Il granello di senape 181 n.3/2018

(Mt 13,32) "è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è il più grande dei legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uc celli del cielo e fanno i nidi fra i suoi rami”

il granello di senape

181 n.3/ 2018

Notiziario di comunità e gruppi – giugno 2018

Il 13 maggio è morto

Gianni Fabris

“Ho vissuto con passione e calma cercando di non pestare troppo i piedi ai vicini, arrabattandomi tra la ricerca di raggiungere qualche risultato ed il riconoscimento dei miei limiti.

Ho conservato un barlume di fede nella vita eterna”.

REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: mambrebusca@alice.it - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n.

819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).

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SOMMARIO CARLO MARINO, GIANPIERO MARGARIA, ANDREA 1 LEBRA, VERA NOCENTINI, FRANCO CHITTOLINA, SILVIO CARETTO, ENRICO PEYRETTI, AGOSTINO DEMICHELIS, RENZO DUTTO, PIERA PEANO, ALBERTO BOSI, MIRIAM FABRIS, EVA MAIO - In ricordo di Gianni Fabris Il 13 maggio è morto Gianni. La sua vita è stata ricca di impegno nel mondo lavorativo, sociale, culturale, della fede…

Alcuni amici hanno voluto ricordare ai nostri lettori esperienze condivise e tratti di strada percorsi insieme a lui. Noi della redazione ci uniamo a queste testimonianze d’affetto, ripensando con riconoscenza ai tanti anni in cui è stato anima e cuore del Granello. Con sensibilità, passione, intelligenza, pazienza…

ANGELO FRACCHIA- Bibblando: il sepolcro nuovo

1 I vangeli ci dicono che Gesù viene deposto in un 3 sepolcro nuovo (Mt 27,60; Gv 19,41). E in questo c’è 3 però qualcosa di straordinario. Non era certo normale che un condannato a morte ottenesse come sepoltura una tomba mai utilizzata da nessuno, scavata vicino alle mura di Gerusalemme.

E chi gliela mette a disposizione è qualcuno molto ricco e molto in vista, che decide di lasciare il proprio sepolcro a un ribelle condannato a morte.

A Cuneo la mostra “Bob Kennedy. The Dream – Emotional Experience”, visitata il 9 maggio anche dalla settima figlia di Robert Kennedy, presidente della Fondazione a lui dedicata. Un’occasione per i visitatori per allargare lo sguardo e cogliere i segni della grandezza di alcuni eventi e di alcuni personaggi, che, pur appartenendo a un mondo per noi lontano, temporalmente e nelle sue espressioni ideologiche, comprendeva valori riconoscibili e innegabili.

FRANCESCO GADDI - Dedicare uno spazio pubblico di Cervasca a Iqbal. Un piccolo gesto che

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può sensibilizzare bambini e adulti sul tema dello sfruttamento minorile I bambini delle classi seconde di Cervasca e di San Defendente Cervasca hanno conosciuto la storia di Iqbal, un bambino pakistano ucciso a 12 anni perché, dopo sei anni di schiavitù come tessitore, aveva deciso di liberare se stesso e tutti gli altri bambini della fabbrica, incatenati ad un telaio per 10 ore al giorno. Da questa esperienza è nata una proposta originale per far sì che anche i cittadini “grandi” di Cervasca possano conoscere la sua storia.

SERGIO DALMASSO – Notizie in breve sul mondo

ANGELO FRACCHIA–Il“secondo” Isaia - Racconto

Informazioni controcorrente Associazioni di Cuneo

COSTANZA LERDA - Cinque anni senza… Il Gallo

LUCIA RIBA – Un paese ricco di futuro… se solo li 2 lasciassimo vivere 4 L’Associazione Meru Herbs Italia onlus, nata 11 anni fa a Cuneo, sostiene e incoraggia il turismo responsabile in Kenia per conoscere il paese e la cooperativa agricola Meru Herbs, che produce marmellate e infusi biologici, commercializzati nel circuito equosolidale. Riportiamo emozioni e impressioni di alcune persone che hanno voluto conoscere questa realtà e scoprire come il commercio equosolidale e la cooperazione possono aiutare l’agricoltura biologica in Africa.

1 Un nonno racconta al nipotino attento e interessato la 4 genesi del “Secondo Isaia» - capitoli da 40 a 55 del libro d’Isaia che costituiscono una piccola raccolta di testi profetici a se stanti e il cui autore è sconosciuto – e gli trasmette il messaggio del libro di Isaia: la fiducia in un Dio che non abbandona Israele nella storia. Racconto dedicato a Gianni che ha sempre seguito con particolare attenzione i “Racconti” e “Bibblando”, intrattenendo ogni volta un dialogo fecondo con l’autore.

1 “Non punire i poveri, ma combattere la povertà” è 7 stato ripetuto dai tanti intervenuti a Genova, nella chiesa di S. Pietro, a cinque anni dalla morte di don Andrea Gallo, il Gallo, come lui stesso si firmava e così ancora viene chiamato da chi lo ha conosciuto. Una preghiera di ricordo e di speranza, per raccogliere e mantenere viva la sua ’eredità. Un incontro di “popolo”, di idee e di impegno, per un futuro migliore.

MICHELE BRONDINO, YVONNE FRACASSETTI – Le lezioni della Resistenza per gestire l’oggi. Lidia Rolfi e Germaine Tillion

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Più che mai, in questi tempi bui, appare utile ricordare il messaggio di due donne, ambedue reduci dal campo di concentramento, ambedue determinate a conservare la memoria e a resistere ad ogni tipo di sopraffazione. Per salvare l’autonomia di pensiero e la dignità dell’uomo, minacciate dai miopi discorsi populisti e razzisti che avvelenano l’oggi: tra il rifiuto dell’ebreo ieri e il rifiuto dello straniero emigrato oggi corre una somiglianza che si chiama razzismo.

CLAUDIA ACETO FILIPPI - Kerry Kennedy a Cuneo nel 50° anniversario dell'assassinio del padre Robert. Per non dimenticare un passato prezioso.

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dal

Tavolo

delle

NINA ROVERA, MATTIA TOMATIS, MARTA PEANO, 2 TERESA BORSOTTO, LUCIA DALMASSO, ARIANNA RE, 5 LUCIA GARRO – Agire subito, con umiltà e consapevolezza “Libera contro le mafie” è impegnata a diffondere una cultura della legalità soprattutto tra i giovani. Nell’ambito di questo ampio progetto si inserisce il viaggio di un gruppo di studenti del Liceo Artistico di Cuneo in Sicilia qui raccontato. Per conoscere la vicenda di Peppino Impastato e partecipare alle iniziative per ricordarlo e continuare a farne vivere le idee. E ritornare più consapevoli della necessità di fare concretamente, ciascuno, la propria parte.

GIULIA MARRO - curiosità etiopi e riflessioni interculturali

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La seconda puntata del diario della vita in Etiopia, paese afflitto da gravi problemi – malnutrizione, abbandono e mortalità infantile, patologie diffuse… - ma anche ricco di tradizioni e di opportunità di relazioni umane significative che aiutano a “sentirsi a casa”. Il lavoro intenso e appassionante per preparare la partecipazione dei ragazzi del Fekat Circus al Festival del Circo Africano. Imparare attraverso la comunicazione interculturale a non dare mai nulla per scontato.

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GIANFRANCO CONFORTI – Una rappresentazione 2 (volutamente) confusa di una situazione confusa 8 La vignetta di questo numero vuole commentare l’evoluzione politica italiana degli ultimi tempi, per questo il disegno è nel suo complesso volutamente confuso, con tante figure che sembrano non aver alcun legame tra loro. Con la rappresentazione delle forze che si presentano come nuove e affossatrici del mondo politico responsabile dell’attuale situazione, e della sinistra incapace anche solo di un’analisi seria di quanto è accaduto.

EVA MAIO – Javier Marias, Berta Isla

SERGIO DALMASSO – Si va verso la gestione pubblica, ma non sarà un cammino facile

3 Il 5 maggio a Cuneo si è inaugurato un Centro di 8 Cultura Islamica, a 20 anni dalla nascita dell’Associazione della comunità islamica della provincia di Cuneo. Nel suo saluto Wafa ha sottolineato la volontà di continuare a rafforzare i legami di conoscenza e collaborazione con le varie realtà della società civile, con le comunità religiose e le istituzioni pubbliche. E l’impegno per un islam che faccia propri i principi fondamentali della Repubblica Italiana.

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Il 7 maggio la Conferenza dell’Autorità d’Ambito ha confermato il voto di marzo dell’Assemblea dei Sindaci, decidendo la gestione totalmente pubblica del servizio idrico della Provincia di Cuneo per i prossimi 30 anni. La speranza che il percorso per l’attuazione di questa decisione sia regolare e lineare, senza tentennamenti e ostruzionismi, e finalmente abbia applicazione la volontà popolare espressa col voto referendario di 7 anni fa.

FRANCO CHITTOLINA – Pierre Carniti, italiano d’Europa

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La testimonianza di chi ha avuto occasione di collaborare con lui nell’Ufficio internazionale della CISL e di frequentarlo per anni nel suo impegno politico in Europa.

L’intensa condivisione di riflessioni politiche e sociali, di idee e progetti, di speranze e delusioni per l’Unione Europea. La preoccupazione per la direzione politica che Europa ed Italia stavano prendendo, non nel senso da lui auspicato di una democrazia matura e di un impegno sociale in grado di alimentarla.

EVA MAIO - Della Szymborska e del suo segretario

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La lettura del libro “Cianfrusaglie dal passato”, che racconta la vita di Wislawa Szymborska, ha fatto immaginare all’autrice dell’articolo come deve essere stato il rapporto tra la poetessa ed il suo segretario, costruito sulla coesistenza di “un po’ di formalità, un po’ di familiarità ed anche gentili espressioni d’affetto”. Una miscela non semplice da tenere insieme ma che sembra abbia funzionato in questo caso, sostenuta da tre componenti: ironia, gentilezza, franchezza.

EVA MAIO – Una voce fuori campo Un dialogo laicamente ispirato alla tradizione ebraico-cristiana.

Un dialogo poetico e intenso tra noi e questa voce fuori 3 campo… che non è voce ma vento, soffio, brezza 4 leggera… voce fuori campo che invece forse ci abita e ci invita – noi piccoli, spiazzati, fragili, ai margini, in esilio – a essere vivi, adesso. Perché si può, si deve spandere vita… senza darlo a vedere, in silenzio.

FRANCO MONNICCHI - Non sulla pelle dei più deboli 3 Lettera aperta al ministro Salvini 6 Il buon senso e la volontà di risolvere i problemi dovrebbero sempre prevalere sulla demagogia, sull’irrazionalità e sulla semplificazione a scapito di poveri esseri umani innocenti. Favorire il dialogo e vie d’uscita sostenibili per tutti è l’unico sistema razionale che può funzionare; la contrapposizione e l’odio di una guerra ai poveri e tra i poveri rappresentano un vicolo cieco che non risolverà i problemi di nessuno, italiano o meno.

3 Un romanzo che tratta il più classico dei temi, l’amore, 7 ma lo intreccia alla Storia con linguaggio fine e nitido, e precisione stilistica. È affidata la guida del lettore alla protagonista, Berta Isla appunto, col suo personale modo di guardare alla storia e alle vicende umane, al mistero di sé e dell’altro. Un romanzo da leggere percependo il fascino inquieto dell’attesa, pagina dopo pagina.

WAFA ATICH – Verso una città sempre più multiculturale multietnica multireligiosa

3 9 Il racconto della diserzione nel corso della Prima Guerra Mondiale solo negli ultimi decenni ha acquistato dignità, rendendo giustizia ad una massa di persone semplici, stanche di sacrifici e sofferenze di cui non capivano il senso. L’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo ha organizzato un incontrodibattito con lo storico Gianni Oliva e la proiezione del film “Non ne parliamo di questa guerra” del cuneese Fredo Valla sulle vicende di alcuni di questi soldati.

GIGI GARELLI – L’altra Grande Guerra

Per qualsiasi problema di invio di questo nostro periodico, vipreghiamo gentilmente di rivolgervi ad uno dei due seguentirecapiti: Comunità di Mambre (tel. 0171 943407, strada S. Martino 14412022 Busca; e-mail: mambrebusca@alice.it) oppure Associazione La Cascina (tel. 0171 492441; e-mail: cartolerialacascina@libero.it;, c/o Cartoleria, via Demonte15, San Rocco Castagnaretta - Cuneo).

Se il Granello vi interessa e vi fa piacere riceverlo, vi chiediamo di contribuire, se vi è possibile, alle spese per la carta, la stampa e la spedizione postale, con un contributo minimo di 10 euro, da versare sul c.c.p. n. 17678129, intestato a Il granello di senape, oppure da consegnare a mano alla Cascina o a qualcuno del gruppo redazionale (di Mambre, della Coop. Colibrì, ecc.).

Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche, proposte (e magari anche apprezzamenti!).

“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di gruppi.

In particolare vi collaborano stabilmente:Comunità di Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina, Cooperativa Colibrì, Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace, Tavolo delle Associazioni.

A questo numero hanno contribuito anche: “i Cascinotteri”, Claudia Aceto Filippi, M. Claudia Bodino, Teresa Borsotto, Alberto Bosi, Michele Brondino, Anna Cattaneo, Silvio Caretto, Franco Chittolina, Gianfranco Conforti, Lucia Dalmasso, Sergio Dalmasso, Renzo Dutto, Miriam Fabris, Yvonne Fracassetti, Angelo Fracchia, Francesco Gaddi con i suoi alunni, Gigi Garelli, Lucia Garro, Andrea Lebra, Costanza Lerda, Eva Maio, Gianpiero Margaria, Carlo Marino, Giulia Marro, Franco Monnicchi, Vera Nocentini, Sergio Parola, Marta Peano, Piera Peano, Enrico Peyretti, Arianna Re, Lucia Riba, Nina Rovera, Mattia Tomatis, M. Cristina Tonelli.

Questo numero è stato chiuso in redazione il 16.06.2018 “Il Granello di senape” è disponibile anche online, invita i tuoi amici a leggerlo:

www.ilgranellodisenape.it

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Con Gianni al tempo della GIOC e del CMO Ho conosciuto Gianni Fabris intorno al 1975, quando ho iniziato il servizio civile nella GiOC (Gioventù Operaia Cristiana) di Torino, frequentando anche l’ambiente dei preti operai della città. Di quel periodo, conservo due immagini nitide di Gianni: innanzitutto nella sua abitazione di Lungo Dora Napoli a Torino, dove era andato a vivere dopo il periodo di vita comunitaria con Gianni Fornero e Gianpiero Margaria: una casa di ringhiera con il gabinetto in comune sul ballatoio, due stanze stipate di libri, riviste e ciclostilati ed una grande plancia per tavolo, attorno al quale si facevano le riunioni. La prima volta che lo incontrai fu nella soffitta dove abitava Don Carlo Carlevaris, decano dei preti operai di Torino, in Via Belfiore 12, durante gli incontri del giovedì sera, dove, all’eucaristia celebrata attorno ad un tavolo, faceva seguito la cena conviviale, il tutto farcito da riflessioni e discussioni interminabili su sindacato, politica e chiesa, in mezzo alla nebbia delle sigarette e, tra questa cortina fumogena, emergeva la stazza ed il vocione di Gianni, col suo eloquio, a tratti appassionato e irruente, e la sua logica serrata che, già allora, mi conquistava.

Ritengo che all’origine delle scelte e dell’impostazione di vita di Gianni vi sia stato il famoso esperimento dei chierici al lavoro del seminario di Rivoli, negli anni 1966 - 1972, a cui prese parte e che fu favorito e patrocinato dai preti operai di Torino e reso possibile dal Cardinal Pellegrino. Nei documenti redatti dal gruppo, di circa undici chierici, per motivare la loro scelta di uscire dal seminario, lavorare ed andare ad abitare in mezzo alla gente, pur continuando lo studio della teologia, si nota chiaramente l’influsso del ‘68‘, il tentativo dei preti operai torinesi di costituire una missione operaia sull’esempio francese e la stagione ricca di fermenti del movimento operaio nella città della FIAT. Era la scoperta e l’elaborazione di un nuovo modo di intendere la preparazione al sacerdozio ed il sacerdozio stesso, lo studio della teologia e la prassi evangelizzatrice, rivolta soprattutto alle classi disagiate, come gli operai e gli immigrati dal sud. Gianni giunse fino all’ordinazione diaconale, a cui dovette, poi, rinunciare per potersi sposare con Cristina nel 1981,

chiedendo la riduzione allo stato laicale e mettendo in evidenza la contraddizione del Diritto Canonico che permette, invece, a uomini sposati di diventare diaconi! Il periodo dell’esperimento fuori dal seminario lo condizionò definitivamente, inducendolo a scegliere, per buona parte della sua vita, la condizione operaia, con il lavoro in fabbrica, la militanza sindacale ed un ruolo da formatore sia a livello delle 150 ore che con i giovani lavoratori della GiOC, di cui era importante figura di riferimento. Ricordo in particolare due campi scuola della GiOC, dove, con Don Gianni Fornero, si cercava anche di mettere le basi del movimento a Torino ed in Italia: quello di Bagneri (Biella 1975 ) e quello di Mompellato (TO - 1976 ) ed in cui fu fondamentale il suo apporto di elaborazione.

Finito il periodo della GiOC, anche per motivi anagrafici, ebbi la fortuna di costituire e far parte, con Gianni ed altri ex militanti del movimento o persone aggregate, di un gruppo adulti, che fu uno dei primi del nascente movimento dei CMO (Cristiani nel Movimento Operaio ). Ci si incontrava periodicamente nella più ampia casa di Gianni e Cristina a Porta Palazzo, per affrontare con il metodo della revisione di vita importanti aspetti e problematiche caratteristiche della vita da adulti: il lavoro, la famiglia, l’educazione dei figli, l’impegno sindacale, sociale, ecclesiale. Questo gruppo, insieme ad un

analogo gruppo di Moncalieri, organizzò anche, per diversi anni, durante l’estate dei campi scuola di formazione, di cui Gianni era l’ideologo, che avevano come tema il socialismo e la partecipazione politica (Mondrone – agosto 1982), la coppia e la famiglia

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(Cesana Torinese – agosto 1984), l’addestramento alla nonviolenza (Maen, Valle d’Aosta – settembre 1988), il principio di uguaglianza (Pradleves- CN 1987).

Anche una volta che Gianni e Cristina si trasferirono a Castelletto di Busca, non ci si perse di vista e Gianni continuò ad organizzare, a casa propria, sotto il pergolato, degli incontri di approfondimento: ricordo quello sulla preghiera, con Adriana Zarri, e sul pensiero di Emanuel Mounier, con il suo grande studioso Ettore De Giorgis. La ricchezza intellettuale e la vivacità culturale di Gianni erano quasi sempre all’origine delle tematiche proposte e di stimolo alla riflessione collettiva. Anche la sua nuova casa di Castelletto, pure molto ampia, stentava a contenere tutti i libri, le riviste, le cartelline, gli articoli di giornali che Gianni raccoglieva e conservava meticolosamente, tanto da trasformare una ex stalla in una enorme libreria. Nella sua nuova residenza, vicino a Dronero, continuò la collaborazione con la rivista ‘Itinerari‘, bimestrale monografico, edito a Torino, che si rivolgeva soprattutto ai militanti credenti impegnati nel sociale, nel sindacato e nel mondo operaio e di cui

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faceva parte anche nel comitato di redazione. Come ancora, a Busca, diede il suo prezioso apporto al Periodico e Notiziario di comunità e gruppi ‘Il Granello di Senape‘, partecipando alle attività della Comunità di Mambre.

Negli ultimi anni ci si vedeva solo in occasione di qualche capodanno ed, almeno una volta all’anno, nella rituale tavolata della bagna cauda, presso l’abitazione dei vicini di casa, amici e compagni di percorsi ed esperienze, Valter e Maria Teresa Dorati, a Bosco di Busca. Ma anche quando, occasionalmente, mi capitava di passare a trovare Gianni, si innescavano, con piacere, discussioni animate su un po’ di tutto. L’ultima volta che l’ho incontrato è stata durante un pranzo conviviale a Pasquetta di quest’anno a casa Dorati: si vedeva che era affaticato e sofferente, ma non rinunciava a discutere con la sua solita verve e, naturalmente, a sprigionare la sua fragorosa risata che, mi piace pensare, adesso rimbombi nell’alto dei cieli, con grande sollazzo de numerosi suoi abitanti.

Carlo Marino

Ci chiamavano “i 3 G” Con Gianni Fabris e con Gianni Fornero abbiamo condiviso, per oltre 4 anni in via Perrone n°3 a Torino, non solo l’abitazione, ma un “pezzo di vita” particolare, che non si cancella facilmente.

Ci chiamavano “i 3G”. Oggi ci sono solo più io. Ciò mi rattrista alquanto.

Voglio qui richiamare alcuni momenti di vita quotidiana, perché, secondo me, sono quelli che caratterizzano meglio una persona. Sugli altri aspetti ci saranno certamente persone che li illustreranno meglio di me.

L’immediato ricordo che ritrae Gianni nel modo migliore è la sua risata fragorosa. Era un “uragano di gioia e di allegria” che si sprigionava dalla sua persona in modo dirompente. Chi era con lui veniva in quel momento “risucchiato” da questa emozione. Vedere Gianni ridere in quel modo spingeva chiunque a ridere con lui e a vivere momenti di preziosa allegria e spensieratezza.

La sua è sempre stata una presenza gioviale, allegra e accogliente. Fatico a pensare e a ricordare Gianni arrabbiato per molto tempo. Certo, qualche momento di “sana incazzatura” l’ha avuta anche lui, però svaniva sempre molto in fretta senza lasciare strascichi.

Altro elemento curioso che mi è rimasto impresso è quello che quando faceva lui la spesa, si spendeva forse qualcosa in più, però, in quel giorno si mangiava certamente meglio. Curava molto la cucina. Era

l’unico di noi tre che faceva davvero il ragù per la pasta. Noi compravamo i tubetti di “conserva Cirio”.

Costavano meno e si faceva più in fretta. Era sempre molto apprezzato il suo spezzatino.

La nostra vita quotidiana era sempre densa (anzi, troppo) di impegni, incontri, riunioni. Non ci vedevamo molto. Ci dimenticavamo spesso di fare le cose anche più semplici, come fare la spesa. Lui era l’unico che attaccava ovunque biglietti per ricordarci delle varie incombenze casalinghe da compiere. Era più preciso e meticoloso di noi due.

Negli anni successivi il mio rapporto con lui, senza alcun motivo (come spesso capita), si è dissolto. Non l’ho più né visto né sentito, se non in occasione del “decennio” dalla scomparsa di Gianni Fornero dove ci siamo scambiati un frettoloso saluto.

Mi spiace molto non conoscere né sua moglie né le sue figlie. Ho continuato in questi anni ad avere sporadiche notizie su di lui da Calogero e ultimamente da Carlo Marino.

Di Gianni Fabris continuo comunque a portare con me un bel ricordo di quegli anni “burrascosi” vissuti insieme. Lo ricordo come una persona cara dal volto sorridente ed allegro che mi aiuta, ancora oggi, ad avere uno sguardo positivo anche sulla mia vita.

Venaria 23/5/2018 Gianpiero Margaria

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Gianni, spirito gioioso e autoironico Primi anni ’70. Gianni mi telefona per chiedermi in prestito l’auto. La sua è guasta e lui deve andare nel weekend in Val di Susa.

Verso le due di notte della domenica squilla il telefono. È ancora Gianni: ha avuto un incidente e la mia macchina si è scassata. Mi chiede se posso andarlo a recuperare con l’auto di mia moglie. Mi vesto, vado ad Alpignano e lo riporto a casa sua.

