IL MURO 12 Special Edition Fare Spazio

Page 1

art philosophy visual culture

EDIZIONE SPECIALE

n.12 maRZO-APRILE 2018 freepress


Sponsor tecnici


indice 4 Fare Spazio. Latina: dalla fondazione alla contemporaneità, a cura di Stefania Crobe, Marianna Fazzi, Massimo Palumbo 8

Stalker_NoWorking. L'attraversamento dell'incertezza,

intervista di Francesca Cocco

IL MURO Art, Philosophy and Visual culture rivista bimestrale N. 12 marzo - aprile 2018 Direttore responsabile Luisa Guarino Direttore creativo Jamila Campagna Caporedattore Gaia Palombo Team grafico Ramona Moretto Francesca Busatto Foto editor e ricerca iconografica Jamila Campagna Gaia Palombo Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Francesca Busatto Jamila Campagna Francesca Cocco Stefania Crobe Marianna Fazzi Gaia Palombo Massimo Palumbo Michele Porsia Alessio Tanganelli Andrea Valente Redazione IL MURO via Veio 2 04100 Latina

10 IL MURO. Un rivista per Fare Spazio, di Gaia Palombo e Jamila Campagna

11

Come piante radicanti, di Michele Porsia

12 Latina, una foresta sul mare, testo e foto di Andrea Valente

14

Terra, Uomo e Risorse, di Alessio Serafino Tanganelli

16 Pornographic and tragic in black and white, conversazione con Daniele Fiacco, di Jamila Campagna 20

Gli Scarabocchi di Maicol&Mirco, intervista di Francesca Busatto

Numero Speciale realizzato in occasione di

Fare Spazio #2 Latina: dalla Fondazione alla contemporaneità 28 - 29 aprile 2018 promosso da IL MURO

Editore e Proprietario IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Contatti infoilmuro@gmail.com

con

www.facebook.com/ILMUROmagazine www.ilmuromagazine.com Stampa Grafica Sabina di Urbanetti Francesco e C. Via Maglianello, 02046 Magliano Sabina (RI) Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) In copertina: Latina, gouache su carta stampata, di Jamila Campagna

Fare Spazio #2 Latina: dalla Fondazione alla contemporaneità è realizzato con il sostegno della Regione Lazio nell'ambito degli Interventi per la conoscenza, il recupero e la valorizzazione delle Città di Fondazione (L.R. 27/2001).


Foto di Jamila Campagna

Latina: dalla fondazione alla contemporaneità a cura di Stefania Crobe, Marianna Fazzi, Massimo Palumbo

«Fin dalle sue origini, la città è ‘investita’ da una duplice corrente di ‘desideri’: desideriamo la città come ‘grembo’, come ‘madre’, e insieme come ‘macchina’, come ‘strumento’; la vogliamo ‘éthos’ nel senso originario di dimora e soggiorno, e insieme mezzo complesso di funzioni; le chiediamo sicurezza e ‘pace’ e insieme pretendiamo da essa estrema efficienza, efficacia, mobilità. La città è sottoposta a contraddittorie domande. Voler superare tale contraddittorietà è cattiva utopia. Occorre invece darle forma. La città nella sua storia è il perenne esperimento per dar forma alla contraddizione, al conflitto». [M. Cacciari, La città, Pazzini ed., 2004]

Nella necessità di superare una visione riduzionista e razionale – dallo sguardo zenitale e univoco - della città, e con la volontà di tenere insieme diversi codici linguistici, differenti sensorialità e identità che assumono qui una declinazione obbligatoriamente plurale, FARE SPAZIO – tra visioni, intuizioni, pensieri – vuole essere, anche per questa seconda edizione, l’occasione per riflettere sulla nascita di nuovi modi di percepire e progettare l’urbano. Una progettazione che è una progettualità dell’agire, al di là di quella pianificazione così rigorosa e calata prepotentemente dall’alto che caratterizza la nascita ex novo delle “città di fondazione” e nelle cui intercapedini nascono e si sviluppano forme altre di abitare il territorio. Forme generate da memorie, attraversamenti, superfetazioni che ci raccontano di come la città sia mobile nella sua stessa essenza e che la sua anima sia strettamente legata ai cives, al mettersi insieme dei cittadini.

4

L’incontro ha l’obiettivo di indagare nuovi strumenti di ascolto e azione che offrono una visione alternativa di futuro, nuovi dispositivi di indagine e conoscenza, di interpretazione e rappresentazione del territorio, capaci di restituirne la molteplicità, le stratificazioni. FARE SPAZIO #2 intende avviare una riflessione cross-disciplinare sulla narrazione di Latina, andando oltre la descrizione stereotipata e razionale per scorgere nuovi e altri modi per interpretare e rappresentare le trasformazioni della città. Come lo scorso anno, anche questa seconda edizione guarda alle pratiche artistiche e culturali e all’interazione tra metodologie differenti come strumenti prediletti per leggere la complessità e al contempo creare nuove possibilità, nuovi immaginari. Con la volontà di immaginarci dentro un continuum, senza voler rifiutare – o peggio cancellare – i legami col passato, l’obiettivo è quello di attraversare i confini tra pensieri, proget-


ti, ricerche e pratiche estetiche che restituiscano una visione plurale della città, che vada appunto oltre, che apra spazi di immaginazione e sappia accogliere (che nell’etimologia evoca la ricezione e lo scambio), facendo spazio, nuovi modi di guardare e produrre la città, nella sua dimensione fisica e sociale, facendo emergere le latenze, i conflitti, il non detto, l’emerso e il sommerso, la complessità, le segrete connessioni tra le cose. Una riflessione che non vuole imporre soluzioni ma piuttosto sollevare interrogativi sull’esercizio di diverse metodologie di ricerca e progettualità che come comune denominatore hanno la città, coloro che la abitano, la attraversano, la trasformano, con tutte le implicazioni che questo abitare mutevole comporta. All’interno di questa cornice è aperto – al fine di mappare le esperienze e i fermenti culturali del territorio pontino - un invito a ricercatori, pratictioner, professionisti a partecipare attivamente all’incontro per presentarsi e riflettere in maniera aperta e critica – con la città di Latina a fare da contesto e pretesto - sul rapporto tra arte e architettura, sul ruolo delle pratiche artistiche e delle sperimentazioni estetiche, sul rapporto tra la città e la sua periferia territoriale.

