
CeteraPierluca HABITAT


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Camilla Remondina
Habitat
Entrando nella galleria IAGA Contemporary Art siamo accolti da una famiglia seduta a tavola che, tra le chiacchiere per noi incomprensibili, attende il proprio pasto. Ci invitano ad entrare, al loro banchetto, e quasi sembrano dire “Fate come se foste a casa vostra”. Ma sono sinceri? Possiamo davvero comportarci come a casa? Non ne abbiamo la certezza, forse ci stanno chiedendo l’esatto contrario, ma noi, un po’ imbarazzati, ci accingiamo ad esplorare la loro attuale dimora.
Scopriamo così che altri Ospiti prima di noi si sono sentiti liberi di mettersi a proprio agio, forse anche troppo, prendendo alla lettera le parole dei padroni di casa. Sono assorti nelle proprie azioni, non si accorgono della nostra presenza e quasi viene spontaneo chiedere a loro il permesso di entrare, di disturbarli in un momento particolarmente intimo: qualcuno è rientrato dal lavoro e non vedeva l’ora di togliersi la camicia; qualcun altro si sveste dopo un appuntamento amoroso; qualcuno è già sotto la doccia; altri sono totalmente nudi e non sembrano vergognarsene né volersi coprire, perché, si sa, qualcuno nella propria abitazione fa così.
Gli Ospiti hanno affollato, reso vivo lo spazio, mentre di là, all’ingresso, i padroni di casa aspettano ancora l’Antipasto.
In occasione della sua prima personale in galleria, Pierluca Cetera (Taranto, 1969) propone il ciclo de Gli Ospiti, un progetto avviato nel 2013 e concepito per essere itinerante che però ad oggi aveva trovato “alloggio” una sola volta, nel 2017, a Casa Vuota (Roma), inaugurando lo spazio espositivo. Con questi lavori Cetera sottolinea quanto la frase fatta “Fa come fossi a casa tua” sia in realtà un modo per evidenziare il distacco e la gerarchia tra gli interlocutori, non ci troviamo a casa nostra e indirettamente ci stanno chiedendo di tenere un comportamento decoroso. Se le riflessioni riguardanti l’ospitalità senza condizioni e la sua utopica messa in pratica - la quale implicherebbe lasciare all’altro la propria casa - del filosofo Jacques Derrida dichiarano quanto sia importante intraprendere ugualmente questa strada “chiusa”, non percorribile affinché venga fatto qualche passo in avanti verso le altre culture e quindi la loro integrazione, l’artista risponde realizzando questa utopia. D’altronde la parola “ospite” in italiano viene usata per indicare sia chi accoglie che chi gode di questo trattamento, scambiando e confondendo chi è cosa. I suoi ospiti hanno concretamente preso possesso della galleria, non ce ne voglia il padrone di casa - Alberto Perobelli - che riavrà presto il suo spazio espositivo, e si comportano di conseguenza: è diventata a tutti gli effetti il loro Habitat.
Le figure esposte alle pareti sono dipinte ad olio su sagome di tela, ognuna di materiali e trame differenti, con piccole distinzioni anche nell’impiego
della tecnica pittorica. Tali diversificazioni permettono di creare una maggiore empatia nei confronti del gruppo grazie all’esaltazione dell’identità dei singoli: le tele sottili sono la pelle di queste persone; esse si mettono a nudo, metaforicamente e non solo, in un momento rubato di grande fragilità - come spesso vediamo ai telegiornali -, non sappiamo da dove provengono, hanno perso tutto e bisogna trovare loro un posto dove vivere e cominciare una nuova vita. Anche le forme delle tele, piegate, tagliate o incomplete, e le imperfezioni del disegno ci raccontano la loro unicità e precarietà.
La pelle è lo strato più superficiale dell’essere umano, ciò che lasciamo vedere e ci rende riconoscibili all’altro, può essere una barriera che ci protegge e separa dagli agenti esterni ma può essere anche “un sottile diaframma che si frappone tra due entità, una soglia liminale tra interno ed esterno, tra cose distinte. Così l’interno e l’esterno diventano due facce della stessa medaglia dove i cambiamenti di stato dell’uno hanno effetti sull’altro lato. Quindi anche la nostra pelle non è più unilateralmente una cosa che contiene i nostri organi interni, la nostra anima, le nostre viscere, ma è anche tutto quello su cui il mondo esterno preme e fa forza”, attraverso di essa si può dare origine ad un contatto.
