Sacra spada della giustizia

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SACRA SPADA DELLA GIUSTIZIA TINA ROŽAC

Illustrazioni: Matija Cipurić

Dalle nostre parti, tra le nostre genti, nessuno sa esattamente dove, si trova una grotta segreta. Tanto tempo fa, quando il mondo era ancora freddo e disabitato, senza ancora nessun essere vivente ad abitarlo, in questa grotta si incontrarono il Dio del Cielo e la Dea della Terra. La terra tremò e, sopra di loro, si disegnò un arcobaleno, simbolo dell’amore puro che legava il cielo e la terra.

I due dèi deposero nella grotta una bambina e un bambino. Da allora il genere umano iniziò a popolare tutto il mondo e i nostri antenati, in segno di ringraziamento, costruirono nella grotta un santuario dove ogni anno, al solstizio d’estate, quando il giorno è più lungo, offrivano in dono al Dio del Cielo e alla Dea della Terra le cose più preziose.

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Nella grotta si radunavano i sacerdoti e le sacerdotesse, per assorbire l’energia spirituale, per questo decorarono le pareti con figure di cervi, orsi, cinghiali e altri animali selvatici. Attorno alla grotta costruirono un muro, e poi lo cinsero con un altro muro. All’interno delle mura, protette dal mondo esterno, eressero alcune case, fondando così il primo insediamento. Gli diedero il nome castelliere. I due dèi erano molto orgogliosi delle creature che avevano messo al mondo.

L’essere umano, tuttavia, non sarebbe umano se non andasse a cercarsi qualche sventura.

Quando, molto tempo dopo, nel castelliere venne alla luce una coppia di gemelli, i genitori li allevarono in modo tale che crescessero come rivali. All’arrivo dell’estate i castellani, quotidianamente distratti dai loro continui litigi, si dimenticarono di andare nella grotta sacra per offrire i doni agli dèi. Si erano dimenticati di quanto fossero felici e al sicuro, e dimenticarono di ringraziare gli dèi per aver dato loro la vita. Scatenarono così l’implacabile ira del Dio del Cielo. Il dio si presentò davanti alla madre e al padre dei gemelli e tuonò con voce possente:

“Distruggerò tutto ciò che vi ho donato, ingrati! Ridurrò il vostro castelliere in polvere, seppellirò le mura e vi lascerò soltanto la grotta a imperitura memoria. Poiché siete comunque mie creature, troverò una goccia di pietà per voi. I vostri due figli riceveranno un castelliere ciascuno. Il primo sarà il Castelliere del Cervo, il secondo il Castelliere dell’Orso. I due fratelli – così come gli abitanti dei due castellieri – saranno condannati a vivere per sempre nell’odio e non si vedranno mai più.

La grotta sacra, da oggi in poi, sarà conosciuta come la Grotta del Serpente. Tenetevi pure i vostri doni e le vostre cose preziose, nella grotta potrà entrare soltanto chi ne avrà il coraggio! Al suo interno, infatti, li attenderà la spada della giustizia che giudicherà ogni visitatore secondo il mio volere! Notte e giorno, gli farà la guardia un terribile serpente, mio servitore.”

Da allora la Grotta del Serpente rimase vuota e senza proprietario, nessuno osava più varcare la sua soglia.

Il Castelliere dell’Orso e del Cervo rimasero per molti anni uno accanto all’altro, pervasi d’odio, di rabbia e di silenzio. I castellani non si conoscevano tra loro, ma sapevano che i loro vicini li odiavano e l’odio era corrisposto.

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Un giorno, nel Castelliere dell’Orso, nacque Aviko, unico figlio del grande capo Magaplo e di sua moglie Oplika. Aviko non era un bambino come tutti gli altri. Quando nacque, il giovane capo Magaplo annunciò orgoglioso ai membri della sua communità:

“Per tre giorni e tre notti festeggeremo l’arrivo del nostro successore. I nostri antenati ci hanno ordinato di chiamarlo Aviko, perché il bambino è nato con un occhio soprannaturale, marrone nella metà inferiore e colorato nella metà superiore, come se qualcuno avesse disegnato sull’occhio castano del fanciullo un meraviglioso arcobaleno. L’arcobaleno è simbolo di pietà divina che dona la pace.”

Nel Castelliere dell’Orso si festeggiò tutta la notte, con canti e balli, accompagnandosi con le note della lira e il ritmo dei tamburi. Il banchetto era così sontuoso da far venire l’acquolina in bocca a solo guardarlo. Dai piatti di ceramica si alzava l’inebriante profumo della zuppa, seguita da un appetitoso arrosto di selvaggina con polenta di grano saraceno, per concludere e addolcirsi il palato vennero servite deliziose mele cotogne al miele dei paesi del sud.

La gioia e la felicità di quella notte sembravano non dovessero finire mai, ma il mattino seguente accadde qualcosa che nessuno degli abitanti del castelliere si sarebbe mai aspettato.