Foto di Jamila Campagna

Rendere visibile, rendere sensibile. Nuovi sguardi sulla città attraverso pratiche artistiche e sperimentazioni estetiche di Stefania Crobe Anche (e forse soprattutto) nei periodi dominati da regimi autoritari e restrittivi, l’arte e la cultura sono state – in quell’oscillazione tra libertà e responsabilità e quando sono riuscite a sottrarsi alle strumentalizzazioni imposte dai regimi stessi – il campo in cui esercitare un pensiero indipendente e ribelle, il luogo in cui sperimentare e dare voce agli oppressi, alle soggettività nella pluralità, lo spazio in cui immaginare visioni di futuro, dando forma alle intuizioni. Arte che sveglia il tempo, attivando la coscienza collettiva, rendendo visibile, rendendo sensibile. Come ricorda bene Michel Maffesoli, l’intuizione letteraria e quella artistica non possiedono il rigore della legge causale, ma possono con esattezza individuare le grandi tendenze sociali (La contemplazione del mondo, Costa&Nolan, 1996). Spesso sono proprio gli artisti e gli scrittori che catturano in anticipo le grandi mutazioni in atto, grazie alla loro osservazione meravigliata del mondo, alla loro considerazione antisistematica dei dettagli più reconditi e grazie ai loro metodi tutt’altro che ortodossi da un punto di vista scientifico. Oggi viviamo forse regimi meno visibili, ma con il medesimo - se non maggiore - potere di controllo, di annichilimento. La rincorsa al progresso, l’ossessione della crescita economica,

l’enfatizzarsi del pensiero dicotomico, hanno portato a delle spaccature, delle discrepanze, sia dal punto di vista territoriale che disciplinare. Un’insensata modernità - come direbbe lo storico Bevilacqua - rappresentata da una progressiva distruzione dell’habitat naturale, dalla rottura dei rapporti di co-evoluzione tra uomo e ambiente e da una separazione esponenziale tra soggetto osservante e oggetto osservato, che ha portato a una epistemologia deterministica e tecnofila, con il progressivo abbandono e rifiuto dei linguaggi sensibili nel processo di analisi e produzione del territorio. Ma se il dualismo interpretativo, le categorie utilizzate sinora e che occupano ancora prepotentemente i nostri schemi risultano inadatti a leggere la complessità, nasce l’esigenza di dotarsi di nuove lenti interpretative, di nuovi linguaggi capaci di restituire la polisemia della realtà. Quale ruolo per l’arte e le sperimentazioni estetiche? Attraverso una molteplicità di linguaggi – dall’arte relazionale al mapping, dalla fotografia al documentario – l’arte ripensa in maniera altra i territori, agendo come dispositivo per la conoscenza, ri-appropriazione, re-invenzione dello spazio urbano e sociale. Pratiche artistiche e culturali, innestandosi nei territori e fuori dagli spazi solitamente deputati all’arte, attraverso sperimentazioni e pratiche d’ingaggio, concorrono all’attivazione di processi di trasformazione dei luoghi, sia nella percezione verso di essi, sia attivando progettualità capaci di rafforzare il senso di appartenenza e il senso civico di chi vi abita, costruendo nuovi immaginari, decostruendo rappresentazioni stereotipate e ricostruendo nuove immagini di realtà. Processi che mirano a costruire spazi di relazione, di risignificazione, di creazione. In tal senso, avviare a Latina - città fondata sul mito del fascio littorio - una riflessione nel campo degli studi urbani intorno ai processi e alle pratiche dell’arte, agli slittamenti di senso che accadono ai margini dei campi del sapere, significa privilegiare una visione metodologica metadisciplinare, che sappia ricorrere ad un approccio sensibile e, nello sconfinamento tra mondi separati, FARE SPAZIO a forme promiscue, capaci di rendere l’invisibile visibile, di rendere sensibile a sguardi migranti sulla città, creando nuovi miti.

De-razionalizzare l’architettura. Il progetto oltre il progetto di Massimo Palumbo Sul nuovo, sulla contemporaneità, l’arte, l’architettura, i luoghi e i non luoghi che viviamo. Indagare, vedere, parlare, conoscere, camminare, attraversare. Questo progetto dovrà essere capace di scavare tra i sogni, i desideri, le testimonianze di chi vive la città. Dovrà essere capace di prospettare un futuro prima di risolvere il presente. Mai come oggi serve un progetto che sia in grado di stimolare il desiderio di esserci, di fare in quanto cittadini di questo territorio e, comunque, una sintesi in equilibrio tra tradizione ed innovazione. Quale il rapporto tra arte e architettura? In che modo i saperi e i linguaggi disciplinari possono innestarsi per restituire la pluralità del territorio, nella sua dimensione fisica e sociale, per dare vita a nuovi paesaggi culturali? Al centro del nostro indagare, Latina, città senza mura ed aperta al territorio vasto, che dalle propaggini dei Colli Albani si estende poi fino a Terracina, è La Città Pontina. Questo è, per punti, per emergenze, il paesaggio culturale che ci appartiene e che è la nostra immagine, fatta di acqua, di eucalipti, di mare, di spazi pianeggianti e del silenzio, di vuoti, oltre che di persone con i proprio essere: ricchezze da mischiare e da raccontare.

5


il muro

La cultura e l’arte sono la voce critica, il terreno della riflessione, laddove si è fallito per mancanza di capacità programmatica o, nel nostro caso, forse, di cultura comune e di appartenenza. E poi ancora: Latina e gli anni Trenta, il primo Novecento... «Architettura e metafisica vanno poco d’accordo per un problema sostanziale. La metafisica presuppone una visione distaccata ed esterna della realtà che, così, appare in bilico tra realtà e irrealtà; la vita concreta, invece, la realtà la divora, la vive e non la contempla. Pensare che una persona possa vivere all’interno di un quadro metafisico è possibile ma solo pagando un prezzo altissimo alla realtà. E difatti le architetture metafisiche le apprezzano, di regola, gli architetti che le guardano astrattamente ed esteticamente ma non le vivono e non le apprezza la gente comune che le guarda praticamente e le vive, distruggendole e privandole del loro senso originario» (Luigi Prestinenza Puglisi). Storie e situazioni che vanno indagate come da indagare è il senso e le conseguenze d’essere una città di fondazione. Con FARE SPAZIO noi vorremmo si andasse oltre l’orizzonte ristretto della città di fondazione. E’ possibile? Andare oltre e superare questa condizione culturale di impasse, di fermo, di sguardo perennemente retroverso. Abbiamo terribilmente bisogno di agire, di osare. Dobbiamo cercare d’andare oltre la città ideale e, forse, la città ideale costruita non esiste se non nel nostro immaginario. Latina città del Novecento merita una propria visuale prospettica. Poi qualcuno ti dice: “attento le città di fondazione negano il loro destino”. Vorremmo avere strumenti, vedere, sapere e rispondere che non è così. Mi è capitato anche in diverse occasioni di leggere: “le città di fondazione sono un falso storico!”. Sarà vero? Non so. E’ un nodo che non sono riuscito a sciogliere. Però dico: guardiamo avanti e progettiamo futuro. Chi ha avuto ragione dalla storia ha reinterpretato luoghi e simboli. La storia è fatta dal sovrapporsi di segni, a volte in continuità, altre in contrap-