La tecnica che accomuna queste opere si può identificare in una pittura sempre “alla prima” secondo cui l’artista agisce velocemente per non perdere mai quell’energia iniziale dell’atto creativo ricercata da Francis Bacon, uno dei suoi maestri; Cetera dipinge in piedi, fa passaggi fatti di slancio, con grande fervore, in cui i dettagli sono dati dalle sovrapposizioni di strati che fanno concettualmente tendere i corpi all’“iperrealismo”. Questo layering e le sue conseguenti imperfezioni rendono i soggetti unici e irreplicabili persino da parte del loro creatore. L’artista vuole alimentare l’imperfetto ricercando un equilibrio tra le parti: razionale e visionario, simmetrico e asimmetrico, pittura e scultura, questi sono i binomi che guidano la sua intera ricerca e la mantengono in una costante tensione compositiva. Le opere di Cetera si possono annoverare tra i bassorilievi scultorei, attraverso la superficie bidimensionale della tela stessa aspira alla tridimensionalità, non intesa come sfondamento prospettico della raffigurazione ma partendo da quelle riflessioni avviate dalla metà del Novecento da artisti quali Fontana, Manzoni, Bonalumi e Castellani, per citarne alcuni. Parlando di Manzoni, Gabriele Salvaterra ci ricorda che “La superficie stessa deve diventare campo di possibilità per sviluppare o almeno indicare quelli che per l’artista sono gli elementi fondanti dell’arte: significato illimitato, spazio totale, luce assoluta” e, più in generale, degli artisti attivi negli anni ’50-’60: il
loro vissuto “è una prova di questa tendenza a portare il ragionamento sulla superficie a un’estensione che non ha precedenti e che coinvolge l’intera realtà, spesso superando ampiamente ogni ristretta, seppur inesauribile, epidermide bidimensionale. […] Si taglia, si buca, si offende la tela per svelare una dimensione ulteriore, ma se non si riconosce la materialità di questo piano, nelle sue possibilità e costrizioni, non si potrebbe immaginare neppure il suo superamento”. Inoltre, la loro sospensione sulle pareti è un espediente per raggiungere un equilibrio tra pittura e scultura, infatti l’assenza di cornici e di forme geometricamente definite, che chiuderebbero il loro spazio vitale, permette l’interazione dei suoi soggetti con esso estendendo potenzialmente le opere all’infinito e conferendo al tutto il ruolo di installazione ambientale.
Questi personaggi sono in relazione allo sfondo, diverso a seconda della sede espositiva più o meno caratterizzante e della loro disposizione che potrebbe mutare durante il corso della singola mostra; come trasferellireminiscenze affettuose dell’infanzia dell’artista - interagiscono con l’ambiente che li circonda, compresi gli oggetti d’arredo presenti, così da creare composizioni e narrazioni sempre differenti. Possono essere affissi ovunque o forse, come persone senza dimora, da nessuna parte: fluttuano leggeri nello spazio, sospesi anche nel tempo, alcuni ci guardano direttamente, trasmettendoci le loro fragilità, altri chiudono gli occhi probabilmente per tutti i pensieri emersi per tormentarli o per un momento di preghiera e speranza per il proprio futuro. I loro volti segnati e freddi ci trasmettono tutt’altro che leggerezza.
Gli Ospiti rappresenta la prima serie su sagome di tela - successivamente la sperimentazione proseguirà su tavole di legno e differenti metalli - tali supporti permettono all’artista di concentrarsi sulla raffigurazione del corpo umano iscritto nel contorno della tela, riprendendo gli insegnamenti di Caravaggio e di Egon Schiele, piuttosto che sullo sfondo. La vitalità dell’opera apparentemente si esaurisce all’interno del suo perimetro, ma è proprio tale forma antropomorfa ad animare e conferire energia allo spazio.
Alcuni soggetti sono però inediti, alcuni ospiti che abitano la galleria sono diversi dalla prima occasione espositiva, come nel caso di Antipasto (2018), i quali identifichiamo con i padroni di casa. Figure di generazioni diverse, alcune delle quali non sono riconducibili allo stesso periodo storico stando allo stile dei loro vestiti, formano una famiglia riunita, qualcuno a testa in giù o “sdraiato” secondo quella che potrebbe essere la composizione spaziale nel disegno di un bambino, ad una tavola vuota disegnata direttamente a parete, bucata, che non può sorreggere nulla, ma loro non lo sanno e aspet-
tano che venga servito almeno l’antipasto, il quale rappresenta esso stesso l’attesa del vero banchetto. Attendono forse un cambiamento. Se loro, seri e composti, stanno seduti da soli in prima sala, entrando nella seconda e poi nella terza invece veniamo travolti dalla moltitudine di individui che le riempiono, mettendoci quasi in soggezione. La fruizione di tali opere implica una connessione, una relazione tra l’oggetto pittorico, l’osservatore e lo spazio che circonda entrambi. Al visitatore viene chiesto di relazionarsi a questi personaggi, volutamente presentati a grandezza naturale per renderli ancora più vivi e realistici, dove anche il non volerli guardare, l’imbarazzo è una forma di interazione ed attiva molte riflessioni. Come in un quadro specchiante di Pistoletto, siamo noi ad entrare nel loro spazio e a prendere parte all’“happening” in corso: riusciamo persino ad immaginarli muoversi e svolgere le proprie azioni.
