiuvassero gli insegnanti. Nei decenni successivi la tendenza sarà quella di incentrare gli interventi educativi sugli aspetti deficitari, con strumenti specifici e in luoghi separati. Nelle scuole speciali così come nelle classi differenziali l’azione didattica ed educativa è sempre legata a quella medico-pedagogica come peraltro ribadito dalla stessa normativa (D.P.R. 1518) che prevede per gli alunni la messa in atto di interventi di assistenza medico-specialistica, psico-pedagogica e sociale7. La stessa pedagogia speciale continua a intrattenere rapporti strettissimi con la medicina, come testimonia la stessa nomenclatura della disciplina, ancora definita come ‘orto pedagogia’ o come ‘pedagogia emendatrice’. Nelle istituzioni speciali la presa in carico del bambino ruota sui costrutti di diagnosi e di trattamento, parallelamente si assiste alla definitiva affermazione della disciplina della neuro-psichiatria infantile con la realizzazione di scuole di specializzazione universitaria a Roma, Genova e Pisa e con la diffusione della rivista «Infanzia Anormale». Si dovrà invece aspettare il 1964 perché in Italia la pedagogia speciale divenga una disciplina universitaria autonoma, è infatti in quest’anno che questo insegnamento viene affidato a padre Roberto Zavalloni, presso la facoltà di magistero della Sapienza di Roma. 7 P.L. Dini, Classi differenziali e scuole speciali, Roma, Armando, 1966.

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Crisi e tramonto del modello educativo segregazionista Negli anni ‘60, nell’ambito della pedagogia speciale, comincia progressivamente ad affermarsi la consapevolezza dell’importanza rivestita dai processi di socializzazione nell’apprendimento. Una delle esperienze più significative di questo periodo è quella realizzata da Adriano Milani Comparetti, medico della riabilitazione e fratello maggiore di don Milani, di cui condivide il carisma e lo slancio innovatore e che nel 1958 viene chiamato dalla Croce Rossa a dirigere l’istituto Anna Torrigiani di Firenze che ospita a convitto bambini affetti da paralisi cerebrale infantile, quelli che all’epoca venivano chiamati ‘spastici’. Milani Comparetti organizza con l’aiuto un gruppo di giovani insegnanti dei CEMEA (Centri di addestramento ai metodi dell’educazione attiva), organizzazione di cui faceva parte, come membro del consiglio direttivo, una scuola materna e elementare all’interno dell’istituto, portando avanti un’opera educativa orientata allo sviluppo globale della personalità del bambino, alla sua emancipazione e alla sua auto-determinazione, anticipando di decenni la visione olistica della disabilità proposta dall’organizzazione mondiale della sanità con la pubblicazione dell’ICF8. Villa Torrigiani diviene nell’arco di pochi anni un modernissimo laboratorio di sperimentazione pedagogica dove il lavoro riabilitativo si fonde con il metodo dell’educazione attiva, che in quegli anni vedeva Firenze come centro propulsivo. Qui Milani Comparetti, che parallelamente svolge un’attività scientifica assai proficua e che gli farà guadagnare una fama mondiale, forma generazioni di terapisti e insegnanti. L’attenzione dell’équipe di Villa Torrigiani (che comprende non solo il personale medico e educativo ma tutti coloro che all’istituto lavorano, addetti alle pulizie compresi) si sposta dai deficit del bambino alle sue capacità residuali e al suo potenziale; le giornate sono scandite, oltre che dallo studio e dalle cure, da giochi, letture, attività musicali, artistiche e ricreative. 8 F. Bocci, Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea, Firenze, Le Lettere, 2011.

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È il bambino con i suoi interessi spontanei e le sue motivazioni, a essere al centro di questo progetto educativo, in una visione della scuola democratica e antiautoritaria che ambisce a restituire dignità alla persona e ad abbattere le barriere di natura sociale e ambientale che ostacolano la sua partecipazione. Il progetto educativo del Torrigiani riscuote numerosi consensi, tanto che arrivano richieste di iscrizione anche dall’estero, ma Milani Comparetti comprende presto che gli sforzi di rinnovamento non bastano a compensare l’isolamento sociale e le carenze affettive indotte dall’istituzionalizzazione, dalla separazione dal mondo degli affetti: la crescita dei piccoli alunni non può che avvenire in contesti ‘normali’, solo attraverso la socializzazione è infatti possibile sviluppare delle abilità o recuperarle; la segregazione e l’esclusione sociale, viceversa, sono condizioni che fanno di un bambino un ‘handicappato’. I tempi tuttavia non sono ancora del tutto maturi, e i tentativi di questo straordinario precursore dell’integrazione di far inserire i bambini del Torrigiani nelle scuole ordinarie incontreranno molte resistenze. Per tutti gli anni ‘60 il paradigma della separazione educativa, che secondo i più riconosciuti esperti dell’epoca trova una giustificazione nella necessità di evitare che i meno capaci possano costituire una ‘zavorra’ per il resto della classe, non viene infatti sostanzialmente messo in discussione. Lo stesso Giovanni Bollea, considerato il padre della neuropsichiatria infantile italiana, tra gli anni ‘50 e ‘60, rimane un convinto fautore della segregazione educativa non solo nei casi di conclamata disabilità ma anche in presenza di difficoltà di apprendimento non legate alla presenza di patologie specifiche. La separazione viene letta da Bollea come misura indispensabile per evitare il rallentamento della classe e il fenomeno delle ripetenze: «dall’inizio della scuola e fino alle vacanze di Natale i maestri sono chiamati a osservare i loro alunni e, successivamente, a selezionarli, con l’ausilio di un’équipe medico-psico-pedagogica, inviando gli incapaci nelle classi differenziali»9. La numerosità delle classi differenziali raggiunge il suo apice proprio in 9 G. Bollea citato in G. De Michele, Un’inguaribile incapacità di reazione al nuovo ambiente di vita. Bambini meridionali al Nord e classi differenziali negli anni ‘50 e ‘60, in «Rivista sperimentale di freniatria» n. 3, 2010, pp. 11-32.

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questo periodo, passando dai 13000 alunni dell’anno scolastico 19581959 ai 63565 degli anni 1970-1971; ben presto però la correlazione tra status socio economico e identificazione dei bambini come anormali emergerà in tutta la sua evidenza10. Il neuropsichiatra infantile Michele Zappella nel 1969 si interroga sull’«epidemia» di diagnosi nella scuola dell’obbligo con un articolo dal titolo eloquente: Un paese di deficienti? Nel 1970 viene pubblicata sulla rivista «Riforma della Scuola» una ricerca condotta presso le prime classi del comune di Ferrara che evidenzia come i bambini diagnosticati come ‘subnormali mentali’ provengano in larghissima parte da contesti familiari svantaggiati, sono infatti nel 70% dei casi figli di manovali, braccianti agricoli o sottoproletari11. Nelle città industriali del nordovest le segnalazioni di alunni da inserire in queste classi riguardano poi, nella maggior parte dei casi, i figli degli emigranti, bambini che vivono spesso un forte disagio economico e che scontano lo svantaggio sociale e culturale delle famiglie di origine. Sono bambini spesso vivaci, che parlano dialetto e che la scuola italiana, divenuta di massa ma senza sostanziali modifiche del suo impianto autoritario, non riesce ad accogliere12. È consapevole del ruolo di selezione su base classista e disciplinare operato dalle istituzioni educative speciali e differenziali, anche lo psichiatra Luigi Cancrini13 che, riprendendo un’indagine sugli istituti per minori realizzata del PCI sempre nel 1970, sottolinea come i bambini esclusi dalle scuole comuni rappresentino i capri espiatori di conflitti che spesso nulla hanno a che vedere con le loro caratteristiche personali ma che sono il riflesso di condizioni inerenti i sistemi culturali, sociali ed economici in cui si trovano a vivere. In un clima culturale che vede una progressiva crisi di tutte le istituzioni, 10 M.L. Tornesello, Il sogno di una scuola: lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore, Pistoia, Petite plaisance, 2006. 11 S. Canella, M. Poletti, L. Cattani, citati in G. Roda, Metodi e risorse per l’inclusione, relazione al seminario Metodologie e risorse per la scuola inclusiva, USR Emilia Romagna, Ferrara, 2010. 12 G. De Michele, Un’inguaribile incapacità di reazione al nuovo ambiente di vita. Bambini meridionali al Nord e classi differenziali negli anni ‘50 e ‘60, in «Rivista sperimentale di freniatria» n. 3, 2010, pp. 11-32. 13 L. Cancrini, Bambini «diversi» a scuola, Torino, Boringhieri, 1974.

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scuola compresa, e anche grazie alla profonda influenza esercitata da intellettuali come Franco Basaglia e don Lorenzo Milani il modello segregazionista si va velocemente sgretolando. Come ebbe a dire Bruno Ciari14, poco prima della sua scomparsa, è la scuola, con la sua rigidità, con la sua incapacità di rinnovarsi per rispondere ai bisogni di elevazione culturale delle masse, a essere la grande anormale, la grande disadattata. Anche gli studenti delle scuole speciali cominciano, per la prima volta, a far sentire la loro voce e portano il tema della disabilità nell’agenda del più ampio movimento studentesco: a Genova nel 1971 un gruppo di studenti ciechi dell’Istituto Chiossone occupa la scuola, rivendicando il diritto all’inclusione nel ‘mondo reale’15. La posizione della neuropsichiatria infantile muta e lo stesso Bollea rivede radicalmente le proprie opinioni: «Dopo aver per 60 anni lottato per gli istituti medico pedagogici ad esternato e per le scuole speciali, oggi noi non vogliamo più le scuole speciali. Ci sarà ancora la scuola speciale per gli insufficienti mentali gravi, ma l’insufficiente mentale lieve e medio lieve, vale a dire l’insufficiente mentale a recuperabilità sociale parziale o totale, e che rappresenta l’85-90% di tutti gli insufficienti mentali, fa parte del complesso scolastico comune. Noi non dobbiamo dividerli, noi non dobbiamo metterli nei ‘ghetti’ come qualcuno ha detto, perché la socializzazione è unica, indipendentemente dalla recuperabilità intellettiva»16. Sulla fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 cominciano a farsi strada le prime esperienze di inserimento di bambini con disabilità nelle classi comuni, iniziative sostenute da insegnanti, pedagogisti, come Andrea Canevaro, neuropsichiatri infantili, operatori sociali e associazioni (l’ANFASS e l’AIAS su tutte), oltre che da alcuni ispettori ministeriali illuminati come Aldo Zelioli e Sergio Neri e da associazioni come il Movimento di Cooperazione Educativa. 14 B. Ciari, La grande disadattata, A. Alberti (cur.), Roma, Editori Riuniti, 1972. 15 M. Lanfranco, S. Neonato, Lotte da orbi, Politica e vicende umane nella rivolta dell’Istituto dei ciechi di Genova nel 1971, Genova, Erga, 1996. 16 G. Bollea, Critica alle classi differenziali nella scuola dell’obbligo, in «Neuropsichiatria Infantile» n. 116-117, 1970, pp. 912-916.

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È la fase che gli oppositori di questo processo chiameranno ‘inserimento selvaggio’, un’onda di contestazione che anticipa e incanala la risposta istituzionale. È senz’altro vero che questi primi inserimenti abbiano presentato numerosi limiti: non vi era ancora, in questa fase, un serio ripensamento della didattica né il supporto di una cornice normativa che garantisse la piena realizzazione del diritto allo studio, condizioni che si verranno a creare successivamente con la così detta circolare Falcucci del 1975 e con l’emanazione della Legge 517 del 1977. Eppure senza questa ‘fuga in avanti’ è possibile se non probabile che il processo di integrazione e di inclusione dei bambini e dei ragazzi con disabilità in Italia non avrebbe avuto gli esiti che conosciamo, esiti che hanno portato l’Italia a divenire un modello in ambito internazionale e che ha stimolato un pensiero educativo originalissimo e ancora attuale.

Dopo il 1977 A seguito dell’introduzione della Legge 517, si afferma un modello educativo che supera il semplice riconoscimento del diritto, da parte di bambini e ragazzi con disabilità, di essere inseriti nelle scuole comuni, definendo con chiarezza finalità e strumenti di un nuovo paradigma, quello dell’integrazione scolastica, che ha tra i suoi pilastri la didattica individualizzata, il supporto di insegnanti specializzati e la collaborazione in rete con enti del territorio. Sono anni di profonda trasformazione della scuola e l’integrazione dei bambini e ragazzi con disabilità si intreccia sinergicamente con altre innovazioni e sperimentazioni (il tempo pieno, il curricolo verticale, la realizzazione di servizi per la prima infanzia, l’uso della valutazione formativa) motivate da esigenze di modernizzazione e di democratizzazione del sistema di istruzione. L’integrazione si riverbera su tutta l’organizzazione scolastica favorendo il pluralismo, i processi partecipativi, la progettazione e la sperimentazione e contribuendo a rendere meno rigidi i confini tra scuola e extra-scuola. Nel corso di questi decenni la pedagogia speciale italiana (rappresentata, dal 2008 dalla SIPeS) conosce una crescente affermazione e, paralle-

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lamente, crescono le riviste e i convegni dedicati al tema dell’inclusione scolastica, termine che dopo il 2000 viene preferito a quello di ‘integrazione’, un cambiamento motivato oltre che dall’influenza della letteratura pedagogica anglosassone anche da un passaggio culturale che vede estendersi l’attenzione dai soli soggetti con disabilità all’estesa platea di tutti i bambini e ragazzi che per situazioni di vulnerabilità dovuti a fattori individuali, personali o ambientali, sperimentano delle difficoltà nell’apprendimento e nella partecipazione alla vita scolastica. Particolarmente significativo, per l’evoluzione del paradigma inclusivo, è stato il massiccio aumento del fenomeno migratorio che ha portato nelle classi un consistente numero di studenti con lingue e background culturale diversi, sollecitando l’istituzione scolastica a elaborare strumenti idonei per accompagnare e gestire i processi di inclusione scolastica e sociale dei nuovi arrivati. La pedagogia interculturale, affermatasi per rispondere a questi problemi, si è incontrata con la pedagogia speciale sul comune terreno delle differenze e della complessità, contribuendo a ridisegnare e a innovare le pratiche didattiche e gli approcci educativi. In generale, negli ultimi anni, l’educazione inclusiva, oggi rafforzata da numerose evidenze scientifiche sulla sua efficacia, si è spostata dall’ottica compensativa per abbracciare un modello che legge l’individuo in formazione nella sua complessità e nel suo essere sociale, cercando di superare la vecchia didattica trasmissiva e nozionistica in favore di percorsi che sappiano valorizzare abilità e interessi diversi e leggendo la diversità stessa come un elemento che riguarda tutti e che per tutti è una risorsa.

