IL MURO 11

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EDIZIONE SPECIALE

n.11 2017

freepress


il muro

Via E. Filiberto, 14 - Latina 04100 Fax +39 0773 663029 | Tel. +39 0773 407199 info@hoteleuropalatina.it

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Potere alle Storie, Festival della narrazione, di Paolo Valente

6 IL MURO Art, Philosophy and Visual culture rivista bimestrale N.11 novembre - dicembre 2017 Direttore responsabile Luisa Guarino Direttore creativo Jamila Campagna Caporedattore Gaia Palombo Team grafico Ramona Moretto Francesca Busatto Foto editor e ricerca iconografica Jamila Campagna Gaia Palombo

Valori condivisi. La città, il cuore, il pallone, di Damiano Coletta

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Il Muro e il Calcio, di Graziano Lanzidei

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Campo e Fuoricampo: il gesto, la cornice, di Francesco Rosetti

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Album di Icone, di Fabio Benincasa

10 Introspezioni in campo. La solitudine del numero uno, di Valeria Martella

14 Socrates, uno di noi. Intervista a Mimmo Calopresti, di Gaia Palombo

16 Uno sguardo all'incrocio dei pali. Intervista a David Winner, di Jamila Campagna

Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Fabio Benincasa Jamila Campagna Damiano Coletta Ornella Cotena Graziano Lanzidei Valeria Martella Luciana Mattei Carlo Miccio Fabrizio Moscato Gaia Palombo Luca Picozzi Di Monaco Francesco Rosetti Paolo Valente

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Redazione IL MURO via Veio 2 04100 Latina

23 Carlo Miccio, La trappola del fuorigioco,

Editore e Proprietario IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Web www.ilmuromagazine.com

Programma di Potere alle Storie, Festival della Narrazione Chinaglia raccontato da chi non c'era, di Fabrizio Moscato QuartoGrad: il calcio è del Popolo, di Ornella Cotena Europa vs Sudamerica. Due scuole di pensiero, calcio e

letteratura a confronto, di Carlo Miccio

recensione di Luciana Mattei

24 Johan Cruijff. Una storia sulla carta, di Jamila Campagna 28 Lo strano caso di Re Cecconi. Intervista a Guy Chiappaventi, di Luca Picozzi di Monaco

Contatti infoilmuro@gmail.com Stampa/Print Grafica Sabina di Urbanetti Francesco e C. Via Maglianello, 02046 Magliano Sabina (RI)

Numero speciale dedicato a

Il festival è promosso da

In collaborazione con

Con il patrocinio del

Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) In copertina: Campo da calcio, acrilico su carta, di Jamila Campagna. Numero Speciale realizzato in occasione di Potere alle Storie - Festival della Narrazione 2017, Latina promosso da Magma in collaborazione con IL MURO con il patrocinio del Comune di Latina con la partecipazione di Rinascita Civile La Stanza Liberi sulla Carta

Con la partecipazione di

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POTERE ALLE STORIE Festival della narrazione di Paolo Valente “Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni.” Osvaldo Soriano, Fútbol. Storie di calcio Dalla trasmissione orale, le storie hanno vissuto una trasformazione incredibile grazie alle scoperte tecnologiche. Le rivoluzioni industriali che l'umanità ha vissuto, hanno prodotto una miriade di forme narrative: letteratura, cinema, teatro, fotografia, musica, giornalismo, fumetto, videogiochi, social network. Stanno iniziando a nascere festival interdisciplinari legati alle storie, da quelle popolari a quelle di genere, che attraversano tutte le arti narrative. Perché la fruizione di narrazioni assume forme sempre nuove e diverse, che cambiano e completano il punto di vista su un determinato argomento, ampliando gli orizzonti d'attesa del lettore, spettatore e ascoltatore. Potere alle Storie è il festival della narrazione con cui l'associazione di innovazione culturale Magma, in collaborazione con IL MURO, intende promuovere i racconti della realtà contemporanea, avvalendosi di sguardi multi disciplinari articolati in format diversi e informali. Un festival che sia soprattutto azione culturale e che offra occasioni di partecipazione e confronto su fenomeni e valori importanti per la comunità. Attraverso gli incontri all'interno del festival si offre la possibilità ai partecipanti di affrontare l’argomento da più sfaccettature, anche contrastanti, provando a restituire la complessità della realtà, in un momento storico in cui invece sono le letture semplicistiche ad avere la meglio. > il calcio, identità e comunità Raccontare il mondo attraverso il calcio. Il calcio è lo sport più diffuso al mondo perché non è più un semplice gioco, ormai è diventato un fenomeno sociale e culturale. Innumerevoli sono i racconti nati intorno a questo sport, perché innumerevoli, potenzialmente infinite, sono le storie che gli appartengono. C'è chi dice che le storie del calcio sono le storie del mondo e vanno oltre il gesto atletico e la competizione, perché influenzano la quotidianità ed i rapporti fra le persone. Il calcio permette l'identificazione fra diversi gruppi sociali, tanto che le vicende che hanno come denominatore comune il calcio riescono a restituire la complessità della comunità umana, delle interazioni interpersonali e dei legami che le caratterizzano. La prima edizione del Festival della Narrazione non poteva avere argomento migliore per mischiare l’alto e il basso, la tradizione con l’innovazione. Proveremo a raccontare il mondo attraverso il calcio, i suoi narratori e i suoi protagonisti. Perché il calcio permea la quotidianità, il linguaggio comune, il modo di fare cinema, tv, letteratura, l’arte. Anche la politica ne è rimasta suggestionata, arrivando addirittura a saccheggiare le figure retoriche che il racconto di questo sport ha generato. Il calcio è un medium dei nostri tempi, uno dei più importanti. Arrivando fino a noi, basti pensare al legame che si è creato negli ultimi anni fra le vicissitudini del Latina calcio e le difficoltà della città. Il Festival potrebbe essere uno spunto importante per riflettere sul senso di appartenenza che non si è generato nonostante una squadra di calcio ha sfiorato la massima serie, un'occasione persa quando non sono state colte le opportunità che offriva per la crescita dell’identità collettiva. Il calcio, come ogni medium, è capace anche di generare narrazioni tossiche, che sono parte integrante delle forme narrative e che generano effetti deleteri sulla realtà, soprattutto se non si hanno gli strumenti per farvi fronte. > che festival! Abitare per tre giorni una parte della città di Latina. Una successione serrata di eventi a tema e momenti di relax dove potersi godere la città, creeranno uno straordinario momento aggregativo e di interazione sul tema. Un evento culturale e turistico che nel tempo vuole diventare un momento istituzionale del panorama Italiano sulla narrazione. Il Festival ospiterà produzioni autoriali e personalità di altissimo livello, che restituiranno ai partecipanti interessanti altri sguardi sul tema del Calcio.

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VALORI CONDIVISI. LA CITTÀ, IL CUORE, IL PALLONE. di Damiano Coletta - Sindaco, cardiologo e calciatore

La cultura dello sport. Mi è stata di grande aiuto durante la mia vita professionale di cardiologo e lo è ora nella mia esperienza politica amministrativa. Il rispetto delle regole, la lealtà, la disciplina e l’allenamento, il concetto di squadra e le dinamiche di gruppo. Sono valori che, tutti i giorni, ti porti dentro. Allenamento significa prepararsi tutta la settimana per la partita, significa studiare, avere metodo, perfezionare la tecnica, aggiornarsi, conoscere e saper gestire le complicanze. Tutte cose che valgono quando devi effettuare un intervento chirurgico o quando devi fare un’importante scelta amministrativa che ha una ricaduta su tutta la comunità. Il gioco di squadra. E’ un aspetto fondamentale. In campo è importante il lavoro del portiere, del difensore, del mediano, di chi fa i cross e di chi fa goal. Ma prima ancora è importante il lavoro dell’allenatore, del dirigente, del fisioterapista e del magazziniere. Ognuno nel proprio ruolo è funzionale e necessario all’altro. Così come nell’equipe di sala operatoria dove è importante il ruolo dell’infermiere, del ferrista, del tecnico radiologo e dell’ausiliario. Senza il loro prezioso supporto l’intervento chirurgico non può riuscire.

Perché non basta il talento del singolo, serve comunque il gioco di squadra. Lo spirito competitivo, il pensiero positivo, l’autostima sono elementi fondamentali per un calciatore. Così come per me lo sono stati da cardiologo e lo sono ora da politico. Saper alzare l’asticella, mettersi in discussione, non temere l’avversario ma nello stesso tempo rispettarlo, sapendo individuare i suoi punti deboli. Poi c’è la fiducia in se stessi e la sicurezza che devi saper trasmettere agli altri, che siano pazienti o cittadini. La capacità di gestire la vittoria ma soprattutto la capacità di accettare una sconfitta. Dopo una vittoria, mai sedersi e guardare indietro. Dopo una sconfitta bisogna sapersi rialzare, imparando dai propri errori, evitando l’autocommiserazione o l’attribuzione di responsabilità ad altri. L’analisi costruttiva degli errori sono per un medico e per un amministratore un momento fondamentale di crescita. La capacità di gestire la tensione. La giusta tensione di una partita importante. La tensione di un intervento chirurgico importante. La tensione del confronto politico o la pressione mediatica cui si è sottoposti da amministratori. Sono emozioni che devi saper controllare per mantenere la lucidità nelle scelte decisionali.

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Foto: Jamila Campagna

E così in politica. La campagna elettorale è stato un bell’esempio di partecipazione collettiva dove ognuno ha saputo sentirsi protagonista nel contribuire al raggiungimento dell’obiettivo. E così nell’amministrazione della città. I tanti esempi di partecipazione del cittadino nella gestione condivisa dei beni comuni, il tavolo del decoro urbano, la cura deli orti urbani, le proposte culturali degli artisti del territorio: un nuovo concetto di amministrazione della città basato sulla partecipazione e sul gioco di squadra. E infine la passione. L’ho messa per ultima ma probabilmente è un prerequisito. La passione è il motore che ti fa affrontare i sacrifici dell’allenamento, che ti fa superare gli inevitabili momenti di difficoltà, che ti alza la soglia della stanchezza. Da calciatore, da medico, da politico. Bisogna metterci passione. Bisogna metterci cuore.