posizione e comunque sempre a dare senso alla storia degli uomini. Andare oltre, sapendo bene che la ricerca della perfezione urbana è un obiettivo improprio per il significato insito di “città”. Le nostre città non sono altro che il risultato di stratificazioni e di luoghi da raccontare. Diceva Giancarlo Bovina: «Esplorare per me significa ritrovare la sacralità del luogo». La sacralità dei luoghi è quello di cui abbiamo bisogno. Può sembrare strano, ma abbiamo bisogno di luoghi, di storie, di racconti e di nuove narrazioni. La città è fatta di segni e di volontà, volontà politiche, e di scelte nuove, di cambiamenti. Le stratificazioni danno origine a nuovi sguardi, a nuove interpretazioni per nuove strategie di trasformazione dello spazio urbano, dove lo spazio pubblico deve essere inteso come complesso di relazioni. Sovrapporre, stratificare. Relazioni e nuovi racconti. Solo producendo narrazioni e sguardi politici diversi si possono immaginare strategie, reti e città possibili. Il nostro è un territorio il cui potenziale va svelato, riscoperto, riattivato. Esiste già, ma per raccontarlo bisogna immaginare le parole, i luoghi, le situazioni e le storie che pur ci sono. Risulta fondamentale la gestione dello sviluppo urbano e degli spazi della socialità fino alla comprensione del territorio come spazio dell’esperienza condivisa. L’architettura del nostro intorno, di contro, vive e deve rappresentare visioni, deve saper immaginare nuovi paesaggi capaci di raccontare i nostri giorni, il nostro vivere i contesti vissuti dalla quotidianità. C’è poi un’urgenza per una prospettiva culturale che porta al nuovo e capace di capire il giusto valore della contemporaneità. Importante sarà produrre uno spostamento di sguardo e di direzione. «Abbiamo bisogno d’immaginazione e non di immagini. Se vuoi apprezzare sino in fondo l’architettura, nella sua essenza, allora devi comprenderne la sfera onirica. La letteratura come la poesia. Non immagini, ma suggestioni! Perchè ti fanno vedere l’invisibile con l’occhio della mente. Oggi più che mai le città sembrano offrire un’apertura utopistica nei confronti di stereotipati modernismi per un possibile nuovo progetto ur-

Foto di Jamila Campagna

6


Foto di Jamila Campagna

bano. E Salvatore Settis nelle sue lezioni a Mendrisio ci dice: “la città e il paesaggio incarnano valori collettivi essenziali per la democrazia; sia la città che il paesaggio formano un orizzonte di diritti a cui deve rispondere la responsabilità dell’architetto, perché il suo lavoro incide sull’ambiente e sul tessuto urbano, determina la qualità della vita quotidiana, modifica le dinamiche della società» (Vincenzo Latina). Oggi più che mai le città sembrano offrire un’apertura utopistica nei confronti di stereotipati modernismi per un possibile nuovo progetto urbano. E Salvatore Settis nelle sue lezioni a Mendrisio ci dice: «la città e il paesaggio incarnano valori collettivi essenziali per la democrazia; sia la città che il paesaggio formano un orizzonte di diritti a cui deve rispondere la responsabilità dell’architetto, perché il suo lavoro incide sull’ambiente e sul tessuto urbano, determina la qualità della vita quotidiana, modifica le dinamiche della società».

Un modo questo per racchiudere i tanti valori etici che facciamo nostri per FARE SPAZIO.

Provincia in movimento. Creare connessioni trans-territoriali attraverso la cultura di Marianna Fazzi La provincia di Latina (ex Littoria) esiste dal 1934, appena due anni dopo la fondazione della stessa come città, un record assoluto. Figlia di un frettoloso piano di riorganizzazione urbano e sociale del potere, la provincia di Latina è divenuta madre putativa di un mancato dialogo fra le tante e difformi anime di cui è composta. Rimanendo in tema musicale e parafrasando questa volta una celebre canzone di Francesco De Gregori (Nero, Francesco De Gregori - Terra di nessuno - 1987) infatti, alla periferia di Latina, grande città del Nord ce ne sono altrettante e van-

no dal Golfo di Gaeta, col suo passato borbonico e di terra di lavoro, ai Monti Lepini, da Terracina alle aree industriali di Aprilia e Pontinia, passando appunto per Latina, centro di un paesaggio culturale che semplicemente prima non esisteva e che ancora oggi fatica ad essere avvertito come tale. Tuttavia, un po’ in tutte le aree urbane e metropolitane del nostro paese, anche quelle con forte vocazione culturale, risultano oggi presenti solo in modo frammentario forme di pianificazione e gestione integrata dell’offerta culturale, mentre sono praticamente assenti esperienze di connessione tra la cultura e i servizi, le risorse e le dotazioni del luogo. In generale, mancano strategie che consentano alle attività culturali di diventare parte di un processo di sviluppo territoriale integrato. La carenza di politiche di lungo periodo chiare e condivise e di forme di coordinamento, pianificazione e gestione, sono causa di inefficienze gestionali che impediscono a territori ricchi di patrimonio e di esperienze diversificate, come quello della provincia di Latina, di valorizzare le proprie risorse e di qualificarle come un’occasione di sviluppo. In presenza delle attuali difficoltà economiche e amministrative, si rende sempre più urgente un progressivo rinnovamento delle policy culturali in un ambito territoriale più ampio, attraverso azioni di sistema, condivise prima di tutto fra gli operatori culturali, con un approccio interdisciplinare (rivolto cioè a una molteplicità di forme di espressione artistica e culturale) e, per certi versi, intersettoriale. Uno degli obiettivi di questo secondo appuntamento di FARE SPAZIO è quindi quello di dare vita ad una rete fra le varie realtà culturali provinciali, capace di favorire il rafforzamento e la pianificazione dell’offerta complessiva del territorio e, parallelamente, in grado di incentivare la partecipazione del pubblico attraverso la condivisione dei poli e/o delle manifestazioni culturali esistenti e il loro collegamento con l’insieme delle risorse, delle dotazioni e dei servizi presenti sul territorio.

7


il muro

Corviale, Roma 2008, foto di Francesca Cocco

STALKER_No Working, L'ATTRAVERSAMENTO DELL'INCERTEZZA foto e intervista di Francesca Cocco

Un'intervista realizzata nel 2008 da Francesca Cocco, oggi docente di Grafica presso il Liceo artistico di Latina, nell'ambito di uno studio sulle pratiche artistiche urbane che andò a confluire nella sua tesi per l'Accademia delle Belle Arti di Roma, intitolata significativamente L'arte nei territori del possibile. Un dialogo aperto con Francesco Careri e Lorenzo Romito del collettivo Stalker_No Working che racconta le origini del progetto, dalla sua formazione spontanea nell'ambito del movimento Pantera, dal primo grande evento urbano e partecipativo nell'Ararat nell'ex mattatoio del Testaccio all'esperienza a Corviale, passando per la fase del cosiddetto osservatorio nomade. Un incontro visto in retrospettiva, avvenuto alle soglie di un'era che stava per finire e non ne avevamo ancora percezione, quando la televisione era ancora la principale interfaccia mediatica, un attimo prima del sopravvento che avrebbero preso i social media su scala globale, cambiando per sempre ogni modo di comunicazione.