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“Compagnia, andiamo a caccia,” annunciò l’orgoglioso padre Magapl, per procurarsi la carne per un altro banchetto. Stanchi della cavalcata, giunti al confine del loro territorio, si imbatterono in Fervaloko, il capo del vicino Castelliere del Cervo. Il capo, segaligno e dai capelli neri, non era particolarmente arguto, tanto meno forte, ma avrebbe dato la sua stessa vita per mantenere il potere nel suo castelliere. Poiché non era particolarmente amato, cercava un modo per suscitare l’ammirazione della sua gente e affermare la sua supremazia di “primo fra eguali”. Per questo, tempo prima, aveva stretto un patto con un truffatore di nome Volto: in cambio dell’aiuto di quest’ultimo, il capo aveva promesso in sposa al truffatore la sua giovane e innocente figlia Dita. Quel giorno Magaplo e Fervaloko s’incontrarono –come se fosse scritto nel loro destino – proprio davanti alla Grotta del Serpente, di cui nessuno, da secoli, aveva più avuto il coraggio di impossessarsi. Tutti avevano infatti sentito raccontare che al suo interno c’era un serpente che custodiva gelosamente la spada di bronzo del Dio del Cielo. Fervaloko si fermò un istante e pensò.

“Perché tutti evitano questa grotta? La spada dell’iroso Dio del Cielo è soltanto una spada, che cosa potrà mai fare? Se mi impossesserò della grotta, accrescerò il mio potere. E la spada… se riuscirò ad impugnarla, taglierò la testa al serpente e dimostrerò a tutti, con questo gesto, la mia forza. Il Castelliere del Cervo sarà davvero mio e guadagnerò finalmente la stima di tutti i castellani.”

Gli venne improvvisamente un’idea ed esclamò:

“Magapl, ascolta!”

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Tutti i presenti erano piuttosto spazientiti, ma l’annuncio di Fervaloko arrivò come un fulmine a ciel sereno: “Ti sfido a duello. Corpo a corpo. Con la spada. Il vincitore si aggiudicherà la Grotta del Serpente. In guardia!”

“Calma, calma! Non dirai sul serio?! La Grotta del Serpente non appartiene a nessuno,” rispose Magaplo con convinzione.

“Proprio per questo. Non è un vero peccato?” rispose sarcasticamente Fervaloko.

“Ma che cosa ti viene in mente? Pensa all’ira divina che si abbatterebbe su di noi!”

“Io non ho paura. Sono vecchie storielle a cui nessuno crede più. Anzi… ora che ci penso… probabilmente non hai coraggio di entrare nella grotta. Quindi sarà mia in ogni caso.”

Queste parole colpirono nel segno, tanto che Magaplo non riuscì a trattenere la sua rabbia: “La grotta non sarà mai tua!” gridò adirato. Magaplo, accecato dall’odio, impugnò la spada.

Il combattivo Fervaloko prese la palla al balzo e sfruttò quel gesto impulsivo per sguainare a sua volta la spada e dare inizio al duello, proprio come aveva voluto.

Fervaloko attaccava con rapidità e coraggio, ma la sua forza e la sua agilità erano nettamente inferiori a quelle dell’avversario. Il capo del Castelliere del Cervo disponeva però di un’arma segreta: Volto. Il furfante aveva infatti fatto un cenno a Fervaloko e si era nascosto dietro a una roccia. Fervaloko non sapeva esattamente che cos’avesse escogitato, sapeva solo che avrebbe dovuto avvicinarsi a lui, quindi iniziò in qualche modo a spostarsi verso la roccia. Magaplo, con abili mosse della spada, l’aveva rapidamente spinto verso la fredda roccia, quasi immobilizzandolo. Durante il duello, i due si muovevano in cerchio, come se fosse una specie di danza. Fervaloko era ormai allo stremo e aspettava con ansia l’aiuto di Volto. Lo stridore delle lame che si incrociavano con furore stava terrorizzando tutti i presenti, soltanto Volto restava impassibile. I due, infine, si trovarono accanto alla roccia, nascosta alla vista dei presenti dai loro stessi corpi. Volto colse l’occasione al volo, balzò dalla roccia, estrasse il suo lungo coltello dal fodero e colpì Magaplo alla schiena, così rapidamente che nessuno, all’infuori di Fervaloko, si accorse di nulla. Magaplo si accasciò e Fervaloko, visibilmente in difficoltà fino a un attimo prima, gli saltò addosso con decisione.

Gli amici di Magaplo trattennero il fiato. Magaplo era immobile. “L’ho battuto,” annunciò trionfante Fervaloko. “La Grotta del Serpente è nostra!”

Fervaloko si diresse verso l’ingresso della grotta ma, nello stesso istante, il cielo si oscurò e iniziarono ad abbattersi fulmini così potenti che occhio umano non ne aveva mai visti di così violenti. Fervaloko allora si ritirò: “Andiamo, presto! Torniamo tutti al Castelliere del Cervo!”

