“Sensi” / Gerardo Di Fiore

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loro, darsi una svolta, una volta per sempre liberarsene? O voleva ribadirne la persistente appartenenza al presente e tributare loro l’omaggio anche di un tempo che tanto tempo fa aveva cercato di metterli in soffitta, pur se appropriandosene fin da subito a proprio uso e consumo e modificandone, talvolta appena appena, i connotati? In una scheda che descriveva l’idea della installazione trovo del resto che Di Fiore diceva: “Si uccide quello che si ama”. E infatti lì c’era semmai l’ironia da cui lui non può staccarsi, ma proprio nessuna irriverenza. Quelle di Gerardo Di Fiore erano sepolture “monumentali” – infatti avevano lapidi e nomi – e per giunta poste al centro di un edificio a sua volta monumentale e occupato da un celeberrimo istituto: un’invidiabile visibilità, se non un’apoteosi: non eravamo al cospetto di una replica di quell’affossamento degli dei greci e romani decretato da una cultura nuova e vincente; non era una sorta di damnatio memoriae da scontare in un’anonima fossa comune. Quei personaggi, in realtà, di qualche forma non religiosa di culto sono ancora evidentemente attrattori. Anche se le seppelliva, quelle creazioni dell’uomo ormai incapaci di prodigi e non più meritevoli di preghiere e sacrifici sono comunque energie inesaurite, metafore perfette per intendersi rapidamente, nomi istintivamente esclamati nelle più quotidiane occasioni, archetipiche entità di frequente attive tuttora in ogni linguaggio delle arti o nella filosofia, e infine

morti importanti e ingombranti e degni di stare al centro dell’attenzione e del grande atrio del Museo. Con la loro diffusa presenza facciamo ancora i conti: come appunto Di Fiore, che nel suo lungo percorso tante volte li ha chiesti in prestito a quell’immenso giacimento nel quale proprio non possono finalmente star quieti. Lui volente o nolente, forse allora quella installazione ci consegnava un messaggio lusinghiero per quei defunti protagonisti, che grazie a magnifiche prove artistiche e letterarie del tempo loro e di quelli successivi sono sopravvissuti, talvolta giganteggiando per brillante freschezza o struggente malinconia, ai logoramenti di una storia tanto lunga, e son ritenuti meritevoli ancora – in giorni che tutto sembrano minimizzare o divorare – di visite e rivisitazioni, casomai per imperfettissime citazioni o fertili tradimenti.

Gerardo, il cimitero di divinità per il Museo, creatura in bilico fra magniloquenza e fragilità che tu mi hai concesso di “curare”, è stato una bella (che resta un bell’aggettivo) opera di opere in gommapiuma, la instabile materia cui affidi il compito di sintetizzare un tempo incerto e precario, di dire nello stesso momento solennità e levità, di rappresentare le antiche forme e la necessità di deformarle, di manifestare il coraggio che certe tue opere d’arte non durino, almeno fisicamente, troppo a lungo.

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