Potete raccontarci che cos'è Stalker? Francesco Careri: Che cos'è Stalker è una delle domande più difficili a cui rispondere... Nel 1990, quando abbiamo iniziato a lavorare insieme con la Pantera, era un laboratorio di arte urbana, così lo avevamo chiamato. Da quel laboratorio iniziale si è costruita intorno a noi una rete di persone, tra artisti e non, che ha lavorato con noi, si è creata una rete interdisciplinare intorno a noi che si chiama osservatorio nomade. Come nasce Stalker? Nasce appunto dalla Pantera, dal movimento degli studenti del 90, quello è stato il momento in cui ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso una visione politica e artistica del mondo, della città, abbiamo messo in crisi quello che ci dicevano i nostri professori alla facoltà di architettura ossia la semplificazione della città fatta di assi, tessuti, monumenti, mura, secondo cui tutto quello che stava fuori era un cancro che aggrediva l'ordine perfetto della città. A noi questo cancro ci sembrava molto più interessante di quell'ordine che ci raccontavano. Da lì è nata la scintilla che ha fatto guardare oltre, per andare a vedere cosa succedeva lì, dato che non ce lo diceva nessuno. Volevamo fondare questa conoscenza sull'esperienza, sull'esperire lo spazio urbano. Così c'è stato un avvicinamento alle arti contemporanee: il filo rosso che congiunge dada, lettristi e situazionisti alla land art, due interessi che avevamo tra di noi, nella volontà di non fare oggetti ma di fare delle azioni territoriali. Lorenzo Romito: Quello che ci interessa è agire e vederci agire nella trasformazione dei processi del reale. In questo senso è sicuramente una pratica politica. La necessità di comunicare questo agire porta ad individuare dei momenti di comunicazione che forse si avvicina di più allo spazio consolidato delle pratiche artistiche. Non abbiamo mai definito l'ambito di pertinenza ma neanche l'entità di questa realtà stalker. E' sempre stata un soggetto sfuggevole perché nella determinazione noi vedevamo una negazione della libertà di agire.

effettivamente vivono in roulotte e in caravan, gli sono state proposte anche delle case popolari ma loro le hanno rifiutate perché il loro modo di vivere questo mondo è su ruote. La cosa bella di quel campo è che non c'erano recinsioni, c'era un grande recinto, che è quello del mattatoio, dentro cui abitavano varie comunità. Quello spazio ospitava, oltre ai rom kalderasha, una comunità di una ventina di senegalesi, la comunità dei cavallari con le carrozzelle di Testaccio, c'erano anche altri immigrati da tutto il mondo, magrebini, algerini, c'era il villaggio globale, una new babilon. L.R.: a noi interessava proprio la promiscuità di quel territorio, l'inintelligibilità, cioè il fatto che non abbiamo gli strumenti per comprendere questo grado di spontaneità, questo grado di complessità. E' importante calarsi, disporsi ad essere trasformati dalla realtà più che impegnarsi trasformarla. E comunque in questo processo di ascolto reciproco, cercare di restituire un'esperienza di attraversamento di questa incertezza, che possa fare da volano perché questo territorio possa essere affrontato, questo vale per i territori abbandonati, per il mondo dei rifugiati, per quello dei rom. F.C.: Tutto è scattato quando abbiamo fatto il pranzo boario, una tavolata circolare in cui abbiamo fatto un pranzo gitano particolare, rom-curdo-giapponese: era la prima volta che i rom mangiavano alghe cucinate da una giapponese e che i curdi mangiavano il gulash fatto dai rom, è stata la prima operazione artistica fatta insieme ai rom. L.R.: Si stava delineando un percorso possibile innovativo. Mentre accadeva questa sperimentazione transculturale di linguaggi artistici, di ricerca, di commistione, di inserimento dell'università, di inserimento degli artisti, il Comune di Roma arriva a determinazione e che fa? Isola le scatole in cui può riconoscere quello che già riconosce: lo spazio dell'arte, lo spazio dell'università, il mercato dell'altra economia. Ma nel far questo non riesce a dare spazio e far emergere e vitalizzare i processi spontanei. Non c'è una cultura della vita.

Vi va di raccontarci dell'esperienza a Campo Boario, a Roma al Testaccio? F.C.: Il primo incontro vero lo abbiamo fatto al Campo Boario quando abbiamo occupato questa palazzina Ararat, al Mattatoio al Testaccio, assieme ai curdi. C'era la comunità dei kalderasha che abitava lì, che è una comunità italiana di zingari veramente nomadi (gli altri sono tutti stanziali e nomadizzati dalle nostre leggi e dalla creazione dei campi nomadi); loro

8

Cosa potete raccontarci dell'osservatorio nomade di Corviale? E' stato sicuramente un tentativo di autogestione ben riuscito. L.R.: L'idea dell'osservatorio nomade era di cercare un'idea possibilistica rispetto alle dinamiche di sistema, interrogarsi su questa pratica informale - così difficile da definire, da mo-


GUARDA IL VIDEO DELL'INTERVISTA

Ararat, Ex Mattatoio, Testaccio, Roma 2008, foto di Francesca Cocco

dellizzare, difficile da mettere dentro un formulario universitario o in un progetto dell'Unione europe - e chiedersi come può accedere alle pratiche consolidate di trasformazione della realtà come l'urbanistica, l'architettura, l'antropologia, la politica, i media? Per fare questo c'è bisogno di traduttori, di qualcuno che guardasse in maniera partecipata Stalker e che fosse consapevole e pratico dei linguaggi istituzionali e fosse quindi in grado di costruire un ponte. Credo che in Corviale la fiducia nelle relazioni istituzionali sia stato il limite dell'osservatorio nomade. Noi siamo andati a Corviale, attraverso la Fondazione Olivetti abbiamo ottenuto un piccolo finanziamento pubblico comunale per operare sul territorio. E' andato tutto bene finché si trattava di agire artisticamente, finché era uno strumento che seguiva le vecchie dinamiche di sostegno all'azione politica-filantropica del Comune di Roma su Corviale. Quando questa azione ha iniziato a toccare i gangli della convivenza, ha iniziato ad azionare dinamiche di relazione dal basso, quindi a far nascere i laboratori condominiali, a creare delle investigazioni da parte degli abitanti, la televisione di quartiere, un'attenzione sui problemi veri del quartiere, sui malfunzionamenti, su certe realtà, quando insomma Corviale si è fatta protagonista di una progettazione condivisa - insieme agli abitanti del quarto piano occupato - che era economica, partecipata ed era ispirata alle pratiche degli abitanti stessi, a quel punto è diventata troppo politica e intaccava il sistema, il potere. Ci siamo accorti a Corviale che in qualche modo la separazione politica in destra e sinistra era assolutamente strumentale per creare una polarità che impedisse il ritrovarsi della gente, il superare le differenze e confrontarsi con i propri bisogni.

Questi territori del possibile vanno a scontrarsi, in qualche modo, contro i confini della spettacolarizzazione? L.R.: Oggi c'è solo un principio di speculazione, si vive di rendita sull'espoliazione della realtà, lo fanno tutti, a tutte le scale. Non c'è più una capacità di comunicazione sociale, un luogo fisico di condivisione, non c'è più una piazza, la comunicazione avviene su modelli beoti imposti dalla televisione. Noi siamo scissi tra un'esperienza del reale che è l'esperienza metropolitana e un'esperienza del virtuale che è ancora soprattutto quella televisiva. Che cos'è che manca ancora? Manca il far sì che questo agire nel reale produca una reale economia, che sottragga l'artista che vuole diventare indipendente, politico e fautore di una trasformazione sociale dalla dipendenza del mecenate, del sistema dell'arte, del potere. Le modalità con cui tutto questo viene fatto sappiamo che sono inaccettabili, ma in qualche modo non sappiamo sottrarci. Come uscirne? Probabilmente questo sistema non è più riformabile. Il lavoro di Stalker è davanti ad una fase in cui dice "Guardate abbiamo indicato dei percorsi praticati nei territori del possibile, abbia cercato di frequentare degli spazi per andare incontro alla diffusione nella gente della consapevolezza della possibile trasformazione del proprio territorio, di se stessi, del rapporto con gli altri". Oggi quel tipo di spazi non ci sono più, i territori attuali sono campi nomadi, spazi di segregazione. Bisognerebbe iniziare a considerare che il sistema non è più riformabile, il territorio non è più quello della possibilità, è diventato il territorio dell'inaccettabile e ha bisogno di strategie diverse. E forse l'unica risposta è quella insurrezionale.