IL MURO & IL CALCIO di Graziano Lanzidei

Il calcio m’è sempre piaciuto. D’altronde come avrei potuto evitare quello che già, voglio pensarla così, avevo scritto nei geni? Mio padre, per essere proprio sicuro che non m’avventurassi in altri sport, non m’ha fatto saltare nemmeno il più trascurabile dei passaggi del cursus honorum che spetta ad ogni buon cultore del Dio Palla: primo regalo una sfera di plastica con cui poter giocare in casa o al parco, poi il regalo del primo pallone di cuoio, prime partite in televisione viste assieme, con lui che pazientemente spiegava le regole più complesse. Poi quando era proprio sicuro della mia passione, m’ha portato allo stadio a vedere la nostra squadra del cuore. Roma – Juventus, 1983, c’eravamo trasferiti da qualche mese a Latina, stavo per finire la seconda elementare. Non fu un impatto facile. Faceva un caldo bestia, la Roma perse all’ultimo per un gol di Brio e in seguito agli scontri tra i tifosi, la polizia dopo la carica ci disperse con i fumogeni. Invece di rimanere scioccato, nacque in me la passione per la squadra del cuore che coltivo ancora oggi e mise radici ancora più profonde l’amore per questo sport. Il passo successivo, la scuola calcio, fu invece più difficile. Mio padre è ancora un grande appassionato del gioco, ma allora non voleva che lo giocassi. Che contraddizione, almeno in apparenza, eh? Ho scoperto poi col tempo, frequentando dopo parecchie insistenze un paio di società sportive, che aveva ragione. Mi conosce meglio lui, ancora oggi, di quanto io conosca me stesso. La dimensione del pallone che mi piace, è ancora quella di quando ero bambino, quella dei palleggi al muro, delle partite tra amici con le porte disegnate col gesso o segnalate da un paio di giubbotti buttati a terra. Mi piace quell’atmosfera di collaborazione, competitività blanda, di grande spazio per l’immaginazione. Potevi (puoi) essere chiunque in qualsiasi palcoscenico. Nessuno ti pone freni, puoi tentare qualsiasi giocata. Un momento di pura evasione dalla vita quotidiana, insomma. Un momento per raccontarti in un modo diverso dal solito e un momento anche per condividere storie con gli altri. È vero, questo può accadere anche nelle società sportive. Anzi, sono sicuro che accade. Perché ce ne sono tante serie, che cercano di trasmettere prima i valori dello sport e poi quelli della competizione. Ma lì, prima o poi, più prima che poi, quest’atmosfera onirica e narrativa svanisce e lascia il posto alla realtà. Subentrano altri fattori, come il giudizio obbligatoriamente spietato di chi, nel piccolo giocatore che si diverte con gli amici tirando calci ad un pallone più grande di lui, deve scorgere il futuro campione. Entri in quello che può essere definito un processo industriale, perché è nell’industria del pallone che dovresti entrare. E lì, come in ogni processo industriale, vieni messo da parte al primo scarto dagli standard di qualità decisi aprioristicamente. Una regola da accettare sia quando conviene - a 12 anni ero alto esattamente come adesso, quindi un gigante per l’età, e mi facevano giocare sempre e ovunque - sia quando invece non conviene affatto: sono rimasto alto così e quando l’hanno scoperto gli allenatori hanno smesso di prendermi in considerazione. Ho capito solo col tempo che mio padre voleva soltanto proteggermi quando s’era intestardito a non farmi iscrivere alle scuole calcio. Ma sono contento di aver giocato a pallone agonisticamente, perché ho provato e ho sperimentato per la prima volta sulla mia pelle sensazioni che prima o poi avrei comunque provato. Nonostante la cocente delusione, sono tornato – e ci torno ogni tanto, capita sempre più di rado però – dal vecchio compagno di avventure: un qualsiasi muro contro cui poter sbattere il pallone. Lui è sempre lì, pronto a restituire il pallone ogni volta che gli viene lanciato, così com’è stato pronto a raccogliere le confessioni piene di gioia quando le cose andavano bene e piene di sconforto quando invece andavano male. Un generatore di storie, davanti a cui io e i miei amici ci siamo sempre divertiti. Perché il muro, per ogni appassionato di calcio, è una sicurezza: non delude mai.

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Campo e fuoricampo: IL GESTO, LA CORNICE di Francesco Rosetti

Si può cominciare con una domanda ontologica, essenzialista: che cos’è il calcio? (E, per estensione, lo sport?). Qual è la sua funzione nell’ambito vastissimo della cultura di massa dell’ultimo secolo e mezzo? Ovviamente la risposta ad una simile istanza definitoria non può che essere frammentaria e infatti il calcio è di volta in volta stato legato al mito, all’esemplarità narrativa di vicende esistenziali, oppure alla dimensione semireligiosa del rito, al teatro, alla società dello spettacolo ( cos’è stato l’addio di Totti all’attività professionistica se non un enorme spettacolo teatrale e audiovisivo al tempo stesso?), alla performance artistica, perfino al linguaggio (un famoso articolo di Pasolini). Qui ci limiteremo ad una dimensione, per così dire, iconografica del calcio, ovvero sondare i rapporti decisamente tra il calcio e la sua immagine, intesa sia come presentazione, cronaca (la partita), che come rappresentazione di un mondo. E qui da subito emergono due differenti scelte figurative e narrative. Da un lato le arti visive e la telecronaca televisiva, che tendono ad inquadrare la partita, il rettangolo in cui si svolge il gioco e dove può presentarsi la dinamica estetica del gesto, dall’altro cinema e narrazione che invece hanno privilegiato la cornice, il contesto, il complesso ambiente sociale e culturale che circonda e contiene il fenomeno pallone. Ebbene, alle differenti opzioni rappresentative corrispondono ovviamente diverse opzioni linguistiche e semantiche. Già Mario Soldati, notevolissimo regista cinematografico e raffinato conoscitore del medium televisivo, faceva notare, negli anni Settanta, che gli spezzoni di partita o le dirette utilizzavano un linguaggio che si basava sulla continuità di ripresa, negando alla radice l’elemento cardine della rappresentazione audiovisiva corrente, il montaggio. La diretta televisiva, per quanto con caratteristiche peculiari, si basa, quasi sempre, su un principio di omnivisività di una telecamera quasi panotticale, che si muove lateralmente seguendo le dinamiche di gioco sul campo e cercando di ritenerne ogni momento decisivo. Il principio base è quello della continuità di ripresa, il suo elemento sintattico è il piano sequenza, o meglio ancora, una lenta continua, invisibile panoramica. Non che, col passare del tempo, non appaia l’esigenza del montaggio o del framing, soprattutto con l’avvento delle pay tv - che aggiungono al meccanismo della continuità visiva la pluralità dei punti di vista, con la presenza simultanea di decine di telecamere - o l’esigenza del replay e della moviola delle azioni salienti, che narrativizzano e ricentrano l’esperienza della partita e inseriscono nell’apparente neutralità della ripresa un elemento drammaturgico. Ma sostanzialmente la partita viene presentata come pura immagine, seppur differita nell’arco temporale dei novanta minuti. Non è un caso che l’elemento visivo centrale della

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partita, come aveva già riconosciuto Carmelo Bene, sia quello esteticamente rilevante del gesto atletico, che nella definizione dell’attore salentino diventa un vero e proprio atto senza azione in cui l’artista calciatore, concentrato completamente sulla dinamica cinestetica del calciare, si spossessa di sé, un po’ come l’attore di Diderot, senza che l’atto abbia in sé una conclusione o un fine (il gol, in questo senso, per il pubblico e per il calciatore, non è che un epifenomeno, quasi secondario nell’ottica dello spettacolo). La continuità di ripresa esalta la tensione gestuale e temporale dell’atto ripreso sincronicamente e si configura come evento che interrompe e modifica la continuità di gioco. Questa dimensione plastica ha suscitato l’interesse degli artisti figurativi - si pensi ai Football players di Max Beckmann o al Portiere di Corrado Cagli - ma per paradosso ha evitato che il cinema si interessasse al fenomeno della partita, incapace di replicare la continuità esterna dell’immagine televisiva, oppure di sostituirvi un’immagine immersiva, dentro le fasi di gioco (come parzialmente riuscito a Oliver Stone col football americano, in Ogni maledetta domenica). La visualizzazione del gioco non appare se non in forme apertamente parodiche, come ad esempio nel cinema comico italiano, dalla sfida scapoli-ammogliati del primo Fantozzi, all’Allenatore nel pallone, come prolungamento della gag soprattutto fisica. Il cinema estende infatti il suo sguardo dal gioco alle sue conseguenze sulla società e sull’ambiente, sul pallone come fatto culturale, come esperienza collettiva. Anche qui possiamo citare il Secondo tragico Fantozzi, dove la partita è grottescamente contrapposta proprio al cinema, in questo caso al cinema d’autore rappresentato dall’aborrita corazzata Potemkin del professor Riccardelli. Il calcio qui diventa anche un emblema della ormai trionfante cultura popolare di massa contro una cultura d’elìte e padronale dispensata in maniera autoritaria. Altra commedia che gira attorno alle dinamiche speculative ed affaristiche che si sviluppano all’ interno del mondo del pallone è Il presidente del Borgorosso football club, con Alberto Sordi losco presidente di una piccola squadra di calcio provinciale. Si arriva al punto estremo de L’uomo in più di Paolo Sorrentino, dove ci viene mostrato un luogo tabù delle partite di calcio, lo spogliatoio nell’intervallo tra primo e secondo tempo, con le sue dinamiche interne di potere e sopraffazione, ma non il campo, che viene a sua volta tabuizzato ed esiste solo nella dimensione fantasmatica del fuoricampo. Dunque le strategie di presentazione-rappresentazione dell’evento calcio tendono a divergere in una tensione tra contesto produttivo e luogo della performance, campo e fuoricampo, anche letterale. E l’evento sportivo conferma così in questa dialettica inquieta la sua dimensione mitopoietica.