Questi esseri umani portano nei loro bagagli storie frammentate che siamo invitati a ricucire individualmente. Attraverso la sonorizzazione realizzata ad hoc, ci vengono suggeriti i suoni caratteristici di una casa, familiari e rassicuranti, mentre, in contrasto, i dialoghi in differenti lingue si sovrappongono e si fondono, diventando indecifrabili, così da farci sentire estranei e sopraffatti: ci viene chiesto di uscire dal torpore delle nostre vite privilegiate, di fare un maggiore sforzo per comprendere i racconti altrui e di tendere la mano a chi non è ugualmente tutelato, nonostante sia difficile rinunciare alle nostre comodità.
Gli Ospiti ci offrono sovrapposizioni di significati e significanti che ciascuno di noi deve leggere sulla base della propria esperienza, trovando anche interpretazioni non previste dall’artista, il quale infatti ci invita a scavare dentro la nostra pelle, appoggiarla sulle sue figure per ragionare sul rapporto tra l’io e l’altro, tra l’essere ospite benvoluto o straniero, tra l’ospitalità con e senza condizioni di Derrida.
























Education
CV
Pierluca Cetera
Solo exhibitions
1998 – BFA in Visual Arts - Painting, at Accademia di Belle Arti di Bari, Bari, Italy
Lives and work in Gioia del Colle (BA) - Italy
2023 – “Sirene” a cura di Massimo Pamio, Museo Barbella di Chieti
2023 – “Refugium Peccatorum” installazione di Arte Integrata con Maurizio Di Feo, a cura di Roberto Lacarbonara, Rifugi Antiaerei Monopoli
2019 – “Dopamina” a cura di Francesco Sticchi, FANS di Maglie (Le)
2019 – “L’Ozio” a cura di Francesco Paolo Del Re, Museo Nuova Era, Bari
2018 - “Ti riguarda” a cura di Monica Demattè, Meicheng Gallery, Shenzhen
2017 – “gli Ospiti” a cura di Francesco Paolo del Re e Sabino de Nichilo, Casa Vuota, Roma
2016 – “Pioggerella e Fuochino” a cura di Monica Demattè, MoArtSpace, Xinmi (Cina)
2016 – “i Chiaroveggenti” – a cura di Roberto Lacarbonara, studio d’arte Fedele, Monopoli.
2014 - il Bosco a cura di Vincenzo Schino, CAOS di Terni
2012 - “la (mala) creanza”, a cura di Roberto Lacarbonara, galleria FormaQuattro, Bari
2011 - “emiCRANIA (con aura)” testo critico di Antonella Marino, studio d’arte Fedele, Monopoli.
2008 - “Euclidea” personale a cura di A.Trabucco e M.C. Valacchi, presso la galleria Arte Boccanera Contemporanea di Trento
2003 –“REPLAY”, personale presso la galleria “Biz-art” di Shangai, a cura di Monica Demattè; testi di Maurizio Giuffredi e Monica Demattè.
2022 – “OPEReOMISSIONI” installazione di Arte Integrata con Maurizio Di Feo, a cura di PROSSIMAMENTE ARTE, chiesa di Sant’Agostino a Massafra (TA)
2021 – “Canone Doppio” – a cura di Francesco Piazza e Vassilis Karampatsas - The Project Gallery – Atene e Palermo
2020 – “ZOO Generation” – a cura di Christian Caliandro – AncheCinema (Bari)
2019 – “Dissolvenze” – a cura di Enrica Feltracco, Massimiliano Sabbion e Matteo Vanzan, Gallerie di Palazzo vescovile, Museo Diocesano di Padova
2015 – Biennale di Penne – a cura di Antonio Zimarino e Martina Lolli, Chiesa di S.Giovanni Evangelista, Museo di Arte Moderna e Contemporanea (MaMec), Penne (Pescara)
2014 – Italia Moderna – Consolato Edimburgo a cura dell’Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo
2012 - “espiare” a cura di Roberto Lacarbonara e Alexander Larrarte, ex convento dei Padri Domenicani, Ruvo di Puglia
2011 – 54°Biennale di Venezia- sezione pugliese a cura di Vittorio Sgarbi, Santa Scolastica Bari
2009- “SINGOLARI” a cura di Monica Demattè, ex-convento di Santa Chiara a Castellaneta (TA);
2000 - “Z/000”, a cura di P. Cetera, N. Curri, N.Vinci, con testo critico di G. Corazziari, ex Monastero S. Chiara, Castellaneta (TA).
