GUSTARE L'ITALIA 14 - LUGLIO/AGOSTO 2011

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di

cultura

enogastronomica

e

turismo

Anno

2

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Numero

14

-

Luglio

2011

Copia di cortesia

Poste Italiane S.p.a. Spedizione in abbonamento postale -70% DCB Milano

Periodico

Con il patrocinio di

Estate tricolore


La tenuta Cà da Meo di Magda Pedrini è il risultato di un profondo amore per una terra che, grazie alla sua particolare posizione, da origine a coltivazioni assolutamente straordinarie nell’ambito dei vitigni che producono eccezionali Gavi docg. Da questa storia così carica di sentimenti umani e di lavoro nascono i vini della Tenuta che arrivano ad arricchire di stile e di gusto le nostre tavole. Tel. +39 0143 667923 Fax +39 0143 667929 • www.magdapedrini.it • E-mail: nuovacadameo@virgilio.it


Estate. L’estate è la stagione che vede trionfare, in ogni regione, le sagre e le feste popolari. Da quelle più antiche e radicate a quelle improvvisate o rispolverate a fini turistici, magari a opera di volonterose associazioni locali, praticamente tutte sono accompagnate da degustazioni o vendita di prodotti alimentari. Ecco allora che le sagre, da quelle più sentite da parte degli abitanti del posto a quelle meno riuscite dal punto di vista di pubblico, rivestono un ruolo fondamentale nel percorso delle comunità nel riappropriarsi del proprio territorio e della propria cultura, anche quella gastronomica. Di tutte queste manifestazioni è praticamente impossibile dare conto e notizia - anche se noi tentiamo quotidianamente di farlo sulle pagine del nostro sito www.gustarelitalia.it - ma ciò che conta è il fatto che siano in costante aumento. Il nostro consiglio è quello di diffidare da quegli eventi che propongono una cucina genericamente italiana, ma di “buttarsi” in quelle sagre che esaltano piatti e prodotti tipici della propria zona. Dal Trentino al Salento, dalla Riviera Ligure alla Sicilia l’estate è la stagione ideale per gustare centinaia di tradizioni alimentari spesso di nicchia, talvolta impossibili da ritrovare facilmente durante il resto dell’anno. Nelle pagine di questo numero, per non fare torto a nessuna delle lodevoli iniziative locali, abbiamo voluto segnalare soltanto due tradizioni storiche così radicate da non temere la concorrenza di nessuno, né di porsi in alternativa alle altre: il Palio a Siena e la festa della Perdonanza a L’Aquila.

Per scoprire (o riscoprire) una tradizione enogastronomia, per assaporare un piatto particolare, per non dover ricorrere soltanto al supermercato nel fare la spesa, per concedersi una sosta gourmet in uno dei tanti ottimi ristoranti italiani. In vacanza come in città. In questo numero noi di “Gustare l’Italia” abbiamo proprio voluto, come sempre, segnalare quelle realtà, produttive o ricettive, che vanno esattamente in questa direzione, e che, con la loro qualità assoluta, garantiscono al tempo stesso il gusto, il piacere e la bontà, tutte componenti che in estate non devono assolutamente andare in vacanza. Alessandro Milani - Direttore Responsabile

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Gustare l’Italia

Editoriale

Estate tempo di sagre, si è detto. Attenzione, però: l’estate è anche tempo di vacanza e di cambiamento delle proprie abitudini alimentari. Pur trascurando chi insegue diete last minute o ricerca soltanto cibi “freschi” (o presunti tali) adatti alle temperature che salgono, è indiscutibile che nei mesi estivi la maggior parte degli italiani muti la propria alimentazione. Non necessariamente in peggio, anzi. Se da un lato è evidente a chiunque metta piede su una spiaggia italiana il fatto che molti si concedano spuntini fuori pasto tutt’altro che salutari, è anche vero che sono moltissimi i vacanzieri che, in montagna come al mare, aumentano la propria attività fisica. Se anche l’appetito dovesse aumentare, il consiglio di “Gustare l’Italia” non è quello di trattenersi il più possibile; è invece quello di “approfittare” delle vacanze per dedicarsi con più calma e attenzione anche alla cultura del buon mangiare (e buon bere).


Sommario luglio - agosto 2011

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Ospitalità italiana Reggia Domizia, dove si sposano classe e passione

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Tradizioni italiane L’altro lato del Palio Mangiare in contrada

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Il produttore Nelle Langhe batte un cuore di pietra

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Tradizioni italiane Papa Celestino V e la Festa del Perdono

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Eccellenze italiane Un piacere per la gola, un piacere per il corpo

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Il consorzio agroalimentare Il mosaico (liquido) di Otranto

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Il cibo di strada I turcinieddhri, scarti d’autore

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Il consorzio vitivinicolo Una regione, un vino molte anime

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La vacanza L’estate di Grado tra spiagge, casoni e buona cucina

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Il produttore Le tante sfide del Tonno Colimena

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Il produttore Brandisio, musica per il palato

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Bufala e pizza Il matrimonio s’ha da fare

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Quelli che le guide non dicono “La Martinella”, tradizione e modernità

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Il cibo nell’arte Delizie lunari: le fantasie culinarie nell’opera di Antonio Rubino

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Ricorrenze La profezia di Pellegrino

103 Rubriche

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105 L’orto di luglio - agosto I cocomeri Le pesche I pomodori