Si diede alla fuga più velocemente che poteva, seguito dai suoi compagni. “Ci vendicheremo!” urlò uno degli amici di Magaplo. Colti dalla disperazione, si raccolsero tutti attorno al loro capo morente e, unendo le loro forze, lo sollevarono e lo portarono verso il Castelliere dell’Orso.

Prima di esalare il suo ultimo respiro fra atroci sofferenze, Magaplo raccolse tutte le sue energie e sussurrò: “È stato un inganno. Un furfante, suo amico, mi ha accoltellato alla schiena.”

Ormai non era più importante sapere chi avesse davvero ucciso il capo. Gli abitanti dei due castellieri vicini erano in guerra aperta tra loro. Il Castelliere dell’Orso aspettava pazientemente che il nuovo capo, Aviko, crescesse e vendicasse la morte di suo padre. Oplika, dopo il funerale del marito, si chiuse in un eterno lutto, ma la vita, nonostante tutto, andava avanti e in un batter d’occhio Aviko stava già correndo nei prati.

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Un mattino d’estate, al risveglio, il piccolo Aviko fu illuminato dalla calda luce del sole che entrava dalla porta. Tra le palpebre ancora socchiuse e assonnate dei suoi occhi marroni e arcobaleno, vide con sorpresa che sull’uscio c’era sua madre.

“Andiamo?” gli disse indicando con un sorriso la pianura che si estendeva verso le montagne all’orizzonte, dove si ergevano maestosi i castellieri lontani.

Il bambino non si fece pregare. Corse verso la madre e la tirò per la gonna. La luce del mattino disegnava le lunghe ombre delle alte mura interne che, a forma di semicerchio, proteggevano il Castelliere dell’Orso. Per percorrerle tutte, intorno intorno, si sarebbero dovuti compiere almeno mille passi d’orso. Alle due estremità, le mura finivano proprio su uno strapiombo, cosicché il castelliere era ben protetto da briganti, ladri e nemici.

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Uno dei due passaggi – la porta grande – era sorvegliato da due forti giovani. “Buongiorno, signora e signorino,” li salutò una delle due guardie con voce profonda e aprì loro la cigolante porta di legno massiccio. “Buongiorno,” risposero all’unisono e uscirono, attraversando il campo di grano disseminato di papaveri rossi, fino a raggiungere la seconda cinta di mura che si ergeva attorno alla prima, verso il bosco. Dopo il cordiale saluto della guardia, cigolarono sui cardini anche le porte delle mura esterne e i due si inoltrarono nel bosco, ognuno alla ricerca di ciò che desiderava: il bambino cercava fragole, funghi e chiocciole, la madre miele e uova d’uccello.

Il mattino d’estate si tramutò in giorno. Il piccolo Aviko e la vedova Oplika, dopo aver trascorso diverse ore a raccogliere frutti, foglie e radici, giunsero per la prima volta da quando era nato Aviko fino al confine del castelliere e si sedettero per riposare. “Vedi, Aviko,” gli disse la madre indicando col dito, dopo un breve silenzio, “là, a metà strada tra la grande quercia e il pino inclinato, si cela l’ingresso alla Grotta del Serpente. Là, caro Aviko, tuo padre, il potente capo Magaplo, ha perso eroicamente la vita in duello per difendere il Castelliere dell’Orso. Guarda, questo è tutto ciò che mi rimane di lui,” sussurrò Oplika all’orecchio del figlio, allacciandogli attorno al collo un amuleto a forma di cane. “Fervaloko, il capo del Castelliere del Cervo, si è impossessato, con un imbroglio, della Grotta del Serpente. Ma ho sentito dire che, fino ad oggi, nessuno di loro ha ancora trovato il coraggio di entrarvi. Tu, Aviko, sarai il capo in cui tutti gli abitanti del castelliere ripongono le loro speranze. Tu vendicherai la morte di tuo padre, quando il serpente ti inviterà ad entrare nella grotta.”

Il piccolo Aviko ascoltava le parole della madre a bocca aperta, tuttavia senza capirne appieno il senso.

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Quel giorno non aveva avuto molta fortuna nella raccolta. Nel suo grande cesto – che gli arrivava alle ginocchia e anche oltre – aveva infatti raccolto soltanto alcune uova di quaglia che era riuscito a scovare in qualche nido. Sulla strada del ritorno verso casa, riusciva a stento a sopportare il brontolio dello stomaco affamato. Ma come aveva fatto a dimenticarsene… le fragole! Le prime fragole dell’anno. Erano così dolci e ce n’erano così tante che avrebbe potuto mangiarne fino a saziarsi. Con la bocca tutta sporca di rosso, alzò la testa e vide davanti a sé un enorme cinghiale.

“Mammaaaaa,” gridò disperato, restando impietrito dov’era. Oplika si lanciò verso il figlio, frapponendosi fra il bambino e la bestia. “Corri, Aviko, corriiii!” Aviko non se lo fece ripetere due volte. Si precipitò terrorizzato nel cuore del bosco.