1998 – “Unheimlich”, a cura di P. Cetera, N. Curri, N.Vinci, con testo critico M. Giuffredi, ex Monastero S. Chiara, Castellaneta (TA).

Camilla Remondina
Habitat
Entrando nella galleria IAGA Contemporary Art siamo accolti da una famiglia seduta a tavola che, tra le chiacchiere per noi incomprensibili, attende il proprio pasto. Ci invitano ad entrare, al loro banchetto, e quasi sembrano dire “Fate come se foste a casa vostra”. Ma sono sinceri? Possiamo davvero comportarci come a casa? Non ne abbiamo la certezza, forse ci stanno chiedendo l’esatto contrario, ma noi, un po’ imbarazzati, ci accingiamo ad esplorare la loro attuale dimora.
Scopriamo così che altri Ospiti prima di noi si sono sentiti liberi di mettersi a proprio agio, forse anche troppo, prendendo alla lettera le parole dei padroni di casa. Sono assorti nelle proprie azioni, non si accorgono della nostra presenza e quasi viene spontaneo chiedere a loro il permesso di entrare, di disturbarli in un momento particolarmente intimo: qualcuno è rientrato dal lavoro e non vedeva l’ora di togliersi la camicia; qualcun altro si sveste dopo un appuntamento amoroso; qualcuno è già sotto la doccia; altri sono totalmente nudi e non sembrano vergognarsene né volersi coprire, perché, si sa, qualcuno nella propria abitazione fa così.
Gli Ospiti hanno affollato, reso vivo lo spazio, mentre di là, all’ingresso, i padroni di casa aspettano ancora l’Antipasto.
In occasione della sua prima personale in galleria, Pierluca Cetera (Taranto, 1969) propone il ciclo de Gli Ospiti, un progetto avviato nel 2013 e concepito per essere itinerante che però ad oggi aveva trovato “alloggio” una sola volta, nel 2017, a Casa Vuota (Roma), inaugurando lo spazio espositivo. Con questi lavori Cetera sottolinea quanto la frase fatta “Fa come fossi a casa tua” sia in realtà un modo per evidenziare il distacco e la gerarchia tra gli interlocutori, non ci troviamo a casa nostra e indirettamente ci stanno chiedendo di tenere un comportamento decoroso. Se le riflessioni riguardanti l’ospitalità senza condizioni e la sua utopica messa in pratica - la quale implicherebbe lasciare all’altro la propria casa - del filosofo Jacques Derrida dichiarano quanto sia importante intraprendere ugualmente questa strada “chiusa”, non percorribile affinché venga fatto qualche passo in avanti verso le altre culture e quindi la loro integrazione, l’artista risponde realizzando questa utopia. D’altronde la parola “ospite” in italiano viene usata per indicare sia chi accoglie che chi gode di questo trattamento, scambiando e confondendo chi è cosa. I suoi ospiti hanno concretamente preso possesso della galleria, non ce ne voglia il padrone di casa - Alberto Perobelli - che riavrà presto il suo spazio espositivo, e si comportano di conseguenza: è diventata a tutti gli effetti il loro Habitat.
Le figure esposte alle pareti sono dipinte ad olio su sagome di tela, ognuna di materiali e trame differenti, con piccole distinzioni anche nell’impiego
della tecnica pittorica. Tali diversificazioni permettono di creare una maggiore empatia nei confronti del gruppo grazie all’esaltazione dell’identità dei singoli: le tele sottili sono la pelle di queste persone; esse si mettono a nudo, metaforicamente e non solo, in un momento rubato di grande fragilità - come spesso vediamo ai telegiornali -, non sappiamo da dove provengono, hanno perso tutto e bisogna trovare loro un posto dove vivere e cominciare una nuova vita. Anche le forme delle tele, piegate, tagliate o incomplete, e le imperfezioni del disegno ci raccontano la loro unicità e precarietà.