Il contributo dell’educazione speciale al rinnovamento della scuola La storia dell’educazione speciale si caratterizza per il carattere marcatamente sperimentale di molte esperienze e per l’impronta lasciata nel dibattito pedagogico generale e nelle successive evoluzioni delle discipline educative.

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L’esempio più emblematico è senz’altro quello del metodo sviluppato da Maria Montessori, elaborato come strategia per l’educazione dei bambini ‘frenastenici’ e poi sistematizzato in un impianto educativo di ampio respiro. L’attenzione alle differenze ha consentito di leggere con più attenzione le difficoltà di apprendimento in generale, aprendo la strada a interventi didattici personalizzati e mirati a rimuovere gli ostacoli e a raggiungere il pieno potenziale di ognuno. In generale l’incontro con la differenza e con la complessità reso la scuola più democratica e più flessibile nell’organizzazione e nella didattica. A questo rinnovamento ha senz’altro contribuito l’immissione in ruolo di migliaia di insegnanti specializzati, avvenuta e seguito all’introduzione della Legge 517 del 1977, un evento che ha rappresentato, soprattutto nella scuola secondaria, dove gli insegnanti non avevano nessun tipo di formazione pedagogica, un forte elemento di innovazione, stimolando in tutto il corpo docente una riflessione sui processi di insegnamento e di apprendimento e sulla personalizzazione degli interventi educativi. Nel corso del tempo le competenze relative alla didattica e alla pedagogia speciale sono divenute un requisito indispensabile per l’accesso alla professione. Con l’istituzione dei corsi di laurea in scienze della formazione primaria, nell’anno accademico 1998-1999, la formazione in questa disciplina ha infatti visto una sua prima estensione ai docenti curricolari per poi essere applicata successivamente a tutti i percorsi di abilitazione all’insegnamento. A promuovere la dimensione inclusiva della scuola italiana, e con essa una visione dell’apprendimento centrato sullo studente, hanno contribuito anche alcune iniziative di formazione e di ricerca realizzate su base nazionale dal MIUR come il progetto I CARE, del 2007, e l’iniziativa dedicata nell’anno scolastico 2010-2011 alla diffusione del modello bio-psico-sociale dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La pedagogia speciale, sin dai suoi inizi, si è inoltre dotata di strumenti didattici originali e innovativi. É questo il caso, ad esempio, dei materiali montessoriani, ideati come mediatori atti a stimolare, attraverso i sensi, lo sviluppo dell’intelligenza e degli strumenti tiflodidattici, sviluppati come ausilio per l’apprendimento dei ciechi e degli ipovedenti.

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Negli ultimi decenni il progresso nel capo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione ha dato un nuovo impulso alla messa a punto di strategie didattiche rivolte a bambini e ragazzi con disabilità, strategie che in molti casi si sono rivelate utili anche per bisogni educativi diversi. Dalla metà degli anni ‘80 si sperimenta nelle scuole l’uso di ausili informatici e di software didattici per l’integrazione scolastica di alunni con minorazioni visive, motorie e uditive. La fondazione ASPHI (Associazione per lo Sviluppo Professionale degli Handicappati nel campo dell’Informatica), nata nel 1980 su iniziativa del dirigente IBM Giovanni Zanichelli, svolge un vero e proprio ruolo di apripista in questo ambito grazie a iniziative pionieristiche nello sviluppo di applicativi e di hardware e nella formazione degli insegnanti. L’ASPHI17 muove i primi passi organizzando corsi di informatica per non vedenti ma molto presto si rivolge a un più ampio numero di destinatari. Già nel 1982 istituisce corsi per programmatori rivolti a giovani con disabilità motorie e, progressivamente, realizza iniziative di integrazione di alunni con minorazioni sensoriali o motorie nelle scuole, a partire dalla primaria. Per meglio comprendere la portata di questi progetti basti pensare che all’inizio degli anni ‘80 la diffusione dei computer nelle scuole è limitatissima e che occorrerà aspettare il 1985 perché venga realizzata, con il primo Piano Nazionale Informatica (a cui parteciperanno prevalentemente insegnanti di matematica e fisica della secondaria superiore) un’iniziativa di formazione dei docenti su base nazionale18. Gli anni ‘90 sono un periodo vivacissimo per lo sviluppo e la diffusione in ambito di tecnologie per la didattica. L’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR, a Genova, istituisce una biblioteca del software didattico, dove trovano ampio spazio gli applicativi utilizzabili nei casi di disabilità sensoriale, motoria o intellettiva. Nel 2000 INDIRE, in collaborazione con il MIUR, sviluppa Handitecno, un portale nazionale multimediale interamente dedicato alle nuove tecnologie per la disabilità nella scuola. 17 In www.asphi.it. 18 G. Chiappini, S. Manca, L’introduzione delle tecnologie educative nel contesto scolastico italiano, in «Form@re Open Journal per la Formazione in Rete», n. 46, 2006, (20 febbraio 2018).

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L’intreccio virtuoso tra innovazione tecnologica e inclusione degli alunni con disabilità prosegue nell’ultimo ventennio anche grazie a iniziative istituzionali come il progetto del MIUR Nuove tecnologie e disabilità e l’istituzione di Centri Territoriali di Supporto (oggi denominati poli per l’inclusione) che promuovono il ruolo delle ICT nell’inclusione e, più in generale, nella qualità della didattica e dell’educazione.

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Uno sguardo fotografico Irene Zoppi, INDIRE

Tra le fotografie che qui presentiamo, quelle provenienti dall’Archivio Storico Indire, presentano un contesto specifico della storia dell’integrazione scolastica, ancora legato alle scuole speciali e alle classi differenziali. I limiti cronologici del fondo fotografico infatti, coprono un arco temporale che non supera gli anni Sessanta, permettendo un’analisi storicizzata del tema a partire dagli anni Trenta. Affiancando però le immagini dell’Archivio Storico Indire a quelle dell’archivio corrente e di archivi esterni, emerge la possibilità di una lettura sia diacronica sia sincronica che permette un’analisi più complessa e problematica del tema1. L’Archivio Storico Indire si è costituito dal 1925, anno in cui il pedagogista Giovanni Calò organizza a Firenze la prima Mostra Didattica Nazionale2. Da quell’evento nasce la raccolta di materiale documentario e fotografico che costituì dapprima il Museo Didattico Nazionale (1929-1937)3, poi divenuto Museo Nazionale della Scuola (1937-1941)4 per essere infine inglobato, nel 1941, nello spazio museale del Centro Didattico Nazionale (CDN) con sede nel fiorentino Palazzo Gerini. L’Istituto Nazionale di Docu1 I testi introduttivi alle sezioni tematiche fotografiche sono a cura di F. Caprino. 2 G. Calò, La mostra didattica Nazionale, in «I diritti della scuola», n. 14, 1925, pp. 209-210. 3 G. Calò, Per un Museo Didattico Nazionale, in «I diritti della scuola», n. 39, 1925, pp. 609-611. Per la storia e la consistenza dei fondi archivistici Indire cfr. P. Giorgi, J. Meda (cur.), I fondi archivistici dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica, Firenze, Polistampa, 2009. 4 La nuova sede del Museo nazionale della scuola, in «I diritti della scuola», n. 1, 1939, p. 9. Museo Nazionale della Scuola, in «I diritti della scuola», n. 1, 1937, p. 13. Museo Nazionale della Scuola, in «I diritti della scuola», n. 19, 1938, pp. 300, 343.

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mentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), che rappresenta oggi il successore istituzionale del CDN5, conserva tuttora parte del fondo documentale raccolto dagli anni Venti, tra cui una sezione fotografica con 14mila stampe sciolte (suddivise per grado d’istruzione, aree tematiche e regionali) e album fotografici, databili tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento. La cronologia del fondo, incrementato in particolare negli anni Quaranta, periodo di massimo sviluppo del CDN, lo caratterizza per essere testimonianza di una scuola politicamente impegnata nell’attuazione della Carta della Scuola (1939), redatta dal ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai quale espressione della più alta operazione di politicizzazione scolastica6. Negli anni tra il 1945 e il dopoguerra l’attività del Centro fu sospesa e solo tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta fu ripresa la raccolta di documentazione proveniente dalle scuole italiane, seppur con minor afflusso di materiale fotografico. Queste le motivazioni per cui nell’Archivio Storico Indire, è possibile trovare oggi solo alcune tipologie di realtà scolastiche e, relativamente al tema di questo studio, è documentata in particolare la didattica delle scuole speciali attraverso fotografie che gli stessi istituiti hanno realizzato scelto e inviato per testimoniare il loro lavoro. Tra i materiali scelti, le fotografie provenienti da tre album di Milano (Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili) databili tra gli anni ‘30 e ‘40, sono un interessante esempio di reportage che, oltre a mostrarci il contesto scolastico e le architetture, appositamente strutturate per una specifica didattica ‘attiva’ e per la gestione dei numerosi alunni, ci offre anche, attraverso una narrazione visiva, la documentazione della giornata tipo vissuta dagli alunni quali le lezioni 5 Per la storia del CDN e di Indire: P. Giorgi (cur.), Dal Museo nazionale della scuola all’INDIRE: storia di un istituto al servizio della scuola italiana (1929- 2009), Firenze, Giunti, 2010. E. Franchi, P. Giorgi (cur.), L’obiettivo sulla scuola. Immagini dall’archivio fotografico INDIRE, Firenze, Giunti, 2012. 6 G. Biondi, F. Imberciadori, Voi siete la primavera d’Italia… l’ideologia fascista nel mondo della scuola (1925-1943), Torino, Paravia, 1982. Inaugurazione del centro didattico nazionale, in «I diritti della scuola», n. 2, 1941, pp. 26-27.

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all’aperto, gli esercizi ginnici e la refezione. Al di là di tali aspetti, sapientemente ‘raccontati’ per immagini dallo studio fotografico professionista Crimella, su commissione dello stesso comune di Milano, queste fotografie sono oggi anche un esempio della modalità di rappresentazione della ‘disabilità’ nel contesto didattico delle scuole speciali. Gli album di Milano, donati al CDN nel 1941, contengono fotografie appositamente commissionate dal comune e destinate alla pubblicazione su giornali locali («Milano: rivista mensile del Comune»; «Bimbi al sole») e ad uso degli insegnanti («I diritti della scuola») e quindi propagandistiche dell’operato delle istituzioni e volutamente costruite e connotate. Tra le fotografie degli album, alle immagini che mostrano alcune tematiche della pedagogia d’epoca fascista, quali i saggi ginnici o l’uso della divisa, che unisce e confonde il singolo, omologandolo nel gruppo, si alterna la rappresentazione della ‘disabilità’. In queste fotografie tale tema, quando affrontato e reso chiaramente visibile, è interpretato con la tendenza a ‘normalizzarlo’ contestualizzandolo nella tematica della cura del corpo, dell’igiene, o degli esercizi e attività collettive, in cui l’elemento dell’impedimento ‘fisico’ non nascosto né esaltato, è però già presentato in un contesto ‘correttivo-medico’, in cui si cerca di ‘guarirlo’ o fortificarlo. Se nel ritratto dei bambini, di cui ben si mostra in primo piano la nudità dei gracili toraci, estesi nell’atto dell’esercizio fisico, la percezione della disabilità passa necessariamente attraverso la visione del ‘corpo’, in altre fotografie invece è rappresentata attraverso il rimando al dettaglio, appositamente costruito, che ne suggerisce la presenza. Ne è un esempio la fotografia di una lezione all’aperto, in cui le due stampelle del ragazzo seduto in primo piano sono ben visibili, appoggiate al suo banco, quale elemento su cui si focalizza primariamente lo sguardo di chi osserva l’immagine. La tendenza al reportage ‘oggettivo’, del resto difficilmente praticabile, non è mai del tutto credibile, nelle fotografie milanesi per la già indicata finalità propagandistica, tuttavia anche in altre delle fotografie storiche qui presentate, è possibile scorgere una ‘oggettività costruita’: le probabili finalità scientifiche richieste alla documentazione fotografica, hanno reso necessario la messa in posa del soggetto per descriverne

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dettagliatamente gli aspetti peculiari. Nelle fotografie provenienti dall’Istituto dei ciechi di Cagliari ad esempio, viene messo in evidenza l’uso di alcuni sussidi didattici, specifici per bambini e ragazzi non vedenti. Qui le immagini ritraggono in posa singoli studenti, ben curati e vestiti, mentre utilizzano, al di fuori di una lezione collettiva, gli strumenti per la didattica. Probabilmente lo scopo primario delle immagini era in questo caso mostrare principalmente le dotazioni scolastiche e la loro funzione all’interno dell’istituto. Un aspetto documentato dal mezzo fotografico oggi come in passato, è l’attività laboratoriale e di preparazione al lavoro. Già dagli anni Trenta, nell’ottica dei programmi scolastici della Carta della Scuola, ampio spazio era data alla cosiddetta ‘scuola del fare’ e all’istruzione tecnica-professionale: nelle scuole speciali l’attività agricola era considerata formativa per i bambini, mentre per i ragazzi l’avviamento ad una professione pratica consentiva di prepararsi al lavoro e alla futura vita da adulti. Le fotografie storiche mostrano come tali insegnamenti fossero supportati dalla presenza di officine e laboratori scolastici appositamente attrezzati per specifiche attività professionali, quali il cucito, la rilegatura o la stampa. Le fotografie delle dotazioni meccaniche che gli istituti potevano vantare, miravano a testimoniare come essi, non meno delle scuole tecniche, fossero centri di formazione per futuri operai specializzati. Le immagini contemporanee ci raccontano come l’acquisizione di capacità professionali non sia oggi limitata alla sola lezione tecnica in classe ma sia basata anche sullo svolgimento di esperienze esterne all’ambito scolastico, che permettano di sviluppare anche capacità pratiche e relazionali. L’attuale lavoro di documentazione perseguito da Indire, riguardo le esperienze di ricerca ed innovazione didattica e pedagogica in ambito nazionale ed internazionale, è realizzato in prevalenza tramite mezzi audiovisivi, ma continua ad avvalersi anche del mezzo fotografico. I reportage realizzati testimoniano il percorso d’innovazione metodologica della scuola, sviluppato anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie nella pratica didattica. Contestualmente mostrano spazi e arredi ripensati al fine di creare ambienti in grado di rispondere a con-

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testi educativi ed esigenze diversi, e la possibilità per ogni studente di trovare il proprio specifico modo di apprendere in base alle sue naturali propensioni7. Nelle fotografie databili dopo gli anni Cinquanta fino ad oggi, possiamo avere testimonianza non solo delle nuove metodologie didattiche e dei cambiamenti dell’ordinamento scolastico in tema di educazione inclusiva, ma della diversa metodologie rappresentativa della ‘disabilità’ stessa. Le immagini mostrano bambini e studenti in pose più ‘libere’, sebbene organizzate appositamente per la fotografia. L’inquadrature mostrano un punto di vista del fotografo sempre più spesso ravvicinato, testimone di un maggior interesse nell’entrare in relazione con i soggetti piuttosto che ritrarli da lontano. Il processo inclusivo è così raccontato grazie a immagini del quotidiano scolastico che riguardano ogni studente: immagini non limitate ad evocare una ‘condizione’ ma a descrivere, seppur con la ‘messa in posa’, gli aspetti relazionali dei soggetti tra loro e con l’ambiente scolastico, coinvolgendo lo spettatore presentandogli un ‘contesto’, piuttosto che renderlo mero osservatore di un ‘soggetto’ ritratto.