Più volte ho poi sentito Gianni raccontare questo episodio, terminando con la sua omerica risata, per offrire una definizione di “amico”. “È uno che ti impresta l’auto perché la tua è dal meccanico. Tu gliela scassi. Lo chiami in piena notte perché ti venga a prendere e lui viene e ti porta a casa”.

Un amico… Anche lui era così. Ed è come amico che voglio ricordarlo.

Lungo tutti gli anni ’70 ho avuto la fortuna di frequentarlo a Torino soprattutto negli incontri del giovedì sera da don Carlo Carlevaris, dove si celebrava insieme l’Eucarestia e poi si cenava, nella soffitta di via Belfiore 12 dai tetti spioventi. Ricordo le sue riflessioni, intelligenti, acute e competenti sui passi

delle Scritture che leggevamo, espressione già allora di una fede profonda, matura e libera.

Nel periodo in cui ha gestito, per la Cisl di Torino, la libreria in via della Misericordia 6, da lui tu andavi non tanto per acquistare un buon libro, ma per informarti e discutere di autori, di titoli, di temi di attualità, di letteratura, di storia politico-sindacale…

E i consigli che ti dava, dopo essersi messo in attento ascolto delle tue esigenze, erano sempre azzeccati.

Dopo il mio trasferimento da Torino a Novara sono state rare le occasioni per rincontrarci. Ma le mie tre figlie serbano un bel ricordo della giornata trascorsa nella casa di Castelletto di Busca in compagnia delle figlie di Gianni e di Cristina. Dopo molti anni – ed è stata purtroppo l’ultima volta - ci siamo rivisti il 26 aprile 2016 in occasione della festa dei novant’anni di Carlo Carlevaris. È stato un ritrovarsi come se il tempo non fosse trascorso. Stessa simpatia, stessa risata, stessa amicizia.

“Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili”.

Lo ricordava papa Francesco il 22 dicembre 2014, nel suo discorso alla curia romana. Rileggendo il passo in questi giorni, non ho potuto non pensare a Gianni Fabris.

Ciao, Gianni !

Chissà quante risate ti starai facendo ora in quel cielo che non possiamo vedere ma che sentiamo tanto vicino!

Andrea Lebra

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Breve biografia di Gianni Fabris (dal sito della Fondazione Vera Nocentini) Era nato a Gassino Torinese il 24 giugno 1945 e trascorse la sua vita torinese risiedendo dapprima in varie piccole comunità (S. Secondo, C.so Tassoni), poi in Lungodora Napoli 90, infine, dopo i 3 mesi in Terrasanta, in Via Perrone 3 con Fornero e Margaria.

Nel 1974 ritorna in Lungodora Napoli, dove risiede fino agli anni 80, da solo. Andrà poi, dopo il matrimonio, in Via Andreis, fino a che, nel 1986, si trasferirà con la famiglia a Dronero. Gianni aveva frequentato come seminarista con studi in teologia al seminario di Rivoli, poi come diacono e con l'avallo di padre Pellegrino era stato in Francia insieme a un gruppo di seminaristi per conoscere l’esperienza dei preti operai.

Non era poi rientrato in seminario per l’ordinazione e aveva iniziato a lavorare come operaio generico alla Carello; poi era passato a lavorare alla Lancia (19691970) come collaudatore da banco e addetto al metalloscopio. Ma la sua esperienza più significativa come operaio di 3° livello si svolse alla Castor-Zanussi di Cascine Vica (Rivoli) dal 18/01/1971-10/06/1073) come addetto al collaudo visivo e funzionale di lavatrici. Qui maturò la sua coscienza sindacale apprendendo che l’equilibrio andava raggiunto anche col conflitto: la sua esperienza di delegato sindacale FLM fu messa alla prova durante la lotta per il salvataggio della Castor, assorbita dalla Zanussi, che tuttavia procedette alla riorganizzazione con riduzione del personale e lui finì tra i licenziati.

Nel frattempo aveva iniziato da alcuni anni la sua collaborazione volontaria con il sindacato CISL torinese interessandosi del rapporto con il movimento studentesco esploso in quegli anni; il problema del confronto con il movimento richiedeva studio e riflessione e le sue note erano essenziali per la preparazione della segreteria (allora la CISL era la più attiva in questo confronto). Ma le lotte studentesche si intrecciavano con altre problematiche, quali la disoccupazione giovanile e la formazione professionale degli operatori sociali e sanitari. Le riflessioni di Gianni furono dedicate particolarmente all’applicazione della Legge 285 per l’avvio al lavoro dei giovani; poi ad alcune vertenze singolari come quella legata alla scuola Onarmo per assistenti sociali.

L’ampia documentazione raccolta e lasciata da Fabris all’archivio della Fondazione Nocentini ci consente di ricordare e illustrare tutte le altre iniziative e attività cui egli dedicò il suo impegno culturale e le sue risorse umane. In particolare dobbiamo ancora ricordare le lotte dei lavoratori studenti e degli studenti degli

istituti professionali per assorbire queste scuole nella più generale riforma della scuola.

L’ufficio scuola della CISL torinese, cui era addetto Fabris, si occupò in modo ampio e documentato dell’applicazione dei cosiddetti “decreti delegati” che costituivano un pezzo contrattato della riforma scolastica, indirizzata alla partecipazione delle varie componenti della scuola attraverso rappresentanze elette. E poi l’organizzazione e la diffusione nel territorio della provincia di Torino dei corsi “150 ore” conquistati con il Contratto Nazionale metalmeccanici 1973, e poi diffusi anche nelle altre categorie di lavoratori.

Ancora dobbiamo ricordare un’ulteriore esperienza culturale del sindacato (frutto anche del CCNL del 1973), ossia la “Cooperativa Libraria” per la diffusione, di libri e riviste, anche in fabbrica, tra i lavoratori attraverso la gestione di una Libreria (in via della Misericordia 6), inaugurata il 3 giugno 1977 e in attività con la gestione di Gianni come responsabile operativo; in seguito fu gestita da altri attivisti, come da lui richiesto, per una rotazione nell’esperienza. Con Gianni vicepresidente la Cooperativa, gravata di costi, durò fino al 1986.

Di queste ultime esperienze Fabris ha lasciato saggi scritti e interviste. Esse gli consentirono anche di avere competenza e titoli per passare alla gestione della biblioteca della Facoltà di Architettura: l’operaio della cultura era stato promosso ad impiegato!

Poi ci fu il trasferimento a Dronero nel Cuneese insieme alla sua ampia famiglia, collaborando sempre nel settore sociale con le ASL di Dronero e poi di Cuneo e con l’ufficio URP per i rapporti con il pubblico.

Negli anni del sindacato Fabris è stato un intelligente collaboratore e generoso animatore dei sindacati CISL Scuola (Sinascel e Sism).

Possiamo chiudere questo ricordo biografico con il suo sorriso e la sua risata contagiosa e carica di umanità.

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Eravamo tutti apprendisti nelle fabbrichette Anche se da molti anni con Gianni non avevo più avuto occasioni di incontri e di scambi la notizia della sua morte mi ha toccato dentro come quando si perde qualcuno cui senti di dovere molto.

Sento davvero di dovergli molto ed è la prima cosa che ho voluto esprimere a Cristina appena mi hanno avvisato della morte.

Ci siamo conosciuti in un periodo di svolta nella mia esperienza di prete. Da pochi mesi avevo scelto di entrare in fabbrica come operaio; don Gianni Fornero mi aveva cercato per propormi il progetto di lavorare nella Gioc che stava radicandosi in Torino così con alcuni ragazzi di Carmagnola cominciai a partecipare a corsi e riunioni di iniziazione nella sede torinese ogni fine settimana. Li teneva Gianni Fabris.

Ci siamo conosciuti in quella sala cantina della sede attorno a un lungo tavolo. Erano tutti ragazzi molto giovani, apprendisti nelle fabbrichette (allora si dicevano boite), la maggioranza senza libretti, quasi tutti figli di immigrati meridionali. Gianni faceva raccontare ad ognuno il vissuto sul lavoro, raccoglieva le diverse esperienze e ci aiutava a collegare la propria esperienza con quella degli altri per poi approfondire i contenuti con relazioni semplici e lucide.

Ho mantenuto di quelle riunioni e di quei primi anni un ricordo intenso che non si è perso anche dopo oltre quarantanni. La cosa dipende forse da una situazione sorprendente: io quarantenne prete ed educatore di quel gruppetto di apprendisti mi trovavo come loro a muovere i primi passi in una avventura che doveva portarci lontano. Come loro stavo inoltrandomi in un mondo che non conoscevo. Ero assolutamente nuovo di fabbrica, nessuna nozione di sindacato e totalmente nuovo anche di GiOC. Con i ragazzi avevo voglia di capire e di scoprire. Scoprivamo insieme.

Gianni Fabbris ci introduceva in quei mondi: ricordo lucidamente le prime analisi di come è organizzata una fabbrica; imparare a leggere una busta paga anche se i ragazzi quella non ce l'avevano proprio; i campi in montagna; i canti di protesta che ci facevano sentire per le prime volte all'interno di una storia che veniva da lontano e che avremmo scoperto essere il movimento operaio.

Ci introduceva lucidamente e sorridendo. Ecco: concludo con questa sua serenità. Sorrideva molto.

Don Silvio Caretto

Gianni Fabris, persona di saggezza e ironia Se ne è andata un’altra persona piena di saggezza e ironia, due virtù rare in questi tempi sempre più barbari e inquietanti. E’ mancato alla sua splendida famiglia e alla sua numerosa banda di amici Gianni Fabris che, dalla sua casa in piena campagna, a Castelletto di Busca, trasmetteva serenità e riflessioni suggerite da una vita intensa trascorsa nell’impegno sociale e culturale.

Sono stato a trovarlo un’ultima volta, con un suo e mio antico compagno di classe: era adagiato silenzioso in un letto, ai piedi di una libreria che aveva ordinato con pazienza e rigore, segno di una cultura non banale e mai esibita.

Gli abbiamo sentito dire sempre cose pacate e intelligenti, due doti gemelle che accompagnava spesso con una fragorosa risata quando i confronti si facevano più aspri e quello diventava un modo per mettere tutti d’accordo, almeno fino alla prossima rissa politica tra amici.

Era una risata che seppelliva ogni estremismo, aiutava a proseguire il dialogo senza emettere sentenze, faceva eco alle parole di papa Francesco: “chi sono io per giudicare?”. In questo Paese, eternamente diviso tra guelfi e ghibellini, Gianni sembrava divertirsi a non prendere sul serio né gli uni né gli altri, convinto com’era che nella vita navighiamo tutti in una nuvola grigia, tra la luce dei giorni sereni e il buio di notti che non sembrano finire mai.

Era una dote straordinaria, come dovrebbe essere l’umana saggezza, quella che la nostra generazione non ha sempre esercitato, lasciando in eredità, insieme a qualche tenace speranza, anche non poche macerie, sulle quali è adesso ora di ricostruire con rinnovata passione un mondo nuovo. Semplicemente più giusto. (già pubblicato su La Guida, il 17 maggio 2018) Franco Chittolina (franco.chittolina@gmail.com)

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

pag. 9

Addio a Gianni Fabris Gianni ci chiama oggi a radunare i nostri giorni intorno a lui, a questo suo giorno unico, nuovo. La vita di tutti è fatta di tanti giorni, ora sereni, anche felici, ora faticosi o dolorosi. Molti giorni si confondono nel tempo, ma alcuni restano vivi e presenti. Ognuno ha giorni che solo lui ha vissuto, in se stesso, e altri giorni popolati di famiglia, di compagnia, di incontri, di lavoro insieme, di scambi vivi, e di letizia, per chi sa essere lieto, come Gianni. Per me, lui è presente in giorni vivi e lieti. La sua risata liberante copriva di fiducia le discussioni attente, per capire e assumere i nostri impegni, ed era confortante, per me. Ho in mente una tavolata in casa di Renzo e Piera e la risata di Gianni che condiva ogni piatto, e dava colore sereno a tutta la discussione.

Gianni raccoglie ora tutti i suoi giorni in questo giorno. Avviene come quando le acque di un fiume, dopo anse, rapide, cascate, e placidi corsi, si restituiscono al mare, in un delta aperto come una grande mano, che dona e riceve, che si consegna e si ritrova.

Così Gianni ha vissuto la morte vivendo, attraverso la paziente malattia, sempre con piena coscienza, lasciando scivolare via le forze esaurite, guardando i volti vicini, scambiando parole affaticate ma calde, amiche. Ci siamo detti che l'amicizia è il

sacramento della vita e della morte. Un'amicizia vera e sentita è come un filo solido che porta comunicazione anche se poggia su pali distanti, e continua all'orizzonte. È un balsamo che toglie le asprezze, è una chiarezza che ci dà l'intelligenza dei momenti e delle relazioni, del loro significato. I miei incontri e le mie comunicazioni con Gianni, anche se non frequenti, sono stati tutti momenti di viva amicizia e intesa. Così credo che sia stato, con lui, per tutti i suoi amici.

Carlo Molari, teologo, dice che si tratta di “attraversare la morte da vivi”, per transitare in nuovi spazi di vita. “Addio”, mi ha detto espressamente Gianni, sapendo bene che questa parola vuol dire: andiamo a Dio, al Vivente che dà vita, che non ci abbandona al nulla, che è venuto a noi, che ci ha sospinto col suo santo Spirito a riempire i nostri giorni di affetti, di impegno per gli altri, di attenzione al mondo, del piacere di vivere. Queste son cose che il male non morde, sono cose che non muoiono. Addio, Gianni, e facci sentire il tuo lieto arrivo alla casa dove tutti banchetteremo chiacchierando nella luce, senza limiti di tempo.

Enrico Peyretti

(parole al funerale, 15 maggio 2018)

Gianni …. è stato per me un riferimento necessario e qualificante della mia crescita…..

Sovente ricordo quei momenti con gratitudine e riconoscenza.

In questi giorni, in sindacato Cisl nel quale lui ha vissuto per anni, tanti mi hanno raccontato momenti vissuti in fabbrica alla Zanussi, momenti di lotta, suoi e dei suoi compagni, per affermare i valori del lavoro,della dignità, del diritto al lavoro.

Poi in molti lo ricordavano nella esperienza della Libreria Unione in via della Misericordia.

Crocevia di tanta gente che in quel fecondo periodo di militanza e di lotta sociale lui ha avuto modo di conoscere, apprezzare e farsi apprezzare.

Continuerò e raccoglierò ancora queste testimonianze.

Mi rattrista molto questo distacco, segna in me un momento di impoverimento se non nella quotidianità, nel sentirsi in comunione con fratelli nella fede e nella condivisione di quei valori che caratterizzano la nostra vita, anche se non ci si frequenta, ma si sa che questi riferimenti solidi ci sono e questo ci fa stare meglio …

Agostino Demichelis

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

pag. 10

GRAZIE PER TUTTO CIÒ CHE CI HAI DATO Caro Gianni, mi viene in mente ciò che disse padre Turoldo, nostro maestro, e - come te - friulano: “… ma è la morte un varcar la soglia e uscire al sole”. Pur con un barlume di fede, come hai scritto, anche noi vogliamo credere che sei nella luce di Dio, non solo … ma sei qui tra noi …

Tuttavia, quanto è difficile per noi oggi pensare a quanto ci mancherai … a quanto ci mancheranno le discussioni appassionate con te. Sapevi andare alla radice dei problemi, provocavi a interrogarsi, a scavare sempre più a fondo, con una voglia irriducibile di comprendere la complessità delle questioni politiche, sociali, religiose… Potevamo discutere così animatamente perché ci volevamo bene e la nostra passione era il frutto di amore per il mondo, per la chiesa, per il Vangelo. La tua finezza, la tua profondità sia nel pensieri alti come nelle piccole cose ci ha sempre sorpresi …. e cito solo due esempi: quando catalogavamo i libri, nel cercare la parola chiave per i soggetti, io ero più superficiale… tu insistevi e persistevi: alla fine la nostra biblioteca sarà una delle meglio schedate ….

Lo stesso vale per la scrupolosità con cui curavi la realizzazione del Granello di senape.La tua morte!, Gianni… Morte che, come hai voluto far scrivere

Sapere che viene.

Chiamarla per nome, la morte.

Attenderla.

Sostare ad occhi chiusi nel silenzio per accoglierne le istruzioni.

Orientare delicatamente i gesti di cura.

Sorridere agli amici superando la fatica dell’ascolto e bevendo fino all’ultimo con gioia lieve e tenace pazienza ogni sorso di vita.

Gianni, ci hai insegnato anche a morire.

Piera

senza fronzoli e senza retorica, ci tocca nel profondo, scuote le nostre certezze. Ci obbliga a guardare in faccia il senso stesso della nostra vita, vita che ci hai educato negli anni ad accogliere come dono, ad assaporare, a condividere…

La tua morte fa salire dal profondo, in ognuno di noi, una domanda di senso e alimenta la fragile speranza che i nostri anni sulla terra siano parte di una storia molto più ampia, che si estende oltre i confini di questo passaggio terrestre.

La tua lunga intensa compagnia, di cui abbiamo goduto, la tua amicizia, il tuo esserci stato insieme in modo così ‘corposo’, autentico, disinteressato in questi anni ci aiuti a credere che noi veniamo dall’amore e torniamo ad un Amore che non ha smesso di accompagnarci in ogni passo della vita….

Così potremo credere che anche la tua vita non è una luce che si spegne, ma una luce che rimane accesa, anche qui, per tutti noi che ti abbiamo voluto bene, che con te abbiamo lottato per un mondo più giusto … Ci dovrai aiutare a non mollare…

Grazie Gianni per la tua vita, per tutto ciò che ci hai dato ... Grazie …

Renzo

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

pag. 11

GLI AMICI SI SEPARANO… (The parting of the friends) Questo Maggio piovoso ci ha portato via l'amico Gianni Fabris. Di famiglia friulana ma di salde radici torinesi, era stato “improntato” dal clima dei “santi sociali” che Torino ha alimentato nel corso dei due ultimi secoli, dal clima della Torino operaia di quando “la Fiat era la Fiat”, e dal vivace rinnovamento teologico e pastorale dell'episcopato del card.

Pellegrino (segnato dal suo impegno nella JOC, la gioventù operaia cattolica, e dalla vicinanza all'esperienza dei preti operai, in particolare dall'amicizia con don Carlo Carlevaris).

Questo intreccio di esperienze gli aveva lasciato un fondo di salda cultura, alimentato da vaste letture, e una passione per l'impegno sociale e culturale, condotto con continuità ma in modo personale, con distacco e anche diffidenza nei confronti delle istituzioni, della loro eterna tentazione di chiudersi su se stesse dimenticando la loro ragion d'essere nel servizio all'uomo.

La seconda metà della sua vita si è svolta invece a Castelletto di Busca, nel cuore della campagna cuneese, nella cura della sua bella famiglia e di un grosso orto, nel quale riversava l'abitudine alla precisione millimetrica maturata nelle “boite” della cintura torinese (mentre io, discepolo di un'altra scuola di pensiero o forse semplicemente disordinato, mi facevo sostenitore di un romantico culto della biodiversità).

E la vita ci ha fatti incontrare nella comunità di Mambre presso Busca, luogo di memorabili celebrazioni sia religiose che profane, oltre che di innumerevoli appassionate discussioni, le quali spesso trovavano uno sbocco nella redazione del “Granello di senape” in cui Gianni riversava il suo talento di “direttore d'orchestra”. Ed è proprio pensando alle celebrazioni e in particolare alle feste che vedo riemergere più chiara l'immagine di Gianni, che in un primo momento - scrivendo queste note - mi si presentava alla memoria luminosa ma per così dire sfocata. In particolare due tratti che proprio nelle

feste emergevano con solare evidenza: la sua caratteristica, veramente “omerica” risata, e il suo aspetto fisico, imponente e al tempo stesso gentile, adatto sostegno di una presenza intensa ma non invadente, attentissima e rispettosa, capace di relativizzare gli opposti punti di vista trasformandoli socraticamente in altrettante domande, in altrettanti punti di ripartenza per approfondire il senso dell'esistenza umana.

Alberto Bosi (alberto.bosi@gmail.com)

“Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l’infinito” (Erri De Luca)

L’altra notte, caro papà, ti ho visto fare quel passo oltre il confine, mi auguro che sia stato un tuffo nelle meraviglie dell’immenso. (Miriam)

il granello di senape

n. 3 (181) – giugno 2018

Mi metto in coda

pag. 12

Un rosario di grazie

Mi metto in coda per un rosario di grazie a te che starnutivi come l’Olimpo comanda e ridevi ancor meglio che attorno tutto vibrava e scordavamo per un momento i mali del mondo e sentivamo il tuo riso una benedizione.

che catalogare un libro era un’epica una leggenda un minuzioso cercare un discutere mezze ore un pretesto d’incontro dentro la tessitura di amicizie vere.

Mi metto in coda per un rosario di grazie a te che assaporavi Barth per dirne uno tra i tanti e i fiori di campo e la cultura te la mangiavi adagio come buon pane: sgorgava limpida nel tuo parlare e a noi faceva bene.

Mi metto ancora in coda per ricordare cosa ci hai regalato è un elenco così come mi viene con tanti buchi che altri sempre in coda sapranno riempire: il tuo pensare robusto e delicato insieme quel porgerci con rigore il dritto ed il rovescio d’ogni questione e farci sporgere nei versanti profondi delle cose.

Mi metto in coda per un rosario di grazie a te che i tuoi occhi erano belli e le tue mani con sapore d’orto ci omaggiavano di una passata di zucca favolosa e intanto ci conducevi per qualche forma d’arte con dire chiaro.

Mi metto in coda per un rosario di grazie a te che sapevi di teologia e di umorismo

Tanto avremmo da camminare nell’arte di discernere arte sottile del pensare largo eppure puntuale rigoroso con slarghi di dolcezza.

L’hai coltivata con passione e pazienza e te ne siamo grati.

Ne abbiamo bisogno di un poco, almeno.

Mi metto in coda per dirti cosa di te mi accompagna come una rugiada dall’alto e va nel profondo: quel tuo sostenere con chiarezza e forza qualcosa poi chinare un poco il capo sorridere a te stesso alzare gli occhi a noi e dire: “ Ma potrebbe essere anche non così.”

Eva

(eva.maio@alice.it)

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

pag. 13

bibb land o IL SEPOLCRO NUOVO ando

I vangeli ci dicono che Gesù viene deposto in un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto (Mt 27,60; Gv 19,41). Addirittura, Giovanni sembra in qualche modo giustificare questa scelta dicendo che il vantaggio di quel sepolcro era il suo essere vicino alle mura della città di Gerusalemme (Gv 19,42).

Quel sepolcro è però qualcosa di straordinario.

Il tempo di Gesù, nell'impero romano, è un tempo di progresso e crescita. I romani, anche nel Mediterraneo orientale, portano pace (armata, all'occorrenza, ma comunque pace), ordine, strade che vogliono dire maggiore ricchezza (perché i viaggi non venivano più limitati alla bella stagione, quindi si potevano portare merci all'estero sempre, e nel caso di carestie ci si poteva servire altrove...). In più gli ebrei godono di diversi privilegi.

Questo fa sì che si sviluppi un caso umano un po' particolare. Prendiamo un ebreo che viva lontano dalla Giudea, magari un commerciante (molti degli ebrei erano commercianti) che dedica i primi venti anni della sua carriera, ubbidendo probabilmente al padre, a lavorare. A un certo punto si sposa, molto probabilmente con una donna più giovane di lui, e ha dei figli. Verso i sessant'anni comincia a pensare di lasciare ai figli la propria attività, e si ritira in pensione. Soldi ne ha, ma dove ritirarsi? Un'idea che prende piede è quella di abbandonare i centri del commercio, più costosi, per andare in zone dove il costo della vita sia più basso. Tra queste spicca Gerusalemme e la Giudea, terre inevitabilmente non banali per un ebreo, e regione nella quale si riteneva che sarebbe ricomparso il messia.

