Illustrazione Ticinese n. 6 - 2007

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VIAGGI

Yali, il capo del villaggio, prepara i lacci, con i quali, mediante l’ausilio di un tronco e di poca paglia, accenderà il fuoco.

tutti i componenti della comunità, degli abbracci e dei baci. Comprendo finalmente il significato di quel “ua, ua”, saluto tradizionale che significa benvenuto, ma che in un primo momento è detto in modo aggressivo a un possibile nemico, quasi fosse una prova, una domanda. È incredibile come atteggiamenti aggressivi in poco tempo si trasformino in una squisita ospitalità, in rapporti umani estremamente dolci e pacifici. Ma un istinto primordiale rimane vivo, le guerre e le faide tribali possono ancora accadere oggigiorno e la vita è dettata da dure leggi. Mi basterà guardare la freddezza con la quale viene sacrificato il povero maialino, trafitto da una freccia che questa volta non si arresta prima del bersaglio. L’animale è poi lasciato crudelmente agognante sul terreno, mentre il suo sangue si disperde ovunque. Forse non ancora morto, viene squartato, il capo villaggio ne taglia dapprima le orecchie, riservate agli uomini quale prelibatezza, quindi sono i più giovani, che proseguono il “lavoro” con legni di bambù affilati. Le scene hanno un profondo senso atavico, gesta

di tempi passati che qui sono ancora presenti. Così è per l’accensione del fuoco per mezzo di due legni, un laccio e un poco di paglia. Osservare quegli uomini dalle sembianze primordiali ricavare una piccola fiammella appare come un momento di magia dal fascino immenso. UN LENTO SUCCEDERSI DI GESTA MILLENARIE Tutto il villaggio partecipa alla preparazione di una grande caldaia, un braciere nel quale verranno scaldate grosse pietre. Si tratta di un sistema di cottura comune a molte culture e in particolare a quelle melanesiane del Pacifico. Quando le pietre sono divenute roventi vengono trasportate per mezzo di lunghi bastoni in un secondo letto di cottura dove verrà deposto il cibo, il già citato maialino e patate dolci, quindi ricoperto accuratamente con foglie e paglia. Il principio è quello della pentola a pressione, niente di nuovo insomma, non fosse per la dimensione e per il fatto che tutto è naturale… Assisto al lungo cerimoniale senza avere nemmeno la sensazione di essere un

estraneo, condividendo momenti divertenti e lunghe pause nelle quali mi vengono poste le domande più curiose. I ruoli si invertono, non sono più io a scoprire l’Irian Jaya, ma gli indigeni che vogliono conoscere l’occidente, non è più il visitatore a porsi la domanda forse idiota di come faranno mai a fare la pipì i papua con quel lungo perizoma, ma loro che osservano il sottoscritto con morbosa curiosità al momento della mia esigenza fisiologica! Noto le mani di un’anziana, sono completamente senza falangi. Il risultato di un crudele cerimoniale purtroppo ancora attuale, che impone alle donne il taglio della falange superiore di un dito ogni qualvolta muore un familiare. Le ore passano quasi senza averne la percezione tra un acquazzone ed un raggio di sole. Col tempo vengono abbandonate le bardature cerimoniali, alcuni conservano comunque ancora i denti di cinghiale infissi nel naso e le piume nei capelli, così come naturalmente le coperture peniche. Un ennesimo piovasco, questa volta più violento dei precedenti, si abbatte sul piccolo villaggio nel quale la vita prosegue imperturbabile in completa e splendida sintonia con la natura. Ci ritiriamo nell’oscurità della “mens house”, la casa degli uomini, dove le discussioni non sono sempre facili, solo i giovani parlano un poco di indonesiano e occasionalmente un paio di parole di inglese. Sono quelli che forse hanno già varcato il confine proibito con la Papua Nuova Guinea, dove la lingua anglosassone è più usata. Ma la mia avventura tra le genti dell’Irian Jaya non è che all’inizio. CONTINUA.

ILLUSTRAZIONE TICINESE 06-07

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