7 Cfr. Radici di futuro. L’innovazione a scuola attraverso i 90 anni di Indire. Catalogo dell’omonima mostra (Palazzo Medici Riccardi, 2-22 ottobre 2015), P. Giorgi (cur.), Firenze, Tipografia Contini, 2015.

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L’edificio scolastico, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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1 – LUOGHI E SPAZI

Le istituzioni educative speciali, nate agli inizi del XIX secolo, costituiscono una prima risposta ai bisogni educativi di bambini e ragazzi con disabilità, prima del tutto esclusi dall’istruzione. Oggi il modello dell’educazione inclusiva si è definitivamente affermato e la scuola dà spazio alle differenze e si impegna a rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione alla vita scolastica e sociale.

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1.1 Lezione all’aperto, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

1.2 Attività in aula, Scuola medico-pedagogica Tortona (AL), anni ‘50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

1.3 Aula “atelier”, Centro Internazionale L. Malaguzzi, Reggio Emilia, 2015. Foto G. Moscato, Archivio Indire, Fondo Fotografico.

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1.4 Lezione in classe, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

1.5 Una finestra sul mondo, parete decorata e lavagna interattiva, Istituto Comprensivo Statale di Cadeo e Pontenure, Roveleto (PC), 2012-2013.

1.6 Lezione all’aperto, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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1.7 Accessibilità a scuola, bambini sperimentano l’accessibilità degli spazi scolastici, nell’ambito di un progetto di sensibilizzazione sulle differenze, Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma, 2014.

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1.8 La refezione, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

1.9 Attività all’aperto con sussidi didattici, Regia scuola di metodo per insegnanti e maestri istitutori dei ciechi di Roma, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Materiali Scolastici.

1.10 Ginnastica in palestra, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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Aula “atelier�, Centro Internazionale L. Malaguzzi, Reggio Emilia, 2015. Foto G. Moscato. Archivio Indire, Fondo Fotografico.

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2 – METODI E STRUMENTI

Dai suoi albori la pedagogia speciale si dota di metodi e strumenti peculiari, strumenti che in alcuni casi avranno una vasta diffusione anche al di fuori di questo ambito, come nel caso dei materiali e delle strategie didattiche inizialmente sviluppate da Maria Montessori per i bambini con disabilità intellettiva. Un ruolo di primo piano, oggi come nel passato, è svolto dalle soluzioni tecnologiche che permettono di superare le difficoltà legate alla disabilità.

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2.1 Educazione della mano con il casellario Romagnoli, Istituto per ciechi, Cagliari, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

2.2 Lezione all’aperto con sussidi didattici, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

2.3 Attività all’aperto con sussidi didattici, Regia scuola di metodo per insegnanti e maestri istitutori dei ciechi di Roma, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Materiali Scolastici.

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2.4 Lezione di cucito all’aperto, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

2.5 Laboratorio di falegnameria presso una cooperativa, guidato da un’insegnante con disabilità nell’ambito di un progetto di sensibilizzazione sulle differenze, Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma, 2014.

2.6 Studio della botanica con sussidi didattici, Istituto per ciechi, Cagliari, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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2.7 Attività nell’orto scolastico, Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

2.8 Nella fattoria, Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

2.9 Nell’orto scolastico, Scuola speciale di Stato (Croce Rossa Italiana) Mergozzo (VB), anni ’50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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2.10 Attività di gruppo, Istituto Comprensivo Baccio da Montelupo, Montelupo Fiorentino (FI), 2013. Foto G. Moscato, Archivio Indire, Fondo Fotografico.

2.11 Lavoro manuale, dei bambini non vedenti e ipovedenti con la creta, scuola materna, anni ‘60. Foto Farabola. Archivio Fotografico Istituto dei Ciechi di Milano-Museo Louis Braille.

2.12 Aula di audiologia, Pio Istituto dei Sordi, Milano, anni ‘60. Archivio Fondazione Pio Istituto dei Sordi, Milano.

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2.13 Laboratorio di lettura, con la guida di un’insegnante con disabilità nell’ambito di un progetto di sensibilizzazione sulle differenze, Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma, 2014.

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2.14 Macchinari per la stampa braille, Istituto Nazionale dei Ciechi Vittorio Emanuele II, Firenze, anni ‘40, Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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Attività all’aperto, Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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3 – CURA DEL CORPO

L’igiene, l’esercizio fisico, le cure rimangono a lungo aspetti centrali dell’educazione speciale; a prevalere, fino a metà del secolo scorso, è infatti l’approccio medico, centrato sugli aspetti deficitari e sul loro “emendamento”. Progressivamente si fa strada una nuova visione che vede la persona nella globalità dei suoi bisogni e delle sue capacità. Adriano Milani Comparetti riassume bene questo cambiamento: “from cure to care”, dalla cura al prendersi cura.

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3.1 Solarium, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

3.2 Igiene personale, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

3.3 Bambini partecipano a un progetto di sensibilizzazione sulle differenze, Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma, 2014.

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3.4 Studenti partecipano a un’iniziativa di Special Olympics, Istituto Comprensivo Seravezza (LU), 2015.

3.5 Ginnastica nel cortile, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

3.6 Esercizi ginnici, Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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3.7 “Giornata della consapevolezzaâ€?, iniziativa di sensibilizzazione sulla disabilitĂ , Istituto Tecnico Cristoforo Colombo di Porto Viro (RO), 2016.

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3.7 La sala medica, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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Esercizi psicomotori con la musica, Scuola speciale di Stato (Croce Rossa Italiana) Mergozzo (VB), anni ’50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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4 – SOCIALITÀ

Il paradigma della separazione educativa rimane in auge per quasi due secoli: per non rallentare i “sani”, i “normali”, chi ha delle difficoltà deve essere educato in luoghi speciali. Ma la centralità dei processi di socializzazione viene infine compresa: non si impara nell’isolamento e nella segregazione ma in contesti inclusivi. Le differenze, a scuola, sono una risorsa per tutti.

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4.1 Lezione informale in aula ‘atelier’, Centro Internazionale L. Malaguzzi, Reggio Emilia, 2015. Foto G. Moscato, Archivio Indire, Fondo Fotografico.

4.2 Girotondo, scuola materna, 2011. In «Sindrome down notizie» n. 1.11, Associazione italiana persone down Onlus.

4.3 Girotondo in cortile, Scuola medico-pedagogica Tortona (AL), anni ‘50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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4.4 Nell’azzurro, tra i merletti del Duomo di Milano, riconoscimento tattile, anni ‘60. Foto Vianini. Archivio Fotografico Istituto dei Ciechi di Milano-Museo Louis Braille.

4.5 Lezione nel frutteto, Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

4.6 Ricreazione insieme, scuola materna, 2011. In «Sindrome down notizie» n. 1.11, Associazione italiana persone down Onlus.

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4.7 Campagna di Fondazione PubblicitĂ Progresso, a difesa della disabilitĂ , 1977-1978. Agenzia Publinter WPT, Casa di produzione B.R.W. e Erre Tre.

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4.8 Lezione di canto corale, Scuola medico-pedagogica Tortona (AL), anni ‘50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

4.9 Lavoro manuale, Scuola medico-pedagogica Tortona (AL), anni ‘50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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Esercitazione di pittura, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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5 – VERSO IL MONDO DEL LAVORO

Nelle scuole speciali si cerca di superare l’approccio assistenzialistico alla disabilità, insegnando agli studenti dei lavori manuali, attività pensate per contrastare l’inattività ma che spesso non tengono conto delle effettive abilità e inclinazioni. Dagli anni ‘80, anche il diritto all’istruzione superiore sarà riconosciuto; parallelamente la scuola cercherà di dare risposta ai bisogni di inclusione sociale, individuando strategie di transizione dalla scuola al lavoro.

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5.1 Laboratorio di falegnameria, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

5.2 Esercitazione al centralino, Istituto per ciechi, Cagliari, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

5.3 Laboratorio calzaturiero, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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5.4 Laboratori di legatoria, Istituto Nazionale dei Ciechi Vittorio Emanuele II, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

5.5 Uno studente del Liceo Artistico Ripetta di Roma con autismo partecipa a un progetto di alternanza scuola lavoro presso l’Archivio di Stato di Rieti, danneggiato dal terremoto, 2017.

5.6 Lavori con il legno, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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5.7 Lavori di cucito, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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5.8 Economia domestica, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

5.9 Laboratorio di lavorazione della paglia, Istituto Nazionale dei Ciechi Vittorio Emanuele II, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

5.10 Alternanza scuola lavoro in una cucina, Istituto Tecnico Cristoforo Colombo di Porto Viro (Rovigo), 2014.

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Inclusione sociale: includere gli esclusi Fausto Benedetti, INDIRE

«Nel mondo non ci sono mai state due opinioni uguali. Non più di quanto ci siano mai stati due capelli o due grani identici: la qualità più universale è la diversità» M. Montaigne1

L’inclusione sociale non ammette discriminazioni, non ammette emarginati, non ammette ragioni per cui si possa rimanere esclusi. La parola inclusione, di cui oggi si sente spesso parlare, forse non del tutto adeguatamente, rimanda ad un mondo in cui ci si sente accolti, in cui le differenze non rappresentano un ostacolo ma, come sempre dovrebbe accadere un valore aggiunto. Non appartiene, in senso etimologico, al vasto, frastagliato e da più parti aggredito panorama della diversa abilità, ma a tutti e a ciascuno in un ottica di civiltà, di cittadinanza piena e condivisa. Questo universo sociale possiede una sorta di disegno collettivo a cui ciascuno aggiunge il proprio apporto diverso arricchendolo. La Storia ha definito, bizzarramente, un percorso, insieme antropologico e culturale, per giungere al tempo in cui oggi è possibile parlare di inclusione sociale in una cronologia che ha visto un’evoluzione e, insieme, una progressione che ha percorso la strada dell’esclusione e poi dell’inserimento, fino a giungere al concetto più ampio di integrazione e da questa all’inclusione. 1 M. De Montaigne, Saggi, F. Garavini (cur.), Giunti, 2012.

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Quella dell’inclusione sociale è però chiaramente una sfida di non facile e scontata realizzazione dal momento che ciascun tipo di diversità, in una dimensione poliedrica e caratteristica, presenta specifiche difficoltà e che per ognuna occorrerebbe una soluzione puntuale ed incidentale. Istruzione, lavoro, salute, antropologia, socialità queste sono le rappresentazioni di cui un individuo necessita per vivere serenamente ‘dentro’ la società, per sentirsene parte attiva, per percepirsi come ‘incluso’, come soggetto e cittadino. Quando però alcune di queste condizioni vengono a mancare l’individuo può trovarsi nell’impossibilità o nell’incapacità di accedere ad alcuni ambiti sociali o a partecipare a determinate attività. Questa partecipazione non riuscita e infelice alla vita sociale è la condizione di coloro che possiamo definire gli ‘esclusi’. Sono tante le situazioni di deprivazione e di disagio che possono essere causa di esclusione sociale, ma, qui, forse in modo divergente ma non dissonante rispetto allo spirito di questa iniziativa, ho pensato che fosse opportuno concentrarmi solo su alcune di esse: la povertà, l’immigrazione e la disabilità. Si tratta di tre grandi categorie sociali, antropologiche e socio affettive che hanno generato nella tempo e nella Storia un numero smisurato di ‘esclusi’. Essi meritano un osservazione più approfondita.

Gli esclusi e la povertà In tutte le epoche e in tutti i gruppi sociali il fenomeno della povertà è sempre stato presente. Tutte le regioni, anche quelle storicamente più floride e prospere hanno conosciuto quella condizione per cui «singole persone o collettività umane nel loro complesso si trovano ad avere per ragioni di ordine economico, un limitato (o del tutto mancante nel caso della condizione di miseria) accesso a beni essenziali e primari, ovvero a beni e servizi sociali d’importanza vitale»2. 2 Povertà, voce in Wikipedia, (25 febbraio 2018).

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Condizione di povertà e tessuto sociale in cui si vive sono e restano strettamente correlati, in quanto possono dar luogo a situazioni di emarginazione. Questo tipo di situazioni ha fatto parte della vita delle diverse società nel corso del tempo influenzandone talvolta le dinamiche. In un rapporto Istat del 2009 il termine povertà viene definito come «un ampia serie di situazioni anche molto diverse tra loro. Povero è il senza dimora, colui che privo di mezzi di sostentamento, si affida alla carità del prossimo per sopravvivere; povero è chi con una pensione minima non riesce a soddisfare i propri pur limitati bisogni. Povero è colui che non riesce ad acquisire beni e servizi normalmente disponibili per gli individui appartenenti al suo contesto di riferimento»3. La povertà in sostanza mette l’individuo in una situazione di vulnerabilità e quindi di emarginazione. Il concetto di vulnerabilità lo troviamo espresso nelle riflessioni del sociologo Robert Castel che si è dedicato all’analisi critica dei cambiamenti della società al fine di favorire un’azione pratica che potesse rappresentare una ‘cura’ alla povertà e all’emarginazione sociale. Castel definisce ‘individuo’ una persona che dispone di supporti, che può fare dei progetti sulla propria vita essendone così a tutti gli effetti ‘proprietario’. Essere proprietari della propria vita significa aver creato e mantenuto intorno a sé delle basi economiche e relazionali che garantiscono alla persona la possibilità di disporre di protezione e di avere accesso a dei diritti. La condizione di individuo per Castel non è data ma conquistata e non è immutabile poiché è possibile perdere i propri supporti. Un supporto importante per Castel è dato dalla proprietà privata, con la perdita di questa si mette a rischio la condizione di individuo. Castel parla infatti di ‘povertà di massa’ riferendosi al fenomeno scaturito con l’industrializzazione e urbanizzazione del 1800. Con l’industrializzazione in effetti la povertà comincia ad essere avvertita come condizione sociale. In Italia l’industrializzazione vera e propria, con l’avvento della classe operaia, la vediamo nascere nell’ultimo ventennio 3 ISTAT, La misura della povertà assoluta, ISTAT – servizio di produzione editoriale, Roma, 2009.