Corse e corse, in lacrime, girando in tondo, con quanta forza aveva nelle gambe, finché non iniziò a farsi sera. Allora, disperato, si ritrovò di nuovo davanti alla grotta. Corse dentro stringendo forte l’amuleto a forma di cane che gli aveva regalato sua madre. Se fosse stata lì, l’avrebbe sicuramente riscaldato e gli avrebbe cantato una canzone. Ma non c’era. Tremante, si adagiò sulla fredda roccia e, a tarda notte, si addormentò. Il serpente, vedendo il bambino addormentato, non fece nulla, semplicemente si avvolse in strette spire e restò a guardare.

Stavolta non lo svegliò un raggio di sole, ma una canzone allegra. “Mammaaa!” esclamò felice. Non era sua madre. Davanti alla grotta vide invece una bambina dai capelli scuri.

“Chi sei?”

“Iko,” le rispose il bambino.

Aveva poco più di due anni all’epoca, per questo non sapeva ancora pronunciare bene il suo nome.

“Di dove sei?”

Fece spallucce.

“Ma sai parlare?”

La guardò stranito.

Aveva solo due anni più di lui, ma conosceva già tutti i sentieri. “Mi chiamo Dita.” Il suo sorriso luminoso lo conquistò. La bambina lo prese per mano e lo condusse a casa sua. Camminarono a lungo nel bosco ombroso. All’improvviso gli alberi si diradarono. Ancora qualche passo… e uscirono del tutto dalla vegetazione. Il bambino restò senza parole dallo stupore. Davanti a loro sorgeva una verde collina in cima alla quale si ergeva un castelliere, illuminato da una magica luce, attorniato da due cinte di mura, all’interno delle quali pascolavano greggi di pecore e capre. Aviko non si era mai spinto così lontano da solo senza la madre, ma in un istante fu come se si sentisse a casa.

“Vedi, Iko, qui abito io. Questo è il Castelliere del Cervo,” gli spiegò Dita.

La madre di Dita, Galga, stava filando la lana quando, alzando gli occhi, vide che sull’uscio della casa non c’era solo sua figlia, ma c’era anche un altro bambino.

“Chi è, Dita?”

“L’ho trovato nel bosco. Si chiama Iko. Parla a malapena.”

“Povero bambino, si dev’essere perso. Puoi restare da noi, Iko,” gli disse dolcemente Galga. Gli versò un mestolo pieno di zuppa, che aveva preparato con legumi, cereali e erbe aromatiche. Così Iko, con il piatto pieno di zuppa fumante e i dolci sorrisi di Dita, dimenticò le sue paure. Anzi, si sentì pervaso da un senso di sicurezza: si sentiva a casa.

Gli anni trascorsero veloci e Aviko crebbe, diventando un ragazzo amabile e generoso, ma non meno determinato, coraggioso, scaltro e indipendente. Alto e forte, con lucenti boccoli castani e occhi marroni con riflessi d’arcobaleno, attirava facilmente l’attenzione delle ragazze, nonostante non fosse il più bello, ma sicuramente era considerato il più temerario. Se pensiamo poi al suo spiccato senso dell’umorismo e alla disponibilità ad ascoltare e aiutare gli altri, non stupisce il fatto che fosse molto amato dagli abitanti del castelliere. Da tutti, fatta eccezione per il padre di Dita, Fervaloko.

Sì, proprio quel Fervaloko che, pochi giorni dopo la nascita di Aviko, aveva ucciso suo padre. Il bambino dapprima cercò di conquistarsi la sua stima, ma Fervaloko non perdeva occasione per mortificarlo, quasi come se sapesse chi era.

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Il suo atteggiamento negativo nei confronti del ragazzo faceva soffrire anche Dita. Nonostante volesse bene al padre, quando si scontravano lei prendeva spesso le parti dell’amico. La sua simpatia per il padre si incrinò definitivamente quando lui, un pomeriggio, le disse: “Figlia mia, oggi è il tuo giorno fortunato. Molti anni fa, ho promesso la tua mano al mio più fedele amico, Volto. Oggi hai raggiunto l’età giusta per apprendere questa felice notizia.” Dita riuscì solo con estrema fatica a mandare giù il nodo che le serrava la gola al pensiero di dover passare il resto dei suoi giorni con quel vecchio avaro. I suoi pensieri si trasformarono in un vero inferno. Trovò consolazione soltanto in compagnia dell’amico Iko che, proprio quella sera, stava aspettando insieme ai suoi amici di affrontare la cerimonia di passaggio all’età adulta.

Tutta la comunità si riunì al centro del castelliere. Da una parte c’era Aviko, dall’altra il sacerdote del castelliere con il volto dipinto di rosso e un abito da cerimonia colorato. Lungo il percorso che Aviko doveva percorrere tra la folla si alzavano canti e voci giocose. A testa alta, il ragazzo superò con facilità le varie prove: camminare sui carboni ardenti, tenere immersa la testa nell’acqua e lanciare il giavellotto. Entrò così a pieno titolo a far parte del mondo degli adulti. Assunse l’obbligo di difendere il proprio castelliere e ricevette il permesso di commerciare con i castellieri vicini e lontani, nonché di cavalcare cavalli e muli.