Ecco allora il nostro commerciante ebreo presentarsi a Gerusalemme, carico di soldi (che in quel contesto povero vengono anche rivalutati), trascinandosi dietro una moglie più giovane, dei figli piccoli (i grandi avevano preso le redini dell'azienda di famiglia) che sono abituati a crescere in contesti metropolitani, che parlano greco, e che probabilmente non sopportano tanto il clima culturale della Giudea. Si tratta degli ellenisti, che anche per i cristiani diventano un problema (il discorso di Stefano contro il tempio è il più duro di tutto il Nuovo Testamento: Atti 7).

Questo nostro ex commerciante investe in ciò che gli serve: una casa per vivere, possi-

bilmente comoda e lussuosa ma intorno a Gerusalemme, e un bel sepolcro. I sepolcri più belli erano quelli scavati nella roccia, e ovviamente, anche se si potevano riutilizzare sepolcri di famiglie cadute in disgrazia o estinte, l'ideale resta quello di uno scavo nuovo. I sepolcri ricchi prevedevano un corridoio su cui si affacciavano i loculi, tutto interrato. All'ingresso si poteva coprire l'ingresso con una qualche chiusura di fortuna, anche se l'opzione più raffinata era quella di una pietra rotonda, con canaline nella roccia perché potesse rotolare senza scivolare via.

Che Gesù, un condannato a morte, ottenga come sepoltura un sepolcro nuovo, mai utilizzato da nessuno, scavato vicino alle mura di Gerusalemme, è qualcosa di straordinario. Di fatto viene sepolto come un ricchissimo, quasi come un re. E chi glielo mette a disposizione è qualcuno molto ricco e molto in vista, che decide di lasciare il proprio sepolcro a un ribelle condannato a morte. Non certo una sepoltura umile o ordinaria.

Angelo Fracchia

(gelofra1@gmail.com)

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

pag. 14

IL "SECONDO" ISAIA

Non sono l'unico che in questo numero del "Granello" ricorda Gianni Fabris. Tanti altri amici lo avevano incontrato molto tempo fa, io solo nell'ultimo quindicennio. Ma rimettermi a scrivere per il Granello non può che suscitare un moto di gratitudine. È stato lui, in questi anni, a stimolarmi a scrivere, a pensare la rubrica di Bibblando, a credere in questi racconti leggendoli con cura, con minuziosissima attenzione, pronto a proporre correzioni, miglioramenti, ottenendo sempre risultati migliori di ciò che gli sottoponevo. Se questi racconti hanno continuato a comparire sul "Granello", il merito è di Gianni; potrebbe anche essere una colpa, di per sé, ma il vantaggio dello scritto è che il lettore può anche saltare, dunque il bilancio del pubblicare è sempre positivo. Motivo in più per ringraziare per Gianni.

- ... perché poi, sai, nonno?, a un certo punto il tono cambia, ci si accorge davvero che è come se l'Altissimo avesse mutato la parola al profeta, e Isaia ha cominciato a parlare in modo diverso, parole belle, delicate, consolanti. Inizia proprio così, da quel punto in cui dice "Consolate, consolate il mio popolo...". Io non so ancora leggere, ma Shmuvavel, che sa leggere, mi ha detto che c'è proprio scritto così. Gamil dice che quando lui era piccolo quelle parole non c'erano, o forse c'erano ma non si vedevano, però, quando è arrivato il tempo giusto, l'Altissimo ce le ha fatte vedere, perché adesso è il tempo giusto per sapere che abbiamo sofferto abbastanza... e forse torneremo a Gerusalemme. Tu te la ricordi Gerusalemme, nonno?-.

- No, Iair, non posso ricordarmela, anche io sono nato qui.-.

- Ma io so che è bellissima, piena di oro e di argento, con un tempio grandissimo e fresco, me lo ha detto Iair. Neanche Iair può aver visto Gerusalemme, però lui sa già leggere, di certo deve averlo letto... quando saprò leggere anch'io, vedrò Gerusalemme. Devo ancora aspettare tanto, per poter leggere, nonno?-.

- Ari, vieni qui, voglio raccontarti una storia.-.

- Mi racconti la storia di Enkidu? O quella di Giuseppe?-.

- No, nessuna delle due. Oggi ti racconto una storia vera, e una storia mia.-.

- Ma non racconti di quando sei andato fino ai monti, vero? Quella è una storia un po' noiosa...-.

- No, ti racconto una storia che non ti ho mai detto. Ma tu devi promettermi di non raccontarla mai a nessuno!-.

- Ma nonno! Io non posso non raccontarla! Io voglio sempre parlare, come faccio a non parlare?-.

- Ovvio che devi parlare, ma non di questo! Resta un piccolo segreto tra il nonno e te.

Non mi sembra che dici a tutti che vai a prendere di nascosto le ciliegie dal giardino di Kshathra...-.

- Oh...! E tu come lo sai?-.

- Lo sa anche lui. Ma vuole tanto bene, a te e ai tuoi amici, che fa finta di non vedervi!-.

- Noi pensavamo di essere bravi a nasconderci!-.

- Ci succede a volte anche con l'Altissimo, benedetto Egli sia! Noi pensiamo di essere bravi, quando è soltanto lui a essere misericordioso con noi. Perché questo è sicuro: lui vuole il nostro bene, ci consola, ci promette che starà sempre con noi.- È esattamente quello che c'è scritto nel libro di Isaia, ma non dall'inizio, solo da un certo punto, te lo dicevo prima!-.

- Lo so bene, sai?-.

- Quando tu eri bambino c'erano già quelle parole? Perché Gamil dice che quando era piccolo quelle parole non c'erano, o forse c'erano...-.

- ... ma non si vedevano, me l'hai già detto. E se ti dicessi che invece so chi le ha aggiunte?-.

- L'Altissimo, no? Non è tutta sua, la Scrittura?-.

- Pensi che sia stato il Benedetto a prendersi il papiro e la penna?-.

- Be'... Gamil dice che è l'Altissimo che ha scritto la legge!-.

- Pensa un po', Iair. Immaginiamo che io ti faccia capire che non sono contento che tu porti via le ciliegie a Kshathra e che tu vada dai tuoi amici che ti dicono di andare a mangiarle. Che cosa fai?-.

- hmm... non so... ma forse gli dico che tu non vuoi che le mangiamo.-.

- Bene. Dirai qualcosa del tipo che "il nonno mi ha detto di non mangiarle".-.

- Sì.-.

- Bene. Ma le parole che usi, te le ho suggerite io?-.

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

- Ma no! Le parole le so!-.

- Esatto. E io forse non ti avevo neanche detto di non mangiarle più, te lo avevo solo lasciato capire... E magari te l'ho fatto capire solo perché non ti ho detto che hai fatto bene, ma tu hai capito che se me ne stavo un po' zitto era perché non ero soddisfatto.-.

- Certo! Io ti capisco, nonno! Sono sempre stato con te! A volte papà dice che non sa bene che cosa ne diresti tu, e allora glielo spiego, perché io lo so!-.

- Bravissimo! Hai proprio capito ciò che intendevo. Tu potresti persino continuare a spiegare che cosa penso io anche se io mi ammalassi e non riuscissi più a parlare.-.

- Penso proprio di sì!-.

- Lo penso anch'io. Credi che succeda a tutti così?-.

- Hmm... forse solo alle persone che gli vuoi bene!-.

- Forse proprio solo alle persone a cui vuoi bene! E tu vuoi bene al Benedetto?-.

- Ma... nonno, certo che gli voglio bene... anche se... ne voglio di più a te.-.

- Perché?-.

- Perché... Penso perché tu mi hai fatto giocare, e mi insegni tante cose.-.

- Anche l'Altissimo, benedetto Egli sia, ti insegna tante cose, ma non è facile accorgersene.

Dovrai diventare un po' più grande per accorgerti che ti è accanto e ti aiuta. Per adesso sei stato più tempo con me che con l'Altissimo, e quindi di me sai dire che cosa penso, o addirittura che cosa penserei di fronte a una cosa nuova, di lui no. Ma pensi che qualcuno più grande di te, che per tanto tempo ha letto e meditato la Scrittura, non potrebbe fare qualcosa del genere con il Benedetto?-.

- Ma... forse sì.-.

- E se qualcuno intuisse qualcosa di nuovo sul Benedetto, che cosa dovrebbe fare?-.

- ... Nonno, non lo so.-.

- Insieme ad alcuni amici, tanti anni fa, ci trovavamo a pensare e pregare e a chiederci che cosa l'Altissimo, benedetto Egli sia, pensasse della situazione in cui ci trovavamo. Eravamo ormai da decenni in esilio, sempre meno di noi si ricordavano come era fatta Gerusalemme, e ci chiedevamo se non fossimo per caso stati abbandonati.-.

- Ma no! Non ci ha abbandonati, vero?-.

- È quello che ci dicevamo anche noi: non può averci abbandonati. Vedevamo però che quelli di noi che avevano dimenticato tutto, che vivevano soltanto del presente, che pensavano soltanto a mettersi nel commercio, a fare soldi, a

pag. 15

farsi benvolere dai babilonesi, quelli avevano successo e si arricchivano. Altri, che vivevano nella preghiera e nell'aiuto a chi stava peggio di loro, sembravano essere puniti: le cose andavano loro male, venivano presi in giro... Abbiamo iniziato a chiederci se davvero il Signore potesse volere più bene agli egoisti che a chi viveva per gli altri, e ci siamo detti che sicuramente non era così, che chi vive nei cieli può solo guardare con benevolenza a chi si dona agli altri... e abbiamo pensato, con un po' di stupore, che se nella vita sembrava che costoro non fossero particolarmente fortunati, era solo perché il Benedetto voleva lasciarci liberi, voleva che lo seguissimo convinti non dalle ricompense, ma dal bene che facciamo. In fondo, tu saresti contento se io fossi costretto a stare con te e a volerti bene?-.

- Ma no, nonno! ... Tu non sei costretto a stare con me, vero?-.

- Certo che no!-.

- Meno male! Io voglio proprio stare con te, ma non vorrei che tu fossi costretto. Vorrei che tu fossi contento di stare con me.-.

- È esattamente quello che ci siamo detti anche noi. L'Altissimo voleva stare con noi, ma non voleva costringerci. Per questo ci lasciava liberi, non interveniva nella storia, non faceva andare bene le cose a chi gli voleva bene.

Altrimenti qualcuno lo avrebbe ascoltato non perché voleva stare con lui, ma per non avere dei problemi. Ci siamo allora detti che l'Altissimo era sicuramente accanto a chi viveva per gli altri, anche soffrendo, e che se qualcuno avesse subito del male per fare del bene, sicuramente sarebbe stato gradito a Lui. Abbiamo iniziato a scrivere degli inni, e poi altre riflessioni, e più andavamo avanti, più capivamo che veramente ciò che lì era scritto era voluto dal Signore. E abbiamo iniziato a chiederci come fare a farlo sapere anche a tutti gli altri. Tu che cosa avresti fatto?-.

- Oh. Non so... forse andare a raccontarlo in sinagoga?-.

- Ma non ci sarebbe stato tempo: il nostro scritto non era parte della Torà, non ci sarebbe stato modo di leggerlo.-.

- Allora alla porta della città...-.

- Ma non ci vengono soltanto gli ebrei. E poi non è un posto tranquillo, hai visto che non sono soltanto poche parole...-.

- Allora... non lo so: che cosa avete fatto?-.

- In quel tempo i saggi e gli scribi avevano deciso di rimettere in piedi le scritture. Da mesi raccoglievano i frammenti che riuscivano a trovare, aggiungevano quello che si ricordavano, e componevano in libri nuovi anche racconti antichi.-.

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

- Ma Gamil dice che il libro che abbiamo letto viene da Gerusalemme!-.

- Sì, in parte. Era una lunga composizione che aveva già più di cento anni quando mio padre fu esiliato da Gerusalemme. Di quel libro avevamo diverse copie, in realtà, però gli scribi avevano voluto raccogliere tutto ciò che era nel Tanak, per confrontarlo e perché niente andasse perduto.

Quindi avevamo tutti, o quasi tutti, i libri della Scrittura insieme. E decidemmo che il libro di Isaia, che raccontava la fiducia in un Dio che non abbandonava Israele nella storia, sarebbe stato il migliore per darci ragione...-.

- E...?-.

- Prendemmo le copie del libro di Isaia che si trovavano lì, e vi aggiungemmo il nostro testo.-.

- Eh? Ma... non si fa!-.

- Perché non si fa? Che cosa dicevamo prima, sul capire che cosa direbbe Dio? In fondo, Isaia aveva raccontato quello che aveva capito di Dio, e noi continuavamo a farlo...-.

- Sì, però non siete Isaia. Avresti dovuto scrivere: "dal libro degli amici di Elishavat".-.

Sabato

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- Già... forse avremmo dovuto scrivere così. Ma avrebbero potuto chiedersi se eravamo davvero importanti... e poi a noi non interessava che si ricordassero di noi. L'importante era ciò che avevamo da dire... E così proseguimmo il libro di Isaia!-.

- Ma dai! Devo subito dirlo a...-.

- Iair! Che cosa mi avevi promesso?-.

- Ma è una cosa troppo importante! Non avrei potuto sapere che mi chiedevi il segreto su una cosa così!-.

- Ma ti ho chiesto il segreto! Quindi non lo dirai a nessuno... sarà un segreto tra me e te.

Quando sarò morto, e tutti diranno tante cose su di me, tu potrai dirti di sapere di me qualcosa che nessuno dirà.-.

- Bello!-. ...

- Nonno, tu però pensi che Kshathra sia triste, se gli portiamo via le ciliegie?-.

Angelo Fracchia

(gelofra1@gmail.com)

7 luglio alle 15,30 presso la Comunità di Mambre

don Paolo Scquizzato parlerà sul tema “Oltre l'obbedienza e il dovere. Uscire dall'infantilismo cristiano”.

Don Paolo Scquizzato, teologo, ordinato sacerdote nel 1998, è il responsabile della casa di spiritualità del Cottolengo, “Mater unitatis”, dove ogni domenica tiene corsi il cui audio si può ascoltare digitando “Mater Unitatis”, insieme al suo nome, su Google.

Ecco alcuni titoli, che possono dare un'idea dei suoi temi preferiti: “Bibbia, parola d'uomo”, “Creazione, Provvidenza, miracoli? Ripensare la nostra fede”, “L' ‘invenzione’ del peccato. Per un ritorno al Vangelo”.

Sempre su temi di spiritualità ha pubblicato diversi saggi, ad esempio “Elogio della vita imperfetta”, “Ancor meglio tacendo”, “Ultima verrà la morte...e poi?”.

Da diversi anni pratica la meditazione nella forma elaborata dal monaco cristiano John Main, influenzato dalla spiritualità indiana.

Si potrebbe definire don Paolo un “teologo di frontiera” perchè il suo impegno principale consiste nell'affrontare senza reticenze le domande più scottanti sulla fede cristiana, cercando di esprimerne il contenuto in un linguaggio che sia comprensibile e significativo per l'uomo contemporaneo. Ne risulta una visione profondamente rinnovata del cristianesimo, saldamente centrata sul messaggio evangelico.

n. 3 (181) – giugno 2018

il granello di senape

Cinque anni senza ... Il Gallo

La chiesa si sta riempiendo, procede lentamente ed a fatica tra i banchi un uomo sorretto da una signora, malfermo sulle gambe, raggiunge l’altare e concelebra con altri sacerdoti la messa in ricordo di don Andrea Gallo, a cinque anni dalla sua morte, martedì 22 maggio 2018. È don Federico Rebora, salutato alla fine da una standing ovation, prete ultranovantenne che accolse nel 1970, nella sua parrocchia di San Benedetto al porto, don Andrea Gallo a seguito di un ennesimo tentativo, da parte della Chiesa, di metterlo ai margini. L’affettuosa acclamazione riconosce così il coraggio di questo parroco nell’offrire ospitalità e possibilità di agire ad un confratello dirompente, dalla personalità forte e determinata, libero nella sua professione di fede, amante della giustizia e della pace, quando non era facile né scontato farlo.

Nella chiesa di San Pietro in piazza Banchi, centro storico di Genova, Alex Zanotelli, che (così ha spiegato) solitamente non ama spostarsi per ricorrenze o conferenze, ma per questa occasione è salito al nord.

Ha presieduto l’Eucarestia notando che alla celebrazione era presente il “popolo” del Gallo, composto da volontari, amici della comunità di san Benedetto ed i tanti che da questo testimone si erano sentiti accolti ed amati in quanto persone, lì convenuti ancora una volta per lui, pronti ad applaudire, a cantare, a spezzare il pane, a tenersi per mano, ad abbracciarsi e ringraziare per il dono di averlo avuto come guida.

«Don Gallo sarebbe indignato nel vedere come vanno certe cose oggi in questa città, in Italia e in Europa, cose che lui non avrebbe mai voluto», ha detto nell’introduzione citando il referendum sull’acqua del 2011 «per cui lui aveva fatto tanto ma che poi abbiamo tradito». L’acqua - si prega «che mai cada nella gestione dei privati» - diventa, insieme al fuoco e al pane, simbolo di questo rito che unisce, in modo inequivocabile, fede ed impegno politico, riflessione personale ed agire comune, coinvolgendo i presenti con puntuali richiami alla realtà. Una ciotola piena d’acqua e un cero acceso passano di mano in mano; ognuno può adeguare le proprie riflessioni, in una preghiera di ricordo e di speranza, perché l’eredità di don Gallo venga raccolta e portata avanti. In modo naturale si passa dalla preghiera a Dio, invocato come “papà”, alla realtà sociale e politica, facendo memoria delle diseguaglianze e delle tante guerre che ancora si combattono nel mondo, di cui «non si parla mai» e che succhiano ingenti risorse.

Un giovane ricorda l’impegno del Gallo per l’approvazione della legge 194 del 1978 sull’inter-

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“Sempre con coraggio cerchiamo di continuare ad essere “trafficanti” di Sogni” (don Andrea Gallo)

ruzione volontaria di gravidanza, richiama il rispetto per ogni persona, la sua comprensione per ogni situazione, anche per le scelte da lui non condivise, come poteva essere l’aborto, ma accompagnate per l’attenzione all’altro, anche con sofferenza.

A conclusione della celebrazione viene distribuito a tutti i convenuti il pane appena benedetto quale momento di unione e di condivisione.

In prima fila, Lilli, colonna della Comunità di San Benedetto al Porto fin dal 1983, abbracciata e salutata da tanti, a ribadire l’impegno per gli altri portato avanti da lei e da tutti gli amici del Gallo.

Domenico “Megu” Chionetti, sottolinea l’impegno della Comunità di San Benedetto contro il gioco d’azzardo, «un sistema che impoverisce sempre di più tutti noi», che porterà nei prossimi mesi, attraverso la rete “Mettiamoci in gioco”, alla realizzazione di una serie di iniziative di sensibilizzazione e mobilitazione.

Il dibattito serale sulla piazzetta Banchi ha visto ancora l’intervento di padre Zanotelli: «Contro la disuguaglianza c'è bisogno di santa rabbia... Abbiamo bisogno di un movimento popolare che prenda coscienza delle disuguaglianze e dell’insostenibilità di questo sistema, che si organizzi, si arrabbi e reagisca, come faceva don Gallo, per contrastare quella che Papa Francesco ha definito più volte “un’economia che uccide”». Citando ancora il Papa aggiunge che ad ogni persona bisogna garantire terra, lavoro e casa: questo il richiamo e l’impegno della vera politica. E prosegue: «Manteniamo questo sistema con le nostre scelte quotidiane», ogni volta che andiamo in banca o al supermercato. Aggiunge che il pianeta è di tutti «Noi non siamo la cultura, la civiltà, la religione» augurandosi la “convivialità delle diversità” come sosteneva Tonino Bello.

Presenti all’incontro serale anche l’ex sindaco di Genova Marco Doria ed il presidente del Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (CNCA) Armando Zappolini: «Dobbiamo continuare a fare accoglienza, a fare servizi, a ricominciare da dove siamo partiti, dalle strade, dalle piazze....», e poi una nota di speranza: «Dobbiamo tornare alla logica della resistenza, metterci la faccia, ciascuno nel suo ruolo e nella sua condizione. Un domani, qualcuno che vivrà un mondo migliore del nostro dirà: “Siamo in un mondo migliore perché qualcuno ha resistito”».

Costanza Lerda (l.costanza@libero.it)

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Le lezioni della Resistenza per gestire l’oggi Lidia Rolfi e Germaine Tillion Tra aprile e maggio (il 25 aprile in Italia e l’8 maggio in Francia) si celebra la fine della seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazi-fascismo.

Un’occasione per riflettere sulla tragedia che ha investito l’Europa, culla dei diritti universali, e sui valori ereditati dalla resistenza. Ovunque questi valori vengono ricordati per gestire il presente e costruire il futuro. Più che mai, in questi tempi bui del trionfo del populismo, ci è sembrato utile ricordare il messaggio di due donne, ambedue reduci dal campo di concentramento, ambedue determinate a salvare la memoria e a resistere ad ogni tipo di sopraffazione, ambedue autrici di numerosi studi e testimonianze: la monregalese Lidia Rolfi (Le donne di Ravensbrück,1978) e la francese Germaine Tillion (Ravensbrück, 1973).

Il dovere della memoria Un recente convegno organizzato a Mondovì (da varie associazioni culturali tra cui Gli Spigolatori e Alliance Française), intitolato “Sul filo della memoria. Lidia Rolfi e Germaine Tillion: l’incrocio di due destini”, ha avuto il merito di associare le due figure superando la commemorazione locale e sottolineando la dimensione internazionale della tragedia nazista e lo spessore universale degli ideali della Resistenza.

L’internazionalizzazione della memoria è una scelta essenziale: vuole dire aver colto che, di fronte alle tragedie della storia ed in particolare a quella del nazifascismo che ci riguarda da vicino, non si può ragionare unicamente in termini di realtà locale ma di realtà UMANA. Quando Lidia Rolfi tornò a casa ed ebbe persino difficoltà a raccontarsi per la diffidenza incontrata, la realtà monregalese le sembrò molto stretta: “Non è possibile raccontare. – scrive anni dopo – Quando tento, mi accorgo che gli altri mi guardano stupiti, perplessi… mi credono pazza. I più disponibili mi ascoltano educatamente per pochi minuti, poi mi pregano di cambiare discorso perché ‘non possono sentire’, ‘fa troppa pena’… un muro si leva fra me e il mondo”. Ci volle la sinergia delle sue compagne di detenzione per incominciare a testimoniare; dovette vincere sia i suoi traumi sia la chiusura della cultura locale. “Primo Levi diceva di me: la mia amica Lidia Rolfi ha due colpe, essere donna e essersi occupata di politica. Eppure occuparsi di politica in senso lato, occuparsi della polis, dovrebbe essere un dovere di tutti i cittadini. Se tutti l’avessero fatto, non saremmo arrivati alla drammatica situazione di oggi”. (intervista di P. Oderda, 1993). Fra le compagne che l’aiutarono a parlare, ci fu Germaine Tillion che lei non conobbe al campo ma con la quale strinse poi rapporti strettissimi (il figlio Aldo ricorda di avere conosciuto Germaine ospite a casa della madre a

Mondovì) per salvare la memoria e testimoniare.

Infatti, quando la francese tornò a Parigi, divenne la rappresentante internazionale del male attraversato da milioni di uomini e donne: ambedue avevano vissuto la sofferenza umana, senza distinzione di nazionalità, razza o religione. L’UMANITÀ era in questione: Se questo è un uomo, scriverà Primo Levi.

Siamo di fronte a due delle poche sopravissute del lager di Ravensbrück che assunsero il “dovere di memoria” con la convinzione morale e la carica umana di chi ha vissuto sulla propria pelle le sofferenze del lager e, dopo anni di lotta per non dimenticare, G. Tillion può affermare: “Non posso non pensare che le Patrie, i Partiti, le cause sacre non sono eterni. Ciò che è eterno (o quasi) è la povera carne sofferente dell’umanità”.