La pelle è lo strato più superficiale dell’essere umano, ciò che lasciamo vedere e ci rende riconoscibili all’altro, può essere una barriera che ci protegge e separa dagli agenti esterni ma può essere anche “un sottile diaframma che si frappone tra due entità, una soglia liminale tra interno ed esterno, tra cose distinte. Così l’interno e l’esterno diventano due facce della stessa medaglia dove i cambiamenti di stato dell’uno hanno effetti sull’altro lato. Quindi anche la nostra pelle non è più unilateralmente una cosa che contiene i nostri organi interni, la nostra anima, le nostre viscere, ma è anche tutto quello su cui il mondo esterno preme e fa forza”, attraverso di essa si può dare origine ad un contatto.
La tecnica che accomuna queste opere si può identificare in una pittura sempre “alla prima” secondo cui l’artista agisce velocemente per non perdere mai quell’energia iniziale dell’atto creativo ricercata da Francis Bacon, uno dei suoi maestri; Cetera dipinge in piedi, fa passaggi fatti di slancio, con grande fervore, in cui i dettagli sono dati dalle sovrapposizioni di strati che fanno concettualmente tendere i corpi all’“iperrealismo”. Questo layering e le sue conseguenti imperfezioni rendono i soggetti unici e irreplicabili persino da parte del loro creatore. L’artista vuole alimentare l’imperfetto ricercando un equilibrio tra le parti: razionale e visionario, simmetrico e asimmetrico, pittura e scultura, questi sono i binomi che guidano la sua intera ricerca e la mantengono in una costante tensione compositiva. Le opere di Cetera si possono annoverare tra i bassorilievi scultorei, attraverso la superficie bidimensionale della tela stessa aspira alla tridimensionalità, non intesa come sfondamento prospettico della raffigurazione ma partendo da quelle riflessioni avviate dalla metà del Novecento da artisti quali Fontana, Manzoni, Bonalumi e Castellani, per citarne alcuni. Parlando di Manzoni, Gabriele Salvaterra ci ricorda che “La superficie stessa deve diventare campo di possibilità per sviluppare o almeno indicare quelli che per l’artista sono gli elementi fondanti dell’arte: significato illimitato, spazio totale, luce assoluta” e, più in generale, degli artisti attivi negli anni ’50-’60: il
loro vissuto “è una prova di questa tendenza a portare il ragionamento sulla superficie a un’estensione che non ha precedenti e che coinvolge l’intera realtà, spesso superando ampiamente ogni ristretta, seppur inesauribile, epidermide bidimensionale. […] Si taglia, si buca, si offende la tela per svelare una dimensione ulteriore, ma se non si riconosce la materialità di questo piano, nelle sue possibilità e costrizioni, non si potrebbe immaginare neppure il suo superamento”. Inoltre, la loro sospensione sulle pareti è un espediente per raggiungere un equilibrio tra pittura e scultura, infatti l’assenza di cornici e di forme geometricamente definite, che chiuderebbero il loro spazio vitale, permette l’interazione dei suoi soggetti con esso estendendo potenzialmente le opere all’infinito e conferendo al tutto il ruolo di installazione ambientale.
Questi personaggi sono in relazione allo sfondo, diverso a seconda della sede espositiva più o meno caratterizzante e della loro disposizione che potrebbe mutare durante il corso della singola mostra; come trasferellireminiscenze affettuose dell’infanzia dell’artista - interagiscono con l’ambiente che li circonda, compresi gli oggetti d’arredo presenti, così da creare composizioni e narrazioni sempre differenti. Possono essere affissi ovunque o forse, come persone senza dimora, da nessuna parte: fluttuano leggeri nello spazio, sospesi anche nel tempo, alcuni ci guardano direttamente, trasmettendoci le loro fragilità, altri chiudono gli occhi probabilmente per tutti i pensieri emersi per tormentarli o per un momento di preghiera e speranza per il proprio futuro. I loro volti segnati e freddi ci trasmettono tutt’altro che leggerezza.
Gli Ospiti rappresenta la prima serie su sagome di tela - successivamente la sperimentazione proseguirà su tavole di legno e differenti metalli - tali supporti permettono all’artista di concentrarsi sulla raffigurazione del corpo umano iscritto nel contorno della tela, riprendendo gli insegnamenti di Caravaggio e di Egon Schiele, piuttosto che sullo sfondo. La vitalità dell’opera apparentemente si esaurisce all’interno del suo perimetro, ma è proprio tale forma antropomorfa ad animare e conferire energia allo spazio.