ALBUM DI ICONE

di Fabio Benincasa «L’icona non ha esistenza propria; ma partecipazione è “immagine conduttrice”, essa conduce al Prototipo e annuncia la sua presenza, testimonia della sua parusia. Questa non si serve affatto dell’icona come di un luogo d’incarnazione, ma vi trova il centro di un irradiamento energetico. […] L’icona, punto materiale di questo mondo apre una breccia; il Trascendente vi fa irruzione e le ondate successive della sua presenza trascendono ogni limite e riempiono l’universo». Così il grande studioso russo Pavel Nicolaevic Evdokimov, allievo prediletto di Florenskij, definiva il funzionamento dell’immagine sacra che comunemente chiamiamo icona. Ma allora che cos’è l’icona del calcio? Ciò che mi ha sempre richiamato di più l’icona propriamente detta è proprio la classica figurina Panini, nella quale il volto del giocatore, rivolto frontalmente e ieraticamente verso il riguardante, somiglia a una incongrua imitatio Christi contemporanea. Ci troviamo certamente di fronte a un centro di irradiamento energetico della potenza calcistica, fatta di sguardi, nomi e colori di magliette. Niente che mostri (e dunque tutto che allude) all’atto calcistico. Nel prototipo originale dell’album di figurine il calciatore non gioca, non fa vedere neanche un piede o una gamba, ti osserva invece con una fissità evangelica evocando la sacralità di un mondo tutto mentale, in silente attesa del fenomeno del goal, della parusia dello scudetto. Ripartiamo proprio da queste icone, le immagini sacre del campionato. Cancellano il gesto per condurci al Prototipo, evocandolo una volta per tutte. Ma chiunque abbia avuto in mano una bustina di figurine Panini almeno un gesto atletico impresso nella mente lo conserva: un calciatore che effettua una clamorosa rovesciata. Il marchio di fabbrica del calcio italiano da collezione. Questo logo ha qualche riferimento alla realtà o piuttosto come San Giorgio e il Drago allude all’archetipo profondo di una leggenda eroica che si perde nella notte dei tempi? Sì e no. È “la rovesciata di Parola” con la quale Wainer Vaccari ha illustrato graficamente la prodezza del difensore juventino Carlo Parola che il 15 gennaio 1950 si esibì nella spericolata acrobazia durante un’ormai dimenticata JuventusFiorentina. Se cercate su Google potete ancora trovare la foto dal quale è stato tratto il logo e il nome del fotografo, Corrado Bianchi, che ci ha tramandato l’icona o almeno la possibilità della sua venerazione. Effimeri momenti di gloria, eppure duraturi. Quasi nessuno si ricorda più di Parola né tantomeno di Vaccari o di Bianchi, eppure tutti sanno identificare il giocatore che fa la rovesciata. L’icona funziona così, acheropita, senza autori, senza referenti. Apre una breccia e il Trascendente vi fa irruzione. Il calcio è gesto, flusso inarrestabile e solo eccezionalmente si incarna di fronte agli occhi degli spettatori in una memorabi-

le eucarestia, che tuttavia è secondaria a mantenerne viva la gloria. Se ora ritrovassi le vecchie figurine che commerciavo ai tempi della scuola ricorderei qualche nome? Probabilmente quasi tutti, ma è pur vero che ogni generazione ricorda solo i suoi e niente sbiadisce così in fretta come la fama di calciatori che erano delle glorie collettive. I calciatori delle altre generazioni ci dicono invariabilmente molto poco. Alle icone bisogna connettersi in maniera emotiva, il calcio sembra quindi doversi manifestare sempre nel qui e nell’ora. Con qualche dovuta eccezione. Pelé o Maradona, per esempio, ormai assurti a uno statuto internazionale mitico. Protagonisti di film, di narrazioni collettive, i loro visi, i loro occhi, le loro espressioni incarnano lo spirito del calcio o addirittura l’ethos di intere nazioni. Non soltanto in senso calcistico. Maradona è “eroe dei due mondi”. Basta fare una passeggiata a Napoli per vederlo effigiato insieme a Totò, Pino Daniele e Troisi, come un partenopeo purosangue. Ormai neppure più eroe calcistico quanto eroe napoletano tout court. Eppure di nuovo, chi ricorda veramente come giocava Pelé, che si è ritirato nell’ormai lontano 1977? E chi se lo ricorda se lo ricorderà precisamente o ne avrà una memoria completamente trasfigurata dall’estasi del buon tempo andato? Molti di noi ricordano i suoi goal per sentito dire o come immagini in bianco e nero sbiadite nella distanza. Forse alla fine le icone del calcio, dalle figurine alle gigantografie di Maradona, dimostrano che il calcio fuori dal presente performativo del gesto vive solo in un’evocazione della mente, in un equivoco della memoria e questo ovviamente rende il rivolgersi alle icone ancora più importante per poterne trattenere la presenza e l’eccezionalità ancora e a piacimento. Lo sportivo ha bisogno di icone, forse più di quanto ha bisogno dello sport.

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INTROSPEZIONI IN CAMPO

LA SOLITUDINE DEL NUMERO 1 DI FABRIZIO GARGANO di Valeria Martella Pur indirizzandoci nel mondo del calcio, la graphic novel di parla di persone. Undici contro undici, zero a zero, palla al centro. L’inizio è sempre un covo di speranza misto ad ansie, carico di tensione e adrenalina. La quiete sembra lontana quando sei nel mezzo della tempesta. Se il clima è ostile il pubblico lo è di più e questa inospitalità non può far altro che riversarsi sui volti dei protagonisti, segnati da linee taglienti. In quei volti c’è nascosta tutta la voglia di dimostrare al mondo chi si è, in una partita in cui gli esiti sono incerti. Lo stile grafico di Gargano si mescola al contesto della storia creando un’estetica rigorosa e ben delineata, fatta di colori che spiccano per la loro corposità e vividezza nel grigiore del momento. In una serie di tavole nella quale conosciamo i personaggi e le loro paure umane, l’autore si concentra su un numero uno che sente sul proprio corpo e nella sua mente la pressione del ruolo che ricopre, nella vita come nel calcio. Vita privata ed esperienza calcistica non sono separate da alcuna striscia bianca, giocano nello stesso campo ma corpo a corpo con il protagonista, che deve difendersi su tutti i fronti. L’intrigo è scoprire le verità dei giocatori, sparate sul foglio come rigori al novantesimo. La partita esiste solo per i presenti: il Passoscuro, squadra avversaria, il Real Boario e i pochi tifosi verbalmente aggressivi che s’inebriano di quel clima di tensione. Tutto si svolge come all’interno di una bolla, in un pianeta parallelo, in una lontananza mentale e fisica. Guardandosi intorno i giocatori vedono ben poco, in effetti: fango, erbacce. Il campo non è nient’altro che un luogo di competizione circondato dal nulla, un’arena in cui il Real Boario combatte per la sopravvivenza contro una squadra di leoni. In un team in cui la difesa è debole e l’attacco poco convincente, a subire è proprio il numero uno, che si addossa così inconsapevolmente la responsabilità dell’esito della partita. Conseguentemente s’innescheranno in lui una serie di meccanismi di rimuginazione ossessiva sul suo presente, passato e futuro, dai quali dovrà uscire con la stessa tenacia con cui combatte contro la retrocessione. Consapevole dei propri limiti, forte dell’idea di poterli superare, in un modo o nell’altro.

Nato a Latina nel 1967, Fabrizio Gargano si diploma come ragioniere e lavora in una casa farmaceutica per 25 anni. Non dimentica mai però la sua prima passione, quella per il disegno, nata quando aveva 13 anni nel copiare alcune tavole del Comandante Mark e coltivata negli anni, affiancata all'amore per la lettura di libri e fumetti. Nel 2004 l’incontro fortunato con Valerio Libralato di cui diventa allievo nell'apprendere la tecnica dell’acquarello. Da circa due anni ha intrapreso l’attività di illustratore e blogger e da dieci anni disegna taccuini di viaggio A gennaio 2017 segue un corso sulle tecniche di racconto per grafic novel presso la casa editrice Tunuè, a Latina. I suoi racconti disegnati e scritti sono pubblicati sul blog: www.fab1967.blogspot.com

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L'AVVENTURA DEL DOTTOR SOCRATES INTERVISTA A MIMMO CALOPRESTI SUL DOCUMENTARIO SOCRATÉS, UNO DI NOI di Gaia Palombo Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira (Belém, 19 febbraio 1954 – San Paolo, 4 dicembre 2011), meglio noto come Sócrates: un nome che parlava da sé ma definiva appena la complessità di un uomo che fu molto più di un calciatore. Laureato in medicina e per questo denominato “il dottore”, Sócrates fu uno dei giocatori simbolo della nazionale brasiliana nei primi anni Ottanta: nella storica Italia-Brasile 3-2, segnò il gol del primo pareggio e nel 1984 fu acquistato dalla Fiorentina, in cui militò per una sola stagione. Al termine della carriera di calciatore, Sócrates tornò alla sua professione di medico e si avvicinò all’attività politica fino alla sua morte, avvenuta nel dicembre 2011. La passione per la politica e quella per il calcio scorrevano indissolubili nelle vene di un fuoriclasse che il popolo brasiliano ama ancora visceralmente. La figura di Sócrates, dunque, calza con lo spirito di Potere alle storie, nato per discutere del calcio come fenomeno sociale e culturale. Sócrates fu l’ideatore della famosa Democrazia Corinthiana, dove la squadra di San Paulo del Corinthians veniva autogestita da allenatori e giocatori, scavalcando il potere di presidente e dirigenti. Un’utopia che divenne realtà e oltrepassò i limiti dello stadio in un Brasile che, reduce da una lunga dittatura militare, agognava la democrazia. Mimmo Calopresti, sceneggiatore, attore e regista, si è spinto in Brasile sulle orme di Sócrates, per raccogliere tracce della sua missione sociale e della sua eredità. Da questo viaggio è nato Sócrates, uno di noi, realizzato da Calopresti con il giornalista Marco Mathieu. Abbiamo incontrato Mimmo Calopresti, ospite di Potere alle storie, al quale abbiamo rivolto qualche domanda.

Sócrates, uno di noi si differenzia per struttura e stile dai classici documentari calcistici e il titolo è una chiara manifestazione d’intenti: Sócrates è stato - ed è- un’icona, aspetto che in questo suo ritratto cinematografico viaggia di pari passo con la profonda umanità del protagonista. Com’è nata l’idea di produrre un documentario su Sócrates?

In virtù dell’aspetto di “Sócrates uomo libero” che nel suo lavoro ha voluto sottolineare, con tutte le implicazioni che il termine comporta, e riflettendo sulle cosiddette “narrazioni tossiche” che coinvolgono un calcio ormai fagocitato dai media, secondo lei una figura come quella di Sócrates potrebbe avere ancora posto nell’universo calcistico?

L’idea del documentario è nata da un’intervista rilasciata da Sócrates a Marco Mathieu - realizzata poco prima della scomparsa del calciatore - da cui emerge chiaramente la complessità di un personaggio la cui grandezza andava ben oltre la brillante carriera calcistica. L’articolo di Mathieu, del quale sono amico, fu il punto di partenza per riflettere sull’idea di produrre un documentario. Un secondo spunto provenne dalla vista di alcune manifestazioni in Brasile, contestuali a un precampionato nel periodo dei Mondiali 2014, in cui dei ragazzi indossavano magliette raffiguranti Sócrates oltre a quelle con Che Guevara. Quelle immagini sono la testimonianza di quanto ancora oggi Sócrates rappresenti un simbolo per il popolo brasiliano. Toccai con mano questo forte attaccamento durante il viaggio che feci con Mathieu per girare il documentario. Indubbiamente il carisma di Sócrates influenzò molte persone, sia nel modo di pensare che nell’approcciarsi ai fatti della propria società, e questo non fece che alimentare l’interesse e la voglia di dedicargli un approfondimento.