Etnologia e Umanità È su queste parole, soprattutto, che vorremmo soffermarci e sulla figura di Germaine Tillion, poco conosciuta in Italia, su questo messaggio alto che pone la dignità umana al di sopra della politica e che ci può aiutare ancora oggi a vedere oltre il misero panorama politico di casa.

Di mestiere, Germaine Tillion era etnologa, cioè studiosa delle diverse società umane. Proveniva da una delle esperienze più ricche e stimolanti del suo tempo: la scuola di etnologia di Parigi e il Musée de l’Homme.

Questa scienza nascente che riunì gli intellettuali d’avanguardia del dopo guerra francese (per citarne alcuni: Claude Lévi-Strauss, Jacques Soustelle, Michel Leiris, Anatole Lewitsky, Boris Vildé) fu la culla in cui crebbe e si formò la giovane Germaine. Vi imparò il suo mestiere – studiare e capire il funzionamento di una società – e fece sua, senza ma e senza se, la filosofia del Musée de l’Homme: tutte le culture e tutte le razze sono uguali. Non era un sentimento, era un principio scientifico.

All’istituto di etnologia, le insegnarono a lavorare: raccogliere documenti, intervistare, porre le domande giuste, osservare, classificare, assemblare le informazioni, connettere i dati per capire il funzionamento della società studiata. È quello che la giovane etnologa farà, senza tregua e con puntigliosa caparbietà in ogni ambiente: presso le tribù algerine dell’Aurès dove la portò la sua prima missione di etnografa, a Ravensbrück dove si mise a studiare il funzionamento del lager appena vi arrivò, poi ovunque le chiesero di intervenire. Ma lo fece con qualità che non appartengono a tutti gli scienziati: l’umiltà e la compassione.

In un suo libro intitolato Il était une fois l’ethnographie / C’era una volta l’etnografia, G. Tillion ci spiega che, in verità, l’umiltà non è una virtù

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opzionale per l’etnografo, è essenziale in quanto si tratta di un’analisi fatta da un uomo su un altro uomo e funziona soltanto a doppio senso: “L’etnologia è innanzi tutto un dialogo con un’altra cultura. Poi, una rimessa in questione di sé e dell’altro. Poi, possibilmente, un confronto che supera sé e l’altro”.

L’etnologo quindi, non può interrogare l’altro senza interrogare se stesso: “Il dialogo s’instaura in un va e vieni, e ad ogni andata e ritorno qualcosa si modifica, non da una parte sola, ma dai due lati perché ciò che l’interlocutore percepisce di se stesso è ciò che il locutore non vede e viceversa”. È quindi chiaro che, senza umiltà, il lavoro rimane squilibrato e inutile.

All’umiltà intellettuale corrisponde un’umiltà umana che permise a Germaine Tillion di amare e farsi amare da tutte le donne e tutti gli uomini con cui ebbe da condividere un’esperienza di vita. In lei, la compassione (soffrire con) è meno una qualità personale che non il prolungamento logico della consapevolezza di appartenere ad una umanità unica, ad una condizione umana universale.

Questo metodo di lavoro e questo amore per l’umanità, G. Tillion se li porta ovunque, nelle tribù berbere dell’Aurès algerino come a Ravensbrück.

Ovunque indaga, studia, guarda, calcola, scrive: lo fece prima in prigione come detenuta politica, poi sul treno che la portò in Germania, al campo appena arrivata prendendo appunti su minuscoli ritagli di carta nascosti o fra le righe di libri insospettabili; in Svezia tra le compagne superstiti, appena fu liberata dalla Croce Rossa svedese; sul treno di ritorno in Francia, dopo la liberazione, interrogando testimoni e consultando archivi, costituendo una documentazione storica monumentale e preziosissima, un incessante lavoro di tessitura per ricostruire il mostruoso disegno di sterminio nazista, per conoscere, comprendere e spiegare la peggiore tragedia del XX secolo.

Conoscere e comprendere. La conoscenza fine a se stessa non avrebbe avuto senso senza la convinzione che comprendere significa resistere e, a Ravensbrück, sopravvivere. Dopo appena cinque mesi dal suo arrivo al campo, Germaine riesce a organizzare di nascosto per le sue compagne una autentica conferenza scientifica in cui illustra loro, con precisione, i metodi e i fini del campo di concentramento: lo sterminio per morte naturale (logoramento per fame e lavoro) o per assassinio (fucilazione, gas, percosse). Sapere, le aiutò a lottare: “Smontare mentalmente, comprendere un

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meccanismo, anche se vi opprime, guardare con lucidità, dettagliatamente una situazione, anche se disperata, è fonte di sangue freddo, di serenità e di forza d’animo. Non scorderò mai, aggiunge G. Tillion, la gioia delle compagne che mi ascoltarono quel giorno… Comprendere ciò che vi schiaccia è un modo per dominarlo”.

Sono compagne francesi come queste, detenute politiche informate, politicizzate, armate di una incrollabile fede nella giustizia, animate da un’etica comportamentale carica di disciplina, fierezza e solidarietà che – appena sapranno che anche Lidia, l’Italiana, proviene dalla resistenza italiana contro il fascismo – la prenderanno sotto la loro protezione, inserendola nel loro gruppo, come racconta L. Rolfi in Le donne di Ravensbrück. E se comprendere vuol dire resistere, resistere vuol dire aver ancora voglia di vivere e quindi avere maggiori probabilità di sopravvivere nell’inferno di Ravensbrück.

Le lezioni della storia.

Dopo la liberazione, nell’aprile 1945, Germaine dedica 10 anni alla ricerca per il CNRS sui campi di concentramento nazisti, i gulag sovietici, ogni struttura o regime di oppressione, ovunque siano; un lavoro di memoria che la portò a testimoniare, a dirigere le associazioni di resistenti (l’ADIR - Association des déportées et internées de la Résistance e il CIRC Commission internationale contre le régime concentrationnaire) dove collaborò con Lidia.

Rendere giustizia diventa una ragione di vita. Nel 1954, quando scoppia la guerra d’Algeria, i suoi maestri parigini la richiamano per riprendere il suo lavoro di etnologa e andare a studiare le ripercussioni delle operazioni militari francesi sulle popolazioni civili algerine. Germaine riparte. Anche se vi ritrova integri l’affetto e la fiducia delle popolazioni berbere dell’Algeria conosciute 15 anni prima, rimane sconvolta dal degrado della società algerina in fase di “clochardisation” sotto i colpi del regime coloniale francese. Nel 1946 aveva denunciato con foga nelle pagine di Ravensbrück, le atrocità naziste; con la stessa foga denunciò la distruzione del popolo algerino in uno studio intitolato L’Algérie en 1957. Guarda caso, quest’ultimo lavoro venne dedicato alle sue compagne ex-deportate dell’ADIR e fu pubblicato nella rivista Voix et visages della stessa associazione.

Era patriota Germaine. Se tante volte durante la prigionia aveva rialzato la testa, al suono della parola

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“France”, seppe prendere le distanze dal suo profondo patriottismo quando si trattava di rimanere giusti.

Negli anni Sessanta e per molti anni si batté affinché fosse riconosciuta la pratica della tortura da parte dell’esercito francese in Algeria e pochi mesi prima di morire, a 101 anni, firmava ancora una petizione per impedire l’espulsione dei “sans papiers” - dei clandestini in Francia.

Qual è il filo rosso che lega Ravensbrück, gli studi sull’Algeria e la sua instancabile militanza per i diritti dell’uomo? Tutte le sue azioni sono dettate dalla stessa concezione dell’umanità: quella dell’unità della specie umana, principio fondatore della sua professione di etnologa.

Si ritrova la stessa coerenza nei rimedi da lei proposti per arginare - se non sanare - le conseguenze delle rispettive situazioni di oppressione. A Ravensbrück, spiegò, informò, istruì le deportate per lottare e salvarsi; in Algeria creò Centri Sociali dove alfabetizzare la popolazione e dare ai diseredati una ”armatura”, cioè un’istruzione e un mestiere per affrontare il passaggio dalla loro società arcaica alla modernità, ovunque predicò che il sapere, l’educazione, la cultura sono i pilastri della cittadinanza e della libertà. Una passione condivisa con Lidia Rolfi che, da insegnante e da cittadina impegnata, non smise mai di parlare con i giovani, di inculcare loro il senso della cittadinanza e della dignità umana.

Colpisce la fede nell’umanità che sorresse sempre il lavoro dell’etnologa francese: “Ho un’ambizione per l’umanità. Vorrei che sopravvivesse, che non si sterminasse da sé”. Colpiscono, in questa grande conoscitrice di società lontane, lo sguardo autonomo e l’indipendenza. Il confronto con civiltà altre le permise di prendere le distanze dalla nostra visione dell’Europa ‘civilizzata’ e di fare una lettura libera delle culture altre. Attraversare il male (Medusa, 2016) e La ricerca del vero e del giusto (a cura di T. Todorov, Medusa, 2006), insieme alla sua passione per l’uomo, la portarono a vedere chiaro: “Il crimine del nostro

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tempo sarà la clochardisation dei tre quarti della popolazione umana attualmente in corso sulla terra”.

Lo comprovano oggi le sacche di povertà, gli squilibri e la fragilizzazione di intere regioni nel mondo, flagelli generati della globalizzazione economica e finanziaria che punta al profitto e ha perso il senso dell’umanità.

Da scienziata, Germaine Tillion giunse ad una costatazione: “Nessun popolo è al riparo da un’infezione del male assoluto”. Il suo amore per l’umanità fece il resto, perché aveva intuito che “in fondo, nelle grandi avventure della nostra specie, è sul cuore che conviene puntare”.

Ecco perché rileggere Lidia Rolfi e Germaine Tillion ci può aiutare a salvare l’autonomia di pensiero e la dignità dell’uomo, minacciate dai miopi discorsi populisti e razzisti che avvelenano l’oggi. Tra il rifiuto dell’ebreo ieri e il rifiuto dello straniero emigrato oggi, corre una somiglianza che si chiama razzismo. Lidia Rolfi che aveva vissuto la prima, vede così la seconda (nelle stessa intervista del 1993): “Se andiamo a vedere il comportamento della gente col marocchino che disturba, constatiamo una reazione generalizzata di insofferenza, di rifiuto. Eppure con questa gente dobbiamo incominciare a convivere, perché fra non molti anni, che lo vogliamo o no, la nostra società diventerà multirazziale, con più religioni, con culture diverse, come quella americana. È un fenomeno che non possiamo assolutamente fermare, quindi dobbiamo imparare a conviverci: o si verificheranno esplosioni di violenza razziale e religiosa del tutto incontrollabili. Dobbiamo porci il problema, per verificare se siamo pronti ad accettarli o se pensiamo di isolarli”.

L’umanità calpestata e l’ingiustizia sono i flagelli della civiltà. Lidia e Germaine condivisero tali sofferenze e si impegnarono a difendere il primato della dignità umana sulla politica per salvare la pace. Intervistata nel 2002, Germaine Tillion risponde così, con ironica ingenuità, a chi le chiede quale soluzione vede per risolvere il conflitto israelo-palestinese che minaccia la pace nel mondo: “La mia soluzione personale è installare l’ONU a Gerusalemme. Bisogna scrivere una lettera al governo americano e dire loro: Cari amici americani, giustamente, vi preoccupa tanto il terrorismo. Il terrorismo è un fenomeno che non è proprio spontaneo, è un male che ha origini e cause; fareste meglio a preoccuparvi di queste origini e di queste cause. Per ora la fonte più generica del terrorismo è il conflitto israelo-palestinese. Questo conflitto va quindi soppresso. Ne avete i mezzi, semplicissimi, è proporre la sistemazione dell’ONU a Gerusalemme”.

Oggi invece, 16 anni dopo, a Gerusalemme si è insediata l’ambasciata americana e quattro paesi dell’Europa hanno applaudito!

Michele Brondino e Yvonne Fracassetti (mybrondino@gmail.com)

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Non perdiamoci di vista Kerry Kennedy a Cuneo nel 50° anniversario dell'assassinio del padre Robert Per non dimenticare un passato prezioso Si salgono i gradini d’ingresso e ci si ritrova immersi in un’atmosfera virtuale, di luci e ombre. Foto, video e scritte scorrono sui muri, luci nella penombra azzurrata dell’ambiente. Pannelli trasparenti, piccole teche che toccano subito il cuore: il modellino del treno che portò a Washington il corpo di Bob da Los Angeles, nell’abbraccio del commovente addio che milioni di persone gli tributarono, stringendosi in una catena umana lunga chilometri nel giorno del suo ultimo viaggio. Quello della macchina presidenziale di Dallas, dove John fu colpito a morte, mentre sullo schermo dietro scorrono al rallentatore le strazianti immagini dei colpi: il primo alla gola e il secondo che gli porta via metà della testa, mortali entrambi, anche se verrà portato all’ospedale in un estremo quanto inutile tentativo di salvarlo. E poi avanti, in un percorso che racconta la gioia, la speranza, l’incredulità, il rifiuto, il dolore, l’amarezza, il rammarico, la delusione, che fu allora di tanti di noi che c’eravamo.

Questo, e molto altro, è la Mostra “Bob Kennedy.

The Dream – Emotional Experience”, presso lo spazio Innov@zione della Fondazione CRC, a Cuneo.

L’esposizione offre un’immersione nella vita di Bob Kennedy, della sua famiglia e della dinastia Kennedy.

Si esplora l’altra America della Nuova Frontiera, Martin Luther King e le battaglie per i diritti civili, fino al cuore degli ottantadue giorni della campagna elettorale. La partenza della campagna elettorale avvenne in sordina e colse di sorpresa, perché era ancora vivissima la memoria dell’assassinio del fratello a Dallas, il 22 novembre 1963, e i timori per la sua incolumità si manifestarono subito. Poi si trasformò in una corsa avvincente, che prospettava la concreta chance di una sua vittoria in campo democratico ed elezione a Presidente degli Stati Uniti.

L’avvicinarsi alla Casa Bianca rappresentava la realizzazione di un sogno: il sogno di cambiare il mondo, che era stato di John. Ma anche questo sogno si spezzò nel sangue, la sera del 4 giugno 1968, a Los Angeles, quando diversi colpi di pistola lo ferirono a morte, come il fratello Presidente, il 22 novembre 1963. Ovviamente fu un assassino “solitario”, una persona mentalmente disturbata. Come Lee Harvey Oswald, 5 anni prima in Texas. La stessa fine, le stesse menzogne, e gli stessi mandanti, chiunque fossero, appartenenti alla classe dei cosiddetti WASP (White Anglo-Saxon Protestant = bianco di origine anglosassone e di religione protestante), rappresentanti della cultura egemone e del potere reale nel paese. Un

attento cronista del tempo, che era riuscito ad avvicinarsi alle sale esclusive di un club di petrolieri texani, riferì che quando arrivò la notizia della morte del Presidente, ci fu un entusiasta brindisi spontaneo, condito di urrà e risate… Cui prodest dicevano gli antichi romani, a chi conviene.

Cuore della mostra sono le sale dotate della tecnologia Lighting Touch 7.0®, la più sofisticata attualmente sul mercato nel campo dell’interattività, che permette ai muri di prendere letteralmente vita: grandi videoproiezioni a 360° si modificano, mutano e si evolvono in tempo reale, al tocco degli spettatori.

Nuove finestre pop up, grafiche, galleries, didascalie virtuali, approfondimenti storici, nuove immagini e tutto ciò che la fantasia può immaginare prendono vita in una spettacolare proiezione per un’esperienza coinvolgente e totalizzante.

Questa straordinaria Mostra è stata visitata in anteprima il 9 maggio scorso, da Kerry Kennedy, settima figlia di Robert Kennedy e Presidente della Fondazione Robert Francis Kennedy Human Rights, in visita a Cuneo nel 50° anniversario della corsa alla Casa Bianca del padre, che si concluse con il suo assassinio.

Kerry Kennedy è stata la protagonista di una giornata intensa, cominciata al Pala UBI Banca, dove ha incontrato 2500 studenti delle scuole superiori della provincia di Cuneo. L’incontro è avvenuto nell’ambito del progetto della Fondazione CRC “Bob Kennedy - Il sogno continua” attraverso cui la Fondazione, nel corso del 2018, intende valorizzare l’eredità di Bob Kennedy, proponendo una serie di eventi di alto profilo.

Anche molte persone si sono unite agli studenti, qualcuna nel ricordo personale di quegli anni, altri più giovani nella memoria e per la curiosità di un tempo storico, tragico quanto epocale, dalla voce di qualcuno che quel tempo ha vissuto così da vicino. Una testimonianza unica e molto coinvolgente, il racconto di una donna travolta, quando era bambina, dalla morte di un padre adorato, in una famiglia destinata a subire ripetute tragedie, che in America è diventata a livello popolare “la maledizione dei Kennedy”.

Da qui è nata la sua determinazione di occuparsi di diritti umani, sulle orme di un padre che, nel breve tempo concessogli dalla vita, ne fu strenuo difensore e promotore come Ministro della Giustizia. L’anno stesso della sua morte e in sua memoria, famigliari e

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amici hanno creato la Fondazione di cui ora la figlia è presidente, un centro no profit, per portarne avanti l’eredità morale e l’impegno per un mondo più giusto e pacifico, che si rivolge alle future generazioni di donne e uomini, madri e padri, studenti e lavoratori, dedicato alla formazione e sensibilizzazione sul tema dei diritti umani, con iniziative globali.

La sua è stata una testimonianza toccante e determinata, basata su un principio di base che si ritrova in una sua frase La pace non è qualcosa per cui pregare, ma qualcosa da creare ogni giorno. Mio padre durante la campagna presidenziale sosteneva che pace, giustizia e compassione per quelli che soffrono erano i valori per i quali battersi. Oggi questi valori sono sotto attacco. Dipende da voi realizzare il sogno di un mondo libero e giusto. Con i lineamenti, la forma del viso, il sorriso smagliante a tutti denti, la voce decisa, la comunicatività che sono un marchio di famiglia, ci ha restituito quell’immagine di un’America diversa, tanto lontana da quella che è ora, di un sogno che per pochi anni è sembrato realizzabile, raggiungibile, di cui molti si erano innamorati.

Anche alcuni che ora lo negano, nella logica di una radicalizzazione che impone scelte drastiche, contrapposizioni feroci, per cui non c’è posto per l’idea di un mondo che avrebbe potuto cambiare anche con il contributo di ragazzi ricchi, belli, viziati, appartenenti a una famiglia potente, la cui fortuna aveva origini incerte…. Come se negli Stati Uniti questa fosse un’eccezione! Che invece di godersi la loro fortuna tra barche, ville e Wall Street, hanno scelto la politica, intesa nel mettersi al servizio della nazione, pagandone, generazione dopo generazione, il prezzo più alto.

Molti dei commenti a questo momento pubblico, hanno risentito di questo rifiuto postumo e di un provincialismo mediocre, che impediscono di allargare lo sguardo e cogliere i segni della grandezza di alcuni eventi e di alcuni personaggi che, pur appartenendo a un mondo lontano, nel tempo e nelle sue espressioni ideologiche, comprendeva valori riconoscibili e innegabili.

La maledizione dei Kennedy colpisce ancora, quando il 16 luglio 1999 John Fitzgerald Kennedy Jr, con la moglie e la cognata, muore in un misterioso incidente. Il piccolo aereo privato precipita, per cause mai accertate, non lontano da Martha’s Vineyard, la costa dei ricchi, pilotato proprio da John John. Così lo chiamavano in famiglia. E torna in mente quel bambino di 3 anni, serio e composto nel suo cappottino da cerimonia, che al funerale del padre, fa il saluto militare al passaggio del feretro. Una foto

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che fece il giro del mondo ed è rimasta nell’immaginario collettivo come il simbolo di quella tragedia.

Bob Kennedy si oppose alla guerra in Vietnam, si schierò a favore della lotta per i diritti civili, con intensità di toni e grande passione, denunciò ingiustizie e diseguaglianze. Come Ministro della Giustizia si schierò contro le lobby più potenti, i grandi evasori, la criminalità organizzata, indagò sulle agenzie governative e i loro comportamenti deviati…

Le sue parole scolpite nel tempo risuonano, oggi come allora, nelle coscienze di tutti. Forse, dovrebbero risuonare…. Un discorso per tutti quello famoso sul PIL, pronunciato il 18 marzo del 1968 all’Università del Kansas, tre mesi prima di essere assassinato. Di un’attualità inquietante, ci racconta il valore profetico di quel sogno incompiuto, che avrebbe potuto cambiare il futuro.

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.

Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

Claudia Aceto Filippi (claudia.filippi@katamail.com)

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piccole matite disarmate Dedicare uno spazio pubblico di Cervasca a Iqbal Un piccolo gesto che può sensibilizzare bambini e adulti sul tema dello sfruttamento minorile Con le classi seconde di Cervasca e di San Defendente Cervasca abbiamo parlato di Iqbal Masih.

La sua storia ha molto coinvolto le due classi. Ai bambini è sembrato impossibile che dei genitori si trovino nelle condizioni di “vendere” il proprio figlio di cinque anni al proprietario di una fabbrica di tappeti! Appare assurdo che degli adulti sfruttino il lavoro di milioni di bambini per produrre beni di consumo che giungono nelle nostre case. Eppure la storia di Iqbal è realmente accaduta.

C’è stato un bambino pakistano che, dopo sei anni di schiavitù come tessitore, ha deciso di spezzare le catene del suo telaio ma soprattutto ha voluto conquistare la libertà, non solo per sé ma anche per tutti gli altri bambini della fabbrica nella quale erano sfruttati, costretti a lavorare incatenati ad un telaio per 10 ore al giorno.

Iqbal infatti, uscito dalla fabbrica, non ha deciso di tornarsene a casa e riprendere la vita di sempre: ha voluto denunciare il suo sfruttatore e mostrare, usando le sue parole, che “non sono io ad aver paura di lui ma è lui ad averla di me!”.

Da quel momento il piccolo sindacalista ha viaggiato per il mondo denunciando le condizioni di schiavitù che milioni di bambini sono costretti a subire. Ha percorso alcune tappe in Europa ed in America ricevendo importanti riconoscimenti fino al giorno in cui i suoi assassini hanno deciso di metterlo a tacere uccidendolo all’età di 12 anni, solo un anno dopo la sua liberazione dalla condizione di schiavitù. Ma la sua protesta non tace: grazie al suo esempio sono nate organizzazioni sindacali di bambini, che vivono in quei paesi dove inevitabilmente è necessario che anche i minori lavorino per far sì che le loro famiglie possano sopravvivere, che sono riuscite a migliorare le condizioni di lavoro e i diritti di questi giovanissimi lavoratori.

Perché come diceva Iqbal: “Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne, quaderni e matite”.

I bambini di San Defendente hanno svolto un’attività con la quale, partendo dalle etichette dei

loro grembiuli o dei portapenne o dei vestiti, hanno provato ad immaginare i percorsi che quei prodotti possono aver svolto per arrivare fino nelle nostre case.

I bambini della seconda di Cervasca invece hanno scritto questa lettera al loro sindaco: Caro Sindaco Aldo Serale, siamo i bambini della classe 2a di Cervasca.

Abbiamo conosciuto la storia di Iqbal, un bambino pakistano che è stato venduto ad un fabbricante di tappeti che lo trattava come uno schiavo. Dopo sei anni è riuscito a scappare ed è diventato un sindacalista.

Purtroppo Iqbal è stato assassinato perché parlava al mondo della sua condizione e questo faceva arrabbiare i produttori di tappeti che non riuscivano più a vendere i loro prodotti.

Ti chiediamo se è possibile intitolare in sua memoria una via, una piazza o un qualsiasi spazio pubblico del nostro paese.

Ti ringraziamo e ti salutiamo tanto.