Alcuni soggetti sono però inediti, alcuni ospiti che abitano la galleria sono diversi dalla prima occasione espositiva, come nel caso di Antipasto (2018), i quali identifichiamo con i padroni di casa. Figure di generazioni diverse, alcune delle quali non sono riconducibili allo stesso periodo storico stando allo stile dei loro vestiti, formano una famiglia riunita, qualcuno a testa in giù o “sdraiato” secondo quella che potrebbe essere la composizione spaziale nel disegno di un bambino, ad una tavola vuota disegnata direttamente a parete, bucata, che non può sorreggere nulla, ma loro non lo sanno e aspet-
Camilla Remondina
tano che venga servito almeno l’antipasto, il quale rappresenta esso stesso l’attesa del vero banchetto. Attendono forse un cambiamento. Se loro, seri e composti, stanno seduti da soli in prima sala, entrando nella seconda e poi nella terza invece veniamo travolti dalla moltitudine di individui che le riempiono, mettendoci quasi in soggezione. La fruizione di tali opere implica una connessione, una relazione tra l’oggetto pittorico, l’osservatore e lo spazio che circonda entrambi. Al visitatore viene chiesto di relazionarsi a questi personaggi, volutamente presentati a grandezza naturale per renderli ancora più vivi e realistici, dove anche il non volerli guardare, l’imbarazzo è una forma di interazione ed attiva molte riflessioni. Come in un quadro specchiante di Pistoletto, siamo noi ad entrare nel loro spazio e a prendere parte all’“happening” in corso: riusciamo persino ad immaginarli muoversi e svolgere le proprie azioni.
Questi esseri umani portano nei loro bagagli storie frammentate che siamo invitati a ricucire individualmente. Attraverso la sonorizzazione realizzata ad hoc, ci vengono suggeriti i suoni caratteristici di una casa, familiari e rassicuranti, mentre, in contrasto, i dialoghi in differenti lingue si sovrappongono e si fondono, diventando indecifrabili, così da farci sentire estranei e sopraffatti: ci viene chiesto di uscire dal torpore delle nostre vite privilegiate, di fare un maggiore sforzo per comprendere i racconti altrui e di tendere la mano a chi non è ugualmente tutelato, nonostante sia difficile rinunciare alle nostre comodità.
Gli Ospiti ci offrono sovrapposizioni di significati e significanti che ciascuno di noi deve leggere sulla base della propria esperienza, trovando anche interpretazioni non previste dall’artista, il quale infatti ci invita a scavare dentro la nostra pelle, appoggiarla sulle sue figure per ragionare sul rapporto tra l’io e l’altro, tra l’essere ospite benvoluto o straniero, tra l’ospitalità con e senza condizioni di Derrida.
Entrando nella galleria IAGA Contemporary Art siamo accolti da una famiglia seduta a tavola che, tra le chiacchiere per noi incomprensibili, attende il proprio pasto. Ci invitano ad entrare, al loro banchetto, e quasi sembrano dire “Fate come se foste a casa vostra”. Ma sono sinceri? Possiamo davvero comportarci come a casa? Non ne abbiamo la certezza, forse ci stanno chiedendo l’esatto contrario, ma noi, un po’ imbarazzati, ci accingiamo ad esplorare la loro attuale dimora.
Scopriamo così che altri Ospiti prima di noi si sono sentiti liberi di mettersi a proprio agio, forse anche troppo, prendendo alla lettera le parole dei padroni di casa. Sono assorti nelle proprie azioni, non si accorgono della nostra presenza e quasi viene spontaneo chiedere a loro il permesso di entrare, di disturbarli in un momento particolarmente intimo: qualcuno è rientrato dal lavoro e non vedeva l’ora di togliersi la camicia; qualcun altro si sveste dopo un appuntamento amoroso; qualcuno è già sotto la doccia; altri sono totalmente nudi e non sembrano vergognarsene né volersi coprire, perché, si sa, qualcuno nella propria abitazione fa così.
Gli Ospiti hanno affollato, reso vivo lo spazio, mentre di là, all’ingresso, i padroni di casa aspettano ancora l’Antipasto.
In occasione della sua prima personale in galleria, Pierluca Cetera (Taranto, 1969) propone il ciclo de Gli Ospiti, un progetto avviato nel 2013 e concepito per essere itinerante che però ad oggi aveva trovato “alloggio” una sola volta, nel 2017, a Casa Vuota (Roma), inaugurando lo spazio espositivo.