Ogni tanto mi capita di intravedere qualcuno che almeno prova a posizionarsi fuori dalle righe, che non intende allinearsi con le politiche vigenti nel mondo del calcio. Non dimentichiamo che Sócrates è diventato grande perché incarnò una ribellione politica insieme ai suoi compagni di squadra con una serie di operazioni forti, che partivano dal calcio per estendersi e diventare modello di vita. Una delle prime cose che Sócrates fece, ad esempio, fu togliere gli sponsor dalle divise. Al contrario, oggi il calcio è in balìa di operazioni finanziarie potenti in cui è estremamente difficile trovare spazio e libertà, anche libertà di parola minima. Tuttavia credo che nella storia del calcio, come nelle storie di tutti i settori, c’è sempre qualcuno che riesce a fare la differenza: anche Maradona, nelle sue follie, è dotato di grande sincerità, conquistandosi la libertà con capacità e bravura incommensurabili.

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Con la Democrazia Corinthiana, Sócrates diede vita a una preziosa forma di democrazia in un Paese che non la cono-


sceva, accogliendo i sogni e le speranze di un intero popolo. Il trasferimento alla Fiorentina, in un’Italia democratica, rappresentò al contrario un periodo di ostilità ed esclusioni: Sócrates scoprì una squadra poco coesa, vuota dello spirito a cui era abituato. Come interpreti questa differenza?

ta anche con l’atteggiamento popolare che gravita attorno al calcio, tipicamente brasiliano e quasi per nulla italiano: in Brasile il calcio è vissuto più come una grande festa, un qualcosa di ancestrale che scorre dentro le persone e ne costituisce la sostanza.

Sócrates proveniva da una situazione in cui era un grande leader: come accade spesso nel calcio, il popolo brasiliano considerava il proprio capitano una figura quasi al pari di un dio. Una volta arrivato a Firenze invece, si trovò all’interno di una squadra in cui vigevano dinamiche classiche, gerarchiche. Ebbe immediatamente contro la dirigenza e alcuni compagni di spogliatoio. Sócrates, dal canto suo, aveva riposto grosse aspettative nell’Italia: la vedeva come il paese in cui “trovare Gramsci” – diceva -, in cui esprimersi liberamente rilasciando interviste a testate come “L’Unità” o “Repubblica” e organizzando numerosi incontri alla Casa del Popolo. Tuttavia si trovò a essere, più semplicemente di quanto era stato in Brasile, un giocatore della Fiorentina. Questa grande differenza può essere spiega-

Con la giornalista Flavia Perina hai fondato l’associazione “Fino all’ultimo respiro”, dedicata a Marco Mathieu. Quali sono gli ideali e i propositi alla base di questo progetto sociale? I nostri propositi intendono rispecchiare la personalità di Marco: un curioso che non si risparmia, dalla grande voglia di conoscere e capire, dalla forte empatia e dall’approccio viscerale alla vita. Sócrates, ad esempio, è una figura che lo affascina moltissimo e con il quale condivide la vitalità, l’atteggiamento nei confronti della vita. Sócrates uno di noi è un titolo che rappresenta lui, rappresenta me, rappresenta un certo modo di stare al mondo.

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David Winner UNO SGUARDO ALL'INCROCIO DEI PALI intervista di Jamila Campagna David Winner, scrittore e giornalista inglese, penna del Guardian e autore di libri eclettici fatti di tunnel che portano da un capo all'altro del mondo e della storia della società, ha visto arrivare il suo Brilliant Orange in Italia lo scorso giugno, edito da minimum fax: un libro che racconta la storia del Calcio Totale olandese e si trasforma in una sorta di compendio enciclopedico per la comprensione dell'Olanda. Lo stesso spirito caleidoscopico è condiviso con un altro suo libro, Al Dente: Madness, Beauty & the Food of Rome (2012), ancora inedito in Italia, dove un excursus sul cibo italiano serve a fare un insight profondissimo nelle radici del cosiddetto Bel Paese. I suoi saggi sono delle lezioni in cui visione interdisciplinare e immaginario pop si rincorrono in un continuum di aneddoti, scoperte inaspettate, connessioni di significati, simboli ed eventi. "All things are connected to all other things" - Tutto è collegato, dice Winner. Ed è così anche per il calcio, come ci ha spiegato nella lunga e piacevole intervista che abbiamo avuto l'opportunità di realizzare: Winner racconta - e sa farsi ascoltare - e in un attimo è chiaro quanto si veda lontano stando seduti sugli spalti di uno stadio.

Brilliant Orange (minimum fax, 2017) è un interessante libro che hai scritto sul cosiddetto Calcio Totale, che tu definisci attraverso una visione storica e ed estetica: penso all'elenco di similarità che hai individuato tra il calcio, le opere d'arte e la storia del territorio olandesi. Possiamo dire che il calcio possiede un valore estetico che travalica il mito del singolo campione e dell'azione atletica? Sì! Effettivamente questa domanda un po' mi sorprende perché l'idea che ci sia una dimensione estetica - o altre dimensioni - nello sport è stata evidente in Inghilterra almeno negli ultimi duecento anni. Non so molto in merito alla scrittura sportiva italiana, ma ad esempio ci sono state persone come Gianni Brera, no? Il fatto che lo sport sia qualcosa legato all'eroismo è più un qualcosa riferibile al periodo fascista, non trovi? Nei Paesi di lingua anglosassone c'è una lunga tradizione che vede lo sport in termini più ampi. Gli scrittori ci portano dentro ogni sorta di idee e tematiche. Lo sport è sempre stato una metafora. A fine Settecento e nei primi dell'Ottocento, abbiamo Lord Byron che è affascinato dal pugilismo (boxe a pugni nudi) e il principale cronista di quello sport, Pierce Egan ("Il Plutarco del Ring") descrive un famoso lottatore come uno che "unisce il pugilismo con la poesia". D'altra parte, c'è una grandiosa fetta di letteratura americana sullo sport, soprattutto sulla boxe e sul baseball. Ring Lardner è una figura imponente all'inizio del Ventesimo secolo; nel momento in cui Bernard Malamud scrive The Natural nel 1952 (un libro fantastico in cui, tra le altre cose, viene collegato il base-

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ball con il mito di Artù) è chiaro che sia possibile usare lo sport per parlare praticamente di qualsiasi cosa. Undici anni dopo The Natural, arriva il grande scrittore CLR James, di Trinidad, che è uno storico marxista, e pubblica il suo libro leggendario sul cricket, Beyond A Boundary: qui lo sport rivela ampiamente la cultura, la storia, la politica. Non avevo ancora letto questo libro quando stavo scrivendo Brilliant Orange, ma devo averne colto delle eco perché ne ho ricevuto grandi influenze. Il calcio è arrivato un po' in ritardo, ma io sono stato sicuramente influenzato da persone come Brian Glanville e Hugh McIlvanney, scrittori fortemente saggi e virtuosi il cui corpo letterario è pregno di una consapevolezza sulla politica, sulla storia e sul gioco del calcio in altri Paesi. L'amabile Fever pitch di Nick Hornby ha sdoganato ogni tipo di libro sul calcio. Per quanto riguarda Brilliant Orange, la domanda che mi ha guidato è stata: perché gli olandesi hanno giocato il calcio proprio in quel modo? Tutto ha iniziato a fluire a partire da lì. Non ho mai pensato che la risposta fosse confinata nello stadio o nel campo da allenamento, e nemmeno in individui multiformi come Johan Cruyff e Rinus Michels. Mi sembrò ovvio che il calcio dovesse essere connesso ad altri aspetti della cultura olandese. Ho pensato a questa cosa per lungo tempo. Legai con uno dei miei migliori amici all'università proprio attorno a questa idea: entrambi amavamo il calcio olandese e l'Olanda e avevamo passato del tempo lì; avevamo avuto serie di conversazioni (seppure non completamente esperti) sull'unicità di tutto ciò che era olandese, nel 1975.


Anche l'idea di configurare i capitoli di Brilliant Orange senza un ordine numerico progressivo, facendo comparire i numeri in ordine sparso, come fossero cifre sulle maglie dei calciatori, ha un valore estetico molto forte, otre ad essere un'operazione estremamente originale. A proposito dei numeri dei capitoli, riesco a ricordarmi il luogo e il momento in cui ho avuto questa idea: spesso scrivevo al Café Keyzer, a circa dieci minuti dal mio appartamento ad Amsterdam; era uno dei grandi caffè in vecchio stile della città, un posto magico (peccato che ora sia stato trasformanto in un noioso ristorante posh). Era proprio accanto al Concertgebouw, aveva un'atmosfera densa e fumosa, con le candele sui tavoli. Sedendosi vicino le finestre dell'ingresso potevi vedere i tram e la Museum Square e più in là il Rijksmuseum. Ero solito stampare le mie trascrizioni e le bozze dei capitoli e portarli lì con me per mangiare una fetta di torta di mele, bere caffè, editare e scrivere. Una volta vidi il compositore Gyorgy Ligeti lì. Kubrick ha usato Atmosphères di Ligeti per 2001: A Space Odyssey. In qualche modo l'atmosfera del Café Keyzer deve essermisi attaccata addosso, perché, mentre mi incamminavo lasciandomi dietro il café, sono stato raggiunto da quell'idea.

Cosa ne pensi dell'idea che una partita di calcio sia in qualche modo una narrazione? Il calcio è una storia che si fa da sé mentre si svolge. Il calcio obbedisce alle regole aristoteliche dell'unità di tempo, spazio e azione. Ha un inizio, una parte centrale e una fine. Ha infinite possibilità drammatiche e simboliche, tutte sviluppate dentro uno stretto set di rituali e regole. Il caso vuole che una partita abbia la stessa durata di un film o di uno spettacolo teatrale. Se guardi al gioco del calcio in una prospettiva allargata (le stagioni, le competizioni, le istituzioni, la cultura degli appassionati, le carriere dei personaggi principali e così via), vedi che è una soap opera senza fine, con un infinito numero di protagonisti e antagonisti e archi narrativi. Cosa fa sì che il calcio sia una metafora così potente e flessibile? Non ci pensiamo abbastanza. E' una delle forme culturali più potenti del pianeta in questo momento; più di altri sport, sembra codificare qualcosa di molto profondo, perché persone di tutto il mondo rispondono ad esso nello stesso modo, oltre le barriere linguistiche, culturali e climatiche. Nei momenti salienti il calcio incanta interi Paesi. Ha fermato guerre, e le ha fatte iniziare. E' stato una forza nel bene e nel male. E' potente. Abbiamo il dovere di provare a capire come funziona.