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Da quel giorno iniziò a recarsi un paio di volte alla settimana sulla costa, dove vendeva pelli, uova, miele, carne, erbe e altri prodotti che sapere trovare e fabbricare da solo. Grazie al baratto, qualche volta riusciva a concedersi qualche bene di lusso, come il sale marino, che scambiava poi con qualche stoviglia, qualche abito di lana e qualche zappa di bronzo. Mostrò con orgoglio le sue ricchezze anche a Dita: “Domani mattina presto vado sulla costa. Là scambierò tutto questo con almeno una dozzina di perle.”

“Posso venire con te?” gli chiese senza pensare la ragazza, “dirò a tutti che vado a raccogliere radici di genziana.”

“Sulla strada verso il mare cresce la genziana, potrai raccoglierne un bel po’ e nessuno penserà che sei stata con me,” rispose entusiasta Aviko. La richiesta di Dita gli aveva fatto sobbalzare il cuore.

Prima che sorgesse l’alba si stavano già dirigendo verso l’ignoto. Il sentiero buio li spingeva a stare vicini. Ogni rumore avrebbe potuto essere una belva feroce, ma insieme si sentivano più forti che mai. Dopo alcune ore di cammino iniziarono a vedere da lontano il mare e, affacciato alla costa, un imponente castelliere con tre cinte di mura. Gli occhi di Dita seguivano attentamente le colonne di piccoli puntini che si muovevano: erano i portatori di sale che trasportavano i cesti dalle saline dove, in grandi recipienti di bronzo, riscaldavano l’acqua di mare per ottenere il sale. “Non ho mai visto nulla di simile,” esclamò Dita. Passarono a cuor leggero accanto alla guardia, visto che tutte le guardie conoscevano già Aviko.

Varcate le ultime porte, agli occhi di Dita si aprì un mondo mai visto. Sulla sommità del castelliere vide la maestosa quercia, colpita dal fulmine ma sempre viva. Dai rami della quercia pendevano neri teschi di lince, attorno al tronco era avvolta una lunghissima collana di becchi di gabbiano colorati che fissava alla corteccia dell’albero dei carapaci di tartaruga decorati: erano giunti al Castelliere della Tartaruga. Nel vivace mercatino al centro del castelliere erano in vendita cibi prelibati e oggetti preziosi che nessuno di loro avrebbe mai potuto neanche sognare. Sorprendentemente Dita non si soffermò a guardare gli abiti eleganti e di pregiata fattura, né i vasi decorati ad arte, ma si fermò ad ammirare i gioielli di bronzo. Non riusciva a staccare gli occhi da tutte quelle spille, fermagli e fibbie, ma la sua attenzione fu attratta in particolare da una fibbia con un carro a tre cavalli. Anche Aviko se n’era accorto da lontano. Visto che aveva un buon senso degli affari, riuscì a vendere ben presto tutto per due dozzine di perle. Con metà delle perle poté finalmente acquistare un mulo, con l’altra metà comprò di nascosto la fibbia con la triga. Voleva fare una sorpresa alla ragazza che aveva segretamente nel cuore.

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Tornando verso casa, il sentiero li portò vicino alla Grotta del Serpente. “Qui è sempre così bello. Dai, fermiamoci un po’,” suggerì Aviko. La temperatura estiva era abbastanza piacevole da permettere loro di stendersi nell’erba davanti alla grotta, ad ammirare in silenzio il cielo stellato. Abbracciati stretti, si stavano quasi addormentando, quando il mulo improvvisamente si mise a ragliare. Sentirono giungere dal bosco delle voci sconosciute.

“Fermiamoci qui per la notte,” disse con voce roca il capo dei cavalieri.

“No! Non perdiamo tempo, attacchiamo subito, mentre stanno dormendo,” rispose uno dei suoi complici.

“Così mi hanno detto: dalla Grotta del Serpente partono due sentieri. Uno è rivolto verso la Stella Polare e porta al Castelliere del Cervo, l’altro, ad angolo retto, conduce invece al Castelliere dell’Orso. Siamo troppo pochi per attaccarli adesso. Aspettiamo fino a domani. Allora conquisteremo prima un castelliere e di notte attaccheremo l’altro!”

“Va bene, Hosti, faremo come dici.”

I due ragazzi non avevano coraggio neanche di respirare.

“Attaccheranno anche il nostro castelliere!”

“Dobbiamo dare l’allarme,” rispose Aviko.

Aspettarono in silenzio che il gruppo di cavalieri si addormentasse e iniziasse a russare, quindi si diressero rapidamente verso casa in groppa al mulo.

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Nel castelliere si creò un grande scompiglio, in pochi minuti tutti erano svegli e in piedi. Tutti tranne Fervaloko che non credeva a quelle “ragazzate” e decise di continuare a dormire. Fu allora che Aviko, raccolto tutto il suo coraggio, parlò da vero e proprio capo:

“Castellani, davanti alla Grotta del Serpente stanno dormendo alcuni cavalieri. Stanno per attaccarci. Questo è il loro piano, un piano che noi impediremo. Tuttavia non possiamo farcela da soli. Questi uomini vogliono distruggere non solo il nostro castelliere, ma anche il Castelliere dell’Orso.”