9


il muro

IL MURO

UNA RIVISTA PER FARE SPAZIO

di Gaia Palombo e Jamila Campagna

Come si colloca una rivista indipendente di arte e visual culture in Italia - in una città come Latina - nel 2018? Qual è il senso del suo indagare e diffondersi? Al terzo anno di attività editoriale, accogliere e promuovere la seconda edizione di Fare Spazio è per la nostra redazione un'azione simbolica che rispecchia i valori in cui ci riconosciamo e gli intenti per i quali la rivista è nata. Nella nostra filosofia, il concetto di “fare spazio” equivale alla necessità di restituire un'ottica trasversale, sconfinando da una disciplina all'altra; significa estendere lo sguardo per unificare contesti, situazioni, realtà piccole e grandi che diventano geografie della scoperta. “Fare spazio” dunque coincide con il “fare posto” ma anche con la creazione di uno spazio da condividere, materiale e immateriale: il primo aperto e vivibile, il secondo teorico, da dedicare alla riflessione. Fare spazio all'altro, alla pluralità dello sguardo, del racconto e del pensiero, delineare su carta le pratiche artistiche per una più profonda consapevolezza del territorio in cui siamo immersi, una consapevolezza che tiene conto della memoria storica, del presente e dei landmark in cui ci identifichiamo, per proiettarci costruttivamente al domani, in una crasi in cui spazio e tempo si mescolano, in cui futuro e altrove coincidono, un pendolo in moto perpetuo tra posizionamento autoctono e visione delocalizzata, un'oscillazione per portare il dentro fuori e il fuori dentro.

10


come piante radicanti

Performance partecipativa di Michele Porsia

Come piante radicanti è una performance di arte socio-comportamentale collettiva, parte del progetto internazionale Do you have any plant for your life?, immaginata per la città di Latina. Il progetto è ispirato a Difesa della natura di Joseph Beuys. La bonifica e gli eucalipti, le palme di un impero mai esistito, un governo del territorio dove tutto è stabilito a priori su standard modernisti non ha aiutato e non aiuta, qui ed ora, a sentirsi capaci di interagire con il proprio spazio di vita. Questa performance guidata da Michele Porsia, conscia della complessità, ha come obiettivo quello di creare una comunità di persone che rivendicano la libertà di potersi radicare nella città che abitano, di poter essere artefici nella co-creazione del paesaggio che li ospita. Radunate i vostri amici, iniziate a intrecciare rami e radici. Siamo piuttosto sradicati, voliamo agilmente di Capitale in Capitale, un po’ nomadi della globalizzazione, un po’ vaghi, dormiamo qui, mangiamo lì, lavoriamo altrove e a volte ne vediamo i benefici, ma altre volte abbiamo bisogno di una heimat, avvertiamo un’esigenza stanziale difficile da prenotare su internet. Come fare per rivendicare la nostra libertà di radicarsi? Impareremo dagli alberi.

Michele Porsia, buon vento, Kassel (Germania), tecnica mista su forex, 2017

Michele Porsia, sradicamento delle tre case, Kassel (Germania), tecnica mista su forex, 2017

11


il muro

Latina, una Foresta sul Mare di Andrea Valente Fuori dai grigi spazi cittadini, lontano (ma non troppo) dalle automobili e dallo stress della quotidianità, Latina è custode di un preziosissimo patrimonio, unico nel suo genere, una natura rimasta quasi incontaminata nella Pianura Pontina, dove il tempo sembra essersi fermato. Dal Lago di Fogliano fino al promontorio del Monte Circeo, l’intera zona costiera pontina, tra Latina, Sabaudia e San Felice, è da oltre 80 anni salvaguardata all’interno della riserva naturale del Parco Nazionale del Circeo. Il Parco Nazionale del Circeo si estende per circa 56 km2 , racchiudendo al suo interno 22 Km di dune costiere, 33 km2 di Foresta ed oltre 10 km2 di laghi. La Foresta del Circeo rappresenta la più estesa foresta planiziaria naturale in Italia: si tratta di ciò che rimane dell’antica Selva di Terracina, che originariamente si estendeva per oltre 110 km2, della quale mantiene ancora molte peculiarità; un ecosistema tanto ricco quanto vario, perfetto esempio di foresta di Macchia Mediterranea con la sua rigogliosa vegetazione di fagaceae, di frassino e di pioppo, oltre ad un fitto sottobosco. Sono molti gli animali che la abitano, tra cui i mammiferi tipici delle aree boschive della Penisola, come tasso, volpe, lepre, cinghiale e daino (sebbene quest’ultima sia una specie alloctona), oltre a molti uccelli, tra i quali diverse specie di picchio e di rapaci, columbiformi e passeriformi che ivi nidificano.

In alto: Andrea Valente, Vegetazione della Foresta del Circeo, lungo uno dei sentieri principali nella zona del Cerasella, 2017. Accanto: Andrea Valente, lunga esposizione su roccia, mare di Latina, 2017

12


Caratteristiche sono le zone umide: all’interno della Foresta sono presenti delle zone dette piscine, aree paludose che si formano nei mesi invernali, nelle quali trovano dimora numerose specie di rettili e anfibi. Poco distante dalla Foresta, confinante con il Lago di Caprolace, esiste un’altra zona umida di estremo interesse dal punto di vista avifaunistico, la zona dei Pantani d’Inferno. Denominati così proprio per la loro natura lagunare, sono il perfetto habitat per numerose specie che qui nidificano o sostano, tra cui aironi, garzette, esemplari di cavaliere d’Italia e talvolta fenicotteri; la zona coincide perfettamente con alcune tra le più importanti rotte migratorie, peculiarità che permette lo stazionamento di molte specie di uccelli proprio nelle aree lacustri pontine. Separati dal mare attraverso la duna litoranea, i laghi costieri pontini formano il più importante ecosistema palustre d’Italia, nonchè una zona umida di interesse internazionale come riconosciuto nella convenzione di Amsar del 1971. La duna costiera pontina è il naturale proseguimento della duna che parte da Ardea, con sedimenti silicei e tufi, ma che solo nella zona pontina assume una posizione parallela alla linea di costa tirrenica, la cui origine è dovuta ai depositi eolici delle sabbie marine. Nel corso dei lavori di bonifica sono state realizzate numerose foci attraverso la duna, in grado di collegare i laghi con il mare, così da permetterne una buona qualità delle acque e la prolificazione degli animali. In alto: Andrea Valente, Spiaggia di Latina in primavera, 2018 Accanto: Andrea Valente, Alba sopra la Foresta del Circeo, con stormo di uccelli in volo, 2017