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dell’Ottocento. Prima di allora lo scenario dell’Italia post-unitaria mostrava una povertà diffusa, soprattutto nelle campagne, che portava con sé analfabetismo e malattie. Ma le grandi masse di operai che lasciarono le campagne per andare nelle città industriali non trovarono la ‘terra promessa’ che speravano; almeno la gran parte di loro non la trovò. I salari erano bassi e le famiglie contavano anche sui guadagni della prole per andare avanti. Erano ‘deboli’, ‘vulnerabili’. Trattandosi però di una condizione di massa comincia a farsi strada un sistema di diritti e protezione legato al lavoratore salariato, colui cioè che era proprietario della propria forza lavoro e la utilizzava come fonte di sostentamento. La figura che emerge ora come povero/escluso è quella del disoccupato che senza salario e fonte di sostentamento vive un disagio psicologico e sociale. La ‘società salariale’, utilizzando le immagini di Castel, è quella in cui in un certo senso ci troviamo ancora, sebbene con una notevole crescita economica, un’importante redistribuzione della ricchezza e un crescente individualismo; ma l’appartenenza degli individui ad una società collettiva, che garantisce protezione e sicurezza fin quando uno ne rimane all’interno, ha mantenuto alcune caratteristiche costanti. La povertà dunque è legata a doppio filo al concetto di inclusione poiché è una delle maggiori cause di esclusione sociale. Castel Individua il lavoro e le relazioni sociali come i due indicatori di quella che noi definiamo inclusione sociale e tre aree che ne rappresentano il grado. Nella prima area – ‘area dell’integrazione’4 - l’individuo ha sia un lavoro che delle relazioni ed è pienamente integrato nella società. Nella seconda area – ‘area della vulnerabilità’5 - all’individuo viene a mancare uno dei due indicatori ma ha ancora l’altro e può tornare più facilmente nell’area dell’integrazione; la situazione qui è però instabile e rischia di trascinare la persona nella terza area – ‘area della desafiliation’6 - in cui non ha più né lavoro né relazioni perdendo così - per Castel - perfino la dignità di individuo. Il servizio sociale per Castel dovrebbe concentrarsi sui ‘vulnerabili’ In modo 4 R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Torino, Einaudi, 2011. 5 Ivi. 6 Ivi.

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tale da consentire loro una completa integrazione nella società e arginare così il fenomeno della ‘desafiliation’.

Gli esclusi e l’immigrazione «Quando scoppia una catastrofe, i vicini, sconvolti, si dimostrano soccorrevoli. Tale è l’effetto di gravi catastrofi. Sembra che gli uomini sappiano che le catastrofi non durano a lungo. Le catastrofi croniche, invece, sono così mal sopportate che a poco a poco sia di esse sia delle loro vittime non importa più niente a nessuno, quando addirittura non sono vissute come qualcosa di molesto»7. Joseph Roth le definisce come catastrofi croniche per sottolineare le condizioni drammatiche di chi decide di migrare o è costretto a farlo. Allo stesso tempo sottolinea l’indifferenza e il fastidio dei residenti nei luoghi d’arrivo, degli integrati nella comunità sociale e attiva di un paese. In realtà le migrazioni sono, non una catastrofe, ma un fenomeno cronico che ha però sempre generato situazioni di emarginazione ed esclusione sociale. L’Italia in verità dal momento in cui si è costituita come paese unito è stata sempre luogo di una realtà di emigrazione più che paese oggetto di immigrazione. Le persone tendevano a partire più che ad arrivare. La limitata presenza di stranieri nell’Italia post unitaria non aveva reso necessaria la creazione di norme specifiche; gli stranieri sottostavano alle medesime leggi degli italiani se non per l’eventuale espulsione in caso di reati e di respingimento al confine in caso di mancanza di documenti validi. Con l’avvento del regime fascista chiaramente la situazione cambia, portando un giro di vite sul controllo degli stranieri che avevano ormai bisogno di visto e permesso di soggiorno. A partire dal 1938 poi cominciano ad essere applicate le ‘leggi razziali’ che colpiscono, come obiettivo privilegiato, gli ebrei ma che ovviamente ricadono pesantemente sugli stranieri, se non si vuole poi parlare degli stranieri ebrei. Finita la guerra la discriminazione è arginata dai diritti umani sanciti con la Costituzione ma il fenomeno dell’immigrazione è ancora molto limita7 J. Roth, Ebrei erranti, Milano, Adelphi, 1985.

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to e non rende necessaria una legiferazione organica sul tema. L’Italia è ancora un paese di emigranti e lo rimane fino agli anni ‘60-’70 quando la rotta comincia ad invertirsi. Inizia così a crescere il fenomeno dell’immigrazione in maniera massiccia e a livello normativo comincia ad essere creata una legiferazione dedicata che non sempre però viene ben strutturata e applicata e che non riesce ad evitare l’insorgere di episodi di discriminazione e razzismo. Le differenze culturali, religiose, etniche creano diversità e questa diversità crea in qualche modo un problema che nasce dalla paura. Il confronto con l’altro può infatti minare alcune certezze o dei valori assoluti che un individuo costruisce vivendo in un determinato luogo con una propria religione, proprie idee, proprio modo di agire governato dalla propria cultura. Il diverso può mettere in discussione, con la sua sola presenza, questi valori, queste verità (talvolta sentite come assolute) generando così sentimenti di paura e rifiuto. L’immagine che gli abitanti di un paese meta di migrazioni hanno nei confronti di chi arriva non è diffusamente positiva, al contrario la diffidenza, la paura di perdere qualcosa di proprio, di vedere il proprio spazio invaso, che il migrante non si adegua alle regole e alla cultura che trova. Attratto dall’analisi di società con una grossa componente multiculturale, il filosofo-storico-sociologo tedesco Jurgen Habermas che giunge ad una meravigliosa definizione di inclusione nel testo L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica in cui raccoglie una serie di contributi atti a far emergere il concetto di diversità come valore universale e transculturale. «L’eguale rispetto per chiunque non concerne chi è simile a noi, bensì la persona dell’altro (degli altri) nella sua specifica diversità. E la responsabilità solidale per un altro visto come uno di noi si riferisce in realtà al ‘noi’ flessibile di una comunità che - riluttante verso ogni forma di sostanzialità - estende sempre ‘più in là’ i suoi porosi confini. Questa comunità morale può fondarsi soltanto sull’idea negativa di eliminare discriminazione o sofferenza e di includere gli emarginati (ogni emarginato) nell’ambito del reciproco rispetto. Questa comunità - concepita in termini costruttivi - non rappresenta affatto un collettivo in cui gli appartenenti in uniforme debbano esaltare quanto è loro specificamente proprio. Inclusione qui non

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significa accaparramento assimilatorio ne chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche - e soprattutto - a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere»8. Per Habermas dunque l’integrazione sociale passa per l’accettazione di una società differenziata, il rapporto con l’altro deve partire da questa pluralità e scardinarsi dal concetto di Stato-Nazione che lega un luogo ad un popolo facendo proprio il concetto di uguaglianza ed includendo la diversità e dunque ‘l’altro’. Diversa è dunque questa visione rispetto all’enciclopedico concetto di integrazione sociale intesa come «una delle funzioni fondamentali svolte dal processo di socializzazione che consiste in particolare nella formazione della personalità sociale dell’individuo, attraverso la trasmissione dei modelli culturali e di comportamento, cui provvedono la famiglia, la scuola e in genere i gruppi cosiddetti primari […]L’integrazione comporta l’accettazione di una piattaforma di valori […]»9. Due visioni diverse l’una include il diverso accogliendone le influenze e accettandone l’alterità, l’altra assimila lo straniero trasmettendogli i propri modelli e la propria cultura. In un senso o nell’altro queste due visioni mirano a non tenere fuori, a non emarginare a limitare sempre il dilagante fenomeno per cui l’immigrazione sia causa di esclusione sociale.

Gli esclusi e la disabilità La terza grande causa di esclusione sociale è rappresentata dalla diversità intesa in senso fisico e intellettivo, ovvero la disabilità. In Italia diversi milioni di persone sono colpite da forme gravi o lievi di disabilità. Qualcuno ci nasce, qualcuno va incontro a questa condizione nel corso della vita. Diversamente dalla vulnerabilità prodotta dalla povertà questa è una condizione da cui non si può uscire e caratterizza totalmente la vita di un individuo. 8 J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, trad. a cura di L. Cippa, Milano, Feltrinelli, 1998. 9 Integrazione, voce in Enciclopedia Treccani.

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L’handicap incide sull’identità di chi ne è portatore e sulle sue relazioni sociali. È una condizione estremamente esposta a rischio di esclusione. Sì perché da sempre le diverse società che hanno abitato i nostri territori nel corso dei secoli hanno guardato all’handicap come qualcosa di negativo da estirpare, nascondere, ridicolizzare. È da questo antico, sofferto perché difficile e protratto sentimento, nonché da una profonda e recondita paura dell’handicap, che nasce quel rifiuto da parte della gente che è cagione di molte forme di discriminazione. Ancora una volta a condizionare la percezione è la paura del diverso, il timore di mettere in discussione le proprie certezze, il desiderio di allontanare da sè l’idea della possibilità di incorrere nella disabilità, di avere qualcosa o qualcuno nei nostri pressi che versi in quella condizione e con cui sia necessario confrontarsi diuturnamente. Infatti scrive per noi l’autrice inglese Jenny Morris, «sono la paura e il rifiuto della debolezza della vulnerabilità, della mortalità e l’arbitrarietà dell’esperienza umana che ci trattiene dal confrontarci con alcune realtà. La paura e il rifiuto richiedono l’isolamento di quelli che sono disabili, malati o vecchi come ‘altri, come ‘non come noi’»10. E lo sguardo dell’altro, del ‘normale’ è ciò che esclude di più. Vedere riflesso negli occhi degli altri il proprio limite, la propria disabilità, rappresenta ciò che rende più dolorosa e grande la frattura, ciò che impedisce più degli ostacoli reali e fisici, una piena integrazione poiché dà l’aberrata impressione, la sensazione definitiva e orribile, di perdere la dignità di individuo. Il sociologo americano Erving Goffman invece parla di etichette, di ‘stigma’ nell’analizzare le relazioni con i disabili. «Noi normali sviluppiamo certe concezioni, non sappiamo se oggettivamente fondate o no, riguardo alla sfera di vita in cui un particolare ‘stigma’ squalifica subito una persona». L’individuo nell’ incontro con la diversità opera un etichettatura, inquadra chi gli sta di fronte con uno stigma creando così una frattura. «Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteri10 J. Morris, Pride against prejudice. Transforming attitudes to disability, Philadelphia, New Society, 1991.

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stica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro […]. Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana»11. Lo stigma è quindi un giudizio a priori, che kantianamente e ovvio e non deriva dall’esperienza il quale viene attribuito all’individuo diverso in base alle caratteristiche. Si tratta di un fardello che la personalità porta con sé nelle relazioni sociali. La storia stessa ha stigmatizzato la disabilità nei modi più vari è più crudeli: da esseri subumani destinati all’emarginazione e all’abbandono a persone sofferenti meritevoli di pietà e carità, a poveri deboli, a fenomeni da baraccone con buffe anomalie, come i freaks nel capolavoro di Tod Browning. Nel corso del tempo della Storia, comunque, non sono mancati esempi positivi; si pensi alle protesi egizie, alla sedia con le ruote della Cina del Cinquecento, allo sviluppo di materiali educativi per sordomuti e ciechi, sviluppati tra il Cinquecento e il Settecento e, infine, all’attenzione ottocentesca per le disabilità intellettive. Un momento di maggior cambiamento nell’approccio alla disabilità, pero, lo abbiamo nel Novecento quando le vittime di infortuni sul lavoro e i mutilati di guerra vanno ad incrementare consistentemente il numero di disabili. Si inizia a dare valore alla previdenza sociale e a prendere provvedimenti per l’inserimento o il reinserimento nel mondo. La diffusione delle idee sulla genetica della Germania nazista apre tuttavia la strada a scenari aberranti che vanno ad esaurirsi con la fine della guerra. In Italia, nella seconda metà del Novecento, a partire dall’entrata in vigore della Costituzione e soprattutto poi dagli anni ‘60 e ‘70 il quadro cambia e si gettano le basi di uno Stato Sociale che aspira all’assistenza e all’inclusione. Già con la Costituzione i cittadini inabili hanno diritto all’educazione e all’avviamento ma per il diritto al lavoro degli invalidi civili si deve attendere fino al 1957. 11 E. Gofmann, Stigma. L’identità negata, trad. a cura di R. Gianmarco, Ombre corte, 2003.

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Con la Legge 118 del 1971 (Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili) la condizione di invalido viene inquadrata in maniera più organica dal punto di vista giuridico. Questa legge definisce infatti il termine di ‘invalido civile’ ed assicura alle persone che rientrano in questa categoria assistenza sanitaria e, laddove accertata la totale inabilità al lavoro, una pensione. Stabilisce inoltre che gli invalidi minorenni frequentino la scuola dell’obbligo e che le barriere architettoniche che impediscono l’accesso degli invalidi a strutture pubbliche vengano abbattute. Con la Legge 517 del 1977 vengono abolite le classi differenziali e gli studenti disabili inclusi nelle classi assieme ai loro coetanei. La Legge 180/1978 stabilisce poi la chiusura dei manicomi in favore di un’assistenza diversa, più umana ed inclusiva per i disabili intellettivi. La Legge 13/1989 estende l’abbattimento delle barriere architettoniche, già previsto dalla 118, agli edifici privati. Importantissimi passi questi ultimi che trovano ampliamento e riorganizzazione organica nella legge 104 del 1992 che inquadra sotto una nuova luce il concetto di disabilità restituendo alla persona «il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia”12 e promuovendone “la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società»13. L’applicazione di questa legge, poi aggiornata e perfezionata, richiederà tempo e non troverà sempre strade in discesa ma le basi per superare gli ostacoli posti dalla disabilità, predisponendo tra l’altro «interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale»14, sono state poste.

Esclusi tra i banchi Le tipologie generali che abbiamo proposto non rappresentano la totalità delle cause di esclusione sociale. Tuttavia possono raccogliere una buona parte degli individui che si trovano ad essere vittime di quel fenomeno individuale e collettivo definito 12 Legge 104/92, in «Gazzetta Ufficiale», 17 febbraio 1992, n. 39 , suppl. ordinario n. 30. 13 Ivi. 14 Ivi.