La classe 2a di Cervasca L’idea di avere uno spazio col suo nome può essere da stimolo per far sì che i cittadini di Cervasca si chiedano chi sia stato Iqbal Masih, un eroe di soli dodici anni che ha fatto barcollare quel gigante che si chiama economia dell’opulenza la quale rende sempre più ricca una piccola fetta della popolazione mondiale a scapito di milioni di persone che raccolgono le briciole restando comunque povere… anzi impoverite!

Gli alunni delle classi 2^ di Cervasca e San Defendente Cervasca e il maestro Francesco (ceccogaddi1977@gmail.com)

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UN PAESE RICCO DI FUTURO… SE SOLO LI LASCIASSIMO VIVERE Emozioni ed impressioni di un viaggio in Kenya Da sempre l'Associazione Meru Herbs Italia onlus, nata 11 anni fa a Cuneo, supporta e incoraggia il turismo responsabile sostenibile attraverso viaggi di conoscenza alla scoperta del Kenya e della cooperativa agricola Meru Herbs. Questa realtà, fondata dal cuneese Andrea Botta all'inizio degli anni '90, impiega oggi una cinquantina di donne e una decina di uomini nella contea un tempo semi arida di Tharaka Nithi nella produzione di infusi e marmellate biologici, commercializzati in Italia e nel mondo dal circuito equosolidale.

Riportiamo la testimonianza di alcune persone che hanno deciso di conoscere questa realtà e di scoprire l'impatto del commercio equosolidale e della cooperazione internazionale sullo sviluppo dell'agricoltura biologica e dell'empowerment femminile. Chi desiderasse imitarle, contatti l'Associazione (info@meruherbs.it www.meruherbs.it).

Era una sera di ottobre dello scorso anno quando abbiamo partecipato ad una serata proposta da Basta Poco, il negozio di prodotti equo e solidale di Caraglio, per festeggiare i 10 anni dall’apertura e ci abbiamo trovato gli amici di MERU HERBS Italia. Diciamo amici perché proprio all’inaugurazione del negozio aveva partecipato Andrea Botta il fondatore, che allora si trovava in Italia.

La serata è trascorsa velocemente con Piero Viale e Anna Cattaneo che con enfasi ci hanno illustrato il loro viaggio e la loro permanenza a Meru e, già tornando a casa, l’idea di volare in Kenya si è fatta strada ed è così che, insieme ad un’altra famiglia che aveva sentito e avuto le nostre stesse emozioni, siamo partiti.

Arrivati a Nairobi, uscendo dall’aeroporto ci avvolge una luce potente come potente e vitale è tutto l’ambiente, sia per il verde che con la pioggia appena scesa rinvigorisce subito “madre terra” e sia per la gente giovane che si muove e ... cammina … Certo la terra rossa ci sconcerta e ci fa apparire un mondo diverso… sì, diverso, ma pieno di speranza e con grandi potenzialità.

Il giorno dopo giungiamo a Meru, alla Meru Erbs, cooperativa per la coltivazione e trasformazione di prodotti biologici. Una piccola realtà dove incontriamo per la maggior parte donne che provvedono col loro lavoro alle necessità famigliari. Incontriamo anche coltivatori che, per l’opera idraulica creata da Andrea Botta, hanno la possibilità di vivere del proprio lavoro avendo la possibilità di conferire i prodotti, oltre che al mercato locale, anche alla Meru Herbs.

Ci è sembrata una soluzione dignitosa, che permette loro di abitare, amare e far produrre la terra che tanto rispettano. Infatti abbiamo visto anche accenni di una permacultura dove alberi, piante e arbusti si mischiano per una maggior autodifesa da agenti esterni.

Non è certo il nostro tenore di vita ma, come ci ha detto Andrea, di lì nessuno va via perché hanno la possibilità di vivere nel loro mondo.

Nel viaggio da Meru verso Nairobi incontriamo un altipiano pieno di luce con sullo sfondo il monte Kenya con le nevi perenni… ma ci sono anche le mietitrebbie che in estese piantagioni recintate (proprietà di un’inglese) mietono i cerali… e i locali coltivano patate a mano nella fascia tra la recinzione e la strada: non ci sono parole!

A MERU PARK ci lustriamo gli occhi con tanta bellezza, tra animali e piante.

Che dire poi della RIFTH VALLEY? Anche qui si percepisce la potenza della natura che, da una frattura di una terra piena di vulcani, ha creato una pianura larga 30 km di terreno fertilissimo.

Insomma è da vedere!

E poi i bambini... ne abbiamo incontrati tanti nelle scuole, anche se non tutti hanno la possibilità di andarci e tutto questo ci ha fatto pensare che il Kenya è pieno di futuro. Se solo li lasciassimo vivere senza derubarli delle risorse del loro paese! È stata una grande esperienza che senz’altro ci ha aiutato a modificare, seppur minimamente, i nostri orizzonti e le nostre visioni del mondo.

Lucia Riba (parolafamily@tiscali.it)

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AGIRE SUBITO, CON UMILTÀ E CONSAPEVOLEZZA Viaggio di conoscenza di studenti del Liceo Artistico di Cuneo Scopo dell'Associazione "Libera contro le mafie" e del suo presidio di Cuneo è quello di diffondere una cultura della legalità soprattutto fra i giovani. Per questo motivo, il viaggio di conoscenza in Sicilia intrapreso dagli studenti del Liceo Artistico dimostra come l'esperienza diretta possa aiutare a calare nel concreto questa missione. La sfida più grande, però, è tramutare l'onda della forte emozione provata dagli studenti in un impegno successivo sul proprio territorio dove, spesso, la presenza della criminalità organizzata viene sottovalutata, taciuta o addirittura negata. Di qui l'impegno del presidio di Libera a Cuneo nel coinvolgere i giovani attraverso forme di espressione artistica differenti come il teatro, la musica, la grafica… per attivare una riflessione su temi attualissimi come corruzione e caporalato, ma facendosi guidare dalla loro creatività. Come è stato per il recente concorso artistico "L'antimafia secondo me" promosso nell'ambito del progetto "100 passi verso il 21 marzo". Gli elaborati dei partecipanti si possono trovare sul sito “www.liberacuneo.liberapiemonte.it”.

Da dove iniziare? Siamo sette ragazzi del Liceo Artistico di Cuneo, tra i 17 e i 18 anni, che hanno deciso di intraprendere un viaggio che parla di legalità e richiede giustizia.

Grazie alla nostra scuola, e ad una professoressa in particolare (a cui siamo molto riconoscenti), ci siamo avvicinati a due aspetti ingombranti della storia italiana: la mafia e, per contro, l'antimafia. Ci siamo resi conto che queste due realtà fanno ormai parte dell'identità del nostro paese da molto prima di tutti noi sette, e perciò meritano un'adeguata attenzione e, soprattutto, meritano il nostro tempo.

Affrontando questi temi, abbiamo conosciuto Peppino Impastato e la sua battaglia, che con il suo ricordo è viva tutt'ora, perché una morte come la sua non deve rimanere invano. Ci siamo incuriositi: insomma, un giovane del sud Italia che paga con la morte delle scelte intraprese nella sua vita, soltanto perché alcuni le considerano scomode o sbagliate, non capita tutti i giorni, no?

La spinta per il nostro piccolo, ma grande viaggio è arrivata, però, all'incontro a “Scrittori in Città” con Giovanni Impastato, fratello di Peppino. Grazie a lui ed il suo libro e alla sua campagna di ricordo e sensibilizzazione, ci siamo sentiti pronti per partire, perché volevamo sentirci partecipi, e star lì soltanto ad ascoltare non ci bastava.

Così, l'8 Maggio del 2018 siamo saliti su un aereo che in poco più di un'ora ci ha portati nella terra di Peppino: la Sicilia, con il suo bellissimo ma anonimo paesello di Cinisi, nel quale siamo rimasti tre giorni.

Là, abbiamo percorso le sue strade all'insegna dei passi che faceva tutti i giorni, mentre combatteva e denunciava un sistema marcio e ingiusto insegnando la Bellezza, attraverso Radio AUT e l'impegno civile.

Abbiamo conosciuto Peppino più intimamente visitando Casa Memoria, che esiste grazie alla volontà e all’impegno della famiglia Impastato. L'abbiamo

accolto e l'abbiamo fatto nostro, Peppino con i suoi ideali e la sua sana follia. Perché lui non era un eroe, era un pazzo che amava la sua terra, la libertà e la giustizia, e lottava perché queste tre convivessero, tutte insieme.

E così ci siamo fatti coinvolgere da una tra le più grandi manifestazioni in Italia contro la criminalità organizzata in concomitanza con il 9 maggio, giorno dell'assassinio per mano mafiosa di Peppino, con le attività che ci venivano proposte e che hanno avuto luogo per un'intera settimana. Conferenze, incontri e cortei hanno fatto sì che questo anniversario venisse festeggiato con la cultura e con l'impegno. Tutti quanti volevano ricordarlo e farlo ancora vivere nelle nostre idee; tutti, a partire dalle scuole del posto (che finalmente dopo ben quarant'anni hanno deciso di partecipare), professori universitari, personaggi politici come Susanna Camusso, movimenti popolari e civili come il “No MUOS”, Libera ed il suo fondatore Don Luigi Ciotti, i vecchi compagni di Peppino... tanta gente stanca del silenzio e dell'omertà, e delle persiane serrate durante manifestazioni come questa.

Abbiamo marciato insieme per portare grandi ideali, ma abbiamo anche imparato ad essere umili: è facile parlare e assistere passivamente, pensare di conoscere una situazione soltanto perché se ne è discusso. È facile, ma non bisogna attenersi soltanto a scelte comode. Bisogna agire, agire consapevolmente e subito, nel nostro piccolo, anche a partire dalla scelta di rapporti sani, che valga la pena coltivare.

Dobbiamo ancora imparare molto, perché le esperienze come questa ci invogliano a non averne mai abbastanza, a non fermarci mai.

Perciò grazie, Peppino, perché ci insegni l'arte di essere vivi.

Nina Rovera, Mattia Tomatis, Marta Peano, Teresa Borsotto, Lucia Dalmasso, Arianna Re, Lucia Garro.

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Scoprire l’altro per capire se stessi

Curiosità etiopi e riflessioni interculturali Lunedi 7 gennaio 2018 Oggi è festa qui in Etiopia perché è il giorno dopo il Natale, secondo il calendario della loro Chiesa Cristiana Ortodossa.

Sì, perché questo bel paese dell’entroterra africano orientale non ha soltanto l’alfabeto diverso da tutto il resto del mondo, ma persino il modo di scandire il tempo è unico. Per spiegarvi in modo semplice, nel momento in cui scrivo in Etiopia sono le 3 del 15 gennaio 2010 (invece delle 21 del 7 gennaio 2018). Le ore sono calcolate a partire dal momento dell’alba e del tramonto, che qui sono sempre più o meno alle stesse ore. I mesi sono 13, tutti di trenta giorni tranne l’ultimo di 5 o 6 giorni, dipende dall’anno e l’anno inizia l’11 settembre. L’era etiopica è di 7 anni e 113 giorni in ritardo sull’era cristiana.

Alcuni dicono che sia così perché gli etiopi sono un popolo molto fiero e attaccato alle proprie tradizioni. A me fa sorridere, anche perché ne sono rimasta all’oscuro per parecchi giorni e l’ho scoperto da sola!

Avevo visto in un paio d’occasioni l’orologio “sbagliato”, in un bar, in un taxi… e una volta avevo sentito parlare dell’ora europea, dell’ora etiope. Ma pensavo, ingenuamente, parlassero del fuso orario!

Finché ieri sono stata invitata a casa di un vicino per un caffè di Natale e nell’organizzare la visita ho scoperto l’arcano!

L’invito l’ho ricevuto da un signore di nome Etiopia che ho conosciuto appena arrivata. Vende caffè per la strada con sua sorella, alla rotonda che si trova a 200 metri dal Circo. Costa 5 birr, 10 cent d’euro, è buonissimo e lui molto accogliente e premuroso.

Comunichiamo molto e, al di là del suo inglese stentato, dato che vado spesso a prendere il caffè lì dopo pranzo, siamo diventati amici e ho accettato l’invito. La visita è stata molto interessante, spontanea e particolare. Etiopia vive con sua sorella in una casa in lamiera, con una sola stanza, da 12 anni. Sono originari dal nord del paese, dove vi sono stati gli scontri etnici. La casa gli è stata data da una famiglia della loro stessa etnia, gli Omoro.

Anche se l’invito era solo per un caffè, mi hanno proposto di tutto e di più da mangiare: pollo, riso, injera, popcorn, cavolfiore allo zucchero (buonissimo!), la loro bevanda tipica analcolica, il kinito, con fermenti, e ovviamente il vero caffè etiope.

Eccitatissima, ho potuto assistere alla sua intera preparazione, a partire dai grani verdi, alla tostatura e pressatura. Il tutto viene poi messo dentro una specie

di caraffa in ceramica che si scalda sul fuoco. Una vera emozione! Sono stata contenta di essere andata a render visita a Etiopia in questo giorno così importante. Mi sono sentita molto rispettata e in un bell’ambiente familiare, come se vivessi qui da tempo.

Anche il pranzo di Natale è stato molto intimo e caloroso: alla scuola di circo abbiamo cucinato della carne con le persone che non hanno una famiglia o vivono lontano. Il piatto centrale del pasto natalizio è la carne perché la festa è preceduta dal tsom, quaranta giorni di dieta dove non sono permessi i prodotti animali. Insomma, per un bel periodo dell’anno la metà della popolazione etiope diventa vegana! Tant’è che nei menu dei ristoranti i cibi vegani sono indicati con un asterisco.

Ieri è stato bello anche girare un po’ per il quartiere, si incontrava gente vestita con abiti tradizionali, sorridenti… ed è stato un po’ come trovarmi sul set di un film. Inoltre ero molto provata dalla nottata brava precedente: sono stata al concerto reggae dei jamaicani Morgan Heritage. Lì ho fatto una chiacchierata con un signore italiano che lavora da venticinque anni in Africa e che dice che l’Etiopia è il paese dove ha visto più povertà nella strada, senzatetto e gente che mangia nei sacchetti della spazzatura.

In effetti l’ONU lo considera uno dei paesi meno sviluppati del mondo e si trova al 173° posto su 187 paesi, secondo la classifica dell’Indicatore dello Sviluppo Umano (ISU) che si basa sulla speranza di vita, l’istruzione e il reddito del paese. In Etiopia vi è un forte problema di malnutrizione, di mortalità infantile e di patologie diffuse. Uno studio del 2010 sull’assistenza istituzionale all’infanzia ad Addis Abeba rivela che solo il 49% dei bambini vive con entrambi i genitori e i bambini di strada sono circa 60.000, il 71% maschi e il 29% femmine. Secondo un censimento demografico nazionale del 2005, il 48% dei bambini era rachitico, il 39% sotto peso e l’11% emaciato. E il tasso di malnutrizione dei bambini abitanti in aree rurali è quasi il doppio di quella dei bambini delle zone urbane.

Nella strada vicino a casa mia vi sono molte persone che vivono per strada, bambini che sniffano colla, mamme con bambini piccolissimi. Spesso è difficile per me decidere di uscire a fare una passeggiata, anche se lavorando e vivendo nello stesso posto ne ho spesso bisogno. Molte mani chiedono delle monete, ed è complicato anche scegliere a chi e quanto dare. In

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confronto alla strada, la scuola di circo dove vivo sembra un mondo a parte, ed è rassicurante ritornarci, cosciente che il progetto che stiamo portando avanti contribuisce quotidianamente a cambiare questo sistema malsano.

Con i ragazzi del Fekat i legami si stanno tessendo sempre di più e viverci a contatto tutti i giorni è una gioia e una sorpresa perenne. Queste giornate di festa ci hanno permesso di spaccare progressivamente il ghiaccio e conoscerci meglio divertendoci anche senza l’uso di una lingua comune: pochi di loro parlano decentemente l’inglese, ma con esempi semplici, mimi e ripetizioni si riesce. Spesso rimango seduta tra di loro ad osservarli, captando delle parole, immaginando la conversazione o anche solo a pensare ai fatti miei ma sentendomi parte di un gruppo. La maggior parte è più giovane di me, ma, calcolando che qui siamo nel 2010, posso considerarmi una loro coetanea ventenne! È una bella sensazione.

Giovedì 10 gennaio 2018 Quando devo spiegare dove vivo a Addis dico “a Piassa, di fronte al Tomoka caffè”: in Etiopia è un must e quello del mio quartiere è stato il primo, aperto nel 1953. E ammetto che vi si può ancora trovare tutto lo charme di una volta. C’è solo una stanzetta, con tavoli-bancone dove la gente può prendere il caffè solo da in piedi. Prima paghi, ti danno un quadratino nero di metallo, lo porti al fondo della sala dove lo impilano sugli altri e dopo pochi minuti ti senti chiamare, o con la voce o con gli occhi, e vai a prendere il tuo caffè. Il modo qui di interpretare il “vado a prendermi un caffè” è quindi nello stile italiano, molto più rapido di quello francese, greco o dei Balcani, che invece rimangono seduti per delle ore al tavolo sorseggiandolo lentamente. La loro specialità è il macchiato, servito in bicchierini trasparenti. Il sapore è buonissimo, non puoi berne più di due al giorno altrimenti la tachicardia non ti molla, ma è utile prima di iniziare una giornata di lavoro! Infatti il cartello all’entrata dice: “ When you drink a cup of Coffee Ideas comes in marching like an Army” (Balzac).

Tutto questo mi piace, penso che diventerà la mia abitudine mattutina, finché la ripetizione non mi stuferà come succede spesso. A forza di cambiare contesto di vita, ho capito quanto mi rassicuri e mi faccia del bene avere dei punti fermi quotidiani. Mi fa sentire a casa, come se allontanasse la solitudine e mi facesse sentire parte di ciò che mi circonda, anche se è decisamente nuovo rispetto a ciò che ho sempre potuto vedere. Nel Tomoka c’è una bella atmosfera, mi piace fermarmi un po’ di più a leggere il Daily News, l’unico giornale in inglese che hanno sempre del giorno prima: ha poche pagine ma vi sono articoli dettagliati su molti paesi africani, notizie che da noi in Europa raramente arrivano o alle quali non diamo particolarmente importanza. Imparo quindi un po’ di cose sulle

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relazioni intergovernative in questo continente cosi grande e complesso.

Nei caffè o bar noto che vi sono sempre solo uomini come clienti e spesso solo donne come impiegate. La spiegazione che un etiope mi ha dato è che la donna preferisce la “cerimonia del caffè” fatta a casa perché è tradizione. Sono un po’ restia a crederlo, credo che semplicemente qui vi sia una società ancora molto maschilista, dove anche se la donna è libera di circolare per strada in minigonna non è assolutamente alla pari dell’uomo e certe cose semplicemente non si permette di farle.

Un’altra cosa che ho notato qui è che vi è ancora un altro rapporto rispetto allo smartphone: in molti ce l’hanno ma nessuno ci sta appiccicato come in Europa.

Probabilmente perché Internet non è cosi diffuso e di facile accesso come da noi. In ogni caso, magari cadrò nel banale, ma ho l’impressione che la comunicazione e il rapporto con l’altro qui siano diversi: per la strada la gente si parla, nei mini bus o nei bar sconosciuti si sorridono, scambiano qualche parola. Giorgia dice che fanno così perché hanno meno cose da fare, o sono abituati ad aspettare e quindi a riempire il tempo includendo gli altri. Per come si sta “evolvendo” la nostra società potremmo mai sperare che ciò ri-accada anche da noi?

Per quanto riguarda invece il lato lavoro, al Fekat Circus le mie missioni si stanno delineando sempre di più e la preparazione al Festival di Circo Africano è intensa e a volte stressante. Ma d’altronde impegnarsi nel mondo del sociale e associativo credo che sia così dappertutto. L’essenziale è apprezzare l’ambiente di lavoro, e io direi che su questo non posso proprio lamentarmi! Quello che faccio mi appassiona e nell’ufficio c’è sempre un’aria distesa e divertente, nel cortile sempre musica a tutto volume e fisici scolpiti che si allenano.

Più i giorni passano più mi faccio sorprendere dalla straordinaria capacità che ha maturato Giorgia di riuscire a lavorare con una squadra di soli Etiopi.

Siamo nel pieno della comunicazione interculturale, tanto teorizzata nei miei corsi d’università. Qui hanno una maniera diversa di affrontare le urgenze, o certe problematiche… io avrei bisogno di tanta fiducia e tranquillità d’animo per non dare di testa! Oppure delle volte siamo convinti di star parlando della stessa cosa, invece si scopre essere tanto, tanto diversa.

Sto quindi imparando a non dare mai niente per scontato, e neanche a farmi alcun tipo di aspettative, tenendo in mente la frase del caro antropologo Claude Lévi-‐Strauss: L’important, ce n’est pas d’ouvrir les autres à la raison, mais de s’ouvrir à la raison des autres.

Giulia Marro (giuliamarro@hotmail.com) (https://innsaeiartemisia.wordpress.com/)

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“Una rappresentazione (volutamente) confusa di una situazione confusa” Per questo numero del Granello ho voluto rappresentare graficamente l’evoluzione della situazione politica italiana. Non è stato certo facile, vista la velocità con cui cambiavano gli scenari.

A più di tre mesi dalle elezioni ciò che appare evidente è la situazione di confusione che contraddistingue l’attuale fase, seppur in parte mitigata dal varo del nuovo governo.

Il disegno è, nel suo complesso, volutamente confuso con tante figure che sembrano non avere alcun legame fra loro: gabbiani, un’aquila, una suora o una donna di fede islamica, un nano o un pagliaccio, ecc...

Quello che appare più evidente è un’Italia in evidente disagio, angosciata nel tentativo di aggrapparsi ad un appiglio mentre sospesa nel vuoto tenta di saltare da una parte all’altra. Dal cosiddetto “vecchio” a ciò che pare sia il “nuovo” o che così ci presentano.

L’appiglio a cui tende la mano l’Italia esce da ciò che sembra un variopinto insieme di palloni. Nuvole? Palle? Miraggi?

Speranze? Progetti fantasiosi? Proposte utili e coraggiose?

Si vedrà; volutamente è una parte del disegno che attira l’attenzione non fosse altro perché [nell’originale] è la parte colorata. Ma non è l’unica a non essere in bianco e nero. Spicca la bandiera italiana, da me utilizzata come simbolo del cosiddetto “sovranismo” ma anche del necessario attaccamento alla nostra storia nazionale. Ma è un simbolo ambivalente e forse improprio. Perché chi oggi si fa paladino della sovranità nazionale è il leader di quella forza politica che dileggiò, in passato, la bandiera italiana.

Un altro simbolo che ho voluto colorare per metterlo in risalto è un uovo da cui nasce un germoglio giallo-verde.

L’uovo simboleggia la (ri)nascita ovvero il “vecchio” ormai defunto che si trasforma nel nuovo. Che nasce nuovamente. È questa l’esigenza che pare maggiormente presente. Cresce l’insofferenza verso tutto ciò che rappresenta (o si crede rappresenti) quel mondo politico e istituzionale considerato responsabile dell’attuale situazione. Per questo ci si affida, senza fare troppi ragionamenti politically correct, a chi si propone come affossatore di questo mondo.

In alto, sopra la testa dell’Italia turrita, vi sono due gabbiani e un’aquila.

I due gabbiani rappresentano i 5 Stelle; quello in basso, più piccolo, è lo stesso gabbiano del simbolo dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Quello più grande va verso sinistra. I 5 Stelle rappresentano una speranza (com’era l’IdV) e raccolgono prevalentemente istanze ed elettori del versante politico progressista.

L’aquila, con tra le zampe un fascio littorio, rappresenta non tanto la Lega quanto le pulsioni autoritarie che con la Lega trovano spazio, con un orientamento, pare, verso una forma di democrazia autoritaria.