13


il muro

Terra, Uomo e Risorse foto e testo di Alessio Serafino Tanganelli

L’Arte, da un noto dizionario on-line, viene definita come un “complesso ripetersi di regole” e tra le sue derivate compare chiaramente artista, ma anche artigiano. L’attività dell’artigiano - e credo che tale ragionamento calzi anche per il contadino - prevede il recupero della materia offerta dal luogo che lo circonda e la trasformazione della stessa: quindi l’artigiano prende la materia, la plasma, la organizza in strutture e la concatena ad altra materia al fine di creare un prodotto più complesso, duraturo nel tempo ed esteticamente superiore. L’artigiano ed il contadino, tramite la loro attività quotidiana, sono quindi portatori sani di arte: arte che arriva al massimo della propria espressione nel lungo periodo, tramite il perfezionamento della tecnica e la conoscenza della materia che viene lavorata, fino ad una sapienza sempre più profonda del luogo. La chiave di lettura di questa piccola ricerca fotografica a tema territoriale è quindi il luogo inteso come una porzione di spazio abitato da una comunità ove suddetta svolge le proprie attività. Alla fine di questo rapporto, il luogo diviene entità mistica, densa di azioni, forme e colori, prodotto di una personalizzazione della stessa comunità che ne riconosce un proprio carattere identitario. Il processo di co-evoluzione tra uomo e ambiente naturale

“Insediarsi vuol dire coltivare e avere cura della terra, l’esistenza umana è per così dire qualificata dall’unità indissolubile di vita e di luogo” da Genius Loci, Christian Norberg Shultz

Tra vita e luogo si crea un legame inscindibile: è questo ciò che sostanzialmente vuole significare la frase di Shulzt ma ancora più interessante è la teoria della Valley section di Patrick Geddes, della quale cercherò di riportare un sunto, seppur semplificato. Geddes stilizza in sezione un paesaggio che va dalla montagna al mare, configurandone ogni parte con un elemento caratteristico: bosco di conifere per la montagna, coltivato per la pianura, etc. In una striscia in basso inserisce invece gli strumenti che configurano l’attività umana che tendenzialmente nasce da quei luoghi. Geddes, biologo e dunque osservatore della natura e dell’uomo, nella sua teoria mette insieme tre elementi: il place (luogo), il work (lavoro) e il folks (comunità). La comunità interagisce con la materia del luogo e genera a sua volta attività (work) differenti tra un luogo e l’altro, ma sempre facendo in modo tale che la semplice materia si trasformi in risorsa utile alla sopravvivenza della comunità. Si attiva quindi un processo di coevoluzione tra uomo e natura, ossia un processo di crescita in equilibrio tra le due componenti. Il territorio quindi è definibile come un prodotto complesso, solcato da forme che sono un compromesso tra morfologia ed attività antropica, finalizzate al mantenimento dello stato di equilibrio.

14

Wholeness territoriale Il territorio come ci è stato consegnato è un risultato finale ma mai finito: risultato di un complesso avvicendarsi di regole che le attuali comunità faticano a decodificare. Colpa forse della nostra teatrale cultura del paesaggio, la quale prevede che tra spettatore e scena si crei una distanza di osservazione, o forse colpa di grotteschi meccanismi capitalistici. Di certo il risultato non è più un territorio generato da persone che lo vivono tramite le loro attività quotidiane. Le comunità odierne hanno col tempo disimparato a riconoscere, a curare e a generare le forme del territorio arrivando al punto di creare un progressivo distaccamento da esso. La capacità di apprezzare l’orditura di un terrazzamento oppure le articolate strutture murarie di un borgo, non è un nostalgico ricordo di tempi antichi ma è la consapevolezza di tanto ingegno applicato per l’instaurazione di un dialogo con il luogo. Se è appunto vero che tra gli elementi che compongono il territorio esiste sinergia e tra questi elementi è compresa la comunità, significa che essi fanno parte di un unico complesso di interezza ed è quindi possibile ipotizzare che le forme create nel lungo periodo siano quel legame genetico che ci fa appartenere al luogo. L’attuale crisi identitaria che colpisce la comunità locale, che non ci porta più ad apprezzare la bellezza di tali forme, è quindi alimentata dal continuo sottrarsi alle basi di un codice unico, che ha come obiettivo fondamentale la conservazione della vita. Forse, se non lo è già, la vera sfida del futuro sarà quella di saper riconoscere e replicare le regole che sostengono tali forme capaci di ospitare la vita ed al tempo stesso di generarne di nuova.


15


il muro

PORNOGRAPHIC AND TRAGIC * IN BLACK AND WHITE CONVERSAZIONE CON DANIELE FIACCO di Jamila Campagna Un'intervista che ha preso la forma di un'epistolario, la conversazione con Daniele Fiacco, storico dell'arte e artista, cresciuto a Latina e trasferitosi a Praga negli ultimi anni; sembra essere la somma di tantissime parole dette nel corso degli anni, nel flusso di uno scambio intellettuale, artistico e, ancor prima, umano che ha la sua origine in un'amicizia nata nella nostra prima adolescenza. I discorsi sono molteplici, si intersecano ed escono gli uni dagli altri; scuotendo il setaccio, quello che resta è che l'arte è soprattutto una questione di coraggio.

Ho visto che spesso ti hanno sospeso Facebook su segnalazione. Vogliamo iniziare parlando dell'utilizzo narrativo di un social media e della censura che lascia liberi di pubblicare materiale fascista ma poi sospende gli account che mostrano nudi a carattere estetico?

rispetto. Essere censurati dietro segnalazione di anonimi, poi, con così tanta intransigenza controriformista, non ti ricorda nulla? Non vedo aperture né modernità in questo, è la solita vecchia, rintronata ipocrisia.

Mark Zuckerberg è un genio reazionario, ha ridato all'umanità l'antica arena in cui la pornografia del sangue altrui era lo spettacolo principale. La “sua” creatura è tutto un proliferare non solo di apologie del Fascismo e simili, ma di animali torturati, omofobia, bambini morti, spazzatura mediatica spacciata per libera circolazione delle idee dagli adepti dell'imbecillità cliccante chiamati utenti. Il gioco è semplice: magnetizzare gli istinti più bassi dell'analfabeta funzionale, il quale, invece di elaborare il suo disagio e magari immetterlo trasformato nel mondo, forse anche per migliorarlo, lo vomita su Facebook e lì resta. Esibisce una vita che suppone gli appartenga. Si sente desiderato da un suo simile che posta selfie dall'altro lato dell'emisfero, rispecchiandogli l'ombelico con un “I like”. Crede che ci sia il mondo nel suo account, ma è un bar sport di profili che si parlano addosso. E in questo scenario dell'ego allo sbando, la battaglia morale di Facebook è contro il capezzolo della donna, le fotografie di Mapplethorpe, il glande di un pene visibile attraverso l'elastico delle mutande e le mie Biblioteche immaginarie, per le quali hanno bloccato il profilo di chi le ha “condivise”. Non c'è una moderna distinzione tra estetica, ovvero pensiero emozionale calato in una forma capace di interrogare chi guarda, e pornografia, che pure è produzione visiva di genere che