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come discriminazione. La scuola è come una rappresentazione in cui i fenomeni sociali come in una lente si verificano in scala, in piccolo, anche se talvolta in maniera egualmente crudele. Per le ragioni approfondite in precedenza, povertà e disabilità hanno storicamente un forte rapporto con l’istruzione, idea inaccessibile per tanto tempo e poi veicolo di innalzamento e inserimento sociale. Fino all’introduzione della Legge Casati (1859), per esempio, difficilmente un bambino povero poteva accedere anche alle forme più basilari di scolarizzazione o anche semplicemente di alfabetizzazione. Questo primo ordinamento organico del sistema scolastico, che rende i primi due anni di scuola elementare obbligatoria e gratuita per tutti, dà inizio ad un percorso lungo di alfabetizzazione e scolarizzazione delle masse che porta fino ai giorni nostri in cui, sebbene tutti vadano a scuola ed abbiano diritto ad un’istruzione pari ai coetanei più ricchi, non significa che abbiano accesso alle stesse opportunità e che le differenze non rappresentino ancora un importante divario, quantomeno dal punto di vista sociale. Analogo percorso, anche forse più difficile, lo vediamo per i disabili per i quali la prima forma di obbligo scolastico venne introdotta solo nel 1923 e limitatamente a ciechi e sordi. Il sistema di istruzione all’inizio del Novecento prevedeva per gli studenti affetti da disturbi o diversamente abili, la frequenza in classi scolastiche dedicate, le famose ‘classi differenziali’ rimaste in vigore fino alla già citata Legge 517 del 1977 che ne dispone l’abolizione prevedendo l’inserimento degli studenti disabili nelle classi comuni. Diversa è la storia della scolarizzazione degli studenti immigrati in quanto il fenomeno migratorio che vede coinvolto in misura massiccia il nostro paese come meta d’arrivo, è relativamente recente e trova quindi già un sistema di istruzione obbligatorio e gratuito che non ostacola l’accesso all’istruzione degli studenti stranieri. Ciò chiaramente non implica che l’integrazione di questa categoria di studenti sia facile o scontata. Ecco già solo ritornando e soffermandoci sul significato letterale della parola ‘integrazione’ possiamo riscontrarne i limiti ed intravederne è una sorta di possibilità di fallimento. Diversamente dal termine ‘integrazione’, sebbene spesso usati con un valore di sinonimia, quello di ‘inclusione’ sposta il focus verso le differenze,

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verso la valorizzazione di queste. La comunità di studenti (nel caso dell’inclusione scolastica) diventa quindi l’insieme delle differenze di tutti gli alunni. La scuola ha il compito di valorizzare queste differenze offrendo delle possibilità di apprendimento che si adattano e si plasmano in funzione del destinatario. Non più quindi una diversità che cerca, a volte invano, di avvicinarsi alla ‘conclamata’ normalità di una comunità, ma l’unione di tanti individui differenti. I legami che si formano in un tipo di società inclusiva riconoscono e valorizzano la specificità che caratterizza un’identità. Nel concreto delle realtà scolastiche non è sempre facile l’applicazione di questi precetti poiché tutto ciò che ha portato nella storia, come si è visto prima, ad allontanare e a stigmatizzare il diverso si presenta tra i banchi. E allora si assiste ad episodi in cui il ragazzo ‘normale’ etichetta quello povero, disabile, immigrato ma anche omosessuale, introverso o ‘secchione’ e riserva per questi tutta una serie di manifestazioni di disapprovazione finanche a farlo diventare oggetto di scherno degli altri compagni. La reazione è ovviamente una sofferenza del bambino/ragazzo discriminato che tende poi pian piano ad isolarsi. Ciò accade poiché, come diceva Goffman, «crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana»15 o perché è più facile ignorare, ridere della diversità, distaccarsene, non preoccuparsene con una leggera e, a volte, innocente insensibilità. Ma il compito della scuola è educare, è essere il luogo di formazione in cui crescono persone responsabili del proprio peso nella società, persone che così come apprendono le nozioni così imparano ad avere relazioni sociali costruttive. La scuola come comunità educante deve trasmettere il rispetto di tutte le persone e deve insegnare ad accogliere e anzi apprezzare ciò che di diverso si trova nell’altro.

Inclusione scolastica Come abbiamo visto la scuola deve garantire l’inclusione di tutti gli studenti e deve dirigersi verso il riconoscimento della diversità come valore 15 E. Gofmann, Stigma. L’identità negata, trad. a cura di R. Gianmarco, Ombre corte, 2003.

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ricercando modelli didattici flessibili che possano adattarsi alle singole specificità degli alunni. «La nozione di inclusione afferma l’importanza del coinvolgimento di tutti gli alunni nella realizzazione di una scuola realmente accogliente, anche mediante la trasformazione del curricolo e delle strategie organizzative delle scuole, che devono diventare sensibili all’intera gradazione delle diversità presenti fra gli alunni»16. Il percorso dell’inclusione scolastica può considerarsi iniziato con la Legge Casati (1859) accennata prima e proseguiti lungo il tragitto ad ostacoli verso l’acquisizione di diritti da parte degli studenti disabili che poi ha aperto la strada al concetto di valorizzazione delle differenze in senso più ampio. La Costituzione italiana parla di «pari dignità sociale […] Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”17 (art. 3) nonché di una “scuola aperta a tutti. (Art.34)»18. Fino al 1977 tuttavia questi principi di uguaglianza e apertura vengono messi in pratica attraverso percorsi di formazione separati, in classi appunto differenziali. Già nel 1975 con la C.M. 277, il cosiddetto documento Fallucci, si preparano le basi per i passi successivi affermando principi come quello della collegialità, del coinvolgimento delle famiglie, della gestione integrata dei servizi, della formazione dei docenti. È però la Legge 517 del 4 agosto 1977 (cui abbiamo già accennato) a cambiare davvero rotta e a far muovere il paese verso una vera inclusione. Questa legge abolisce infatti le classi differenziali (art. 7) e sancisce il diritto alla frequenza scolastica, in classi comuni, degli studenti disabili con ‘il sostegno’ di un insegnante specializzato. Propone (art. 2) per le scuole elementari «attività scolastiche integrative organizzate per gruppo di alunni della classe oppure per gruppi di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni»19. Sempre il medesimo articolo prosegue: «la 16 In Inclusione: un sogno realizzabile? Cosa succede in Italia? E nel resto dell’Europa?, E.M. Bianchi (cur.), disponibile in <didatticainclusiva.loescher.it> 17 Costituzione italiana. 18 Ivi. 19 Legge 517/7, in «Gazzetta Ufficiale», 8 agosto 1977, n. 224.

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scuola attiva forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps, con la prestazione di insegnanti specializzati»20. Questi assunti modificano di fatto l’assetto organizzativo della scuola italiana. Da questo momento in poi infatti la programmazione comincia a diventare parte integrante del lavoro del docente e gli insegnanti di sostegno parte di un sistema orientato ad interessarsi al singolo. Da una parte dunque programmazione didattica, consigli di classe, schede personali relative agli alunni, valutazioni trimestrali e comunicazioni ai genitori; dall’altra «servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno»21. Aspetti questi che rendono evidente la portata innovativa di questa legge e la sua virata verso l’inclusione. L’insegnante di sostegno viene poi introdotto anche nella scuola dell’infanzia con la legge 270 del 1982, che revisiona la disciplina di reclutamento del personale docente; si legge infatti che «la consistenza complessiva delle dotazioni organiche dei ruoli provinciali della scuola materna è calcolata aggiungendo anche i posti di sostegno da istituire in ragione, di regola, di un posto ogni quattro bambini portatori di handicaps»22. L’anno successivo la Circolare Ministeriale n. 258 fornisce ulteriori indicazioni «in materia di integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap»23 sottolineando l’intesa e il lavoro concertato tra l’Amministrazione Scolastica, gli Enti locali e il Servizio Sanitario Nazionale. A ribadire il diritto all’istruzione e a pari opportunità degli studenti portatori di handicap interviene un’altra Circolare Ministeriale, la n. 250 del 1985. Questa evidenzia «la particolare attenzione ai problemi relativi all’inserimento ed all’integrazione degli alunni portatori di handicap»24 insistendo sul diritto all’apprendimento: «le difficoltà di apprendimento derivanti da situazioni di handicap non possono costituire un ostacolo all’esercizio di tale diritto-dovere; si ribadisce, pertanto, che la scuola deve garantire a ciascun alunno le opportunità di esperienze e le risorse culturali di cui 20 Ivi. 21 Ivi. 22 Legge 20 maggio 1982, n. 270. 23 Circolare Ministeriale 22 settembre 1983, n. 258. 24 Circolare Ministeriale 3 settembre 1985, n. 250.

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ha bisogno»25. Si cerca di mettere inoltre il disabile in condizioni di trovare meno ostacoli possibili anche da un punto di vista fisico/pratico; la legge 41 del 1986, riprendendo il D.P.R. 384 del 1978, mira infatti all’eliminazione delle barriere architettoniche disponendo che tutti i nuovi edifici siano progettati in modo da essere accessibili ai disabili e che «per gli edifici pubblici già esistenti non ancora adeguati alle prescrizioni del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384, dovranno essere adottati da parte delle amministrazioni competenti piani di eliminazione delle barriere architettoniche»26. Da questo momento dunque tutti gli elementi che limitano lo spostamento o l’accesso ai servizi da parte dei disabili diventano fuori norma; tutte le scale, i marciapiedi senza rampe, le porte, gli ascensori e i bagni troppo stretti, devono rientrare nei suddetti piani di eliminazione delle barriere architettoniche. Consentire a tutti la piena vivibilità degli spazi comuni significa rispettare le differenze e le difficoltà dell’altro, considerarle e fare in modo che questi abbia meno ostacoli possibili nel vivere i luoghi come e con tutti gli altri. Ciò vale ancor di più se applicato ad un ambiente come la scuola che ha la responsabilità di formare gli alunni non solo da un punto di vista nozionistico ma anche come persona. Comunicare ad un bambino disabile la piena fruibilità di tutti gli ambienti significa dargli un messaggio di uguaglianza e pari opportunità. In questi anni si è infatti ormai assodata l’importanza della frequentazione da parte degli alunni disabili degli ambienti e della popolazione scolastica. Leggiamo infatti in una sentenza della Corte Costituzionale che «l’inserimento e l’integrazione nella scuola ha fondamentale importanza […]. La partecipazione al processo educativo con insegnanti e compagni normodotati costituisce, infatti, un rilevante fattore di socializzazione e può contribuire in modo decisivo a stimolare le potenzialità dello svantaggio»27. La formazione dell’alunno portatore di handicap all’interno della classe 25 Ivi. 26 Legge 28 febbraio 1986, n. 41. 27 Sentenza Corte Costituzionale 3-8 giugno 1987, n. 215.

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comune raggiunge una tale rilevanza da portare all’emanazione di una Circolare che sottolinea addirittura ‘l’illegittimità’ di «istruire l’alunno facendolo uscire dalla sua classe»28. Gli unici casi in cui la formazione fuori dalla classe è consentita sono quelli già previsti dal «progetto educativo individualizzato» per specifiche attività didattiche. Anche la figura professionale dell’insegnante di sostegno viene via via definita meglio rendendone più chiare competenze e responsabilità, focalizzando di più il suo ruolo in quello di mediatore che, in collaborazione con i docenti della classe, attiva strategie finalizzate a migliorare l’efficacia degli interventi didattico-educativi. Come si è già accennato in precedenza, tutto ciò porta alla costruzione di una legge quadro che diventa punto di riferimento normativo sulle questioni inerenti la disabilità e l’integrazione scolastica e sociale. Tale è appunto la legge 104 del 1992, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate29. Questo quadro normativo si rivolge a tutti coloro che hanno una «minoranza fisica, psichica o sensoriale»30 che possa essere causa ad esempio di uno svantaggio sociale o di una condizione di emarginazione. Si vuole tutelare il disabile su più fronti che vanno dalla prevenzione all’assistenza, dai servizi di terapia e riabilitazione al supporto informativo, psicologico ed economico della famiglia. Chiaramente il diritto all’istruzione rientra, in modo anche rilevante, in questo quadro di tutele che dunque prevede assistenza scolastica, personale qualificato, predisposizione di prove di valutazione adeguate e idonee dotazioni didattiche. Tutte le scuole sono ora tenute a tracciare un profilo dinamico-funzionale dell’alunno disabile in modo da poter individuare e seguire il suo percorso formativo che va programmato in un P.E.I. (Piano Educativo Individualizzato). Devono Inoltre garantire un’assistenza attivata anche attraverso docenti specificamente formati e abilitati all’insegnamento di sostegno. Il diritto allo studio è un aspetto fondamentale su cui si insiste poiché rap28 Circolare Ministeriale 15 giugno 1988, n. 153. 29 Legge 5 febbraio 1992, n. 104. 30 Ivi.

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presenta uno strumento privilegiato di Integrazione sociale dei disabili che è una delle ragioni d’essere di questo quadro normativo. Da questo momento dunque si adotta un approccio rivolto verso l’assistenza e il rispetto dei diritti; lo si comincia a fare attraverso norme precise che concentrano l’attenzione sul singolo individuo e sulle sue specifiche necessità. È tale mutamento nell’approccio la vera chiave di volta dell’inclusione scolastica e in senso più ampio dell’inclusione sociale.

Conclusioni Il percorso intrapreso dalla scuola italiana orientato verso l’inclusione della disabilità apre la strada alle altre forme di inclusione, mostra la via all’apertura della comunità sociale a tutte quelle categorie di persone che per una ragione o per l’altra rischiano di rimanerne escluse. Chiunque è escluso può essere incluso. Nelle scuole l’attenzione alle necessità del singolo alunno avviata per i portatori di handicap si estende a tutti gli alunni della classe mirando ad un apprendimento personalizzato che si basa sul superamento dei limiti e lo sviluppo delle potenzialità del singolo studente. Tutti sono persone speciali e diverse e meritano attenzione e personalizzazione della loro traiettoria. Tanto per dare un’idea degli sviluppi della Legge 104 in campo scolastico, vale la pena fare cenno alla Direttiva 27 dicembre 2012: Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali BES e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica in cui emerge l’esigenza di adeguare il sistema alla «complessa varietà delle nostre classi. […] L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di specialissima attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento oppure disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse»31. 31 MIUR, Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica, 2012.

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Si è rimandato a questa direttiva del MIUR per sottolineare un fatto rilevante: si riconosce oggi l’esistenza di effettivi svantaggi generati da cause diverse e che possono portare a situazioni di discriminazione o esclusione sociale. Si giunge in sostanza all’individuazione e, soprattutto, alla considerazione di categorie ‘vulnerabili’. Queste categorie di persone, siano esse messe in condizioni di svantaggio da situazioni economiche, culturali, linguistiche, fisiche, psichiche devono potersi sentire parte integrante della società. Abbiamo visto essere ciò possibile grazie ad un approccio che valorizza la diversità, uno sguardo incentrato sull’ individuo, sulle sue necessità e sul suo sviluppo in un percorso inclusivo che parte dal sistema scuola ma che si estende e abbraccia tutti gli altri settori tenendo presente l’obiettivo di una vera inclusione sociale.