Le inferriate che incarcerano uomini nell’oscurità sono collegate a quanto detto poc’anzi. Ma sono gabbie non solo materiali; anzi sono anche e soprattutto mentali.

Il cuore ferito da una freccia rimanda a tempi in cui la pietas si esaurisce, sostituendo il pragmatismo all’umanità.

La donna che pare una suora, ma che potrebbe essere anche una donna di fede islamica, rappresenta il pericolo del dogmatismo (non solo religioso) che pur sorridendo nel proporre beatitudini s’invera spesso in incomprensioni e aridità.

Mentre sopra al carcere c’è un nano pagliaccio, seminascoste appaiono due figure minacciose e armate. La violenza, l’arroganza, la prepotenza saranno mascherate e si proporranno in modo grottesco?

Ultimo simbolo, in basso a sinistra, è un ponte o un pontile distrutto, con evidenti ragnatele e alghe che pendono.

Eppure l’uovo della ri-nascita poggia proprio sul parapetto in questo angolo in basso a sinistra. Non è un caso. La sinistra è in (ri)basso perché non ha più saputo essere il parapetto che impedisce il crollo di chi è più fragile.

La sinistra non ha saputo essere un ponte tra il vecchio e il nuovo, non ha saputo essere un pontile a cui potesse attraccare la nave della nuova politica. Si barcamena fra minoritarismi ininfluenti e illusioni acritiche, incapaci di analizzare quanto è accaduto perché ciò determinerebbe modifiche di strategie che non si è ancora in grado, o non si possono, attuare. Anche se la sinistra organizzata non è più in grado di essere determinante, almeno nel breve-medio periodo, le istanze di uguaglianza, libertà, riscatto, dignità non possono che rifarsi ad una visione progressista. Non è pensabile che chi rappresenta o è alleato con i detentori delle leve del dominio (economico, industriale, politico, istituzionale) si faccia carico delle moltitudini che da esso sono escluse.

I nodi, prima o poi, verranno al pettine e non è mangiando pop-corn sdraiati sul divano che si sbroglieranno questi nodi.

Gianfranco Conforti (congiacn@multiwire.net)

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SI VA VERSO LA GESTIONE PUBBLICA DEL SERVIZIO IDRICO

ma non sarà un cammino facile.

Il 7 maggio scorso la Conferenza dell'Autorità d'Ambito ha finalmente deciso per la gestione da parte di una società totalmente pubblica del servizio idrico di tutta la Provincia di Cuneo per i prossimo 30 anni. È stata confermato l'esito del voto dell'assemblea dei Sindaci del 28 marzo scorso: a quell' assemblea infatti non spettava prendere la decisione ma solo dare l'indirizzo.

Alla Conferenza dell'Egato erano presenti 20 delegati (95% delle quote): l’81,2% ha votato a favore; contrari Roero, Saviglianese, Alta Langa (13,8%).

Ci sono voluti sette anni per arrivare a questo risultato che non fa che iniziare ad applicare quanto richiesto dai cittadini con il voto referendario. Un tempo lunghissimo in cui le posizioni di molti amministratori titubanti nei confronti della gestione pubblica, o addirittura manifestamente contrari, si sono spostate allontanandosi dal sostegno ad una gestione che prevedesse la presenza dei privati.

Entro il 1° luglio del 2019 la gestione del servizio idrico integrato dovrà passare ad una società consortile composta da 4 società competenti per territorio che avrà i comuni come soli azionisti, non potrà essere partecipata da privati e dovrà destinare gli eventuali utili al reinvestimento nel settore o al contenimento delle tariffe.

C'è da augurarsi che le trattative e le operazioni necessarie a concretizzare quest'esito avvengano con una volontà di collaborazione da parte degli amministratori e non siano complicate da egoismi particolari.

Anche perché è presumibile che chi è uscito sconfitto da entrambi i voti si adoperi per contrastare il cammino intrapreso. A capo dell'opposizione in Conferenza, Roberta Barbero Sindaca di Marene che insieme ad altri 20 comuni, con capofila Santo Stefano Belbo, ha depositato al tribunale delle acque pubbliche di Roma un ricorso contro l’ipotesi di società totalmente pubblica e in house e il piano di investimenti della provincia di Cuneo. Le contestazioni di questi comuni ricalcano fedelmente le prese di posizioni espresse da Confindustria e dai vertici delle società del Gruppo Egea, che in futuro non gestiranno più il servizio idrico di ampi territori della provincia.

Preoccupa anche la situazione nazionale. La Lega Nord era al governo quando fu approvato il Decreto Ronchi che imponeva la privatizzazione dell'acqua e contro cui si organizzò la vittoriosa campagna referendaria. Giorgio Bergesio e Flavio Gastaldi, rappresentanti cuneesi in Parlamento del partito, hanno condannato ufficialmente il voto dell'assemblea dei Sindaci del 28 marzo.

L'acqua è una delle cinque stelle richiamate dal

simbolo del Movimento 5 Stelle, ma il “contratto” redatto dalle due forze politiche, secondo il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, è molto vago in materia e non rispetterebbe assolutamente l'esito dei referendum: “Dobbiamo evidenziare come la parte relativa all'acqua sia del tutto insufficiente e inadeguata. Anzi rischia di ottenere il risultato di consolidare l'attuale assetto gestionale e di governance volto alla massima mercificazione del bene”.

Sergio Dalmasso per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune

Acqua in bottiglia Ogni italiano consuma in media 206 litri di acqua in bottiglia all'anno. Siamo al primo posto in Europa e al secondo, dietro solo al Messico, nel mondo.

Secondo Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente, “alla base del record c’è il falso mito che la minerale sia migliore e più controllata dell’acqua del nostro rubinetto, e soprattutto un costo della materia prima (l’acqua), per chi imbottiglia, praticamente nullo: una media di appena 1 millesimo di euro per ciascun litro imbottigliato”.

Nel dossier “Acque in bottiglia. Un’anomalia tutta italiana” Legambiente e la rivista Altreconomia puntano il dito sul giro d'affari che oscilla tra i 7 e 10 miliardi a fronte di un corrispettivo che entra alle Regioni di appena18 milioni, lo 0,6% del fatturato delle aziende imbottigliatrici.

Il dossier, pubblicato per la prima volta nel 2008, nasce per affrontare il problema dei canoni di concessione e avanza la proposta di applicare un canone minimo a livello nazionale di 2 centesimi di euro al litro. Un incremento che permetterebbe di arrivare a introiti di 280 milioni di euro “da reinvestire in politiche e interventi in favore dell’acqua di rubinetto e per la tutela di della risorsa idrica, oggi messa a dura prova anche dai cambiamenti climatici e dalle continue emergenze siccità”.

In base alle risposte raccolte dalle regioni il 9095% delle acque minerali viene imbottigliato in contenitori di plastica, e appena il 5-10% in contenitori in vetro. Nel nostro Paese ogni anno vengono utilizzate tra i 7,2 e gli 8,4 miliardi di bottiglie di plastica.

Sergio Dalmasso per il Tavolo Associazioni-Cuneo (oltresergio@gmail.com)

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PIERRE CARNITI, ITALIANO D’EUROPA Di Pierre Carniti si potrebbero raccontare molte cose, tanto la sua vita è stata intensa e giocata sempre su fronti caldi dell’attualità sindacale e politica. Su di lui non mancheranno i ricordi dei molti amici che ha avuto e i saggi che politologi e storici gli dedicheranno nel tempo.

Qui basti il contributo di una testimonianza di chi ha avuto occasione di collaborare con lui, purtroppo non a lungo, nell’Ufficio internazionale della CISL e di frequentarlo per anni nel suo impegno politico in Europa.

Cominciando però dalle radici da cui veniva, quelle della sua terra cremonese che ricordava spesso con orgoglio e della gavetta sindacale nel milanese. Origini che non abbandonò man mano che saliva a responsabilità nazionali e poi europee.

Italiano d’Europa lo fu costantemente, coniugando radicamento locale e prospettive via via più ampie nell’assunzione di nuove e più impegnative responsabilità.

Negli anni ’70 vivevo in Belgio, prima studente e ricercatore all’Università di Lovanio e insegnante all’Institut Supérieur de Culture Ouvrière (ISCO) e poi animatore culturale nelle comunità degli emigrati italiani in Belgio e in Europa. In Italia, a Torino, avevo vissuto la vivace vigilia del ’68 e dopo, dal Belgio, seguivo i movimenti sociali italiani, in particolare l’impegno dei forti sindacati confederali di allora.

Erano i tempi del “tridente” (anche un comune amico metalmeccanico, Alberto, si chiamava così) rimasto nella storia del sindacato italiano con i nomi di Lama, Carniti, Benvenuto. Leggevo di loro da lontano, ero impressionato dalla loro statura, dalle loro intese come dalle loro divergenze, dalla loro volontà di lottare comunque insieme per i diritti di tutti e per la democrazia sociale.

Amici comuni, in particolare Franco Bentivogli – allora Segretario generale dei metalmeccanici CISL – mi misero in contatto a Roma con Pierre Carniti: fu un colloquio breve ed intenso che, oggi lo posso dire senza esagerare, mi cambiò la vita.

Intanto, per cominciare, mi fece cambiare residenza, da Bruxelles a Roma, nella primavera del 1980, al lavoro nell’Ufficio internazionale della CISL, guidato con grande lucidità e saggezza da Emilio Gabaglio, che sarebbe poi diventato Segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati (CES). In quell’Ufficio mi occupavo del tema migranti (erano i tempi della prima “legge Martelli”) e di politiche sociali europee.

Ritornato, dopo non poche esitazioni, a Bruxelles nel 1982, il legame con Pierre Carniti, e con il suo apprezzato collaboratore Gabaglio, invece di allentarsi si fece progressivamente più forte.

Varcata a inizio gennaio di quell’anno la porta del Consiglio dei ministri a Bruxelles, dove ero approdato

a seguito di un concorso fatto per gioco, il contrasto con le forti motivazioni ideali vissute nel combattivo sindacato di allora mi rese evidente che in quei Palazzi non avrei resistito a lungo senza mantenere vivo quel legame. Era anche la stagione “alta” di Solidarnosc, i cui leader - Lech Walesa e Bronislaw Geremek – avevo conosciuto a Roma e quest’ultimo ritrovato – in un colloquio riservato che non dimentico - di nuovo a Ginevra.

Nacque in quel contesto il progetto di creare a Bruxelles un “Osservatorio Sociale Europeo” (OSE), che festeggerà presto 35 anni di vita. Ne furono promotori insieme Pierre Carniti ed Emilio Gabaglio, incoraggiandone la collaborazione con i sindacati belgi e acquisendo rapidamente quella del Sindacato cristiano (CSC), cui seguì nel tempo quella con la CES, tuttora in corso. Un’esperienza che da Bruxelles dialogava con quelle aree della CISL attente al nuovo che si profilava e alla rilevanza crescente dell’orizzonte europeo: presero forma in quel contesto molte iniziative che videro coinvolte realtà in Italia come, in particolare, il Centro studi CISL di Firenze, l’Unione Regionale della Lombardia – con strumenti di informazione europea ancora oggi attivi – e quella del Veneto.

Il mandato ricevuto per l’OSE a Bruxelles era ampio, la fiducia confortante, le risorse modeste ma sufficienti, il mandato chiaro: analizzare con attenzione le politiche europee, renderle leggibili anche al di fuori degli addetti ai lavori, cercare le convergenze possibili con i sindacati europei, perché sarebbe stato contraddittorio chiedere unità e coesione all’Europa se i sindacati non si fossero impegnati con un analogo obiettivo.

Questo fu il viatico di Carniti alla mia partenza da Roma: “Vai un po’ a cercare di capire il futuro dell’Europa che si prepara a Bruxelles; se non resisti, puoi tornare qui quando vuoi” e, uomo di parola, me lo scrisse in una lettera che conservo.

Grazie a quel legame con quel sindacato e quei sindacalisti di allora resistetti a lungo, quasi un quarto di secolo, feci come potevo quello che mi era stato chiesto e non sono affatto pentito. Anzi è stata la mia salvezza e un investimento che oggi cerco di restituire alle nuove generazioni, ormai molto lontane dalle spinte motivazionali di allora.

In tutto questo mi assistette anche la fortuna di vedere arrivare nel 1989 Pierre Carniti al Parlamento europeo per due legislature e, per non farmi mancare niente, nel 1991 a Bruxelles, Segretario generale della CES, Emilio Gabaglio. Quando si dice la Provvidenza…

Furono anni di intensa condivisione di riflessioni politiche e sociali, di nuove idee e progetti, di speranze e delusioni in un’Unione Europea che avrebbe mancato l’occasione offerta dalla caduta del Muro di Berlino, dal grande balzo verso la sovranità europea

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propiziato dalla creazione dell’euro, depotenziato però da una mancata politica economica comune – la “zoppia” della moneta unica, come l’avrebbe chiamata poi Carlo Azeglio Ciampi – e dalla sconfitta del Progetto per una Costituzione europea.

Nei suoi dieci anni al Parlamento europeo Pierre Carniti guardava alle dinamiche dell’integrazione europea con qualche speranza e molta cautela, non senza quell’ironia a tratti sferzante che gli era propria.

Stava in Europa con i piedi ben piantati in Italia, preoccupato dalla piega politica che l’una e l’altra stavano prendendo, non proprio nel senso di una democrazia matura e di un impegno sociale in grado di alimentarla.

Per il Parlamento europeo di allora – forse oggi sarebbe stato meno severo – aveva parole non sempre di apprezzamento: troppe parole e raccomandazioni, poca capacità di decisioni concrete e troppo poco spirito europeo.

Glielo sentii ripetere molte volte, in particolare con un suo collega parlamentare e amico politico, l’ex Primo ministro francese, il socialista Michel Rocard, quando a Roma ci trovammo a tavola insieme.

Aveva il rispetto e la stima di un grande statista, come l’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors, ex sindacalista cattolico ed ex ministro delle Finanze di François Mitterand: in più Pierre aggiungeva la grinta di chi era cresciuto dentro quella che allora si chiamava “classe operaia”, della quale non smise mai di essere testimone.

Mancherà a molti questo fiero italiano d’Europa: proprio nel momento in cui di questa Italia e di questa Europa è difficile essere fieri.

Franco Chittolina

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Anche in Europa molte situazioni di sfruttamento nella produzione di abbigliamento e calzature In risposta alla maggiore consapevolezza da parte dei consumatori a proposito dell’industria dell’abbigliamento in Asia, alcuni marchi hanno iniziato a porre le etichette di «Made in Europe» o «Made in EU» per pubblicizzare le proprie scarpe o i vestiti. Spesso la provenienza europea viene considerata sinonimo di equità e responsabilità sociale.

Il nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign, “Europe’s Sweatshops” - L'Europa dello Sfruttamento - rivela condizioni di sfruttamento nella produzione di abbigliamento e calzature nell’Europa dell’Est. Molti degli intervistati hanno raccontato di condizioni di lavoro pericolose come l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti.

I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento.

Molti degli 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Le fabbriche citate nel rapporto producono tutte per importanti marchi globali: tra questi troviamo Benetton, Esprit, Geox, Triumph e Vera Moda.

“Ci pare evidente che i marchi internazionali stiano approfittando in maniera sostanziosa di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativi” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign.

Sergio Dalmasso (per il Tavolo delle Associazioni – Cuneo) Le vignette di questo numero sono di Khalid Albaih, vignettista sudanese, attualmente costretto a vivere in esilio in Qatar.

I suoi disegni, grazie alla rete, sono diventati il simbolo della Primavera araba, gli hanno valso il soprannome di “artista della rivoluzione“ e hanno fatto il giro del mondo per poi essere trasformati in stencil e riprodotti sui muri di Beirut, de Il Cairo e del Medio Oriente.

Khalid ha un obiettivo preciso: “unire e non dividere, creare un dialogo costruttivo con il pubblico e invogliare a riflettere.

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Della Szymborska e del suo segretario Si pensa Si pensa: se hai un rapporto formale con una persona è tale e non familiare.

E anche: se hai un rapporto formale con una persona l’affetto non è messo in conto.

Si può prevedere un’evoluzione del rapporto formale.

Ma far coesistere un po’ di formalità, un po’ di familiarità ed anche gentili espressioni d’affetto ci sembra roba d’altri tempi. Una rarità…

E in un rapporto di lavoro, il tutto pare davvero impossibile.

A me sembra che questa miscela ci sia stata nel rapporto tra la Szymborska ed il suo segretario: almeno, così me lo sono immaginato, dopo aver letto il libro “Cianfrusaglie dal passato” che racconta la vita di Wislawa Szymborska.* E vi ho colto tre sottili fili ad annodare le tre componenti: l’ironia, la gentilezza, la franchezza.

Identikit del segretario ideale Dopo l’assegnazione del Nobel, la poetessa si sentiva frastornata dalla mole di corrispondenza, contatti, telefonate.

E le richieste erano le più improbabili, oltre le classiche: chi le chiedeva serate per far gustare ai deputati qualcosa della sua opera, chi le proponeva di scrivere testi per cantanti, chi esigeva la sua presenza a feste, sagre, inaugurazioni di ogni tipo, tagli di nastri per nuove strade, nuove scuole o adesioni a comitati i più vari, senza contare l’assegnazione di titoli e onorificenze.

Tra l’ottobre del 1996 e l’autunno successivo, oltre gli impegni in patria, ricevette proposte perfino da Corea, Cina, Egitto, oltre che naturalmente un po’ da tutta Europa.

Si comprende bene come fosse diventato fondamentale un aiuto continuativo.

Appunto, un segretario. Non una segretaria.

“Maschio, giovane, leale, intelligente, dotato di senso dell’umorismo, beneducato e con una buona conoscenza delle lingue.”

Se fossi vissuta in Polonia mentre la scrittrice cercava il segretario, sarei stata radicalmente fuori gioco.

Peccato, perché conoscerla da vicino mi sarebbe piaciuto davvero.

“Non ci voleva un’istituzione… una segretaria, un ufficio, degli impiegati, ma una persona che le tornasse utile anche dopo il clamore del Nobel…” così la pensava Teresa Walas, che appunto raccomandò alla poetessa il suo studente Michal Rusinek.

Qualche tempo dopo, in un’intervista venne chiesto alla Szymborska: “E’ stato un segretario a prima vista?”

“Oh, sì” fu la sua risposta convinta.

Proprio come si chiede se fu amore a prima vista.

RusineK, anch’egli un bel tipo E quel giovane segretario sapeva destreggiarsi bene perché intuitivo e altrettanto ironico quanto la sua datrice di lavoro. Percepiva da poche battute, se la Szymborska gradiva poco, pochissimo o per nulla questo o quell’invito e predisponeva cortesi formule di rinvio.

Questa è un capolavoro: “Accoglierò con piacere la proposta quando sarò più giovane”. Non fu mai usata, ma ci risero parecchio su.

Era un problema delicato che la poetessa avvertiva profondamente: trovare il modo di negarsi, a volte, ma farlo sempre in modo gentile.

Anche con le incombenze pratiche se la cavava egregiamente. “Vado avanti con la mia Cinquecento, perché la signora Wislawa vuole trasferire le sue cose un po’ alla volta, due vasetti, tre scodelle, il mappamondo da solo perché è grande…” scriveva ad una comune amica Rusinek. Si trattava del trasloco, appaltato ad una ditta, ma non per tutto. Così il trasporto di molte cosucce fu di sua competenza.

E pure della sistemazione della biblioteca si occupò o di accompagnarla in un negozio di accessori per giardino o di andare ad acquistare un paio di scarpe con una forma di legno da presentare al negoziante, con questa unica raccomandazione: la morbidezza della pelle. Manco una parola sul colore, sull’eventuale forma, con le stringhe o senza, alte o basse…

Questi aneddoti ci inducono a pensare che vi fosse una conoscenza fine delle abitudini, dei gusti, un acconsentire perfino con simpatia alle stranezza di quella originale attempata scrittrice.

Oppure venire a sapere che la Szymborska amava le alette di pollo bollenti, proprio come Michael Jackson, o anche sapere che riteneva i cassetti una delle più straordinarie invenzioni umane e che ne aveva ben 56 da governare comporta una vicinanza fatta di cose quotidiane, di ritmi condivisi.

Mi pare che tutto ciò vada sotto il titolo di garbata familiarità.

Quello stretto contatto, nell’abitazione della signora Wilslawa e non in un anonimo ufficio, quel conoscere le pieghe del carattere e gli angoli della casa non può far permanere asettico il rapporto – se pur professionale – . Si percepiscono fini moti d’affetto, magari espresso con la sintonia nelle trovate ironiche, nel poter capirsi con lo sguardo, nell’affidarsi per le cose pratiche, nel senso di protezione e nel poter contare sulla discrezione, sulla lealtà, su un garbo che non è semplice bon – ton.

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Un accordo fondamentale Dopo il Nobel ci furono tre anni di vuoto. Quando lei gli affidò la trascrizione di Il ballo e Qualche parola sull’anima, Risinek era visibilmente emozionato. Al che la Szymborska: “Non le legga in mia presenza. E quando le avrà lette non mi dica niente. Se le lodasse, non ci crederei e se le criticasse mi dispiacerebbe.”

L’accordo appunto consisteva nel non leggere e commentare le poesie “più serie” in sua presenza.

Questo accordo che pare un freddo regolamento in realtà tradisce un bel cocktail di sottili emozioni possibili messe in una riga soltanto. * Anna Bikont - Joanna Szçzesna , Cianfrusaglie dal passato, Adelphi, 2015 Qualche parola sull’anima L’anima la si ha ogni tanto.

Nessuno la ha di continuo e per sempre.

Giorno dopo giorno, anno dopo anno possono passare senza di lei.

A volte nidifica un po’ più a lungo solo in estasi e paure dell’infanzia.

A volte solo nello stupore dell’esser vecchi.

Di rado ci dà una mano in occupazioni faticose, come spostare mobili, portare valigie o percorrere le strade con scarpe strette.

Quando si compilano moduli e si trita la carne di regola ha il suo giorno libero.

Su mille nostre conversazioni partecipa a una, e anche questo non necessariamente, poiché preferisce il silenzio.

Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci smonta di turno alla chetichella.

Schifiltosa: non le piace vederci nella folla, il nostro lottare per un vantaggio qualunque e lo strepito degli affari la disgustano.

Gioia e tristezza non sono per lei due sentimenti diversi.

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È presente accanto a noi quando essi sono uniti.

Possiamo contare su di lei quando non siamo sicuri di niente e curiosi di tutto.

Tra gli oggetti materiali le piacciono gli orologi a pendolo e gli specchi che lavorano con zelo anche quando nessuno guarda.

Non dice da dove viene e quando sparirà di nuovo, ma aspetta chiaramente simili domande.

Si direbbe che così come lei a noi, anche noi siamo necessari a lei per qualcosa.

Eva (eva.maio@alice.it)

Export di armi

Secondo la Costituzione “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, ma nel 2017 ha autorizzato vendite di armi per più di 10 miliardi di euro.

Una cifra in calo di circa il 35% rispetto al 2016, anno in cui si registrò il record storico grazie alla megacommessa di aerei per il Kuwait, ma comunque in aumento rispetto al 2015 (+15%) e quadruplicata rispetto al 2014.

“Tra gli acquirenti delle armi prodotte in Italia compare il Qatar indicato da molti paesi arabi, Arabia Saudita in testa, come paese sostenitore del terrorismo internazionale e analogamente accusato anche dal governo statunitense di Trump. Ma noi riforniamo tranquillamente anche chi lo critica... Si notano inoltre esportazioni verso Paesi come la Turchia, dove preoccupa fortemente il potenziamento del regime autoritario di Erdogan e l'azione militare intrapresa in Siria contro i curdi. Proseguono poi le esportazioni di armamenti verso l'Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti: tutti paesi impegnati nella sanguinosa guerra in corso in Yemen” sottolinea Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo.