Sembra dunque che l'ultimo tabù rimasto sia quello della sessualità esibita. E sembra allo stesso tempo che lo spiattellamento della spazzatura mediatica serva solo a rendere sempre più indifferenti. Deturpazione e coercizione dei corpi e del pensiero, disprezzo del diverso - come lo chiamano - ovvero omosessuali, donne e stranieri, sembrano, alla fine, solo un espediente per mettere da parte l'idea della morte, mentre la pulsione carnale fa orrore nel ricordare la vita. Eros e Thanatos è un topos chiave nella dimensione dell'arte e si può dire che ce ne sia parecchio anche nei tuoi lavori. La mia impressione è che tu voglia soffermarti soprattutto sull'associazione tra la morte e l'amore distruttivo che è comunemente chiamato guerra. La sessualità esibita è tabù solo per Facebook e simili, che permettono a dei perfetti imbecilli di far censurare qualcuno. Andrebbero rispediti tutti sulle ginocchia di una maestrina che li frusti coi rami di salice, se non negli uteri delle madri, affinché preferiscano un ditalino al concepirli abortiti come sono. Io, poi, non so che cosa sia la sessualità, da anni sogno di essere vecchio, dichiaro a chi mi chiede l'età cento anni come minimo. Non avere ormoni che premono, spingendoti verso la carne marcia di chi ti fa ancora sangue, deve essere * Suede, da Heroine, in Dog Man Star, 1994

16


1

2

molto bello. Nel mio lavoro non c'è alcun riferimento didascalico alla guerra, c'è semmai una lotta universale, anche nell’amore, qualcosa di implacabile, che rivedo in una mosca che si schianta contro i vetri di una finestra, come nella minaccia di una bomba in metro.

La nostra generazione (in Italia) non ha avuto un'esperienza esistenziale della guerra, ne abbiamo avuto solo un'esperienza mediatica, penso soprattutto alla guerra del Golfo e al conflitto nell'ex Jugoslavia. Al contempo siamo tutti nipoti di persone che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Gli studi sulla memoria epigenetica, di questi ultimi anni, ci stanno anche dicendo che portiamo scritto dentro di noi tutto quello che è accaduto ai nostri nonni. Pensi che tutto questo abbia a che fare l'iconografia della guerra nelle tue foto? A Praga, dove vivo, ho conosciuto ragazzi siriani a cui sono state bombardate le proprietà di famiglia, altri che non sanno se i fratelli siano vivi o morti, altri ancora che beneficiano della tanto vituperata libertà europea senza dirlo a casa loro per paura delle ritorsioni (un po' come in Italia). Le guerre altrove ci riguardano come camicie che ci si strappano addosso. Non c'è tempo per piangerci su, bisogna prevederle nel loro esserci prossime. E poi, che bello ricordare i nonni! Io ho avuto una bisnonna analfabeta straordinaria, una vera ribelle. Da bambino le mettevo sotto agli occhi le monografie di Van Gogh e lei si portava l'indice alla bocca. Si interrogava, sentiva l'opera. Guardando i suoi ritratti, mi diceva: “Sembrano cristiani veri”. Si può dire una cosa più intelligente su Van Gogh? No, non credo che nelle mie polaroid si sviluppi anche l'esperienza della guerra avuta dai miei nonni, ma grazie per avermelo evocato.

Tra gli esempi di cose implacabili, hai nominato la mosca che sbatte sul vetro. Per associazione mi è venuto in mente il so-

gno dello scarabeo d'oro riferito a Jung da una sua paziente e poi raccontato dallo stesso nel volume La sincronicità: la paziente riferiva il sogno dello scarabeo durante una seduta e proprio in quel momento un coleottero sbatté effettivamente contro il vetro della finestra. La tua serie Dead Birds Attack mi sembra tracciata proprio nel solco delle coincidenze significative, dove l'evento (l'incontro) casuale acquisisce un significato se posto in relazione con ciò che lo precede e lo segue. Mi piacerebbe saper mettere in relazione una mia visione con un prima e con un poi. Quando ne ho una è come se il resto si annullasse. Mi ci vogliono anche anni per sviscerarla e dargli un corpo. Di una cosa sono certo, non vado a tentativi. Quando prendo in mano la polaroid o una matita, so esattamente cosa devo fare, anche quando apparentemente incappo in un errore. E non sono un fanatico del mezzo, lo stile è essudato della psiche, non nasce mai dal feticismo dello “strumento”, che per me è solo un tramite, un bisturi per aprire una superficie e mostrarne l'umore. Non prendo alla lettera la morte dei piccioni che fotografo per strada, nasce tutto da questo. Li fotografo solo quando mi pare che stiano dormendo o volando ancora.

Sei uno storico dell'arte che ha indagato a fondo la critica, oltre ad essere un artista visivo; trovo di estremo interesse i percorsi filologici che sono alla base di ogni tua opera. Vuoi parlarci in particolare della visita al Cimitero delle Fontanelle a Napoli? In the name of God, against God è una polaroid che porta l'eco di quel posto. È forse la mia polaroid più politica. Al Cimitero delle Fontanelle, nel Rione Sanità, c'è un Cristo che se la batte con quello di Hans Holbein a Basilea. Un Cristo col volto deturpato in una nicchia buia, circondato da candele sciolte, annerite, come sangue secco su una cicatrice, nell'incuria che lì, miracolosamente, ha la sua più alta compiutezza estetica: è il Cristo

17


il muro

3

18


sgarrupato, il Cristo dei poveri cristi. L'ho affiancato ad un altro, che invece è aristocratico, bello, famoso: il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino. Entrambi fanno da campo di battaglia ai soldatini che attaccano un cielo strappato. In televisione ho visto un uomo sparare con una mitragliatrice contro una città rasa al suolo, impugnava anche un dio che gli dava ragione? Ma dove lo vede Dio uno così? Distruggere ciò che Dio ha creato non significa forse distruggere Dio stesso? Me lo spiegasse, dato che a crederci è lui e non io. Nelle mie polaroid i soldatini rappresentano l'umanità tutta, gli faccio fare cose assurde, come sparare alle bolle di sapone, sprofondare nelle sabbie mobili di un cuore bianco, attaccare i piedi giganti di Gulliver. I soldatini sono uomini deboli, come chiunque impugni un'arma. Sgomitano nell'assurdo che vorrebbero spiegarsi, creano alibi, nemici immaginari. Nella mia iconografia sono l'antitesi dei teschi, i quali non rappresentano la consolazione di una morte che viene a fare giustizia rendendoci tutti uguali, ma l'ironia della vita che dice: “Hey, tu! Al netto di tutte le balle che ti racconti, non sei altro che questo”.