“I nostri nemici?” replicò la folla.

“Sì, i nostri nemici. Ma senza il loro aiuto non ce la faremo. Soltanto unendo le nostre forze potremo opporci allo spietato Hosti e alla sua truppa.”

Uno scosse la testa, un altro si soffermò a pensare, un altro ancora tremava.

“Non c’è altra possibilità. Se ci attaccano, ci ridurranno in polvere. Siamo troppo pochi. Siete con me?”

“Sì!”

“Bene, così è deciso! Mi metto subito in viaggio per avvertire il Castelliere dell’Orso. Lungo la strada controllerò quanto sono armati i cavalieri.”

Mentre Aviko si dirigeva verso la Grotta del Serpente, la luna apparve all’orizzonte, spuntando da dietro le nuvole. La sua luce raggiunse la spada che vi era custodita e dalla grotta uscì improvvisamente un sottile raggio luminoso. Il che non sfuggì ad Aviko, che osservava molto attento, e decise di entrare nella grotta. La luce della luna illuminava le figure rappresentate sulle pareti. Al centro della grotta vide l’imponente spada di bronzo, avvolta dalle spire del serpente, bianco come la luna. Il Dio del Cielo osservava con attenzione la scena e, non trovando nell’anima di Aviko alcuna traccia di cattiveria e odio, decise di dargli una possibilità e ordinò al serpente di spostarsi. Questa volta non si sarebbe adirato.

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Con la spada in mano, Aviko uscì rapidamente dalla grotta e si diresse verso il Castelliere dell’Orso. Tutti dormivano. Subito individuò la capanna del capo, che sorgeva in cima al castelliere e superava di gran lunga tutte le altre per ricchezza e lusso. Accanto alla casa apparve, nel chiarore della luna, un alto carpino, decorato con un nero teschio d’orso e avvolto da pelli di serpente intrecciate.

Entrato nella casa, con grande stupore non vide il signore del castelliere: davanti a lui c’era infatti una donna, con la spada in mano, e con una benda nera che le copriva metà viso.

“Ho sentito cigolare la porta. Chi sei?” gli chiese leggermente turbata, ma senza mostrare debolezza.

“Vengo dal Castelliere del Cervo. Un gruppo di cavalieri sta per attaccare noi e voi. Sono in troppi. Soltanto insieme possiamo farcela. La luna mi ha indicato la strada verso la spada di bronzo della Grotta del Serpente. Con l’aiuto della spada, saremo invincibili.”

“Perché dovrei crederti? È proprio a causa dell’avidità del vostro capo che mio marito ha perso la vita. Finché io, Oplika, sarò in vita, non potremo mai allearci con voi. Preferisco morire, o lasciar morire tutto il mio castelliere, piuttosto che guardare l’assassino di Magaplo negli occhi!”

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Oplika si scagliò allora contro Aviko urlando: “Assassini!” e lo prese per il collo, ma si fermò di colpo. Tra le mani riluceva l’amuleto. L’amuleto con il cane. L’amuleto di suo marito. L’amuleto che aveva regalato al figlio. All’improvviso, nella sua testa, rivisse tutta la storia.

“Fermo!”

Accese una torcia e lo guardò in volto. Nel suo occhio splendeva l’arcobaleno.

“Aviko! Il mio Aviko!” esclamò non riuscendo a trattenere la felicità.

“Aviko?”

“Ascolta. Dodici anni fa, io e mio figlio incontrammo un cinghiale nel bosco. Mi sacrificai per salvare la vita a mio figlio e, nonostante persi mezzo volto, riuscii a sconfiggere l’animale. Quando tornai al castelliere, mi salvai per miracolo da morte certa. Senza gli unguenti curativi e l’aiuto degli spiriti dei nostri antenati, non sarei sopravvissuta. Per questo divenni un’eroina e mi nominarono signora del castelliere. Tuttavia non riuscii a placare il mio dolore. Mio figlio, fuggito per scappare al cinghiale, non tornò più. Aveva al collo questo amuleto. E nel suo occhio splendeva l’arcobaleno. Non era più tornato. Fino ad ora.”

Gli occhi di Aviko si inumidirono di lacrime. I ricordi della sua infanzia spensierata erano stati cancellati dal tempo, ma il cuore non aveva dimenticato nulla. Sapeva che quella dinnanzi a lui era sua madre. Si gettò fra le sue braccia e le chiese aiuto.

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Oplika radunò tutti i suoi uomini. Insieme si diressero verso il Castelliere del Cervo.

I due castellieri unirono le forze, come se tutto si fosse rimesso a posto, e partirono pronti a combattere. Si avvicinarono alla truppa dormiente in perfetto silenzio, per poter osservare la situazione. Per primi arrivarono madre e figlio.