C'è l'idea diffusa che il Calcio Totale sia stato creato in quel momento e in quel luogo in seguito all'atmosfera rivoluzionaria che animava l'Olanda in quegli anni; di certo c'è un forte legame tra lo sport - in particolare il calcio - e la cultura sociale: l'Olanda è simbolo di tradizione e melting-pot al contempo. Negli ultimi mesi si è dibattuto molto in Italia circa lo Ius Soli ed è emerso che i minori non accompagnati dalla famiglia naturale, che vivono sul territorio italiano presso delle case-famiglia, non possono accedere alle squadre dilettantistiche a causa di una regolamentazione della FGCI. Cosa ne pensi? Il mio istinto è sempre quello di includere e non di escludere, di essere aperti e non chiusi. Il fatto principale, a mio avviso, è che il calcio esiste sempre in un contesto politico. Il Calcio Totale olandese venne fuori in un momento di grande ottimismo culturale e politico e di fioritura di un'ottica individualista propositiva in Olanda ed è stato il riflesso di tutto questo. Tornando alla domanda, il contesto evidenzia che la xenofobia, il nazionalismo e l'autoritarismo stanno risorgendo in molte parti dell'Europa e dell'Occidente. Non sono abbastanza addentrato nello stato attuale della politica italiana, ma

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recentemente ho letto il famoso saggio di Umberto Eco sulle quattordici caratteristiche del fascismo. Lui parlava degli anni '20 e '30 ma è calzante con il nostro momento attuale: almeno dieci dei suoi quattordici punti si adattano perfettamente alla Brexit e a chi la sostiene in Inghilterra. Tuttavia, mi aggrappo ancora all'idea che la decenza riaffermerà se stessa e riuscirà a prevalere in qualche modo.

Un'ultima domanda. Dal momento che siamo una rivista di arte e visual culture, ti va di parlarci del concetto di Città Totale e del suo legame con il Calcio Totale? Possiamo dire che sono cose basate sull'abilità di creare un sistema? Sì, gli olandesi sono bravi a creare sistemi, ma non era quello il mio focus. L'approccio alla città da parte degli olandesi - un modo collaborativo di integrare architettura, trasporti e così via - combacia con il loro approccio al calcio. Culture differenti hanno differenti estetiche e priorità. Gli inglesi vedono il calcio come una battaglia, una serie di individui combatte lungo tutto il campo. I sudamericani vedono il campo come un'arena per le abilità e i prodigi individuali. Gli olandesi hanno sviluppato qualcosa di molto diverso: un gioco collettivista, posizionale, dove il campo è visto come un intero e lo spazio può essere creato e controllato (ora tutti lo fanno, ma originariamente era una concezione olandese). Quando ho iniziato la mia ricerca, pensavo di suddividere i capitoli in architettura, arte, politica... Non avevo realizzato che era tutto unito: la loro cultura dello spazio sorregge tutto il resto. Puoi imparare un sacco di cose da piccoli oggetti culturali e forme apparentemente irrisorie. Alcuni anni fa la British Library fece una Storia del mondo in 100 oggetti: una cosa minuscola come la scultura di una renna intagliata nella zanna di un mammuth può dirti una grandissima quantità di informazioni sull'era glaciale. Tutte le cose sono connesse tra loro. E le differenze apparentemente irrilevanti con cui le persone di differenti culture fanno la stessa cosa possono essere rivelatorie di interi mondi di pensiero e storia. Ad esempio, la prima volta che venni a Roma ero ospite di un'amica che preparò un pranzo semplice: pasta al sugo con insalta come contorno. La pasta era buona. Una volta finita, spontaneamente, misi l'insalata nello stesso piatto della pasta. Se avessi tirato fuori un topo morto dalla mia tasca e lo avessi messo sul tavolo avrei fatto una gaffe minore. La mia amica era shockata. Passò le settimane successive a raccontarlo a tutti i suoi amici e loro inorridivano tutti. Ma in Inghilterra, mettere l'insalata nel piatto sbagliato... non è sbagliato. C'è un'interessante differenza culturale. Cosa si nasconde dietro tutto ciò? Beh... così sono giunto a scrivere un libro sulla cultura del cibo a Roma. In effetti è più sulla cultura sottesa alla cultura del cibo. Così ho sguazzato nei precetti della Chiesa, ho scoperto il Satyricon e Doninzetti e i libri di Piero Camporesi e mi sono chiesto perché i primi cristiani consideravano peccaminoso il cibo, e allora tu scopri le torture autoinflitte di Santa Caterina da Siena e il cannibalismo dell'Eucarestia e tutti i poveri antichi

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Romani affamati per secoli, e tutto questo ti porta al Ballo delle Castagne ed ai bunga bunga berlusconiani. E dopo ancora ti accorgi che il cibo nei film di Dario Argento è assolutamente orribile, così gli chiedi il perché e lui ti racconta delle storie spettacolari su Visconti e Leone e Fellini e Mastroianni e il loro rapporto con il cibo. Poi Pasolini ci porta a La Ricotta, che ci porta ad antiche stramberie nella zona della Caffarella, e a quel punto scopri che il cibo a Roma è ebraico e allora vai nel Ghetto... e tutto questo è scaturito dall'aver messo l'insalata nel piatto sbagliato! Vado orgoglioso di quel libro, per molti aspetti è migliore di Brilliant Orange. Ma ci porta dentro un differente problema culturale: contraddice la visione americana e britannica sul cibo italiano. Gli anglosassoni sono tutti convinti che gli italiani vivano tutti in soleggiate colline toscane, passano i loro giorni in una sessualità appassionata, mangiando cibo meraviglioso e cantando le arie di Puccini. Così ti chiedi da dove mai venga questa idea. E così vai ancora avanti, una domanda ti porta ad un'altra dozzina di interrogativi. Non c'è fine a tutto ciò! O almeno io spero non ci sia.

BRILLIANT ORANGE. IL GENIO NEVROTICO DEL CALCIO OLANDESE di David Winner minimum fax,2017 Pagg. 362


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CHINAGLIA RACCONTATO DA CHI NON C'ERA di Fabrizio Moscato Le storie e il calcio sono due buoni argomenti per convincermi a scrivere per questo numero speciale del Muro: da quando mi ricordo il racconto è una dimensione che si è sempre intrecciata alle traiettorie del pallone, nutrendo la fantasia con aneddoti utili a creare l’epica del calcio, più che la sua effettiva cronaca. Un po’ deve aver contribuito anche il dato anagrafico, perché per un amante del calcio la seconda metà degli anni ’70 è stata un buon periodo in cui nascere: giusto in tempo per non perdersi il mitologico calcio degli anni ’80, quello dell’apertura agli stranieri, delle coppe europee, del mundialito e di Pablito, di Maradona, Platini, Rumenigge, Falcao, Socrates, Zico, Junior e dei tanti calciatori anonimi riconoscibili solo grazie alle figurine Panini. Allo stesso tempo, essere poco più che quarantenni oggi, significa non faticare troppo ad orientarsi nel calcio delle pay tv, del campionato spezzatino in diretta sul cellulare, del calciatori superpagati che sfoggiano fidanzate modelle, tatuaggi e acconciature improbabili. Certo, qualcosa ci siamo persi: il calcio pionieristico, quello del secondo dopoguerra, del grande Torino e dei miti della generazione precedente: Rivera, Mazzola, Gigi Riva, Italia Germania 4 a 3. Per quelli come me poi, che hanno avuto in sorte la passione per una squadra come la Lazio, essersi perso gli anni ’70 comporta un danno aggiuntivo. La mia infatti, è la prima generazione di laziali a non aver mai visto giocare Giorgio Chinaglia, per molti uno degli attaccanti italiani più forti di sempre, per i laziali il simbolo, l’incarnazione vera della lazialità; anche per quelli nati nella seconda metà degli anni ‘70, che hanno visto i suoi gol solo attraverso filmati di repertorio. Spiegare questo fenomeno non è possibile, se non tenendo in considerazione l’importanza del racconto che di Chinaglia hanno fatto i suoi tifosi, travalicando qualche volta l’effettivo valore tecnico (la Lazio ha schierato negli anni giocatori forti quanto Long John, che non si sono mai avvicinati al suo mito). Di Giorgio Chinaglia è stato detto tutto: giocatore tecnico e potente, caratterialmente forte al limite della prepotenza, stoffa del leader in campo e fuori. Solo uno così avrebbe potuto portare la Lazio dalla serie B a vincere il suo primo storico scudetto, nel 1974 contro gli squadroni del nord. Certo, in quella squadra non c’era solo un formidabile centravanti: Pulici, Wilson, Re Cecconi, Frustalupi, D’Amico, l’allenatore Maestrelli, tanto per fare qualche nome, furono protagonisti assoluti. Perché allora quello sarà sempre ricordato come “lo scudetto di Chinaglia”? Cosa ha rappresentato “Giorgione” per tutti quelli che, dopo di lui, hanno seguito la Lazio? Ed ecco che torna il racconto, con le storie di campo, gli aneddoti che diventano leggende metropolitane, le immagini e le foto. Soprattutto le foto. C’è ad esempio la foto più iconica, con l’omone urlante che punta il dito contro i nemici inferociti, sul volto l’urlo vittorioso di chi ce l’ha fatta per l’ennesima volta. Ma ce n’è anche un’altra, magari famosa anch’essa, ma che io non avevo mai visto fino al giorno in cui Giorgio Chinaglia ci ha lasciato per sempre, qualche anno fa. Come tutte le immagini di quel periodo, è in bianco e nero: sul muro una scritta, fatta da una mano malferma, dice “Laziali Bastardi”. Roba da far digrignare i denti e stringere i pugni per chi a Roma ha scelto i colori del cielo. Ma subito sotto la scritta, nella foto, c’è lui. Giorgione legge il giornale, non guarda l’obiettivo, la macchina fotografica non esiste. Non guarda la scritta alle sue spalle, non esiste neanche quella. E se esiste, meglio così: è la prova che qualcuno, bomboletta spray alla mano, ha sentito bruciare forte nel braccio la frustrazione per la dirompente lazialità