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Integrazione: la rivoluzione della Legge 517 del 4 agosto 1977 Pierpaolo Infante Referente USR Toscana Inclusione alunni disabili

«La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato […] Data a Roma, addi’ 4 agosto 1977 […] Leone Andreotti–Malfatti-Stammati Visto, il Guardasigilli: Bonifacio»

Così riporta la Gazzetta Ufficiale del 4 agosto 1977 e questi sono i nomi dei firmatari della legge che rivoluzionerà con il tempo la scuola italiana nel suo approccio e nella sua pratica didattica. Rendere onore a una legge per definire la qualità dell’inclusione scolastica in Italia? Proprio questo è l’obiettivo dello studio che ho ritenuto doveroso intraprendere con uno sguardo analitico e riflessivo. Con i ricercatori dell’INDIRE ci siamo incamminati, attraverso le immagini, in un viaggio impregnato di storie fatte di alunni e insegnanti che negli anni hanno costruito i percorsi di inclusione scolastica che oggi conosciamo. Un lavoro enorme e attento specialmente se lo si guarda nella sua interezza prendendo atto di quanto abbia modificato profondamente il senso comune dell’accoglienza e dell’integrazione trasformandolo in una normale prassi educativa. Le sfide che ci attendono sono ancora molte e il lavoro che ci aspetta per migliorare l’inclusione è ancora tanto, ma oggi proviamo a dare una let-

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tura sulla nostra storia passata e presente di cui possiamo solo andare orgogliosi1. La Legge 517/77 definisce ancora oggi una rivoluzione nel sistema educativo del nostro paese e allo stesso tempo rimane in Europa l’unica vera esperienza di integrazione degli alunni disabili nella scuola. L’art. n. 7 della Legge 517/77 definisce il contenuto di questa rivoluzione: «Al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni»2. In questo passaggio si sottolinea l’importanza degli interventi individualizzati come processo che garantisca il diritto di apprendere nel rispetto della la diversità di ciascuno al fine di raggiungere i traguardi formativi comuni: «Nell’ambito della programmazione di cui al precedente comma sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps da realizzare mediante l’utilizzazione dei docenti, di ruolo o incaricati a tempo indeterminato, in servizio nella scuola media e in possesso di particolari titoli di specializzazione, che ne facciano richiesta, entro il limite di una unità per ciascuna classe che accolga alunni portatori di handicaps e nel numero massimo di sei ore settimanali. Le classi che accolgono alunni portatori di handicaps sono costituite con un massimo di 20 alunni». 1 Nel presente documento si propone una lettura degli ultimi dati statici pubblicati sulla situazione in Italia degli alunni con disabilità. I dati rielaborati sono conformi alle pubblicazioni emanate dal MIUR nell’ultimo rapporto del 2015 e dall’ISTAT nel 2016. Lo scopo di tale iniziativa è quello di fornire un quadro organico e sistematico dei suddetti dati al fine di creare uno strumento di facile consultazione. 2 Vedi http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1977-08-18&atto.codiceRedazionale=077U0517&elenco30giorni=false.

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In questa sezione si definisce la figura dell’insegnante di sostegno che ha un ruolo determinante nel processo di integrazione, che si pone come mediatore tra l’allievo disabile e la comunità scolastica con il compito primario di individuare strategie atte alla realizzazione di processi indispensabili per l’apprendimento: «In tali classi devono essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale. Le attività di cui al primo comma del presente articolo si svolgono periodicamente in sostituzione delle normali attività didattiche e fino ad un massimo di 160 ore nel corso dell’anno scolastico con particolare riguardo al tempo iniziale e finale del periodo delle lezioni, secondo un programma di iniziative di integrazione e di sostegno che dovrà essere elaborato dal collegio dei docenti sulla base di criteri generali indicati dal consiglio di istituto e delle proposte dei consigli di classe. Esse sono attuate dai docenti delle classi nell’ambito dell’orario complessivo settimanale degli insegnamenti stabiliti per ciascuna classe. Le attività previste dall’ultimo comma dell’art. n. 3 della Legge 31 dicembre 1962, n. 1859, devono essere coordinate con le iniziative comprese nel programma di cui al precedente quinto comma. Il suddetto programma viene periodicamente verificato e aggiornato dal collegio dei docenti nel corso dell’anno scolastico. I consigli di classe, nelle riunioni periodiche previste dall’ultimo comma dell’art. n. 2 della Legge 31 dicembre 1962, n. 1859, verificano l’andamento complessivo dell’attività didattica nelle classi di loro competenza e propongono gli opportuni adeguamenti del programma di lavoro. Le classi di aggiornamento e le classi differenziali previste dagli articoli 11 e 12 della Legge 31 dicembre 1962, n. 1859, sono abolite». Nell’ultima parte dell’art. n. 7 si definiscono le responsabilità degli enti locali nel sostegno all’inclusione scolastica degli alunni con handicap. Ma è da sottolineare soprattutto come si determinino gli ambiti di azione in rife-

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rimento all’organizzazione scolastica. Infatti si dà mandato diretto agli organi della scuola di proporre «gli opportuni adeguamenti del programma di lavoro» in riferimento all’organizzazione e ai programmi. Ma è nell’ultima frase dell’articolo che si definisce l’apertura della scuola agli alunni con handicap abolendo da questo momento in poi le classi differenziali.

Gli alunni con handicap in Italia Oggi dopo quarant’anni ci ritroviamo nella condizione di un costante aumento della presenza di alunni con disabilità nella scuola italiana. Negli ultimi dati statistici del MIUR l’incidenza degli alunni con disabilità sul totale degli alunni frequentanti le scuole italiane, considerate nel loro complesso, è progressivamente aumentata nel corso dell’ultimo decennio; infatti, nell’anno scolastico 2014-2015 tale percentuale si è attestata intorno al 2,7%, mentre nell’anno scolastico 2004-2005 era pari all’1,9%. Alunni con disabilità e totale alunni: l’andamento negli ultimi 10 anni

8.820.000

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2013/2014

2012/2013

2011/2012

2010/2011

2009/2010

2008/2009

----

2004/2005

8.800.000

8.845.984

8.840.000

2014/2015

8.860.000

8.876.176

8.880.000

8.882.334

8.900.000

8.943.353

8.920.000

8.961.159

8.946.233

8.940.000

8.961.634

8.960.000

8.965.822

Totale alunni

8.980.000


3

Alunni con disabilità

208.524 2010/2011

170.000

167.804

180.000

192.997

190.000

200.462

200.000

2009/2010

228.017

210.000

2016.013

220.000

223.496

230.000

234.788

240.000

2014/2015

2013/2014

2012/2013

2011/2012

2008/2009

----

2004/2005

160.000

3 Alunni con disabilità e totale alunni: l’andamento negli ultimi 10 anni. Rilevazione Integrative” e sono relativi a tutti gli ordini scuola, per l’a.s. 2013-2014 e l’a.s. 2014-2015 sono di fonte Istat - Indagine sull’integrazione degli alunni con disabilità nella scuola primaria e sec. di I grado e sono relativi alla sola scuola primaria e secondaria di I grado. Fonte: MIUR - DGCASIS - Ufficio Statistica e Studi – Rilevazioni sulle Scuole.

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Servizio statistico MIUR L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità a.s. 2014-2015 4

2,57

2,50

2014/2015

2013/2014

2012/2013

2011/2012

2010/2011

2009/2010

2008/2009

2004/2005

1,6

----

1,8

1,89

2,0

2,33

2,16

2,2

2,24

2,4

2,41

2,6

2,65

2,8

Questo incremento verrà poi confermato nel rapporto presentato dalI’ISTAT sugli alunni con handicap nell’anno scolastico 2015-2016: sono circa 156mila gli alunni con disabilità in Italia (il 3,4% del totale degli alunni), di cui più di 88mila nella scuola primaria (pari al 3,1% del totale degli alunni, erano il 2,1% nell’anno scolastico 2001-2002) e circa 68mila nella scuola secondaria di primo grado (il 3,9% del totale, 2,6% nel 20012002). La percentuale più elevata si riscontra in Abruzzo e in Sicilia per la primaria (3,6%) e ancora in Abruzzo per la secondaria di primo grado (4,8%), mentre la percentuale minore si registra in Basilicata (il 2,3% degli alunni della scuola primaria e 2,7% di quelli della scuola secondaria di primo grado). I maschi rappresentano più del 65% degli alunni con disabilità in entrambi gli ordini scolastici: 217 maschi ogni 100 femmine nella scuola primaria e 188 maschi ogni 100 femmine in quella secondaria di primo grado. 4 Servizio statistico MIUR, L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità a.s.20142015, in http://www.istruzione.it/allegati/2015/L’integrazione_scolastica_degli_alunni_ con_disabilità_as_2014_2015.pdf

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L’età media si attesta a 8,7 anni nella scuola primaria ed è pari a 12,5 anni per quelli che frequentano la scuola secondaria di primo grado, non evidenziando differenze territoriali apprezzabili rispetto al valore medio nazionale. Il dato sull’età media risente di una maggiore permanenza nella scuola oltre l’età prevista5. Di seguito si riportano i dati del MIUR con dettaglio regionale che evidenziano una distribuzione disomogenea per totale alunni per regione nell’a.s. 2014-2015. Servizio statistico MIUR. Suddivisione regionale

2,9

2,7

2,8

Silicia

ITALIA

2,2

Sardegna

2,1

Calabria

2,6 Puglia

Basilicata

2,5 Campania

3,5 Molise

2,8 Abruzzo

2,9

3,5

2,8 Umbria

Marche

Lazio

2,6 Toscana

3,2

2,8

Liguria

Emilia Rom.

2,3 Fiuli V.G.

2,6 Veneto

3,1

2014/2015

2015/2016

2013/2014

2011/2012

2012/2013

2010/2011

2009/2010

2008/2009

2006/2007

2007/2008

2005/2006

2004/2005

2003/2004

2001/2002

2000/2001

1999/2000

1997/1998

1998/1999

1996/1997

1995/1996

1994/1995

1993/1994

1991/1992

1992/1993

1990/1991

1,7 1,9 1,8 2,0 1,8 2,1 1,8 2,2 1,8 2,2 1,8 2,3 1,8 2,3 1,8 2,3 1,8 2,4 1,9 2,4 1,9 2,5 2,0 2,5 2,1 2,6 2,3 2,8 2,4 2,9 2,4 3,1 2,5 3,3 2,5 3,2 2,5 3,3 2,6 3,3 2,8 3,4 2,9 3,5 3,0 3,7 3,0 1,9 3,1 3,8 3,2 3,9

7

1989/1990

4,0 3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0

Lombardia

2,7

6

Piemonte

4,0 3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0

5 Report ISTAT, in https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili, p. 2. 6 MIUR - DGCASIS - Ufficio Statistica e Studi - Rilevazioni sulle scuole. http://www.istruzione.it/allegati/2015/L’integrazione_scolastica_degli_alunni_con_disabilit%C3%A0_ as_2014_2015.pdf. 7 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Percentuale di alunni con disabilità sul totale degli alunni per ordine scolastico e anno scolastico. Tabella n. 1.

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Alunni con disabilità per ordine scolastico In relazione al genere: i maschi rappresentano più del 65% degli alunni con disabilità in entrambi gli ordini scolastici: 217 maschi ogni 100 femmine nella scuola primaria e 188 maschi ogni 100 femmine in quella secondaria di primo grado.

Scuola primaria

Scuola secondaria di I grado

Femmine Maschi

Femmine Maschi

8

Alunni con disabilità per ordine scolastico e sesso A conferma di quanto già rilevato negli anni precedenti, la tipologia del problema più frequente, in tutte le ripartizioni territoriali, è quella legata alla disabilità intellettiva, che riguarda il 42,5% della popolazione con disabilità nella scuola primaria e il 50,3% di quella della scuola secondaria di I grado. Nella scuola primaria tale problema è seguito dai disturbi dello sviluppo e del linguaggio che riguardano rispettivamente il 24,9% e il 21,8% degli alunni con disabilità. Nella scuola secondaria di primo grado, dopo la disabilità intellettiva i problemi più frequenti sono legati ai disturbi dell’apprendimento e ai disturbi dello sviluppo che riguardano, rispettivamente, 8 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per ordine scolastico e sesso. A.s. 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 2.

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il 22,1% e il 21,4% degli alunni con disabilità. Gli alunni multiproblematici rappresentano in media il 45% del totale degli alunni con disabilità con piccole variazioni tra le ripartizioni territoriali: il 25% presenta due problemi e il restante 20% ha tre o più problemi9.

Le diverse disabilità Risulta evidente dalla rielaborazione dei dati ISTAT che gli alunni con disabilità intellettiva rappresentano il 25% degli alunni affetti da disabilità. Alla luce di questi dati risulta necessario approfondire il significato di disabilità intellettiva e analizzare le diverse gravità di compromissione sulla popolazione scolastica. Alunni con disabilità per tipologia di problema, ripartizione e ordine scolastico 60,0

Scuola primaria Nord

50,0

Scuola primaria Centro

40,0

Scuola primaria Mezzogiorno Scuola primaria Italia

30,0

Scuola secondaria di I grado Nord

20,0

Scuola secondaria di I grado Centro

10,0

Scuola secondaria di I grado Mezzogiorno Scuola secondaria di I grado Italia Affettivo relazionale

Altro tipo di disabilità

Attenzione e comportamentali

Sviluppo

Disabilità Intellettiva

Linguaggio

Motoria

Apprendimento

Ipocusia

Sordità profonda o grave

Cecità

9

Ipovisione

0,0

10

Report ISTAT, in https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili, p. 4.

10 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per tipologia di problema, ripartizione e ordine scolastico. Anno scolastico 20152016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 6.

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Il ritardo mentale11 (disabilità intellettiva) è un disturbo con esordio in età evolutiva e comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici. Il funzionamento intellettivo si riferisce alle capacità mentali generali, come il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dall’esperienza. Il ritardo intellettivo può essere diviso in macro aree: lieve, moderato, grave ed estremo. Nel ritardo mentale lieve, di cui è affetto circa l’83-85% dei bambini, si sviluppano capacità sociali e comunicative negli anni prescolastici e si evidenzia una compromissione minima nelle aree senso-motorie; spesso questi bambini non sono distinguibili da quelli senza disabilità fino all’ingresso nella scuola primaria. Nel ritardo mentale moderato, di cui è affetto circa il 10-14% dei disabili intellettivi, si acquisiscono, per la maggior parte dei casi, il linguaggio e le abilità prescolastiche molto lentamente. Il ritardo intellettivo grave coinvolge il 3-4% dei soggetti che presenta una difficoltà nella comprensione del linguaggio e che mostra comportamenti inadeguati alle situazioni sociali. La disabilità intellettiva di grado profondo coinvolge circa l’1-2% dei soggetti che manifestano una difficile comprensione delle gestualità e dell’eloquio con comportamenti disadattivi nei confronti degli ambienti che li circondano.