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Armati di asce, lance, pugnali, mazze e fionde, al segnale di Aviko aggredirono decisi i nemici che, addormentati e ancora senza forze, non riuscirono a difendersi. Appena prima dell’alba, giacevano tutti a terra immobili, mentre Oplika e Aviko, in piedi davanti alla Grotta del Serpente, agitavano in aria la spada della giustizia: “Vittoria!” urlarono a una sola voce.

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Ma invece dell’eco delle loro voci, udirono giungere dal cielo una solenne risposta: “Oplika, nobile eroina, e Aviko, giovane intrepido, sono io che vi parlo, il Dio del Cielo! Oggi mi avete reso felice. Avete riunito i due castellieri nemici, cancellando la mia secolare ira. Aviko, tieni la mia spada. Te la sei meritata, perché hai riappacificato i due castellieri. Ti donerà pace e amore e proteggerà i tuoi castellieri dai nemici.”

Si guardarono e Oplika gli ordinò: “Aviko, torna al Castelliere del Cervo. Lo guiderai con la spada della giustizia. Sappi che nel Castelliere del Cervo vive un truffatore che, con l’inganno, ha ucciso tuo padre. Poiché sei il figlio di Magapl, ti spetta anche il potere sul Castelliere dell’Orso. La tua gente aspettava da te la vendetta, ma le darai qualcosa di meglio: la giustizia. Che porterà con sé pace e amore.”

Mentre Fervaloko ancora dormiva, la truppa vittoriosa, capeggiata da Aviko, giunse dinnanzi alla sua porta.

“Fervaloko! Vieni fuori!” gli intimarono i castellani.

“Chi osa svegliarmi?!” rispose il capo con voce assonnata.

“Fervaloko, non vogliamo te!” gli rispose una voce d’uomo. “Vogliamo Iko!”

“Aviko. Il mio vero nome è Aviko.”

“Vogliamo Aviko!”

Aviko sollevò una mano e zittì la folla. “Fervaloko, nessuno ti vuole come capo. Hai deluso la tua gente. Vogliono che sia io a prendere il potere. Ma ho saputo che mio padre, Magaplo, è morto a causa tua. Perciò, se sarò io il capo, non ti voglio nel mio castelliere. Che cosa vuoi dire in tua difesa?”

“Niente di ciò che hai detto è vero. La verità la sappiamo soltanto io e… Volto!” disse indicando il complice.

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“Non ti crederei, Fervaloko, se nel Castelliere dell’Orso non avessi già sentito la verità. So che non sei stato tu a uccidere mio padre, come tutti avevano sempre creduto. È stato Volto, con un inganno, per poter avere Dita in sposa. Siete entrambi colpevoli della morte di mio padre! Per questo adesso bandisco entrambi!”

A queste parole, Fervaloko si gettò in ginocchio: “Aviko, no, non farlo! Ti prego, ti supplico in ginocchio, perdonami! Tutti i guadagni della mia terra d’ora in poi li verserò nella cassa comune. Lo prometto!”

Aviko rifletté per qualche istante e sentenziò: “Ebbene, sia come hai detto, Fervaloko. Se arriveranno tempi difficili, distribuirò tutti i tuoi guadagni fra i bisognosi. Ma finché i tempi saranno propizi, moltiplicherò i nostri guadagni con il commercio. Così sia. In questo modo contribuirai al benessere della comunità e ti riscatterai dalle tue malefatte. Portatemi dell’acqua,” ordinò a una guardia.

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“Grazie, mio signore,” rispose sollevato Fervaloko a capo chino. Il sacerdote gli versò sul capo l’acqua per purificarlo dal male. Volto non si fece attendere: si gettò in ginocchio davanti al capo, aprì la bocca, ma Aviko lo fermò: “Non ti ascolterò! Ne ho avuto abbastanza pietà per oggi! Via di qui, vattene!” Tentò di liberarsi in tutti i modi dalla stretta delle guardie, ma non poté sfuggire al suo destino. La decisione del capo era irrevocabile.

La storia di Aviko si sparse in tutto il Castelliere del Cervo in un battibaleno. La gente offrì in dono al suo nuovo signore le pelli più pregiate, la lana più morbida, il miglior vino greco e i manzi più forti. Ma la sorpresa più grande lo attendeva alla fine. Galga, che era stata la prima ad accoglierlo nella comunità, si decise finalmente a parlare. Per tutti quegli anni aveva temuto suo marito, ma ora sapeva che la maggioranza era dalla sua parte:

“Aviko, in segno di riconoscenza per aver salvato la nostra gente dalla distruzione, ti offro la mano di mia figlia Dita, se lei è d’accordo.” Dita rispose di sì con un cenno, imbarazzata e sorridente.

Quando scese la sera, Aviko aspettava Dita davanti alla porta e la condusse dietro l’angolo. Dalla tasca estrasse la fibbia con la triga di cavalli: “Questo è il mio regalo per te. Che ci porti serenità, forza ed eredi. Ti prometto che farò di tutto per la nostra felicità e per mantenere la pace fra i nostri due castellieri.”