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che lui ha saputo risvegliare, nutrire, ripagare. Forgiare. Giorgio è la lazialità. Una lazialità che si basta, che non ha bisogno di essere definita da chi non la capisce, anzi la contesta. Il più amato di sempre per i suoi, il più odiato di sempre per gli avversari. Solo lui può fotografarsi sotto una scritta del genere, perché solo con la sua presenza quella scritta non è più offensiva, anzi è quasi una rivendicazione. Una lazialità sbattuta in faccia a tutto il mondo, noncurante del mondo stesso. Dopo queste due foto ce ne sono state centinaia, migliaia, che hanno immortalato la lazialità, l’hanno raccontata, testimoniata, custodita. In molte di esse c’è ancora lui, Giorgione, anche se mai più riuscirà ad esserne interprete capace come quando prendeva a pallonate anni di frustrazioni, sue e del suo nuovo popolo, tra il Galles e la Serie B, a servire tavoli o a guardare i campioni sempre e solo con la maglia a strisce. Nell’album dei ricordi laziali ci sono foto di abbracci disperati, esodi oceanici e imprese titaniche, anche quelle relegate nelle ultime righe delle cronache sportive. Ci sono foto di successi a colori, maglie scintillanti come le coppe internazionali, e ancora uno scudetto, che stavolta non è “quello di Chinaglia”. Nel secondo scudetto Long John non c’è, ma nessuno, nemmeno nato dopo il 1974, quel 14 maggio del 2000, con il sole di Roma sulla pelle e la pioggia di Perugia nelle cuffiette, ha potuto evitare di pensare a lui, almeno per un momento. A distanza di più di quarant’anni dall’ultima partita di Chinaglia con la maglia biancoceleste, c’è ancora la Lazio e non c’è più Giorgione, ma il suo mito non è stato offuscato: non ci sono riusciti i successi, i tanti campioni dell’era Cragnotti (troppa grazia, per chi prima di Chinaglia si attaccava a miti antichissimi per riempire il proprio pantheon) e nemmeno le tristi vicende giudiziarie che il bomber del ’74 dovette affrontare. Troppo forte quell’amore, troppo forti le gioie regalate da quell’uomo ad un intero popolo, in campo e fuori. L’omone col dito puntato e il sorriso di sfida ormai non può più andarsene lontano, nemmeno per segnare caterve di gol a fianco di Pelè e Beckembauer, negli Stati Uniti. Oggi che Chinaglia non c’è più, di lui resta il ricordo di uno scudetto. Della sua storia resta il racconto dei suoi tifosi. Anche di quelli che non c'erano.


Foto: Salvatore Bolognino

IL CALCIO è DEL POPOLO di Ornella Cotena

Ognuno di noi ha la sua storia e credo che in tutte le storie ci sia un pallone. Forse è per questo che la terra è tonda? Mi chiamo Ornella, ho 30 anni e sono napoletana. Oltre al fatto che qui Maradona è Dio, sono cresciuta in una famiglia nella quale il mondo del calcio è sempre stato presente. Ricordo una foto in bianco e nero: mio nonno, le mie zie, un pallone. Sì, lui allenava una squadra di calcio femminile. Sì, io ho studiato danza. Anche mio padre giocava a calcio e poi anche mio fratello. Quando andavo a vedere le sue prime partite, provavo una grande tenerezza nel rendermi conto che aveva gli occhi lucidi e non sapeva dove tirare. Era molto piccolo. Poi è cresciuto ed è diventato difensore. Questo ruolo mi è sempre piaciuto: difendersi da chi?, da cosa?, perché? Una cosa è certa: secondo me lui ha difeso e difende molto bene. E’ successo che ho difeso anch’io: alcuni mesi fa ho provato la fantastica esperienza di mettere i calzerotti e calciare un pallone. Non so bene com’è nata ma, insieme ad un gruppo di colleghi di lavoro, in piena estate, abbiamo organizzato una partita. Come se stesse già scritto da qualche parte, ho scelto di difendere. Una vera paladina della giustizia, no? Dai racconti dei miei compagni di squadra e anche da quelli degli avversari, ho giocato bene. Sì, giocare. Il pallone ti fa tornare bambino e, sudore a parte, ti fa ridere. Sembra un po’ la storia della nostra vita. La palla rotola e tu la insegui; quando riesci a prenderla ti immergi in uno stato di serenità e vittoria ma quando vuoi difenderti e invece gonfia la rete non è il massimo. E poi quanti vetri rotti? Quanti palloni bucati? Non conosco il motivo ma in giro c’è tanta gente che se la prende con i palloni. Per fortuna il pallone non è solo questo: è un grido di gioia, una vittoria, una birra, una chiacchierata, un ideale. Il calcio crea folli incontri e unisce magicamente orizzonti che forse non si sarebbero mai incontrati. Un giorno è successo che mio fratello è entrato a far parte di una squadra che si chiama Quartograd e da lì, anche se non da calciatrice, anch’io sono stata inghiottita da questa realtà. Infatti, non è la mia storia che voglio raccontarvi ma è la storia di una collettività. Il 26 giugno del 2012, a Quarto, in provincia di Napoli, è nata questa storia. Un gruppo di giovani, attivi socialmente sul territorio, decidono di creare un progetto di calcio differente che vada al di là del rettangolo verde. Alla base di questa idea c’è un ingrediente molto impor-

Foto: Ornella Cotena

tante: la partecipazione popolare. Questa storia però non nasce all’improvviso, così su due piedi, ma è frutto di molte esperienze precedenti: amicizie solide, stessi ideali, tornei di calcio. Questa storia che vi racconto non è finita. E’ una storia che dura da cinque anni, anni in cui ci sono state crescite, cambiamenti, speranze, sogni, certezze che ci hanno portati nella categoria Promozione. La certezza più grande è, senza dubbio, la seguente: un altro calcio è possibile ed un altro mondo è necessario. Ma allora cos’è il calcio popolare? E’ una risposta rivoluzionaria dal basso, contro il calcio moderno, specchio della società capitalista nella quale viviamo. Disgustati da campionati falsi, speculazioni e divieti, il calcio diventa lo strumento per costruire una realtà migliore e dimostrare che lo sport appartiene a tutti. Le parole chiave sono tre: aggregazione, antifascismo, antirazzismo. Il Quartograd è nato grazie all’autofinanziamento, all’azionariato popolare ed è molto forte il rapporto con il nostro territorio. Tutti possono sostenere il progetto, anche da lontano, e sentirsi parte di una grande famiglia. Negli ultimi anni siamo anche riusciti ad effettuare degli scambi interessanti con le altre realtà e a stringere rapporti con tifoserie europee che ci hanno ospitati così come noi abbiamo fatto con loro. E continueremo a farlo. Ci sarebbero tante cose da raccontarvi e anche il pallone - forse non ci avevamo mai pensato - ha molte cose da dire.

Foto: Salvatore Bolognino

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il muro Ungheria, 1958. ©Fortepan

EUROPA VS SUDAMERICA Due scuole di pensiero, calcio e letteratura a confronto di Carlo Miccio Nell'immaginario storico-calcistico planetario, la dicotomia tra Europa e Sudamerica è una delle più antiche tra le categorie fondanti. Prima dell'arrivo della fisicità dirompente delle squadre africane e delle dinamiche geometrie asiatiche, esistevano solo due maniere di intendere il calcio. Due identità, per così dire. Alla scuola sudamericana si attribuisce convenzionalmente un gioco costantemente offensivo e votato alla spettacolarità, con delle evidenti idiosincrasie sul fronte dell'organizzazione tattica. Il calcio all'europea, invece, da sempre privilegia un approccio più meditato e realista, dove moduli e allenatori contavano quanto se non più dell'estro espresso nelle giocate in campo. E se come esempio del primo stile possiamo utilizzare lo storico gol fatto da Maradona all'Inghilterra durante il mondiale messicano del 1986 – 0% logica + 100% genio e improvvisazione – niente definisce meglio la perfezione modulare europea dei primi tre minuti della finale Germania-Olanda del 1974, al termine dei quali i tedeschi si ritrovarono sotto 1-0 senza esser mai riusciti a toccare palla, in una finale mondiale giocata in casa. Abbiamo provato a vedere se queste due identità archetipiche si confermassero anche nella narrazione letteraria sul calcio: se cioè gli scrittori di calcio sudamericani potessero distinguersi dai loro omologhi europei per un diverso stile di vivere, godere e narrare storie pallonare. Ovviamente, differenze di stili e scuole narrative esistono già di per sé tra i due continenti per quanto riguarda la letteratura tout court: si tratta di vedere piuttosto se c'è qualcosa di peculiarmente differente rispetto alle narrazione sportive. Numerosi sono gli autori che su entrambe le sponde dell'Atlantico si sono avventurati a narrare di calcio: racconti e romanzi

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in cui il calcio era protagonista, ma anche usato di sottofondo a storie che di sportivo avevano ben poco - da Garcia Marquez a Peter Handke, da Vazquez Montalban a Eduardo Galeano. Per non parlare di illustri intelligenze che hanno dedicato pagine, sia di odio che di amore, al più popolare degli sport, quali Borges, Camus e Pasolin.i Dovendo per ragione di sintesi restringere il campo, possiamo però affermare che nessuno è riuscito a dipingere meglio luci ed ombre di questo mondo di quanto abbiano fatto l'argentino Osvaldo Soriano e l'inglese Nick Hornby. E mettendo a confronto il lavoro di questi due autori, forse possiamo arrivare a farci un'idea di massima su quali siano le affinità e le divergenze tra la scuola sudamericana e quella europea in materia di narrazioni pallonare. Promettente centravanti di categoria in gioventù, Osvaldo Soriano dovette appendere precocemente gli scarpini al chiodo per via di un incidente che gli lesionò permanentemente il ginocchio, e che lo spinse a dedicarsi a tempo pieno al giornalismo e alla letteratura. Nei tanti racconti dedicati al calcio che ha scritto prima di una precoce morte per infarto a soli 54 anni ( e raccolti in italiano da Einaudi nelle raccolte “Pensare con i piedi” e “Futbol”), Soriano delinea un mondo che funziona sulle ali del mito, sfiorando atmosfere tipiche del realismo magico e pieno di storie al limite del credibile - mondiali fantasma difficilmente documentabili (ma gloriosamente descritti) e rigori che richiedono una settimana per essere battuti a dovere. Le sue partite sono piene di eroi epici e sopra le righe, siano essi arbitri pistoleri che risolvono a colpi di revolver le discussioni più accese o allenatori giramondo a la Forrest Gump, che si ritrovano coinvolti in rivoluzioni africane e trame spionistiche internazionali. Niente nel calcio narrato da Soriano è esente dalla patina mitopoietica del narratore onnisciente, neanche