Per quanto riguarda le cosiddette “banche armate”, cioe gli istituti di credito che collaborano per l’incasso dei pagamenti legati all’export militare, oltre la meta degli importi è transitata per UniCredit. Altri importi consistenti sono quelli di Deutsche Bank, Bnp Paribas, Barclays Bank, Banca Popolare di Sondrio e Intesa SanPaolo.

Sergio Dalmasso per il Tavolo Associazioni-Cuneo (oltresergio@gmail.com)

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Una voce fuori campo Si avvisa che ancora una volta si tratta di un azzardo. L’azzardo di attingere dalla tradizione ebraicocristiana con occhi laici.

Noi e la voce fuori campo Che poi non è voce. È vento, soffio.

A volte brezza.

Vento, soffio brezza con sapienza leggera.

E non è fuori campo.

Forse ci abita.

Noi Vedi, ci troviamo faccia a faccia con la solitudine con dentro la compagnia .

Faccia a faccia con l’apatia con dentro il desiderio.

questo stare un po’ scorticati negli opposti da vivi.

Noi Vivi in noi tutte le foglie rastrellate gli autunni e i cristalli di neve sciolti sulla pelle del viso gli inverni e tutti gli amici i volti partiti altrove coi loro sorrisi le voci le grane di pelle.

Faccia a faccia con la tiepidezza con dentro il fuoco d’un sogno.

Vedi, anche qui sospensioni tra ciò che pare perduto eppure ancora vivo in noi.

La voce - vento

La voce – soffio

È un benefico congedo dalle sicurezze questo stare tra gli opposti da vivi.

Vivi con la voglia di imparare anche dalle sospensioni.

Accuccia tutto nel tuo sogno di oggi nel tuo amare di ora.

Accucciate nei vostri sogni di oggi quei barlumi di bene che vi hanno portato fin qui.

Le foglie rastrellate i cristalli di neve sciolti in fronte e i volti gli amici perduti, sentite, vi conducono all’adesso.

Al compito di ora.

Noi Vedi, a volte è il contrario.

Ci troviamo faccia a faccia con la compagnia con dentro la solitudine.

Faccia a faccia con il desiderio con dentro l’apatia.

Faccia a faccia con il fuoco di un sogno con dentro la tiepidezza.

La voce – vento È un lavorío benefico un combattimento con gli spilli della presunzione

Noi Vivi in noi tutti quei profumi di basilico e menta e le livree d’azzurro in primavera e tutte le pietre delle vecchie case calde del sole di tanti estati e tutti i tremolii del cuore a quegli sguardi silenti incrociati

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e i volti tutti i volti amati o anche solo incontrati.

Che farne?

Tutto è solo più un sussurro?

Destinato a diventare sbiadito ricamo?

La voce – soffio Tuffa in canto quelle primavere quelle estati.

Un canto con note nuove che il mondo si trasforma.

E tu anche.

Tuffateli in canto i profumi, gli azzurri i tremolii del cuore che la vita è adesso.

Un coro.

Apprestatevi a un coro nel tutto che evolve.

A voi è affidato il prima e l’adesso.

Noi Siamo sinceri.

L’adesso.

Non ti pare stanco confuso frammentato questo adesso dell’umana storia?

Giustizia, benevolenza, visione di futuro, buoni governi.

Li vedi?

Noi che viviamo del respiro di cose sperate ci sentiamo in esilio.

Piccoli, spiazzati.

A lato di tutto.

Col senso della fragilità di noi del tutto.

La voce – brezza L’adesso è stare vivi a lato spandere vita

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dai margini toccare la delizia del posare gli occhi sul tutto come dai bordi del mondo come dal fondo.

Spandere vita senza darlo a vedere.

Silenti spandere vita: si può.

Sono in voi.

Eva (eva.maio@alice.it)

CIVILI UCCISI DAI DRONI “È stata uccisa, letteralmente fatta a pezzi, mentre lavorava nei campi, in un giorno qualunque, di fronte a me, suo figlio, e ai suoi nipoti”. A raccontarlo è Rafeequl Rehman, figlio di Mamana Bibi, colpita a 67 anni nel 2012 da un drone statunitense. La donna è uno dei 900 civili che sono stati uccisi da attacchi di droni in Pakistan.

Dal 2001 gli Stati Uniti hanno sviluppato un vasto programma di uso letale dei droni, che serve per effettuare uccisioni mirate extra-territoriali in tutto il mondo. Un programma che con l'amministrazione Trump ha registrato un’ ulteriore espansione.

Secondo un’indagine condotta da The Intercept, documenti fuoriusciti dal Pentagono mostrano che durante cinque mesi del 2013 il 90% delle persone colpite dai droni Usa durante l’operazione Haymaker (un’operazione speciale condotta nell’Afghanistan) erano obiettivi non intenzionali.

Gli Stati Uniti fanno molto affidamento sull’assistenza di alcuni stati europei, in particolare Regno Unito, Germania, Paesi Bassi e Italia.

A gennaio 2016 il governo italiano ha concesso l’autorizzazione agli Stati Uniti per il lancio di droni armati dalla base aerea di Sigonella.

La Sicilia è anche sede di importanti infrastrutture di comunicazione utilizzate per le operazioni letali degli Stati Uniti e ospita il Sistema di obiettivi per utenti telefonici (Muos) del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti: un sistema di comunicazione satellitare globale per le forze militari statunitensi che mira ad integrare le forze navali, aeree e terrestri statunitensi in tutto il mondo.

Sergio Dalmasso per il Tavolo Associazioni-Cuneo (oltresergio@gmail.com)

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NON SULLA PELLE DEI PIÙ DEBOLI Lettera aperta al ministro Salvini Il buon senso e la volontà di risolvere i problemi dovrebbero sempre prevalere sulla demagogia, sull’irrazionalità e sulla semplificazione a scapito di poveri esseri umani innocenti.

Ministro Salvini, la sua decisione estrema di non lasciare attraccare la nave Aquarius in alcun porto italiano con il suo carico di persone allo stremo per puro puntiglio – peraltro non sorretto da norme internazionali – è un atto disumano, oltreché inutile, per risolvere quello che lei considera il principale dei problemi che devono essere affrontati dal suo governo e dal nostro Paese. La miseria e la guerra non sono questioni che si risolvono con la semplificazione e con la sofferenza delle persone, che non deve mai essere usata e strumentalizzata per raccogliere consenso soprattutto da chi, come lei, si richiama ai valori cristiani esaltandone i simboli (purtroppo solo quelli, e non quanto scritto nel Vangelo, che parla invece di accoglienza, di tolleranza e di solidarietà).

La sua è una strada senza uscita che rischierà di aggravare i problemi anche per gli italiani, e di distogliere dalle reali cause che inducono gli individui a scappare dalla miseria e dalla sofferenza. Sia veramente coraggioso, molto più coraggioso di chi l’ha preceduta, e prenda una posizione netta sul conflitto siriano e su tutti i conflitti del pianeta che producono morti e profughi: gli stessi profughi che attraversano il deserto e rischiano la vita per salire su un barcone e approdare sulle nostre coste. La preghiamo, fermi il commercio delle armi di cui l’Italia è uno dei principali esportatori; lo fermi perché non tollera più che a causa di ciò le persone siano costrette a soffrire, a essere sfruttate, violentate, per arrivare qui da noi. E poi: si impegni e si batta per far sì che i popoli – cui appartengono molte delle persone costrette a migrare – abbiano la possibilità di sostenersi con processi di autodeterminazione e di autosviluppo; si impegni a far cancellare quell’iniquo e odioso debito neocoloniale che li tiene soggiogati; si prodighi a livello nazionale e internazionale per favorire un commercio più equo che smetta una volta per tutte di saccheggiare le loro risorse. Non è forse lei un fautore dell’autodeterminazione dei popoli?

Ebbene, lo dimostri, e dimostri che questo principio non vale solo per la Padania o per l’Italia, ma per tutti i popoli del mondo.

Combatta poi la corruzione e i regimi dittatoriali, non permetta che alcune nostre imprese (come Eni, Enel,

Benetton e altre ancora) possano corrompere, saccheggiare le risorse di altri Paesi, distruggerne l’ambiente e creare miseria invece che sviluppo; combatta le multinazionali che favoriscono tutto questo.

Infine, lotti contro la speculazione finanziaria e contro una finanza mondiale che si pone al di sopra delle persone e della politica, e che arricchisce pochi individui a scapito delle moltitudini che cercano disperatamente una via d’uscita. Una finanza che è anche una delle principali e reali cause di miseria anche in Italia.

Ecco, dopo aver fatto tutto questo potrà finalmente dire di essere davvero un buon cristiano, ed essere fiero di aver aiutato a casa sua chi è disperato e cerca perciò di fuggire nei nostri Paesi occidentali. Potrà anche dire di aver aiutato pure i “nostri poveri”, che non sono altro che il rovescio della stessa medaglia: i migranti sono infatti il prodotto della miseria e della guerra, non la loro causa; e, men che meno, non sono la causa della miseria in Italia e del suo aggravarsi.

Le nostre comunità, che accolgono e si autofinanziano senza contributi esterni, sono un esempio di come le persone e la loro dignità non abbiano confini; nelle nostre comunità i poveri non si scontrano ma si aiutano per uscire dalle difficoltà, aiutando anche altre persone in Italia e in ogni parte del mondo. Favorire il dialogo e vie d’uscita sostenibili per tutti è l’unico sistema razionale che può funzionare; la contrapposizione e l’odio di una guerra ai poveri e tra i poveri rappresentano un vicolo cieco che non risolverà i problemi di nessuno, italiano o meno. Senza contare, poi, che prendersela con dei disperati non le fa onore, non le dà lustro, non la rende più forte.

Infine vorremmo ringraziare – e lei dovrebbe farlo insieme a noi – Aquarius e tutte le altre organizzazioni umanitarie che salvano vite nel Mediterraneo e non solo. Non osiamo neppure immaginare l’enorme dramma che dovremmo affrontare quotidianamente se non ci fossero loro. Grazie quindi per la vostra umanità, che ci stimola senza sosta a restare umani malgrado tutto.

Franco Monnicchi Presidente di Emmaus Italia

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cercatori / viaggiatori Javier Marias, Berta Isla , Einaudi Questo sì che è un romanzo.

Un classico di oggi.

Il più classico dei temi: l’amore.

Ed anche: l’altro è sempre un mistero. Ognuno è mistero.

Ed ancora: la Storia, quella straripante di storie, di inganni, di segreti, di non detti, di elusioni.

E pure la politica, la guerra fredda, i servizi segreti, gli anni “60-90, la Spagna e la Gran Bretagna, Londra, Oxford, Madrid.

Un sottofondo che concorre a rendere densa la storia di un matrimonio, che in qualche modo diventa epica e di una relazione d’amore che intanto che svela la sua imperfezione dice della sua profondità.

Le tre dimensioni - l’amore, l’alterità, la storia - sono guardate, narrate dentro un’ellissi di attese e in un’atmosfera di ineguagliabile nitore nel coglierne i paradossi: vicinanza - lontananza, incertezza - passione, segretezza - svelamento.

E la finezza di scrittura quei paradossi li infila, li inanella, continuamente nei tre temi, facendoci andare dall’uno all’altro con naturalezza.

Poi quell’ interrogativo scorticante che si profila qua e là fin dall’inizio del romanzo e che diventa incombente negli ultimi capitoli: è possibile ricostruire-raccontare la propria biografia ? O è un’operazione ad alto rischio illusorio: quale margine ci lasciano le ombre, i non detti, le scelte mancate, l’inesplicabile o ciò che di volta in volta inganna usurpa o corrode le possibilità di scelta, quand’anche noi ci fossimo percepiti protagonisti?

Ed è nello snodare questo travaglio che Musil, Eliot, Dickens e Shakespeare scivolano soavemente

dentro i dialoghi dei protagonisti, non certo come “ornamento culturale”, ma come voci ineludibili che sono dentro la tessitura cognitiva ed emotiva dei dialoganti, come se non avessero che quelle voci per tentare l’appros-simazione al mistero di sé e dell’altro.

Pieni di fascino i due, Berta Isla e Tomas Nevinson. È lei che ci prende per mano e tesse un grande racconto dove l’attesa è la cifra della sua magnificenza . È lei che sminuzza i tempi e i modi della multiforme via che porta alla consapevolezza dei moti di cuore, di corpo, di spirito dei due. È lei che in modo vitale e pensoso frantuma e ricompone un personale modo di guardare alla storia, al rapporto dei due mondi paralleli del marito, quello madrileno e quello anglosassone. È lei che ha bagliori d’incommensurabile bellezza su come vanno le cose tra gli umani, specie se si amano di qualche tipo di amore.

Se si digita il titolo del libro, spunta fuori la trama.

Ma leggere la trama prima, potrebbe addirittura sviare dal desiderio di percepire pagina dopo pagina quella sonda misteriosa che Javier Marias con semplicità, signorìa e precisione nello stile ha messo in misura dilatata negli occhi di Berta Isla.

Quel desiderio vorrei innescarlo e - in coerenza con l’alone che avvolge il romanzo perseguo con queste poche righe la sottomissione al fascino inquieto dell’attesa.

Eva (eva.maio@alice.it)

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VERSO UNA CITTÀ SEMPRE PIÙ MULTICULTURALE MULTIETNICA MULTIRELIGIOSA Il 5 maggio, a Cuneo, in Corso Antonio Gramsci, 34 si è inaugurato un Centro di Cultura Islamica Dice il presidente Ahmed Sahbani: “L’apertura del Centro è una momento importante nel percorso di inserimento della comunità islamica nel tessuto sociale cuneese. La nostra associazione è da anni impegnata nella promozione di una presenza positiva e proficua e di un costante dialogo interreligioso e interculturale con tutte le anime della nostra città.

Il nuovo Centro, che costituirà parte del patrimonio della città, sarà un luogo di incontro, di dialogo, di preghiera e un ulteriore spazio per la costruzione di una convivenza positiva e proficua per tutti”.

Di seguito il saluto di Wafa Atich all’apertura della cerimonia.

Illustri ospiti, care amiche ed amici, gentili sorelle e fratelli, un saluto di pace e di misericordia a tutte e a tutti voi.

A voi la nostra sincera gratitudine per aver accettato di condividere con noi questo solenne momento.

Nel 1998 nasceva a Cuneo l’Associazione della comunità islamica della provincia di Cuneo allo scopo di promuovere e valorizzare la presenza musulmana e favorirne l’inserimento nel contesto sociale e culturale di Cuneo, una città che diventava sempre più multietnica, multireligiosa e multiculturale.

Nella nostra opera siamo guidati dalla convinzione profonda della necessità di costruire qui un islam italiano, ovvero un islam che pur rispettando profondamente il credo e le pratiche musulmane, faccia propri i principi fondamentali e universali della Repubblica Italiana, ovvero la libertà, l’uguaglianza, la democrazia e la solidarietà.

Siamo inoltre guidati dalla convinzione che i

musulmani cuneesi, ben lungi dall’essere un problema o un peso, sono un valore aggiunto in termini di ricchezza spirituale, culturale, economica e sociale, per la loro società e la loro città.

Animati da queste profonde convinzioni abbiamo stabilito in questi vent’anni forti legami di conoscenza e di collaborazione con le varie realtà della società civile, con le comunità religiose e le istituzioni pubbliche.

Abbiamo promosso negli anni insieme ai nostri partner numerosi incontri di dialogo interreligioso, oltre ad iniziative di promozione della cittadinanza e della partecipazione civica; e siamo impegnati quotidianamente nella nostra comunità e nella nostra città contro ogni forma di discriminazione, di fanatismo e di estremismo.

Vorremmo qui ringraziare tutti gli enti, le comunità, le istituzioni che ci hanno incoraggiato, sostenuto, accompagnato e ospitato in questo lungo percorso di impegno e di testimonianza.

Oggi, a 20 anni dalla nascita della nostra associazione, siamo felici di inaugurare il Centro di cultura islamica insieme ai rappresentanti delle istituzioni, delle comunità religiose, della società civile e insieme agli abitanti del quartiere Donatello che ospiterà questo Centro, che ci auguriamo si aggiungerà al novero del ricco patrimonio spirituale e culturale della nostra meravigliosa città.

Il Centro di cultura islamica di Cuneo nasce per essere al servizio non soltanto della comunità musulmana ma di tutta la città, aperto a tutti i cittadini, le associazioni, le comunità e le scuole della nostra città.

La nostra più sentita speranza è che sia un luogo dove le persone e le culture si incontrino, si conoscano e si arricchiscano a vicenda.

Grazie ancora per la vostra presenza oggi a nome di tutte le donne e gli uomini della comunità musulmana cuneese.

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L’altra Grande Guerra Il racconto della diserzione nel corso della Prima Guerra Mondiale, dei reati militari e della loro repressione, relegato a lungo ai margini della storiografia ufficiale, negli ultimi decenni ha acquistato dignità ed è diventato l’altra faccia della realtà, la realtà di una massa di persone semplici, stanche di sacrifici e sofferenze, che non riuscivano a capire il senso di una guerra che non avevano voluto.

L’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo ha organizzato nelle scorse settimane un incontro-dibattito sul tema con la partecipazione dello storico Gianni Oliva, nel corso del quale è stato proiettato “Non ne parliamo di questa guerra”, il film-concerto realizzato dal regista cuneese Fredo Valla sulle vicende di alcuni di questi soldati, che giunti al limite estremo delle proprie forze non vollero più obbedire e furono giustiziati, disonorati e cancellati dalla Storia.

Siamo nel centenario della fine della Grande Guerra, una guerra che oggi viene raccontata e presentata in modo diverso rispetto a come veniva illustrata anni fa e a come è stata studiata in passato da intere generazioni di scolari.

Per decenni la Prima Guerra Mondiale è stata rappresentata come la quarta guerra del Risorgimento, figlia dell’irredentismo dei Battisti, dei Chiesa e dei Filzi. La sua epicizzazione si è resa necessaria fin dai primi anni del dopoguerra per contribuire a superare il trauma delle enormi sofferenze patite e dei lutti subiti.

Nei Paesi che avevano partecipato al conflitto, praticamente tutti avevano perduto almeno un parente o un amico: per le classi dirigenti era ineludibile l’avvio di un processo di depotenziamento di questa carica di tensione latente attraverso la sublimazione del sacrificio conosciuto da milioni di famiglie: la mancata rielaborazione della tragedia che si era appena conclusa avrebbe potuto rappresentare una vera e propria minaccia per la stabilità dell’ordine sociale.

Di qui l’ampia diffusione di liturgie nazionali quali il culto del Milite Ignoto e la monumentalizzazione dei luoghi dedicati alla sepoltura dei caduti, in un’azione pressoché universale di sacralizzazione della grande carneficina.

La svolta Il coro delle letture plaudenti è proseguito pressoché unanime fino al 1968, anno di pubblicazione del documentatissimo libro sui processi contro i disertori di E. Forcella e A. Monticone Plotone di esecuzione, un vero e proprio punto di svolta nella

rappresentazione della Grande Guerra pubblicato a cinquant’anni dalla fine del conflitto.

Fino ad allora le testimonianze dei soldati processati dal Tribunale militare erano state pressoché ignorate, quando non guardate con aria di superiorità e di disprezzo dalla maggior parte degli storici. Una frase di Adolfo Omodeo dice molto di quale fosse l’atteggiamento nei loro confronti: “…nulla di più insignificante delle lettere dei disertori: attestano solo il più banale istinto di conservazione, e nulla hanno da dire allo storico. Se anche possedessimo tutti i diari degli imboscati, non ci direbbero nulla, perché nulla storicamente hanno creato. Non troveremmo neppure

il lirismo della poltroneria, che è invenzione dei drammaturghi.”

Con il loro volume, Forcella e Monticone hanno voluto togliere la sordina a quei fatti sia per rispetto della memoria delle vittime - di cui molti han chiesto la riabilitazione - sia per amore della verità storica, anche perché la vicenda di quei soldati non poteva lasciare

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indifferenti. Come sottolinea Monticone, “lungi dall’essere una specie di antistoria dell’Italia combattente nel 1915/18, essa è parte integrante della storia di quella guerra e dell’esercito che l’ha combattuta e sofferta”.

Quella della diserzione, dei reati militari e della loro repressione ha da quel momento riacquistato dignità anche agli occhi della storiografia ufficiale, ed è diventata l’altra faccia della realtà, la realtà di una massa di persone semplici, stanche di sacrifici e sofferenze; la realtà di militari che non riuscivano a capire il senso di una guerra che non avevano voluto, e che non si vergognavano di provare paura.

E così, a partire dagli anni ‘70 la Grande Guerra ha iniziato ad essere studiata esplicitamente dal punto di vista delle conseguenze drammatiche che ha provocato e del prezzo pagato per la vittoria, come ha fatto ad esempio il film di Francesco Rosi Uomini contro, e oggi può essere analizzata da un punto di vista più completo, anche perché la distanza nel tempo consente forse una maggiore obiettività nel giudizio.

Un evento che ha cambiato la Storia Da alcuni anni la Prima Guerra Mondiale viene interpretata soprattutto come momento profondo di rottura e di modernizzazione, con tutto ciò che “rottura” e “modernizzazione” vogliono dire nel bene e nel male.

Il mondo del 1918 è profondamente diverso da quello del 1914, ed è profondamente diversa l'Italia, perché la Prima Guerra Mondiale è la prima esperienza collettiva che viene fatta da tutti i popoli che partecipano alla guerra. Tutte le guerre precedenti, anche le campagne napoleoniche che avevano coinvolto centinaia di migliaia di francesi, sono state

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esperienze limitate; lo stesso Risorgimento italiano è stata una esperienza elitaria: l'esercito sardopiemontese nelle guerre del Risorgimento aveva circa 100mila uomini.

Nella Prima Guerra Mondiale, di uomini l'Italia ne ha mobilitati oltre cinque milioni: vuol dire che non c'era famiglia della Valle d'Aosta, del Cuneese o della Sicilia che non avesse in guerra qualcuno, un figlio, un fratello, un padre, un vicino di casa o un amico. È quindi il primo evento militare che viene partecipato da tutti, o direttamente o indirettamente; anche chi sta a casa vuole sapere cosa succede: dove si combatte, come si chiamano i reparti o i comandanti, l'esito delle operazioni. Questo fa nascere un soggetto che prima non esisteva: l'opinione pubblica.

Oggi siamo invasi dall'opinione pubblica, e diamo per scontato che essa esista e che abbia un potere decisivo nell’indirizzo della vita politica. Ma prima della Prima Guerra Mondiale l'opinione pubblica non esisteva: era un fatto di élite, fatta di intellettuali, di liberi professionisti e di classe dirigente; la stragrande maggioranza della popolazione era esclusa dall'opinione pubblica. Anche là dove si fosse voluta garantire la sopravvivenza di un regime autoritario, come nel caso dei regimi bonapartisti, era sufficiente la repressione. Non c'era bisogno di coinvolgere l'opinione pubblica: bastava reprimere quelli che stavano all'opposizione con leggi speciali, impedire loro di parlare, arrestarli o addirittura eliminarli.

Col 1914-18, e in Italia con il 1915-18, nasce invece l'opinione pubblica: la gente vuole sapere cosa succede, vuole essere informata. Se uno considera i dati di vendita – non dei giornali, ma dei settimanali – si accorge di cosa vuol dire. I dati significativi non riguardano i giornali, perché i giornali esistevano già da molto tempo, ma erano scritti per le élite, anche dal punto di vista grafico: avevano i titoli, ma non sottotitoli, né occhielli, né tantomeno immagini al di là di qualche vignetta, con un testo stampato in caratteri estremamente fitti. Non erano giornali che attirassero il lettore: era il lettore che andava a cercare il giornale perché voleva sapere quali fossero gli orientamenti dell'area politico-sociale che quel giornale esprimeva. Il Corriere della Sera o La Stampa di inizio ‘900 dal punto di vista grafico erano indirizzati a un pubblico di lettori di alta levatura e di intellettuali. Ma già intorno alla fine dell'800 e all'inizio del 900 si era affacciato sulla scena un pubblico nuovo, che aveva imparato a leggere e scrivere grazie alla scuola pubblica.