Dopo una lunga attesa, finalmente era giunto il loro giorno. Sarà stato l’azzurro del cielo o forse il giallo del sole, ma non c’era alcun dubbio: sopra le loro teste apparve uno splendido arcobaleno. Le nozze durarono sette giorni e sette notti.

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Non si festeggiarono soltanto le nozze tra Dita e Aviko, ma anche la pace tra i due castellieri. Durante la cerimonia, ognuno distrusse la propria spada e la offrì in dono agli dèi, deponendola davanti alla Grotta del Serpente, per suggellare in tal modo la fedeltà e l’alleanza. Solo una spada restò intatta sulla Terra – la sacra spada della giustizia.

I nomi dei personaggi di questa storia erano usati dal popolo degli Istri che, nell’Età del Bronzo, abitavano gran parte del territorio dell’odierna Istria. Le spiegazioni dei nomi sono prese dall’opera di Mate Križman Rimska imena u Istri (1991)

(Zagabria: Biblioteka Latina et Graeca).

Aviko significa desiderato, amato. Il nome è stato trovato a Roč/Rozzo ed è una variante istriana del nome Avitus. La radice Avi deriva dal sanscrito ávih, col significato di propizio, analogamente si trova nei verbi, ad es. nel greco a(ω)ítas che significa amato.

Dita è colei che guarda, che vede. Il nome deriva dal nome Ditica. Dit- è la radice comune illiricomessapica, dall’indoeuropeo dheya-/dhi- “vedere, guardare”. L’iscrizione del nome Ditica è stata ritrovata a Buzet/Pinguente ed è verosimilmente un nome illirico.

Magaplo significa molto forte. Il nome di origine istro-veneta è composto da mag- che significa “molto” (illirico mega-, greco mag) e apl- che significa “forza” (antico nordico afl-).

Oplika significa forte. Il nome deriva dal nome veneto o istriano Oplus, dall’indoeuropeo *apelo che significa “forza”. La variante femminile Oplica (Oplika) è stata trovata a Cres/Cherso.

Fervaloko significa infuocato, arso. Nome veneto-illirico, trovato ad es. a Buzet/Pinguente, deriva dalla radice latina ferv-, che significa “ardere, bruciare”.

Galga significa riflessiva. Questo nome illirico è stato trovato ad es. a Pola e deriva dal nome Galgestes, dall’indoeuropeo *ghalgh-, che significa “riflettere seriamente”.

Volto è colui che vuole, che desidera. Il nome, trovato a Buzet/Pinguente e Labin/Albona, deriva probabilmente dal nome illirico Voltimesis, dall’indoeuropeo *wel-, che significa “augurarsi”.

Hosti è lo straniero, il nemico. Il nome deriva dall’indoeuropeo *ghostis col significato di “straniero”, e dal latino hostis, col significato di “nemico”. I nomi con radice host- sono spesso di origine celtico-illirica e sono strati trovati ad es. a Labin/Albona, Obrovac/Obrovazzo e Pola.

Il libro illustrato »Santa spada della giustizia«, dell’autorice Tina Rožac, è stato creato nell’ambito del progetto KAŠTELIR – Fortezze di colline preistoriche ed etnobotanica per il turismo sostenibile e lo sviluppo rurale - dal Carso (via Brkini, Čičarija e l’Istria) al Quarnero, co -finanziato nell’ambito del Programma di Cooperazione dell’ Unione Europea Interreg V-A Slovenia – Croazia.

Il contenuto di questa pubblicazione è in esclusiva responsabilità dell’editore e co-editori e non riflette in alcun modo le opinioni dell’ Unione Europea.

OPĆINA LANIŠĆE OBČINA KOMEN

Tina Rožac

SACRA SPADA DELLA GIUSTIZIA

Illustratore e co-progettazione grafica: Matija Cipurić

© 2020, Buča

Redatore: Darko Darovec

Traduttrice: Giulia Sandrin

Esperti consultati: Žiga Oman, Maša Sakara, Darko Darovec

Progetto grafico: Žiga Valetič

Stampa: Nonparel d. o. o.

Editore: Buča, d. o. o.

Kolarjeva ulica 47, 1000 Ljubljana

Per l’editore: Samo Vadnov

Committente: Comune di Isola

Co-editori, © partner del progetto KAŠTELIR: Comune di Komen – partner principale, Comune di Izola, Università di Maribor, Istituto IRRIS di ricerca, sviluppo, e strategie di società, cultura e ambiente, Regione istriana, Comune di Lanišće, Comune di Mošćenička Draga, Istituzione pubblica »Parco naturale Učka«

Prima e-edizione. La pubblicazione è disponibile gratuitamente sul sito: www.buca.si

Ljubljana, Izola, 2020

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o distribuita senza il permesso scritto dell'editore o dei co-editori.

Kataložni zapis o publikaciji (CIP) pripravili v Narodni in univerzitetni knjižnici v Ljubljani

COBISS.SI-ID=48436227

ISBN 978-961-7114-07-2 (pdf)

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