Il cuore è un altro elemento molto presente nei tuoi lavori, un simbolo complesso che ha attraversato i secoli e le geografie del mondo, con un'accezione che è sempre un po' ovunque la stessa, quella di pathos, inteso sia come dolore che passione. Di che cosa si tratta quando siamo davanti ai tuoi cuori? Ho sempre detestato i cuori. Quando leggevo la parola cuore su un libro mi veniva voglia di lanciarlo dalla finestra. Il cuore come sede dell’emozione, contrapposto alla mente, come sede della ragione, mi è sempre sembrato un dualismo odioso. Come tutta la cultura del dualismo di derivazione cristiana, per me, era più un campo minato al quale sopravvivere che una verità assodata. Poi mi sono trasferito a Praga e tra martiri buttati giù dai ponti, studenti che si danno fuoco, violinisti torturati nelle torri, per contrasto ho iniziato a vedere cuori ovunque. Il primo che ho fotografato era ispirato a un titolo di Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo. È il classico cuore rosso, pop, il più difficile da usare proprio perché scontato; l’ho scolpito nella plastilina con un’infibulazione al lato, l’ho trafitto con un coltellino e altri strumenti, l’ho buttato su una carta da pacchi sporca di pittura. Poi sono arrivati i cuori deformi, i cuori neri, un cuore liscio con dentro due teschi che si baciano, che presento qui come inedito: è il momento in cui credi che quel bacio non finirà mai, ma è attaccato alla catenella di un orologio poggiato su una piccola montagna di cuori più o meno logori. Uno a uno, il tempo se li riprende tutti. L’altro inedito è La matrice vuota del cuore: i tre teschi sono ammonticchiati come resti, sono lontani da un Eden o da una prigione, sono impotenti o forse, dato che uno si impone sugli altri, si stanno riorganizzano in una qualche società gerarchica. Che succede, quando del cuore resta solo il vuoto che si è creato al suo posto? Mi sarebbe tanto piaciuto parlarne con Dostojevskij. Ma certamente un cuore messo a nudo non è mai consolatorio, è antiretorico per eccellenza. E poi del mio cuore non me ne è mai importato nulla, il cuore dell’umanità è l’unico che conti.

4

1 2 3 4

Daniele Fiacco, Gli Amanti alla Catena del Tempo, polaroid, 2017 Daniele Fiacco, La Matrice Vuota del Cuore, polaroid, 2017 Daniele Fiacco, Dead Birds Attack, polaroid e grafite su carta velina, 2017 Daniele Fiacco, In the Name of God, Against God; polaroid, 2017

19


il muro

Gli SCARABOCCHI DI MAICOL & MIRCO:

la traccia graffiante dell’esistenza quotidiana di Francesca Busatto

Gli Scarabocchi di Maicol&Mirco sono stati un richiamo naturale. Come se fossero stati loro a cercare me e non viceversa. Racchiudono ciò che mi piace e ciò che, potenzialmente, sono. O potrei essere. Ma, soprattutto, ciò che detesto e che mi disgusta. Per chi è sempre alla ricerca di un’alternativa di pensiero, il fumetto in genere risponde a questa ricerca e nulla toglie alle storie da raccontare, alle emozioni. Anzi, la potenza comunicativa del segno si rafforza con la parola e questa, a sua volta, con l’immagine, il disegno. Come non condividere la definizione di Hugo Pratt del fumetto come “Letteratura disegnata”. E aggiungerei anche incisiva. L’irriverenza, l’ironia, il segno grafico minimale, tutto ridotto a tre colori: rosso, bianco e nero. Una filosofia a tratti leopardiana, nichilista, che se la prende con la natura per averci fatto nascere esseri umani, una riflessione sempre arguta e intelligente che mantiene un invidiabile distacco dalla realtà. Degno d’un vero lucido e laico osservatore di come vanno le cose del mondo. Infatti potremmo dire che le sue tavole sono lo specchio della realtà e possiedono il coraggio di dar voce ai propri pensieri che, per quanto cinici e crudi possano essere, sono pur sempre umani, veri. Genuini. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Maicol & Mirco, scrutando il senso del suo lavoro fino a scoprire i prossimi progetti editoriali e non solo...

Il tuo lavoro è irriverente sia nel messaggio che nella scelta dei colori e dei segni. Poche linee essenziali, colori netti e metaforici: rosso, bianco e nero. Come sei arrivato a questa sintesi? Volendo raccontare il più possibile con il meno possibile. La vita è corta e le storie sono infinite. Non c’è tempo da perdere in questo mestiere.

Ne Il papà di Dio, mi ha colpito l’attenzione continua verso il lettore, che sovverte anche il rapporto fra segno e spazio bianco. Per esempio, nelle pagine in cui Satana, per guardare il futuro, sfoglia lo stesso libro che noi abbiamo fra le mani oppure quando, direttamente, si rivolge allo spettatore. E’ un modo per rendere la comunicazione più efficace e coinvolgente o c’è altro? Sì, il papà di Dio è anche un metafumetto, anzi diciamo un super-mega-ultra-metafumetto, perché non solo i personaggi interagiscono col lettore ma addirittura sono le pagine stesse a cercare questa interazione. I vuoti e le pause permettono a chi legge di dare un proprio ritmo alla lettura. C’è chi ha divorato il libro in venti minuti e chi ha avuto bisogno addirittura di più e più giorni per completare la lettura. Il papà di Dio è un libro pieno di vuoti, di burroni narrativi, ed è facile caderci dentro e rimanerne intrappolati.


Addentrandoci nella visione teologica, mi viene una domanda extra-fumettistica... il problema, quindi, sono gli esseri umani o è la fede? Il problema è sempre e solo l’esistenza. Se (Dio) esiste. Negli Scarabocchi lo sguardo sulla vita umana è a 360 gradi. Ciò che li caratterizza è di certo il cinismo dissacrante; quello che mi chiedo è se ci sarà mai un riscatto dell’uomo in qualche altra dimensione. Il tuo è realmente un animo nichilista come quello che trapela dagli Scarabocchi o, in realtà, sei un ottimista disilluso? Ti rivelo una roba: gli ottimisti e i pessimisti sono le stesse persone, questa distinzione semantica è solo un’antica mossa di marketing. Si ride piangendo e si piange ridendo da milioni di anni. Una domanda clue… Maicol è Mirco o Mirco è Maicol? Siamo di fronte ad un nuovo caso letterario? Un caso letterario da NON risolvere. Vado a distruggere pipa e lente d’ingrandimento. Cosa dobbiamo aspettarci dal 2018? Hai dei nuovi progetti in ballo? Avendo abiurato la nostra vita sociale quest’anno vi ritroverete Maicol&Mirco dappertutto. Innanzitutto con la BAO Publishing si inaugura finalmente l’Opera Omnia de Gli scarabocchi di Maicol & Mirco con il primo volume ARGH. Troverete le nostre rosse strisce anche mensilmente sulla storica rivista Linus (con storie inedite e più lunghe) e su Smemoranda. A marzo per la Coconino Press diamo alle stampe GLI ARCANOIDI, un graphic-novel epico che vanta un’indagine, uno sterminio e una diaspora tutto nel medesimo coloratissimo racconto. Poi ci sono mille altre robe ma se ve le diciamo non ci credete quindi che ve lo diciamo a fare? Fate una cosa semplice per tenervi informati sui nostri crimini intellettuali: cercateci su facebook che tanto ormai viviamo lì (il mondo reale si paga, facebook no).

Tavole da Maicol&Mirco, Il Papà di Dio, Gli Scarabocchi di Maicol&Mirco, Bao Publishing, 2017. Courtesy Bao Publishing

21





Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.