LA TRAPPOLA DEL FUORIGIOCO di Carlo Miccio Editore Alpha & Beta Anno 2017 Pagg. 288 Non è per niente bizzarro scrivere un romanzo che parli di malattia mentale ed intitolarlo “La trappola del fuorigioco”, così come ha fatto Carlo Miccio. Il fuorigioco scatta quando saltano le regole prestabilite per l’attacco: il guardalinee messo lì a controllare alza la bandierina, l’arbitro fischia e tutti i giocatori si bloccano. A volte l’attaccante procede ancora un po’forse non ha sentito il fischio, forse l’ha sentito ma va avanti impunito, raccontandosi nella propria testa che una così bella azione, seppur fuori dagli schemi, merita una giusta conclusione – e magari riesce ad infilare la palla in rete, mentre il portiere se ne sta immobile perché tanto ormai non vale, il gioco è fermo e arriverà l’arbitro ad annullare tutto. Può suc-

cedere chi sta lì a tifare si ritrovi a pensare che è un peccato, una così bella azione invalidata da un centimetro di troppo di distanza, dalla luce che passa fra difensore e attaccante, da un enorme nonnulla che ha compromesso tutto. Io la malattia mentale la immagino così. Un gesto. Solitario, incomprensibile, spaventoso per l’ordine prestabilito che, non riuscendo a catalogarlo, non può far altro che fermarlo per tentare di ricondurlo su terreni conosciuti e sicuri, assegnandogli un posto in uno schema che non comprende la casella che possa custodirlo. Solo una squadra sarebbe in grado di contenere la persona responsabile di quel gesto. Coesa, compatta, che gli faccia quadrato attorno, proteggendo e proteggendolo, che sappia costruire l’armonia del proprio movimento fondendo le singole azioni di tutte le sue componenti.

sata da una rete funambolica e quasi magica di sotto trame che raccontano l’Olanda di Cruyff, la vittoria del Partito Comunista alle elezione del 1975 e i riti sciamanici presenti nelle culture di tutti i Sud del mondo, come una squadra che vigila e protegge il difficile percorso di un ragazzino, poi uomo, che impara a convivere con la malattia del padre. Luciana Mattei

La storia di Marcello e della sua famiglia, narrata nel romanzo, è attraver-

quando racconta cronache reali, come lo straordinario ritratto che fece di Obdulio Varela, capitano della nazionale uruguayana che sconfisse il Brasile al Maracanà durante la finale dei mondiali del 1950. Osservando invece l'esordio letterario di Nick Hornby, quel Fever Pitch (Febbre a 90 in Italia) che è presto diventato un best seller e una pietra miliare di paragone per centinaia di narratori, del mito non s'intravede traccia. Il giovane protagonista - di quello che a tutti gli effetti è un romanzo di formazione - s'innamora del suo Arsenal guardandolo pareggiare zero a zero durante il suo primo sabato allo stadio, in compagnia di un padre neodivorziato che non sa come impiegare il tempo nel weekend di custodia del figlio. Uno squallido pareggio senza gol, neanche il gusto di una sconfitta che gli avrebbe concesso un po' di sano vittimismo. E però, qualcosa in quella giornata, fosse anche solo il piacere di starsene per qualche ora con il padre, scatta nel protagonista, avviandolo ad una carriera di tifoso per lo più deluso che si lega a filo indissolubile con ogni evento importante della sua esistenza: la scoperta della vita attraverso la musica, le amicizie, le ragazze, fino ad arrivare all'amore vero e alla nascita di un figlio, viene scandita in parallelo con le vicende della squadra londinese, che in quei particolari anni darà ben poche soddisfazioni alla sua tifoseria, capace di coniare lo storico coro Boring Boring Arsenal (Noiosissimo Arsenal) come affettuosa dimostrazione di fedeltà alla squadra.

a casa in giornata) e l'unica sacralità prevista non è riservata a nessun giocatore, arbitro o allenatore, ma unicamente ai colori sociali. E tutta questa fedeltà alla squadra Hornby riesce a raccontarla senza bisogno di rifugiarsi nella comoda scorciatoia della retorica da ultrà, preferendo affrontare sfumature dell'animo umano che hanno molto più a che fare con l'individualità che con lo spirito del gregge. C'è una differenza sostanziale di prospettive: qui l'unico eroe è l'uomo normale, la classe operaia che riempie di rituali pagani il proprio tempo libero, e tutto il discorso si sposta su questa relazione. Non c'è più spazio per le narrazioni senza tempo di Soriano, che così bene corrispondono invece all'idea di calcio del suo connazionale Maradona, ma anche all'eredità stilistica del grande Brasile di Pelè, alle punizioni di Zico e alla genialità di uno Schiaffino, come canta Paolo Conte in un brano non a caso intitolato Sudamerica. Qui in Europa, il Vecchio Continente come amano ricordarci loro, l'idea che abbiamo è invece un'altra, sia di calcio che di letteratura: l'eroe è il tifoso bagnato sugli spalti, incatenato a un'idea di amore eterno che non riesce a replicare in nessun altro campo della propria vita – di certo non con le donne né con il lavoro, e tutto sommato neanche con sé stesso. Perché la Maturità, una volta sopraggiunta, non avrà comunque mai il sapore pieno di un gol al novantesimo. Ma neanche quello di un album di figurine Panini completo, a dirla tutta.

Se nei racconti di Soriano il colpo di scena è sempre dietro l'angolo, l'essenza del calcio è per Hornby la monotona ritualità del tifoso, il gesto identitario supremo è la trasferta sfigata del sabato (otto ore di treno fino a Newcastle per vedere una noiosissimo pareggio sotto la pioggia battente, e ritorno

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Johan Cruijff

UNA STORIA SULLA CARTA di Jamila Campagna Qualcosa di affascinante e misterioso si delinea nelle prime sette tavole di un progetto in fieri che vuole raccontare la storia di un calciatore che ha trasceso il calcio e ne ha fatto una materia plastica a metà tra individualismo e spirito di gruppo, a metà tra azione e filosofia. 14 passi verso la rivoluzione è un progetto di graphic novel ideato e scritto da Francesco Lombaro e disegnato da Toni Viceconti per raccontare l'esperienza umana e sportiva di Johan Cruijff, calciatore che si fa ricordare per la sua presenza nella nazionale olandese e tra le fila dell'Ajax negli anni 70. Quello di 14 passi è un Cruijff non semplicemente iconico, come è arrivato al presente trascinato dalla sua fama, ma un Cruijff simbolico: la scacchiera, trasposizione metaforica del campo da gioco - per come era pensato e vissuto nel Calcio Totale inventato dal giocatore olandese -, diventa il mezzo di incontro e confronto tra un giovane Cruijff e un Cruijff anziano, tra la speranza di un futuro tutto da scrivere e lo sguardo consapevole di chi fa i conti con le scelte fatte, le mete conquistate e le cadute subite. L'impianto grafico delle tavole, a tratti spiraliforme e centrifugo, irrequieto nel forzare la scomposizione tipica delle strisce di fumetto, è saturo di dettagli che si stagliano come frammenti - mani, braccia, volti, attorno all'atleticità della figura intera - e dà spazio ad un discorso esistenzialista che rimanda alle atmosfere e all'iconografia bergmaniana. Una storia in bianco e nero, con lastre di inchiostro che si alternano a segni fatti di impeto e di attrito, interrotta dal rosso della maglia a strisce dell'Ajax e dall'arancione di quella della nazionale olandese. I protagonisti hanno i volti duri, le facce tese di chi sta andando in guerra o di chi si prepara a cambiare il mondo - come se il mondo fosse in un rettangolo di prato -, di chi si appresta a fare la rivoluzione, in quattordici passi. Francesco "Ive" Lombardo è sceneggiatore e ha frequentato la Scuola del Fumetto di Milano. All’attivo, oltre a qualche storia indipendente, ha tre pubblicazioni con la casa editrice La Memoria del Mondo: Le Conquist de Magent (2011), fumetto a strisce comiche sulla battaglia di Magenta; Siamo Tutti Uomini – I colori dell’Olocausto (2015), graphic novel che racconta le diverse tipologie di perseguitati del periodo nazista; A come ArmaturaUna Graphic Novel sugli Anni 70 (2016) che racconta la difficile situazione personale e sociale di un adolescente durante gli Anni di piombo. In tutte le sue opere ha unito la passione per la storia con quella del fumetto nel tentativo di raccontare avvenimenti, alcuni ancora poco conosciuti, con un linguaggio non tradizionale; in quest’ultima opera ha unito la sua passione per il calcio e l’Olanda per raccontare la storia del Profeta del Gol. Toni Viceconti è un disegnatore di fumetti; ha frequentato la Scuola del Fumetto di Milano. Ha all’attivo alcune pubblicazioni nel circuito indipendente e non, tra cui: Il Brigadiere Leonardi, una raccolta di storie sceneggiate da alcuni esponenti del fumetto italiano, tratte da racconti ideati da Carlo Lucarelli. Attualmente collabora con la casa editrice La Memoria del Mondo con la quale ha pubblicato i volumi Siamo Tutti Uomini – I Colori dell’Olocausto e A come Armatura – Una Graphic Novel sugli Anni 70. Al momento è al lavoro su 14 Passi per la Rivoluzione, Drinah e i Reietti.

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LO STRANO CASO DI RE CECCONI INTERVISTA A GUY CHIAPPAVENTI di Luca Picozzi di Monaco Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi è il libro di Guy Chiappaventi, edito da Tunué, in cui il giornalista ricostruisce l'episodio delittuoso che vide il famoso calciatore della Lazio cadere sotto i colpi di pistola di un gioielliere. Luciano Re Cecconi fece ingresso nella gioielleria in orario di chiusura, nella cosiddetta ora brutta, in una Roma stretta nella morsa del freddo di gennaio e nella paura che nel 1977 aleggiava per le strade delle grandi città italiane. Quella di Chiappaventi non è un'operazione revisionista ma piuttosto una ricerca dettagliata, forte di una grande raccolta di documenti. Un'operazione giornalistica volta a riabilitare la figura di un giovane padre nel pieno della carriera, che dal giorno della sua morte sconta la damnatio memorie di essere considerato come lo scemo del villaggio, quello che incautamente, in un clima di violenza diffusa, avrebbe perso la vita per fare uno stupido scherzo. In effetti, è troppo semplice liquidare Re Cecconi come quello che se l'è cercata e l'indagine accurata e paziente di Guy Chiappaventi pone degli interrogativi e fa emergere tutti i dubbi sul caso, cerca delle spiegazioni e scandaglia il terreno per analizzare altre possibili versioni dei fatti. Un'inchiesta che analizza la cronaca e la sfera umana dei protagonisti e che stride con l'inconoscibile. Abbiamo avuto una lunga conversazione con Guy Chiappaventi, a quarantanni dalla morte di Luciano Re Cecconi, nella lunga distanza da una tragica sera avvolta nel mistero, nel punto in cui non si riesce a capire se erano quei film ad ispirarsi ai fatti di cronaca oppure era la realtà a trasmutarsi in film.