La distribuzione sul territorio delle certificazioni Dalla rielaborazione grafica si evince senza ombra di dubbio che sul territorio italiano la maggior parte degli alunni disabili presentano «solo certificazione di disabilità» per le scuole primaria dell’86.4 e per la scuola secondaria dell’85.5 e questa non è associata alla «certificazione di invalidità». La certificazione di disabilità è il presupposto per l’attribuzione all’alunno con handicap delle misure di sostegno e di integrazione. Il Decreto del Pre11 Vedi http://studicognitivi.it/disturbo/ritardo-mentale-o-disabilita-intellettiva/.

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sidente del Consiglio dei Ministri 23/02/2006 n. 185 Regolamento recante modalità e criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’art. n. 35, comma 7, della Legge 27 dicembre 2002, n. 289, all’art. n. 1 individua per la certificazione dell’alunno con disabilità un «organismo collegiale» appartenente al Servizio Sanitario Nazionale. Da sottolineare inoltre l’art. n. 2 del D.P.C.M. in questione, ove si prescrive che le diagnosi funzionali siano realizzate secondo le classificazioni internazionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che, tra l’altro, devono indicare l’eventuale particolare gravità della patologia12. 120,0

Solo certificazione di disabilità

100,0

Solo certificazione di invalidità

80,0

Entrambe le certificazioni

60,0

Nessuna certificazione Non indicato

40,0

Totale

20,0

Italia

Mezzogiorno

Centro

Nord

Italia

Scuola secondaria di I grado

Mezzogiorno

Centro

Nord

Primaria

0,0

13

Alunni con disabilità per tipologia di certificazione L’alunno con disabilità è assegnato alla classe comune in cui si realizza il processo di integrazione. Pertanto la presa in carico e la responsabilità educativa dell’alunno con disabilità spettano a tutto il consiglio di classe, di cui fa parte il docente per le attività di sostegno. Non a caso, il D.P.R. 12 MIUR: Alunni con disabilità. http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/famiglie/alunni_disabili. 13 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per tipologia di certificazione, ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Vedi tabella n. 7.

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970/1975 con cui è stata istituita giuridicamente tale figura professionale (poi meglio caratterizzata nella Legge 517/77) lo definisce un insegnante «specialista», dunque fornito di formazione specifica, che, insieme ai docenti curricolari, sulla base del Piano Educativo Individualizzato, definisce le modalità di integrazione dei singoli alunni con disabilità, partecipandovi attivamente. L’insegnante per le attività di sostegno viene richiesto all’Ufficio Scolastico Regionale dal Dirigente Scolastico sulla base delle iscrizioni degli alunni con disabilità; la quantificazione delle ore per ogni alunno viene individuata tenendo conto della Diagnosi Funzionale, del Profilo Dinamico Funzionale e del conseguente Piano Educativo Individualizzato, di cui alla Legge 104/92, e dei vincoli di legge vigenti. L’art. n. 40 della Legge 449/1997 prevedeva l’attivazione di un posto in organico per il sostegno ogni 138 alunni frequentanti le scuole pubbliche della Provincia. La L. 296/2006 e la L. 244/2007 (Finanziaria 2008) hanno abrogato il predetto criterio per la formazione dell’organico di diritto dei posti di sostegno, individuando un nuovo parametro che, a livello nazionale, non può superare il rapporto medio di un insegnante ogni due alunni con disabilità. L’art. n. 2 del D.P.R. 122/2009, Regolamento per il coordinamento delle norme sulla valutazione degli alunni, prevede che i docenti di sostegno, contitolari della classe, partecipino alla valutazione di tutti gli alunni. Inoltre, qualora un alunno con disabilità sia affidato a più docenti del sostegno, essi si esprimono con un unico voto14.

L’insegnante di sostegno in rapporto con gli alunni Rimane in assoluto agli insegnanti di sostegno la funzione di mediatore didattico. L’insegnante di sostegno non è soltanto l’insegnante dell’alunno disabile bensì un docente di sostegno all’intera classe, che ha il compito di favorire l’apprendimento e creare occasioni didattiche, formative e relazionali, mirate a realizzare il processo di integrazione in piena contitolarità con gli insegnanti curricolari.

14 MIUR: Organico dei docenti per le attività di sostegno. http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/famiglie/alunni_disabili

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Alunni con disabilità per ordine scolastico, tipo di attività prevalente svolta dall’insegnante di sostegno

SCUOLA PRIMARIA

Altro tipo di attività

Attività di mediazione

Attività assistenziale

Attività didattica

Altro tipo di attività

Attività di mediazione

Attività assistenziale

90,0 80,0 70,0 60,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0 Attività didattica

15

SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO

Nord

78,1

3,0

17,4

1,5

83,0

3,6

12,2

1,2

Centro

79,9

4,0

15,2

0,9

81,3

3,1

14,5

1,1

Mezzagiorno

83,9

1,2

13,5

1,4

83,2

3,0

13,1

0,6

Italia

80,6

2,5

15,6

1,4

82,8

3,3

12,9

1,0

L’intero complesso normativo in materia di handicap ribadisce con chiarezza, a partire dagli anni ‘80, la responsabilità collegiale del progetto educativo per il disabile e la Legge-quadro sull’handicap stabilisce che «gli insegnanti di sostegno assumono la contitolarità […] delle classi in cui operano, partecipano alla programmazione educativa e didattica e all’elaborazione e verifica delle attività di competenza dei consigli di interclasse e di classe e dei collegi dei docenti»16. 15 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per ordine scolastico, tipo di attività prevalente svolta dall’insegnante di sostegno e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 10. 16 Trisciuzzi L., Manuale di didattica per l handicap, Bari, Laterza, 2005, p. 253.

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Alunni con disabilità in rapporto ai posti di sostegno

2,09

2,10

Liguria

2,07

Veneto

2,06 Marche

2,05 Abruzzo

Lombardia

2,05 E. Romagna

1,99

1,95 F.V.Giulia

1,87 Lazio

1,92

1,86

1,73

Piemonte

1,70 Sicilia

1,65

Sardegna

1,63 Puglia

1,56

1,49

1,3

1,38

1,6

Basilicata

1,9

Umbria

2,2

Toscana

Calabria

Campania

Molise

1,0

17

La normativa prevede la condivisione del progetto didattico ed educativo del singolo alunno con le famiglie degli studenti. Tale condivisione è importante perché la famiglia non solo fornisce informazioni preziose, ma garantisce la continuità fra educazione formale e il percorso al di fuori dell’ambiente scolastico. La maggior parte delle famiglie incontra gli insegnanti curricolari, al di fuori degli incontri del Gruppo di Lavoro sull’Handicap (GLH) d’Istituto, meno di una volta al mese (40,4% nella scuola primaria, 48,0% nella scuola secondaria di primo grado); più di un terzo delle famiglie (38,1% nella scuola primaria, 33,8% nella scuola secondaria di primo grado) ha un colloquio al mese. Nelle scuole primarie i colloqui più frequenti tra familiari e insegnanti (più di una volta al mese) si registrano solo per il 16,2% delle famiglie, mentre nelle scuole secondarie la percentuale scende al 12,5%. Infine si rileva una quota di famiglie che non hanno colloqui con gli insegnanti curricolari oltre a quelli dei GLH: tale circostanza si verifica per il 5,2% delle famiglie nella scuola primaria e per il 5,6% in quelle della scuola secondaria di primo grado. Nelle regioni del Mezzogiorno la collaborazione tra famiglie e insegnanti curricolari è più frequente rispetto alle altre aree del Paese: la quota di famiglie che ha almeno un 17 MIUR. Sono inclusi gli spezzoni orari. Fonte: MIUR - DGCASIS - Organico di Fatto. Alunni con disabilità in rapporto ai posti di sostegno - a.s. 2014-2015. http://www.istruzione.it/allegati/2015/L’integrazione_scolastica_degli_alunni_con_disabilit%C3%A0_as_2014_2015.pdf.

108

apice libri 09.03.2018


colloquio con gli insegnanti nel corso del mese si attesta al 62,2% contro il 51,9% del Nord e il 45,4% del Centro. La stessa circostanza si registra nelle scuole secondarie di primo grado, dove il 58,2% delle famiglie del Mezzogiorno ha almeno un incontro al mese con gli insegnanti, contro circa il 42,4% del Centro e il 38,5% del Nord18. Numero medio di ore settimanali di sostegno per alunno Italia Mezzogiorno Centro Nord 0,0

19

2,0

4,0

6,0

8,0

10,0

12,0

14,0

16,0

Nord

Centro

Mezzogiorno

Italia

Scuola secondaria di I grado

10,1

11,7

13,2

11,5

Scuola primaria

12,5

14,8

16,1

14,2

18,0

Nonostante le ore erogate dagli uffici competenti si segnala anche la percentuale in ricorsi per il riconoscimento dell’aumento delle ore di sostegno.

18 Vedi report in https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili, pp. 8-9. 19 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Numero medio di ore settimanali di sostegno per alunno per ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2014-2015. Tabella n. 9.

apice libri 09.03.2018

109


Alunni con disabilità per presentazione del ricorso al fine di ottenere un aumento delle ore di sostegno 120,0

Si

100,0

No

80,0

Non so

60,0

Non indicato Totale

40,0 20,0

Italia

Mezzogiorno

Centro

Nord

Scuola secondaria di I grado

Italia

Mezzogiorno

Centro

Nord

Scuola Primaria

0,0

20

Se infatti le famiglie vogliono «la coeducazione e l’istruzione dei propri figli con disabilità con i compagni nelle sezioni e nelle classi ordinarie delle scuole di ogni ordine e grado», come prevede la 104, devono rendersi conto che avere un insegnante per il sostegno per tutta la durata dell’orario scolastico «spesso provoca l’esclusione del figlio proprio da quell’integrazione con i compagni che la legge ha voluto garantire». Ricorrendo alle ore di sostegno come unica risorsa per l’inclusione scolastica si rischia di scaricare di ogni responsabilità i docenti curricolari. Eppure è vero che, come scrive Nocera, «la cultura e la prassi dell’inclusione scolastica, sin dalle origini hanno puntato, come risorsa primaria, sulla presa in carico da parte dei docenti curricolari che venivano aggiornati continuamente sulle didattiche inclusive, ‘sostenuti’ da insegnanti specializzati per il sostegno 20 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per presentazione del ricorso al fine di ottenere un aumento delle ore di sostegno, ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 10.

110

apice libri 09.03.2018


didattico». Tutto ciò viene così dimenticato: il ‘problema disabile’ si delega all’insegnante di sostegno, e i docenti curricolari continuano a occuparsi degli studenti ‘normali’21.

Scuola secondaria di I livello

Alunni con disabilità che hanno cambiato l’insegnante di sostegno nel corso dell’anno scolastico Italia

Totale

Mezzogiorno

Non risponde

Centro

No

Nord

Si

Scuola primaria

Totale Non risponde No Si 0,0

20,0

40,0

60,0

80,0

100,0

120,0

22

Un altro tema molto importante è l’avvicendamento dell’insegnate di sostegno nel corso dell’anno scolastico. Dal grafico si evince che in Italia nel 15,9% dei casi si verifica questa situazione e il restante 84% si trova in una condizione di continuità educativa. Si legge nel D.Lgs. 66 del 2017 art. n. 14 punto 3: «al fine di agevolare la continuità educativa e didattica di cui al comma 1 e valutati, da parte del dirigente scolastico, l’interesse della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente e l’eventuale richiesta della famiglia, ai docenti con contratto a tempo determinato per i posti di sostegno didattico possono essere proposti, non prima dell’avvio delle lezioni, ulteriori contratti a tempo determinato nell’anno scolastico successivo, 21 G. Meroni, Sostegno negato: sicuri che convenga far causa alla scuola? in http://www. vita.it (6 febbraio 2014). 22 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità che hanno cambiato l’insegnante di sostegno nel corso dell’anno scolastico, ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 13.

apice libri 09.03.2018

111


ferma restando la disponibilità dei posti e le operazioni relative al personale a tempo indeterminato, nonché quanto previsto dall’articolo 1, comma 131, della citata Legge n. 107 del 2015»23. Questo strumento se attuato potrebbe migliorare e stabilizzare non soltanto la continuità didattica all’interno dell’anno scolastico ma anche un’organizzazione pluriennale della continuità educativa dell’istituzione scolastica.

Scuola secondaria di I livello

Alunni con disabilità per cambiamento dell’insegnante di sostegno rispetto all’anno scolastico precedente Italia

Totale

Mezzogiorno

Non risponde

Centro

No

Nord

Si

Scuola primaria

Totale Non risponde No Si 0,0

20,0

40,0

60,0

80,0

100,0

120,0

24

Il rapporto con le famiglie Altro tema interessante che afferisce al patto educativo sono gli incontri tra famiglia e insegnanti curricolari, dove il dato «Sì, raramente» si attesta 48% su base nazionale. Facendo una ricerca in rete è facile incontrare tantissimi modelli costruiti dalle scuole che definiscono la regola base per un proficuo incontro tra scuola e famiglia con alunno disabile. Nei PTOF delle scuole sono molto spesso presenti anche vademecum per l’acco23 Gazzetta Ufficiale, vedi http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/05/16/17G00074/sg 24 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per cambiamento dell’insegnante di sostegno rispetto all’anno scolastico precedente, ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 14.