Con questi lavori Cetera sottolinea quanto la frase fatta “Fa come fossi a casa tua” sia in realtà un modo per evidenziare il distacco e la gerarchia tra gli interlocutori, non ci troviamo a casa nostra e indirettamente ci stanno chiedendo di tenere un comportamento decoroso. Se le riflessioni riguardanti l’ospitalità senza condizioni e la sua utopica messa in pratica - la quale implicherebbe lasciare all’altro la propria casa - del filosofo Jacques Derrida dichiarano quanto sia importante intraprendere ugualmente questa strada “chiusa”, non percorribile affinché venga fatto qualche passo in avanti verso le altre culture e quindi la loro integrazione, l’artista risponde realizzando questa utopia. D’altronde la parola “ospite” in italiano viene usata per indicare sia chi accoglie che chi gode di questo trattamento, scambiando e confondendo chi è cosa. I suoi ospiti hanno concretamente preso possesso della galleria, non ce ne voglia il padrone di casa - Alberto Perobelli - che riavrà presto il suo spazio espositivo, e si comportano di conseguenza: è diventata a tutti gli effetti il loro Habitat. Le figure esposte alle pareti sono dipinte ad olio su sagome di tela, ognuna di materiali e trame differenti, con piccole distinzioni anche nell’impiego della tecnica pittorica. Tali diversificazioni permettono di creare una maggiore empatia
nei confronti del gruppo grazie all’esaltazione dell’identità dei singoli: le tele sottili sono la pelle di queste persone; esse si mettono a nudo, metaforicamente e non solo, in un momento rubato di grande fragilità - come spesso vediamo ai telegiornali -, non sappiamo da dove provengono, hanno perso tutto e bisogna trovare loro un posto dove vivere e cominciare una nuova vita. Anche le forme delle tele, piegate, tagliate o incomplete, e le imperfezioni del disegno ci raccontano la loro unicità e precarietà.
La pelle è lo strato più superficiale dell’essere umano, ciò che lasciamo vedere e ci rende riconoscibili all’altro, può essere una barriera che ci protegge e separa dagli agenti esterni ma può essere anche “un sottile diaframma che si frappone tra due entità, una soglia liminale tra interno ed esterno, tra cose distinte. Così l’interno e l’esterno diventano due facce della stessa medaglia dove i cambiamenti di stato dell’uno hanno effetti sull’altro lato. Quindi anche la nostra pelle non è più unilateralmente una cosa che contiene i nostri organi interni, la nostra anima, le nostre viscere, ma è anche tutto quello su cui il mondo esterno preme e fa forza”, attraverso di essa si può dare origine ad un contatto.
La tecnica che accomuna queste opere si può identificare in una pittura sempre “alla prima” secondo cui l’artista agisce velocemente per non perdere mai quell’energia iniziale dell’atto creativo ricercata da Francis Bacon, uno dei suoi maestri; Cetera dipinge in piedi, fa passaggi fatti di slancio, con grande fervore, in cui i dettagli sono dati dalle sovrapposizioni di strati che fanno concettualmente tendere i corpi all’“iperrealismo”. Questo layering e le sue conseguenti imperfezioni rendono i soggetti unici e irreplicabili persino da parte del loro creatore. L’artista vuole alimentare l’imperfetto ricercando un equilibrio tra le parti: razionale e visionario, simmetrico e asimmetrico, pittura e scultura, questi sono i binomi che guidano la sua intera ricerca e la mantengono in una costante tensione compositiva.
Le opere di Cetera si possono annoverare tra i bassorilievi scultorei, attraverso la superficie bidimensionale della tela stessa aspira alla tridimensionalità, non intesa come sfondamento prospettico della raffigurazione ma partendo da quelle riflessioni avviate dalla metà del Novecento da artisti quali Fontana, Manzoni, Bonalumi e Castellani, per citarne alcuni. Parlando di Manzoni, Gabriele Salvaterra ci ricorda che “La superficie stessa deve diventare campo di possibilità per sviluppare o almeno indicare quelli che per l’artista sono gli elementi fondanti dell’arte: significato illimitato, spazio totale, luce assoluta” e, più in generale, degli artisti attivi negli anni ’50-’60: il loro vissuto “è una prova di questa tendenza a portare il ragionamento sulla superficie a un’estensione che non ha precedenti e che coinvolge l’intera realtà, spesso superando ampiamente ogni ristretta, seppur inesauribile, epidermide bidimensionale. […] Si taglia, si buca,
si offende la tela per svelare una dimensione ulteriore, ma se non si riconosce la materialità di questo piano, nelle sue possibilità e costrizioni, non si potrebbe immaginare neppure il suo superamento”. Inoltre, la loro sospensione sulle pareti è un espediente per raggiungere un equilibrio tra pittura e scultura, infatti l’assenza di cornici e di forme geometricamente definite, che chiuderebbero il loro spazio vitale, permette l’interazione dei suoi soggetti con esso estendendo potenzialmente le opere all’infinito e conferendo al tutto il ruolo di installazione ambientale.