1 Il libro Aveva un volto bianco e tirato ha un titolo molto descrittivo della fisionomia del protagonista di questa storia, Re Cecconi; vuoi delinearci le caratteristiche della sua figura? Sì, il libro ha come protagonista Re Cecconi che è un calciatore molto famoso a Roma negli anni ’70, ha vinto lo scudetto con la Lazio nel 1974 e, sempre in quell'anno, ha partecipato - anche se solo da riserva - ai Campionati del Mondo; è uno che ha fatto la gavetta, che viene dall’hinterland di Milano, un tipo tosto, concreto, un lombardo proveniente da una famiglia povera di mezzadri, una famiglia operosa con quattro figli. Hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena, allevano mucche e quindi mangiano latte a colazione, pranzo e cena con i biscotti, con il riso, con le patate. Lui comincia a lavorare da ragazzino, riparando le resistenze dei ferri da stiro, poi si mette a fare il meccanico in una autocarrozzeria svegliandosi la mattina alle 4, mentre il pomeriggio si allena con il Pro Patria a Busto Arsizio.

2 L'altra figura in questa storia è l'orafo che ha sparato il colpo mortale. L’altro protagonista o, se vuoi, l’antagonista della storia è un orafo, che a suo modo ha una storia parallela a quella di Re Cecconi perché viene anche lui dalla provincia, dalle Marche, da Porto Recanati, da madre rimasta vedova durante la guerra. Anche loro sono molto poveri e vengono a Roma a cercare fortuna. Vivono tramite un commercio di tessuti fatti in casa nel quartiere Prati, non hanno un negozio. Bruno Tabocchini - questo il nome dell'orafo - decide di fare l’orafo iniziando come garzone gratuitamente, tanto che sua nonna dà i soldi al suo datore di lavoro per pagare il nipote, facendo finta che lo retribuisca per non farlo scoraggiare. Questo fino a quando non riesce ad aprire un’attività sua in un quartiere nuovo che sta crescendo a Roma Nord: il quartiere Fleming. All’inizio è soltanto un laboratorio, poi nel 1963, nella Roma del boom economico, apre questa attività dove lavora solo con la moglie. Questo negozio sarà un po’ tutta la sua vita.

3 Re Cecconi ha fatto parte di una Lazio iconica; ognuno in quella squadra era un personaggio e aveva un soprannome. I soprannomi - che sono un po’ la mia ossessione - contano molto, contano quando andavamo a scuola, contano nei gruppi, contano nelle relazioni, contano nelle redazioni dei giornali,

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e in “questo gruppo di pazzi selvaggi e sentimentali” - come ho definito in un altro libro la Lazio del ’74 - hanno tutti un soprannome: Chinaglia, il pirata cattivo Long John Silver; Wilson è il padrino o il baronetto; Petrelli, che ha portato la moda delle pistole nella squadra, viene chiamato il Petro, come in uno Spaghetti Western di Sergio Leone; Gigi Martini è il comandante, poiché ha questa ambizione un po’ d’annunziana di fare il pilota d'aereo, il parà; Re Cecconi in questo gruppo è soprannominato Il saggio, perché è quello che ha la testa sulle spalle più di tutti.

4 Il fatto che tutti lo chiamino il saggio è un paradosso rispetto alla vicenda che poi si è creata. Uno degli altri elementi fuori posto in questa vicenda è il luogo in cui accade, il quartiere Fleming. Il luogo dove si consuma il fatto è via Francesco Saverio Nitti, una traversa di via Flaminia nuova, nel quartiere Fleming, il quartiere storicamente della Lazio perché è vicino al campo di allenamento di Ponte Milvio. Lì abitano un po’ tutti i calciatori della Lazio, hanno il loro ritrovo in un bar della zona; lì abita l’allenatore Maestrelli e tutt’ora questo quartiere conserva quella dimensione. E’ casa loro, è il loro feudo. Tant’è che quando Re Cecconi morì la Gazzetta dello Sport scrisse “pare che Tabocchini fosse l’unico della zona a non conoscere il calciatore e non sapere che questa zona era frequentatissima dai calciatori della Lazio”. Inoltre Re Cecconi è molto famoso perché è un campione ed è biondissimo, quasi albino e facilmente riconoscibile a distanza, anche per la sua andatura. Il calciatore passa per quella strada tutti i giorni. Era molto conosciuto e molto riconoscibile.

5 C'è anche da aggiungere che il tragico evento accade in un periodo storico tremendo per l'Italia. In particolare, il fatto è accaduto nel '77, anno di terribile violenza sociale e politica, documentato nel libro attraverso i dati della Procura Generale della Cassazione. Il ’77 è l’altro protagonista del libro. Il libro non è un libro di calcio, di calcio ce n'è pochissimo. Il ’77 è un ’68 rovesciato, di pura violenza, un anno lunghissimo che comincia con la cacciata di Lama, segretario della CGIL, dall’università da parte degli autonomi, degli indiani metropolitani e poi prosegue per altri 13 mesi sino al sequestro di Aldo Moro. In mezzo ci sono


AVEVA UN VOLTO BIANCO E TIRATO. IL CASO RE CECCONI di Guy Chiappaventi Tunué,2016 Pagg. 192

una serie di fatti di grande violenza, c’è la morte di Giorgiana Masi il 12 Maggio su Ponte Garibaldi, la banda della Magliana comincia a mettere in piedi il sequestro del nobile Lante della Rovere. Il delitto Re Cecconi avviene qualche giorno prima che le Brigate Rosse sparino all’ispettore del carcere di Regina Coeli. Al cinema questo clima viene rappresentato da film come Milano odia e la polizia non può sparare, tutto quel filone poliziottesco, molto pop, detestato dai critici che lo considerano trash, volgare, violento, una serie di film tutti uguali che va a sostituire il filone degli Spaghetti Western: al posto dei cavalli ci sono le motociclette, al posto dei fucili Winchester le P38.

6 Nella tua ricostruzione emergono molti altri aspetti contrastanti. Lo scenario sembra quello di un thriller hitchcockiano, con molti personaggi presenti che però sembrano non riuscire a ricordare esattamente quali siano state le dinamiche. Ciò che avviene all’interno della gioielleria è molto controverso perché alcuni testimoni, come il giocatore della Lazio che accompagna Re Cecconi, Pietro Ghedin, cambiano varie volte la versione dei fatti. Le testimonianze non sono tutte uguali e sembrano non attendibili. Alla fine viene accreditata la tesi di uno scherzo: Re Cecconi avrebbe fatto ingresso dicendo una frase come “fermi tutti è una rapina” o qualcosa del genere. Questa tesi si afferma malgrado il profumiere - che accompagnò Re Cecconi lì e che lo stesso pomeriggio era già stato altre due volte in gioielleria (dato che la sua profumeria era a 80 metri di distanza) - dichiarò che il calciatore non avesse mai detto la parola “rapina”. Al contrario, il gioielliere, la moglie ed un macellaio della zona - anch'esso presente nella gioielleria in quel momento per un acquisto - affermavano il contrario. Non si sa bene cosa disse Re Cecconi.

7 La tua indagne giornalistica si condensa nel libro anche attraverso la raccolta delle prime pagine dei giornali all'indomani del delitto, un apparato documentario che rende anche l'idea di come è stato raccontato l'episodio, con tutto il suo carattere controverso, e che fa da specchio a come l'accaduto era stato recepito nel sentire comune dei cittadini. Re Cecconi e Tabocchini si incontrano il 18 Gennaio del ’77. Lo stesso pomeriggio a Roma c’è un’altra rapina a Trastevere in Via del Moro, dove viene quasi ucciso un gioielliere. Due settimane dopo, mentre cominciava il processo, a Verona viene ucciso un gioielliere in una rapina. Questo per sottolineare la frequenza con cui accadevano rapine e omicidi all’interno delle gioiellerie, molto più alta rispetto a quanto accadesse in banca o in posta. Molto spesso i gioiellieri non erano neppure assicurati perché

le rapine erano così frequenti che alle assicurazioni non conveniva e comunque avevano dei massimali altissimi, per questo “nelle gioiellerie si spara”. Tabocchini, nella fattispecie, è assicurato per cinquanta milioni di lire - un valore superiore a quello della merce in negozio - ha subito già diverse rapine, nell’ultimo anno ha sparto due volte e una volta ha quasi ucciso un bandito, un balordo di Primavalle, per cui fu premiato con una medaglia dall’Associazione Orafi di Roma. In questo clima era considerato un eroe; vi fu movimento popolare fortissimo in favore dell’orafo, prima per la sua scarcerazione e poi per la sua assoluzione. Il PM nella requisitoria dichiarerà di aver ricevuto decine e decine di lettere per chiedere la scarcerazione dell'orafo, anche lui padre di famiglia, che si è difeso; le motivazioni della sentenza cominciano con una motivazione psicologica, cioè dicendo che bisognava tener conto de l’ordre dans la rue.

8 Questa dimensione ricorda molto il clima attuale, in cui c’è spesso una giustificazione alla violenza, sembra un po’ quello che vogliono far passare come lecito adesso, che si sia legittimati a difendersi da soli anche a rischio di colpire a morte il ladro o l'aggressore. Questa è una delle cose che rendono attuale il libro. Occupandomi di cronaca giudiziaria, ho approfondito anche questo aspetto: Il PM chiede tre anni, ma il giudice Severino Santiapichi, uno dei più importanti di quel periodo, che si occuperà poi anche del caso Moro, assolve il gioielliere per legittima difesa. Il caso si chiude in meno di tre settimane perché il processo si svolge per direttissima, cioè cristallizzando le prove che c’erano in quel momento e non viene fatto un processo d’appello perché la procura generale decide di rinunciarvi, nonostante il PM in primo grado abbia presentato i motivi di ricorso all’appello. Un caso rapidissimo nella lentezza del sistema giudiziario italiano.

9 C'è anche una passione personale che ti ha spinto alla stesura di questo libro? Non c’è dubbio che io abbia una passione per la Lazio; inoltre sono nato nel ’68, ero bambino in quegli anni, non ero particolarmente tifoso all'epoca ma senza dubbio quell'episodio mi colpì molto e appartiene ad un periodo evocativo per il mio vissuto personale. Devo anche dire che chi si occupa di cronaca giudiziaria ha un interesse particolare per gli anni ’70. Re Cecconi è stato il giocatore più disgraziato della storia della mia squadra; la sua vicenda inquadra perfettamente gli anni ’70. Un antieroe a tutti gli effetti.

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