112

apice libri 09.03.2018


glienza dove vengono ben descritte i compiti e i doveri di tutti i soggetti coinvolti in altri invece si limita a segnalare che: «nella scuola è presente il Gruppo di studio e di lavoro per l’handicap». Alunni con disabilità per frequenza incontri tra famiglia e insegnanti curriculari 120,0

No, mai

100,0

Si, raramente

80,0

Si, solo una volta al mese

60,0

So, più volte al mese Non indicato

40,0

Totale

20,0

Italia

Mezzogiorno

Centro

Nord

Italia

Scuola secondaria di I grado

Mezzogiorno

Centro

Nord

Scuola Primaria

0,0

25

Nella legge quadro sulla disabilità la 104 del 1992 si definisce che: «[…] La partecipazione alle famiglie degli alunni con disabilità al processo di integrazione avviene mediante una serie di adempimenti previsti dalla legge. Infatti ai sensi dell’art 12 comma 5 della L. n. 104/92, la famiglia ha diritto di partecipare alla formulazione del Profilo Dinamico Funzionale e del PEI, nonché alle loro verifiche. Inoltre, una sempre più ampia partecipazione delle famiglie al sistema di istruzione caratterizza gli orientamenti normativi degli ultimi anni, dall’istituzione del Forum Nazionale delle Associazioni dei Genitori della Scuola, previsto dal D.P.R. 567/96, al rilievo posto dalla 25 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Alunni con disabilità per frequenza incontri tra famiglia e insegnanti curriculari, ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 16.

apice libri 09.03.2018

113


Legge di riforma n. 53/2003, art. n. 1, alla collaborazione fra scuola e famiglia. E’ allora necessario che i rapporti fra istituzione scolastica e famiglia avvengano, per quanto possibile, nella logica del supporto alle famiglie medesime in relazione alle attività scolastiche e al processo di sviluppo dell’alunno con disabilità. La famiglia rappresenta infatti un punto di riferimento essenziale per la corretta inclusione scolastica dell’alunno con disabilità, sia in quanto fonte di informazioni preziose sia in quanto luogo in cui avviene la continuità fra educazione formale ed educazione informale. Anche per tali motivi, la documentazione relativa all’alunno con disabilità deve essere sempre disponibile per la famiglia e consegnata dall’istituzione scolastica quando richiesta. Di particolare importanza è l’attività rivolta ad informare la famiglia sul percorso educativo che consente all’alunno con disabilità l’acquisizione dell’attestato di frequenza piuttosto che del diploma di scuola secondaria superiore. Per opportune finalità informative, risulta fondamentale il ricorso al fascicolo personale dell’alunno con disabilità, la cui assenza può incidere negativamente tanto sul diritto di informazione della famiglia quanto sul più generale processo di integrazione. Il Dirigente scolastico dovrà convocare le riunioni in cui sono coinvolti anche i genitori dell’alunno con disabilità, previo opportuno accordo nella definizione dell’orario26.

Il digitale al servizio degli apprendimenti Passiamo ora ad esaminare l’importanza dell’utilizzo dei sussidi didattici nelle scuole e la loro distribuzione sul territorio italiano. Nella Legge n. 104 del 1992 viene indicato che «[…] la dotazione alle scuole e alle università di attrezzature tecniche e di sussidi didattici nonché di ogni altra forma di ausilio tecnico, fermo restando la dotazione individuale di ausili e presìdi funzionali all’effettivo esercizio del diritto allo studio, anche mediante convenzioni con centri specializzati, aventi funzione di consulenza pedagogica, di produzione e adattamento di specifico materiale didattico»27. La tecnologia dovrebbe svolgere una funzione di ‘facilitatore” nel proces26 MIUR, Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Disponibile da https://www.sinpia.eu/atom/allegato/556.pdf.

114

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so di inclusione scolastica dell’alunno con disabilità, soprattutto nel caso in cui la postazione informatica è situata all’interno della classe in cui è presente l’alunno e nel caso in cui lo stesso ha a disposizione degli ausili didattici che facilitino lo svolgimento della didattica. Scuole con alunni con disabilità e presenza di postazioni informatiche adattate adibite all’integrazione 90 80 70 60 50 40 30 20 10

Scuola secondaria di I grado

Italia

Sicilia

Sardegna

Calabria

Puglia

Basilicata

Molise

Campania

Lazio

Abruzzo

Umbria

Marche

Toscana

Emilia Rom.

Liguria

Veneto

Scuola primaria

F.V. Giulia

Lombardia

Trentino A.A

Valle d’Aista

Piemonte

0,0

28

27 Gazzetta Ufficiale, Legge 5 febbraio 1992, n. 104 art.13. Disponibile da http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1992/02/17/092G0108/sg. 28 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Scuole con alunni con disabilità e presenza di postazioni informatiche adattate adibite all’integrazione scolastica per ordine scolastico e regione. Anno scolastico 2015-2016. Valori per 100 scuole della stessa. Tabella n. 19.

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115


Su tutto il territorio nazionale la percentuale di scuole nelle quali nessun insegnante di sostegno ha frequentato corsi specifici in materia di tecnologie educative per gli alunni con disabilità rappresenta il 17,9% nella scuola primaria e il 15,2% nella secondaria di primo grado. Questa quota è particolarmente elevata, per entrambi gli ordini scolastici in Valle d’Aosta dove raggiunge il 42,9% delle scuole primarie e il 29,4% delle scuole secondarie di I grado29. Ausili didattici messi a disposizione dalla scuola per tipo 60,0

Scuola Primaria

50,0

Scuola secondaria di I grado

40,0

Totale

30,0 20,0 10,0

Altro ausilio

Apparecchiinformatici/multimediali personalizzazione didattica

Sistemi tecnologici per la comunicazione

Personalizzazione della postazione

Sistemi informatici facilitazione di testi

Sistemi tecnologici per non udenti

Software didattico per apprendimento

Video-ingranditori

Sintesi vocale

Strumenti braille

Nessun risultato

0,0

30

29 Vedi report in https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili, p. 12. 30 Rielaborazione grafica vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili, ausili didattici messi a disposizione dalla scuola per tipo di ausilio e ordine scolastico. Anno scolastico 2014-2015. Valori per 100 alunni con disabilità. Tabella n. 23.

116

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Scuole accessibili Nel 43% delle scuole mancano posti auto dedicati nel cortile o nel parcheggio interno. Oltre a ciò, raggiungere l’ingresso della scuola non sempre risulta agevole per una persona in carrozzina o con problemi deambulatori per l’assenza di un marciapiede (18% dei casi) o, quando questo c’è, per il fatto che il percorso non è sempre praticabile (30%). L’accesso a scuola è reso difficile dalla presenza di scalini all’ingresso nell’11% degli edifici monitorati. Solo il 23% degli edifici scolastici su più piani dispone di un ascensore.. Anche quando è presente, in una scuola su quattro non è funzionante. A livello di servizi didattici, le barriere architettoniche sono particolarmente diffuse nelle biblioteche (35%), nei bagni (28%), nelle aule computer (27%) e nei laboratori (24%). Inaccessibili ai disabili anche il 17% delle palestre, il 16% delle aule, il 14% delle mense e il 9% dei cortili. In particolare, nella gran parte delle aule (78%) in cui sono presenti studenti con disabilità motoria, non c’è spazio sufficiente per consentire il movimento della carrozzina. Nel 73% non ci sono attrezzature didattiche o tecnologiche per facilitare la partecipazione alle lezioni degli studenti con disabilità. Dai dati nazionali resi noti dal Miur, risulta che il 71% delle scuole si è dotato di accorgimenti per il superamento delle barriere architettoniche, mentre il 29% ne è ancora privo31. Di seguito la situazione su base regionale.

31 Cittadinanza Attiva, XVI rapporto. Sicurezza, qualità e accessibilità a scuola, 2016.

apice libri 09.03.2018

117


Scuole per lavori effettuati per migliorare l’accessibilità dell’edificio Regione

118

Scuola secondaria di I grado

Suola primaria

Si

No, ma l’edificio è accessibile

No, ma ce ne sarebbe bisogno

Si

No, ma l’edificio è accessibile

No, ma ce ne sarebbe bisogno

Piemonte

11,1

62,8

18,2

13,2

61,5

14,8

Valle d’aosta Vallée d’Aoste

3,6

73,8

10,7

4,8

81,0

4,8

Lombardia

11,6

64,0

17,5

11,8

65,5

16,1

Trentino-Alto Adige

3,1

29,9

18,8

7,5

32,4

1,2

P.A. Bolzano Bozen

.

.

.

.

.

.

P. A. Trento

7,7

74,2

4,5

15,3

65,9

2,4

Veneto

8,1

66,9

16,9

8,8

66,6

16,6

Friuli Venezia Giulia

7,5

69,3

15,2

11,3

71,4

11,9

Liguria

10,6

56,4

26,3

12,9

46,8

32,8

Emilia-Romagna

9,3

70,9

14,0

10,8

70,9

12,0

Toscana

14,0

54,7

22,1

14,5

58,5

18,6

Umbria

10,4

67,9

18,1

8,9

58,9

27,4

Marche

10,1

64,4

15,8

12,8

59,4

16,7

Lazio

11,9

45,9

27,7

11,4

47,7

27,8

Abruzzo

16,7

54,8

20,7

16,4

49,1

26,5

Molise

9,3

58,9

25,6

11,7

58,4

26,0

Campania

23,6

44,2

20,0

28,2

42,2

21,4

apice libri 09.03.2018


Puglia

20,1

51,3

22,7

24,4

48,7

22,3

Basilicata

11,9

64,9

21,3

20,6

58,2

20,6

Calabria

25,2

44,3

20,8

31,0

37,7

23,0

Sicilia

19,5

48,5

24,3

22,6

45,2

26,1

Sardegna

11,7

54,9

26,4

10,1

56,7

25,9

Italia

14,0

55,9

19,7

16,1

55,1

20,0 32

In Europa Di seguito si riporta una sintesi del sul sistema scolastico dei principali paesi europei una rielaborazione in tabella, per punti, sui paesi europei presi in considerazione dal MIUR nel rapporto statistico 201533. Spagna

In Spagna, in via generale, l’inclusione scolastica avviene con la scolarizzazione degli alunni con disabilità nelle scuole comuni. L’inserimento in scuole di educazione speciale, invece, avviene solo quando insegnanti e operatori sanitari ritengono che l’inserimento in classi comuni comporterebbe risposte non sufficientemente adeguate alle necessità dell’alunno.

Germania

Vige un “sistema con distinzione” in cui l’istruzione degli alunni con disabilità avviene prevalentemente in scuole speciali (Sonderschulen, Förderschulen). Recentemente, sono stati tuttavia introdotti programmi per incoraggiare l’integrazione nell’istruzione ordinaria di coloro i quali vengono ritenuti in grado di seguire l’insegnamento con profitto.

32 Vedi https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. Scuole per lavori effettuati per migliorare l’accessibilità dell’edificio, ordine scolastico e regione. Anno scolastico 2015-2016. Valori 100 scuole della stessa regione. Tabella n. 19. 33 MIUR, Servizio statistico, L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità a.s. 2014/2015, F. Salvini (cur.), 2015, pp. 34-38. Disponibile da http://www.istruzione.it.

apice libri 09.03.2018

119


Inghilterra

Il sistema scolastico prevede (Special Education Needs Act and Disability) che gli alunni con disabilità frequentino, finché possibile, scuole comuni; in tal senso vengono personalizzati percorsi di apprendimento e di responsabilizzazione delle scuole nei confronti degli alunni con disabilità, riducendo la frequenza di tali alunni in scuole speciali.

Francia

Il sistema di inclusione scolastica prevalente è quello dell’integrazione individuale, completa o parziale, in una classe normale, con sostegno pedagogico e psicologico; la scolarizzazione in classe speciale avviene comunque in ambiente scolastico normale, e prevede classi con pochi alunni ed un insegnamento impartito da docenti specializzati.

Svezia

Vi è un sistema misto di inclusione scolastica in cui supporti per gli alunni con disabilità sono offerti sia nelle scuole comuni sia nelle scuole speciali. L’istruzione obbligatoria prevede che la maggior parte degli alunni con disabilità fisica sia inserita all’interno delle classi comuni, con dei sostegni adeguati alla loro condizione. 34

34 Vedi Eurybase-Banca Dati sui Sistemi Educativi Europei (2009/10), Rete Eurydice di informazione sull’istruzione in Europa, Special Needs Education Country Data (European Agency for Development in Special Needs Education), 2008, 2010, 2011, 2012.

120

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Conclusioni Nell’art. n. 3 della Costituzione Italiana, il principio di integrazione scolastica, ribadisce il diritto degli alunni con disabilità a partecipare a viaggi di istruzione e visite guidate, esattamente come tutti gli altri compagni, sancendo il principio di uguaglianza. Ho ritenuto importante nella parte finale di questo percorso di analisi di utilizzare i dati degli alunni con handicap e il loro rapporto nella partecipazione alle gite, perché credo che rappresentino un momento di socializzazione ed una grande occasione di integrazione. Si rileva dai dati ISTAT che le maggiori difficoltà si riscontrano nel momento in cui è previsto un pernottamento. Infatti la partecipazione alle gite di istruzione con pernottamento è meno frequente. Una minore partecipazione si riscontra in particolare nella scuola secondaria di primo grado dove non partecipano il 20,0% degli alunni con sostegno; nella scuola primaria invece le percentuali si attestano all’8,4%. Le differenze territoriali sono rilevanti: nel Mezzogiorno non partecipano alle gite con pernottamento il 12,8% degli alunni della scuola primaria contro il 7,8% del Centro e il 5,1% del Nord. Allo stesso modo nella scuola secondaria di primo grado non partecipano alle gite con pernottamento il 31,3% degli alunni con sostegno nelle scuole del Mezzogiorno contro il 19,3% del Centro e il 11,3% del Nord. Tra i motivi della mancata partecipazione spiccano i problemi legati alla disabilità (24,2% nella primaria e 35,5% nella secondaria) e i problemi economici (rispettivamente 7,2% e 19,6% dei casi)35.

35 Report ISTAT in https://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili, p.15.

apice libri 09.03.2018

121


Alunni con disabilità per motivo della mancata partecipazione a gite di istruzione con pernottamento 80,0

Nord

70,0

Centro

60,0

Mezzogiorno Italia

50,0 40,0 30,0 20,0 10,0

SCUOLA PRIMARIA

Altro

Mancanza di un accompagnatore disponibile

Problemi legati alle condizione di disabilità

Problemi di salute

Problemi economici

Altro

Mancanza di un accompagnatore disponibile

Problemi legati alle condizione di disabilità

Problemi di salute

Problemi economici

0,0

SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO

36

36 Rielaborazione grafica v edi: h ttps://www.istat.it/it/archivio/alunni+disabili. A lunni con disabilità per motivo della mancata partecipazione a gite di istruzione con pernottamento, ordine scolastico e ripartizione geografica. Anno scolastico 2015-2016. Tabella n. 28.

122

apice libri 09.03.2018


Il gruppo può essere uno strumento potentissimo per orientare, in esso, si determina il luogo dove ogni individuo forma la propria personalità e sperimenta le proprie capacità. Per questo motivo il processo d’inclusione scolastica deve prevedere una completa partecipazione dell’alunno con disabilità a tutte le attività scolastiche comprese le gite di istruzione e le uscite didattiche brevi. […] Se mai può esistere una comunità nel mondo degli individui, può essere (ed è necessario che sia) soltanto una comunità intessuta di comune e reciproco interesse; una comunità responsabile, volta a garantire il pari diritto di essere considerati esseri umani e la pari capacità di agire in base a tale diritto37.

37 Z. Bauman, Voglia di comunità, Bari, Laterza, 2003.

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123


Bibliografia

124

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apice libri 09.03.2018

125


126

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apice libri 09.03.2018

127


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