Questi personaggi sono in relazione allo sfondo, diverso a seconda della sede espositiva più o meno caratterizzante e della loro disposizione che potrebbe mutare durante il corso della singola mostra; come trasferelli - reminiscenze affettuose dell’infanzia dell’artista - interagiscono con l’ambiente che li circonda, compresi gli oggetti d’arredo presenti, così da creare composizioni e narrazioni sempre differenti. Possono essere affissi ovunque o forse, come persone senza dimora, da nessuna parte: fluttuano leggeri nello spazio, sospesi anche nel tempo, alcuni ci guardano direttamente, trasmettendoci le loro fragilità, altri chiudono gli occhi probabilmente per tutti i pensieri emersi per tormentarli o per un momento di preghiera e speranza per il proprio futuro. I loro volti segnati e freddi ci trasmettono tutt’altro che leggerezza.
Gli Ospiti rappresenta la prima serie su sagome di tela - successivamente la sperimentazione proseguirà su tavole di legno e differenti metalli - tali supporti permettono all’artista di concentrarsi sulla raffigurazione del corpo umano iscritto nel contorno della tela, riprendendo gli insegnamenti di Caravaggio e di Egon Schiele, piuttosto che sullo sfondo. La vitalità dell’opera apparentemente si esaurisce all’interno del suo perimetro, ma è proprio tale forma antropomorfa ad animare e conferire energia allo spazio.
Alcuni soggetti sono però inediti, alcuni ospiti che abitano la galleria sono diversi dalla prima occasione espositiva, come nel caso di Antipasto (2018), i quali identifichiamo con i padroni di casa. Figure di generazioni diverse, alcune delle quali non sono riconducibili allo stesso periodo storico stando allo stile dei loro vestiti, formano una famiglia riunita, qualcuno a testa in giù o “sdraiato” secondo quella che potrebbe essere la composizione spaziale nel disegno di un bambino, ad una tavola vuota disegnata direttamente a parete, bucata, che non può sorreggere nulla, ma loro non lo sanno e aspettano che venga servito almeno l’antipasto, il quale rappresenta esso stesso l’attesa del vero banchetto. Attendono forse un cambiamento. Se loro, seri e composti, stanno seduti da soli in prima sala, entrando nella seconda e poi nella terza invece veniamo travolti dalla moltitudine di individui che le riempiono, mettendoci quasi in soggezione. La fruizione di tali opere implica una connessione, una relazione tra l’oggetto pit-
torico, l’osservatore e lo spazio che circonda entrambi. Al visitatore viene chiesto di relazionarsi a questi personaggi, volutamente presentati a grandezza naturale per renderli ancora più vivi e realistici, dove anche il non volerli guardare, l’imbarazzo è una forma di interazione ed attiva molte riflessioni. Come in un quadro specchiante di Pistoletto, siamo noi ad entrare nel loro spazio e a prendere parte all’“happening” in corso: riusciamo persino ad immaginarli muoversi e svolgere le proprie azioni.
Questi esseri umani portano nei loro bagagli storie frammentate che siamo invitati a ricucire individualmente. Attraverso la sonorizzazione realizzata ad hoc, ci vengono suggeriti i suoni caratteristici di una casa, familiari e rassicuranti, mentre, in contrasto, i dialoghi in differenti lingue si sovrappongono e si fondono, diventando indecifrabili, così da farci sentire estranei e sopraffatti: ci viene chiesto di uscire dal torpore delle nostre vite privilegiate, di fare un maggiore sforzo per comprendere i racconti altrui e di tendere la mano a chi non è ugualmente tutelato, nonostante sia difficile rinunciare alle nostre comodità.
Gli Ospiti ci offrono sovrapposizioni di significati e significanti che ciascuno di noi deve leggere sulla base della propria esperienza, trovando anche interpretazioni non previste dall’artista, il quale infatti ci invita a scavare dentro la nostra pelle, appoggiarla sulle sue figure per ragionare sul rapporto tra l’io e l’altro, tra l’essere ospite benvoluto o straniero, tra l’ospitalità con e senza condizioni di Derrida.