Erano persone che magari avevano solo la seconda, la terza o la quinta elementare e quindi non potevano

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addentrarsi nelle letture dei corsivi del Corriere della Sera, ma avevano voglia di leggere qualcosa per tenersi informati, non essendoci all’epoca altri strumenti di comunicazione di massa.

Per questi lettori nascono i supplementi e i periodici settimanali, il più famoso dei quali era La domenica del Corriere, che come supplemento del Corriere della Sera iniziò le pubblicazioni nel 1899. Ospitava romanzi d'appendice a puntate nelle prime pagine e articoli su fatti mondani all’interno, ma soprattutto aveva le notizie più importanti illustrate in copertina e contro-copertina dai disegni di Achille Beltrame. Quel giornale, che era un giornale popolare proprio perché parlava attraverso le immagini, all’inizio del 1914 vendeva ogni settimana tra le 80 e le 90 mila copie; nel 1918, alla fine della Guerra, arriva a vendere quasi 2 milioni di copie. Anche sotto questo profilo, un conflitto che ha visto impegnati cinque milioni di cittadini ha cambiato il modo di essere della società, le attitudini, i gusti, i costumi, ed è sotto questo profilo che ha rappresentato un momento di rottura, un momento di modernizzazione. Purtroppo nella storia umana la modernizzazione è passata quasi sempre attraverso il sangue. Si pensi a cos’è stata la Rivoluzione francese e il periodo Napoleonico successivo: guerre, campagne, ghigliottine… Momenti tragici, che pure hanno permesso di passare dal secolo dei privilegi al secolo dei diritti.

La Prima Guerra Mondiale ha permesso di passare dal secolo delle élite al secolo delle masse, e in questo senso ha rappresentato un elemento di svolta, una rottura non solo nella storia italiana ma nella storia umana.

Un mattone nella costruzione della casa italiana Nella storia italiana è stata un'esperienza di italianità, perché se nel 1861 l’Italia era stata fatta, gli italiani “rimanevano da fare”. Quando nel 1861 fu portata a compimento la prima unificazione, cosa avevano di comune gli abitanti della Sicilia e del Piemonte? Non avevano pressoché nulla, perché non c'era mai stato un periodo nella storia umana in cui la penisola italiana fosse stata unificata sotto un unico regime politico, a parte il periodo dell'Impero Romano, in cui però l’Italia era il pezzo di un impero assai più vasto, che guardava al Mediterraneo e che comprendeva un territorio assai più ampio.

Quando nel 1861 è stata fatta l'Italia, quell'Italia era tutta da fare dal punto di vista della cittadinanza. I cittadini italiani erano cittadini di varie regioni che si sono trovati inseriti all'interno di uno stesso Stato e hanno dovuto maturare progressivamente il senso dell'italianità grazie all’opera della scuola liberale, impegnata a formare nei giovani l’idea di un passato comune, e dell’esercito, obbligato anch’esso a ricostruire un patrimonio storico unitario fortemente caratterizzato in senso guerresco e militare.

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La Prima Guerra Mondiale è stata quindi un’esperienza corale che ha fatto maturare il senso di appartenenza nazionale attraverso l’uso dell’italiano.

Gli italiani hanno iniziato a parlare una lingua comune proprio nelle trincee. Prima si parlavano mille dialetti, ma nelle trincee per capirsi bisognava per forza parlare italiano: un italiano storpiato forse, fatto di pochi vocaboli, dove non si usava il congiuntivo; un italiano molto maccheronico, ma pur sempre l’italiano, uno strumento efficace al fine di comunicare.

Un’Italia unita alla conquista delle terre irredente Ma cosa permette a questo Paese di essere tenuto insieme nel corso di questa esperienza militare, così drammatica? La Prima Guerra Mondiale è un’esperienza che in Italia - unico paese rispetto agli altri contendenti - è stata rappresentata alla gente come un’esperienza di conquista. Conquista e liberazione insieme, forse, ma con la forte sottolineatura dell’idea di attacco. In tutti gli altri paesi la Prima Guerra Mondiale è stata presentata come frutto di una necessità di difesa: tutti i partiti socialdemocratici della seconda Internazionale dal 1889 in poi avevano organizzato Congressi nei quali all’ordine del giorno era sempre il principio dello sciopero dalla guerra, qualora le borghesie avessero dichiarato l’inizio delle ostilità. Ma nel momento in cui l’inizio delle ostilità venne effettivamente dichiarato, tutti i partiti socialdemocratici votarono a favore dei crediti di guerra: lo fecero i tedeschi, così come i francesi e i laburisti. Li votarono tutti perché dappertutto si diffuse l’idea che la patria fosse in pericolo e che quindi fosse dovere di ogni cittadino difendere la patria. È quanto si legge ad esempio in Niente di nuovo sul fronte occidentale, il romanzo storico di Erich Maria Remarque che a un certo punto racconta le vicende di un gruppo di giovani liceali tedeschi che vanno ad arruolarsi volontari perché accesi dai loro professori che parlano della necessità di difendere la Germania aggredita dalle altre potenze. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno presentato la guerra ai loro cittadini come difesa da un attacco che proveniva dall’esterno.

In Italia invece la guerra del 1915 viene propagandata come attacco per liberare Trento e Trieste, come uno strumento per completare il Risorgimento. Ma come il Risorgimento era stata una esperienza elitaria, così l’interventismo è esperienza elitaria: l’idea di un nuovo Risorgimento, dell’irredentismo delle terre da liberare e di un’unità nazionale da completare, probabilmente non sarebbe stata capace di coinvolgere i pastori della Valle Pesio o le periferie operaie di Torino. Era un problema che riguardava la classe dirigente, per cui a tutti gli altri la guerra viene presentata essenzialmente come un attacco.

Non è un caso che l’atmosfera dell’opinione pubblica cambi dopo Caporetto, perché dopo la disfatta e la discesa dell’esercito austriaco fino al Piave la guerra diventa una guerra di difesa, un cimento attraverso il

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quale impedire che gli austriaci arrivino a Milano, a Torino, a Firenze o a Roma. In quel momento si accende una diversa motivazione anche generazionale, rispetto al primo periodo. Nel 1915-17, in guerra si andava per conquistare Trento e Trieste, cioè all’insegna di parole d’ordine che - per quanto si sprigionassero le capacità dei commentatori - erano deboli. Non che l’Italia non avesse in assoluto un senso di orgoglio nazionale e per questo non fosse coinvolgibile nella guerra, ma l’opinione pubblica italiana era difficile da coinvolgere su un terreno così estraneo alla propria storia e alla propria cultura.

Quando invece la prospettiva si ribalta e si pone la necessità di difendere l’integrità nazionale, allora l’opinione pubblica interviene in modo consistente a sostegno della guerra e dei sacrifici che richiede.

La Guerra non si combatte solo al fronte Come si fa a tenere insieme un Paese, e non solo un esercito, conducendolo a sopportare i pesi che la guerra comporta in situazioni estreme?

Innanzitutto si ricorre alla repressione. La vicenda storica del 15-18 è anche la storia di come si tiene

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insieme l’opinione pubblica con le buone e con le cattive, e la si costringe a imboccare una direzione anche controvoglia, ad esempio col ricorso al Codice penale militare. Va sottolineato che il Codice militare non si applica soltanto ai soldati impegnati al fronte, ma anche a tutti coloro che sono impiegati nella produzione bellica; e nemmeno solo a coloro che producono armi, bensì anche a coloro che stando a casa lavorano nei campi e producono grano che poi viene utilizzato per la panificazione a favore dei soldati al fronte. Il che vuol dire che “disertore” non è qualificato semplicemente colui che di fronte al nemico butta l’arma, scappa e abbandona il posto di guardia. Non è solo chi non ritorna dalla licenza, ma è anche l’operaio che non va in fabbrica puntuale, e ancor più l’operaio che proclama uno sciopero e tende a mettersi in agitazione, perché tutte queste sono comunque azioni che vanno a nocumento dell’efficienza militare del Paese.

Si fa poi ricorso alla riduzione dei consumi. Sostenere cinque milioni di persone che stanno al fronte comporta che tutti gli altri siano costretti a produrre anche per loro, e non solo per dar loro da mangiare, ma

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anche per armarli, per vestirli e attrezzarli per affrontare la guerra.

Si provi a immaginare quanto potessero incidere 5 milioni e 200mila persone su una popolazione che superava di poco i 40 milioni in termini di compressione complessiva dei consumi: era un peso altissimo, che si traduceva in tagli sostanziosi alla disponibilità di derrate alimentari, di tessuti, di vestiario e di altri beni di consumo. Ciò implicava anche controllo sociale, e di conseguenza repressione, con il conseguente dibattito sugli strumenti attraverso i quali impedire che il malumore si trasformasse in agitazione, e l’agitazione si trasformasse in interruzione della produzione, e questa a sua volta in indebolimento delle Forze Armate che stanno al fronte.

In prima linea la situazione è estrema Per impedire lo sfilacciamento del fronte, si mettono in atto iniziative di repressione immediata nei confronti di coloro che stanno in prima linea: le circolari che il comandante supremo Cadorna manda ai suoi sottoposti puntano molto sulla leva della repressione per contenere il fenomeno della diserzione, i casi di ammutinamento e i fenomeni di insubordinazione. La chiave di propaganda cui Cadorna fa ricorso per giustificare Caporetto, e cioè l’opera disfattista di molte forze politiche presenti nel Paese, non è in realtà così marcatamente di stampo ideologico. Dalle lettere e dalle testimonianze dei soldati emerge un logoramento di carattere esistenziale, non tanto un disfattismo pilotato dai cattolici o dai socialisti. Il disfattismo diffuso tra le truppe non era politicamente orientato e organizzato: era un disfattismo esistenziale, immediato, pre-politico, che nasceva nel giovane partito dalle vallate cuneesi o dalla campagna meridionale per essere condotto al fronte, e dopo pochi giorni di addestramento buttato nell’inferno della prima linea con tutto quello che comportava.

La Prima Guerra Mondiale è stata una guerra assolutamente anomala: non ce ne sono state altre prima e probabilmente non ce ne saranno altre uguali in futuro, perché in quel frangente si sono trovati a convergere tre elementi: da un lato il fatto che gli Stati si sono trovati in virtù della rivoluzione industriale ad essere così ricchi da poter mettere in campo milioni di soldati. Oltre 5 milioni l’Italia, 7 milioni la Francia, 8 milioni la Germania. In secondo luogo, la tecnologia mette a disposizione armi micidiali riproducibili su larga scala a prezzi contenuti: le mitragliatrici della Prima Guerra Mondiale sparano 400 colpi al minuto, mentre i fucili a scoppio in uso nelle guerre del Risorgimento richiedevano operazioni lunghe e macchinose per essere usati, tali da far passare dai due ai tre minuti tra un colpo e l’altro. Ci sono armi nuove, come le armi chimiche, che dal punto di vista numerico hanno un effetto devastante: basta andare in qualunque comune d’Italia e guardare quanti sono i caduti nelle lapidi murate nei pressi del municipio,

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mettendo semplicemente a confronto il numero dei morti del ‘15-18 con quelli della guerra del ‘40-45. Se si esclude l’area del Cuneese, dove la ritirata di Russia ha fatto la differenza, sono quasi il doppio. Mentre nella Seconda Guerra Mondiale ci sono stati bombardamenti, rastrellamenti e stragi che hanno provocato molti morti tra donne, bambini e anziani, nella Prima Guerra Mondiale muoiono quasi esclusivamente maschi tra i 18 e i 40 anni, ma le vittime sono comunque 650 mila.

C’è poi un terzo elemento che caratterizza questo conflitto: la tecnologia non ha ancora inventato automezzi in grado di spostare rapidamente masse ingenti di uomini da un luogo all’altro. Quelle masse di uomini, armati fino ai denti, si muovono a piedi, con molta lentezza. Ecco il perché di una guerra di posizione e non una guerra di movimento; ecco perché la Prima Guerra Mondiale non contempla date e nessuna battaglia di quel conflitto si ricorda con un determinato giorno. Nell’ultima guerra, ad esempio, il 6 giugno 1944 identifica lo sbarco in Normandia, il 4 giugno la liberazione di Roma. La Grande Guerra ha battaglie come quella di Verdun che durano dal febbraio al dicembre del 1916. Il combinato disposto di milioni di uomini armati fino ai denti che si muovono a piedi costringe a una guerra di posizione.

L’unica cosa che si può fare è scavare una trincea, poi un corridoio che la colleghi ad una trincea di seconda linea, un altro che conduca a quella di terza linea, e così via. Si va all’assalto con una perdita di uomini infinita, perché ci si lancia contro posizioni fortificate.

Magari si conquista a prezzo di sangue immane una posizione, poi il giorno dopo il contrattacco porta a retrocedere e si perde quanto conquistato il giorno prima, con un infinito movimento ad elastico. Quando c’è stata la ritirata di Caporetto nell’autunno del 1917, dopo due anni e mezzo di guerra il fronte italiano era avanzato di trenta chilometri: trenta chilometri in due anni e mezzo di guerra e di assalti reiterati. Non è solo questione di limiti strategici e di incapacità del comandante in capo, Cadorna, perché anche sul Fronte occidentale, il fronte franco-tedesco nel nordest della Francia, l’azione non è andata avanti di molti chilometri dopo l’inizio delle ostilità.

Le “condizioni estreme” cui si fa riferimento quando si parla della situazione dei soldati al fronte nella Grande guerra non sono certamente le stesse di chi combatte nella Seconda Guerra Mondiale, dove c’è movimento, dove in un’azione anche pericolosa rimangono percentuali significative di possibilità di sopravvivere: nella Prima Guerra Mondiale si è pressoché sempre impegnati in azioni di assalto frontale dove le probabilità di morire sono altissime, dove si va all’attacco ubriachi o quasi. Non a caso l’indicatore che fa capire ai soldati che il giorno dopo ci sarà l’assalto è l’arrivo dei barilotti di cordiale in Italia e di rhum in Germania. I racconti di Emilio Lussu e di Remarque da questo punto di vista sono assolutamente

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identici: se arrivano i barilotti di alcol vuol dire che all’indomani si deve essere un po’ storditi per andare all’assalto. Ma se il rhum non basta, se qualcuno torna indietro, ecco i carabinieri in agguato. La funzione dei carabinieri e della polizia militare è quella di stare nelle trincee e sparare insieme agli ufficiali contro quelli che tornano indietro, che si nascondono o che non vanno avanti. Queste sono le condizioni della Prima Guerra Mondiale, quelle che in Addio alle armi racconta Hemingway, che pure era in qualche modo un osservatore esterno, un soldato americano legato all’esercito italiano sul fronte di Caporetto.

La corte marziale al lavoro C’è poi il tribunale militare. Nella prima guerra mondiale su oltre 5 milioni di uomini 800mila vengono denunciati al tribunale militare. In realtà verranno celebrati solo 400mila processi, perché gli altri finiranno in prescrizione dopo la fine della guerra, ma intanto quasi 750 condanne a morte verranno eseguite e un altro migliaio saranno commutate in pene detentive. A questi numeri vanno aggiunti i casi di condanne a morte di cui non si ha contezza: per esempio nella ritirata di Caporetto ci sono diverse testimonianze di ufficiali che mettono al muro i soldati per cercare di tenere insieme i reparti e bloccare l’emorragia della ritirata, ci sono le esecuzioni sommarie come nel caso della Brigata Catanzaro, l’episodio forse più clamoroso ma non certo unico, quando un intero reparto si rifiuta di andare all’assalto collettivamente. Gli ufficiali mettono in riga i soldati, si procede al rituale macabro della decimazione e li si fucila come monito per tutti gli altri. Insomma: di fronte alla disciplina militare ferrea che contraddistingue quegli anni di guerra la diserzione diventa l’autodifesa del soldato. Si immagini cosa voleva dire per un giovane stare sul fronte dell’Isonzo per un anno intero, poi tornare a casa in licenza e dopo tre settimane dover ripartire per tornare in quell’inferno… Finisce per suscitare stupore che il numero di diserzioni non sia stato superiore a quelle che si sono verificate.

Uno sguardo complessivo, al di là di ogni retorica La Prima Guerra Mondiale quindi è un fenomeno complesso, difficile da valutare nel suo insieme. Certo va sottolineato come abbia contribuito a creare la società di massa in un momento estremo e come abbia insegnato a rappresentare l’esperienza della guerra in modo tale da permettere il controllo delle masse con la seduzione della rassicurazione. È una lezione che in seguito è stata appresa molto bene, se pensiamo a come la televisione ha rappresentato in anni recenti la Prima Guerra del Golfo, quella di Bush padre, la prima guerra trasmessa in telecronaca diretta. Si vedevano gli aerei partire dalle portaerei americane in uno splendore di luci, di tecnologia, di lucentezza, di pulizia e di rigore tecnologico. Poi si vedevano i fuochi d’artificio

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su Baghdad: erano bombe che cadevano, ma sembrava davvero uno spettacolo pirotecnico. Non si vedeva cosa capitava al suolo: era un modo per spostare la guerra dal dramma alla esaltazione della tecnologia e alla spettacolarizzazione pirotecnica.

Oggi forse le cose sono cambiate perché con il Web in qualche modo la guerra si è democratizzata. Chi subisce un bombardamento può con il suo telefonino riprendere il dramma di chi è stato ucciso dalle bombe e farlo circolare in mondovisione: non c’è più il filtro della censura che blocchi la circolazione delle notizie.

Nella Prima Guerra Mondiale i filtri erano strettissimi: al fronte – e per fronte si deve intendere l’Alto comando di Udine, non certo la prima linea – erano ammessi otto giornalisti, ai quali veniva dato ogni sera il resoconto delle operazioni, quelli che poi comparivano sui giornali. C’era un apposito ufficio fotografico dell’esercito che selezionava e distribuiva le fotografie che voleva far circolare, valutando con molta attenzione le immagini riprese.

Lo Stato esprime un enorme sforzo di controllo e di indirizzo dell’opinione pubblica che sarà poi ripreso ed esaltato nel ventennio successivo dalla propaganda fascista, ma i cui germi sono lì. Mussolini ha avuto l’intuito di capire – primo in Europa – che dopo la Prima Guerra Mondiale chiunque volesse imporre un regime autoritario non poteva usare soltanto la repressione e la violenza, ma doveva sedurre l’opinione pubblica. Ha così messo in campo un modello di totalitarismo che prevede da un lato la repressione e dall’altro il controllo della formazione delle masse attraverso la scuola e il controllo dell’informazione attraverso la radio e il cinema. Ma questo modello altro non è che una rielaborazione conseguente alla esperienza della Prima Guerra Mondiale.

La Prima Guerra Mondiale risulta quindi essere una prima esperienza di controllo dell’opinione pubblica e di unificazione del paese attraverso i due strumenti della repressione e della seduzione propagandistica. A questo scopo risultava necessario nascondere attraverso la censura tutti gli episodi di insubordinazione, di protesta e di ribellione che si verificavano al fronte, ma non solo. Nell’agosto del ‘17, ad esempio, ci fu a Torino una clamorosa manifestazione di protesta contro la compressione dei consumi imposta dalla guerra, contro il caro del pane e contro la mancanza di generi alimentari che ha portato a erigere barricate e ha provocato una cinquantina di morti in pochi giorni. Ovviamente di questo drammatico episodio durante la guerra i giornali non hanno mai parlato. Se ne è poi fatto qualche cenno nel primo dopoguerra, per smettere nuovamente di parlarne dopo il ’22, per cui ciò che si sa di quegli avvenimenti è frutto delle ricerche fatte dopo il 1945.

Sono state notizie represse rapidamente, che non hanno avuto modo di diffondersi nel resto del Paese.

Poi c’è stata la disfatta di Caporetto che poco dopo ha

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raccolto il paese intorno all’idea di resistenza, quella che ha impedito in qualche modo all’Italia di uscire dal conflitto anticipatamente. Perché ciò che ha determinato l’esito della Guerra non sono state le vittorie sul campo, quanto piuttosto il fatto che la Germania e l’Austria siano implose prima dell’Italia, della Francia e della Gran Bretagna. Ad essersi rivelate determinanti per l’esito della guerra sono state le rivoluzioni a Budapest, a Vienna e a Berlino che hanno cacciato gli Hohenzollern e gli Asburgo, dando vita successivamente a nuove Repubbliche autonome. Quei Paesi sono scoppiati dall’interno, provocando come conseguenza il disfacimento dei loro eserciti.

Il bollettino della vittoria scritto da Armando Diaz, quello che molti comuni offrono nelle lapidi affisse alle facciate dei municipi, e che recita “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”, da un lato è realistico perché descrive proprio ciò che è accaduto, nel senso che davvero l’esercito austriaco ha percorso a ritroso “in disordine e senza speranza” le vallate che aveva disceso con orgoglio. Dall’altro dice che l’esito

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di quella sconfitta non è soltanto merito dell’esercito italiano e degli altri eserciti occidentali, ma anche dell’implosione della Germania e dell’Austria che sono costrette a cedere per prime perché non hanno i rinforzi e i finanziamenti che l’Occidente invece ha ricevuto con l’intervento degli Stati Uniti d’America nel 1917.

Gigi Garelli (gigi.garelli@gmail.com)

Raccontare di un’altra Palestina Martedì 10 luglio - alle ore 18 - presso il Seminario di Cuneo

Amedeo Cottino già docente di Sociologia del diritto all’Università di Torino, presenta - Braking the silence (a cura di), La nostra cruda logica, Roma, Donzelli, 2012; - P. Kidron (a cura di), Meglio carcerati che carcerieri, Roma, Manifesto libri 2003.

“Due libri preziosi che raccontano di un’altra Palestina. Non quella del governo israeliano, non quella dei nostri media. E le voci sono dei soldati nei territori occupati, sono le voci degli obiettori di coscienza. Israele esercita dal 1948 una forma particolare di colonialism, il colonialismo di insediamento, che, a differenza del colonialismo tradizionale, ha l’obiettivo di sostituire i nativi con comunità esogene portatrici di un’istanza esclusiva di sovranità, e conferisce pertanto alla logica dell’eliminazione dei nativi il primato sulla logica dello sfruttamento. Ricordo, per inciso, che non siamo di fronte ad una ‘innovazione’, ché questa spoliazione l’hanno subita molte popolazioni autoctone a cominciare dalle popolazioni indigene dell’America latina, dai nativi americani, dagli aborigeni australiani e la lista potrebbe essere anche più lunga. Contesti in cui alla logica dello sfruttamento si è per l’appunto sostituita la logica dell’eliminazione. Una logica che può assumere forme diverse: dall’eliminazione fisica all’assimilazione biologica e culturale. Nel caso dell’Australia ad esempio, l’eliminazione fisica dei nativi si è combinata con il genocidio culturale attraverso le rimozioni forzate di migliaia di bambini australiani mezzo-sangue, sradicati dalle loro terre e separati dai loro familiari, che hanno inferto un durissimo colpo non solo alla sopravvivenza di questi popoli ma anche alla continuazione della loro discendenza e cultura. Ora, senza questo quadro di fondo, risultano totalmente incomprensibili i comportamenti non umani (è il linguaggio di un rapporto dell’ONU) denunciati dai soldati nei territori occupati e, specularmente, il rifiuto di commettere quelle violenze da parte degli obiettori. Siamo infatti di fronte a violenze sistematiche e arbitrarie che non possono essere spiegate se non nella misura in cui sono ricondotte al tipo di rapporto coloniale che si è instaurato tra l’occupante israeliano e la popolazione autoctona.”

Amedeo Cottino