Le città di Res Tipica Sulle orme della bufala

112 Libri da mangiare

Gli itinerari di Res Tipica Tra il Volturno e il Garigliano

114 Indice ricette

Periodico di cultura enogastronomica e turismo - Anno 2 - Numero 14 Luglio 2011 - Reg. Tribunale di Milano n° 201 del 14/04/2010 Direttore Responsabile: Alessandro Milani - Caporedattore: Raffaele Montagna - Art Director: Daniele Colzani Segretaria di Redazione: Mara Guerrieri - Responsabile Diffusione: Roberto Zanutto Grafica e impaginazione: Daniele Colzani - Giovanni Di Gregorio Concessionaria pubblicità: Soltrade Communication - Via Mirabello, 10 - 00195 Roma Responsabile Trattamento Dati Personali: Maurizio Villa - L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o cancellazione ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs 196/2003 scrivendo al Responsabile del Trattamento Dati Personali: Soltrade Communication - Via Abbadesse, 20 - 20124 Milano Contatti: info@gustarelitalia.it - www.gustarelitalia.it Redazioni: Milano: Via Milanese, 5/11 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) - Roma: Via Mirabello, 18 - 00195 Roma - Sicilia: Via Cannezio, 22 - 97100 Ragusa

Hanno collaborato a questo numero: Giulia Battafarano - Paolo Bonagura - Fabrizio Cimino - Marco Locatelli - Enzo Meli - Francesco Maria Montella - Roberto Mottadelli - Martino Negri - Emiliano Raccagni - Laura Rangoni

Fotografi e Uffici Stampa: Giulia Brogi - Emanuela Cattaneo - Teodoro S. Gruhl - Petr Kratochvil - Lidia Montanari- Raniero Pizzi - Associazione Nazionale Città della Bufala - Casa Artusi - Consorzio per la tutela del Palio di Siena - Oliopuglia.it - Oliviaemarino.it - Reggia Domizia - Ufficio Turismo e Relazioni Esterne Comune di Grado Distribuzione: C.M. Press Distribuzione © Riproduzione (anche parziale) vietata

www.gustarelitalia.it

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Tradiziooni italiane di Emiliano Raccagni

L’altro lato del Palio

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Dietro le quinte della celebre festa che per due volte l’anno infiamma Siena e la sua gente

Il Palio di Siena. Tra le molte chiavi di lettura con le quali approcciarsi a una delle più popolari feste italiane, se ne possono individuare due, essenziali e contrapposte. La prima, certamente maggioritaria, è quella dello spettatore televisivo o del turista che magari inconsapevolmente si trova ad assistere a un evento che lo colpisce per colori, suoni, passione. Lo spettacolo è indiscutibilmente affascinante. Viene quindi spontaneo “parteggiare” per uno dei fantini che smaniano in quei

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momenti interminabili che precedono l’avvio della corsa, gustarsela col cuore in gola fino allo scoppio del mortaretto, quando capita di assistere a scene di esultanza (e di speculare delusione) da delirio collettivo. Quando tutto è finito, però, molti non capiscono come si possa letteralmente impazzire per una corsa di cavalli di poco più di un minuto. La domanda resta senza risposta. Oppure no, per chi decide di seguire un secondo approccio.

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Oltre la festa Il Palio si disputa in piazza del Campo due volte l’anno, il 2 luglio e il 16 agosto. Non è una rievocazione storica, come ne sono fiorite a centinaia a partire dagli inizi del Novecento in tutta Italia. È una festa viva, organizzata e regolamentata dal Comune di Siena, che dal 1656 ne cura direttamente lo svolgimento, andando a solennizzare quanto già da quasi due secoli le contrade della città svolgevano in vari modi e con discontinuità. Da allora, la festa di Siena si è sempre disputata in occasione delle ricorrenze dedicate alla Madonna di Provenzano (a luglio) e dell’Assunta (ad agosto), tanto che, nei giorni precedenti la disputa della carriera, il drappellone dipinto che andrà in premio al vincitore viene custodito rispettivamente nella Basilica di Provenzano e nel Duomo. È proprio lì che i contradaioli festanti si recheranno immediatamente dopo la corsa per intonare il Te Deum di ringraziamento, un rito antico e cattolicissimo e allo stesso tempo moderno e pagano, che in terra consacrata mischia bandiere e abbracci, urla e lacrime, sudore e preghiere. La continua contaminazione tra sacro e profano è il filo conduttore che scandisce i tempi del Palio. La sorte gioca un ruolo decisivo nel decidere quali contrade parteci-

peranno, dato che ogni carriera ne vede in campo dieci. Le sette escluse correranno di diritto in quella dell’anno successivo, insieme ad altre tre sorteggiate. Un altro giro va chiesto alla fortuna al momento della tratta, quando quattro giorni prima del Palio dall’urna esce il nome del cavallo che da quel momento verrà custodito nella stalla di contrada, in realtà un appartamento

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torio delle contrade nel pomeriggio che precede la corsa. Nella cerimonia officiata dal sacerdote (correttore) che ha in cura le anime della contrada, e nell’urlo liberatorio dello stesso, che saluta cavallo e fantino con un “vai e torna vincitore!”, seguito da una sbandierata sul sagrato della chiesa, c’è più forte che mai questa fusione tra sacro e profano, tra solennità e gioco che da quel momento è consacrato a battaglia. Una battaglia simulata, si intende, che vale però la supremazia cittadina nel momento più importante dell’anno.

per equini dotato di tutti i comfort, con tutte le attenzioni che merita il vero protagonista a cui affidare le aspettative di vittoria. Ed è sempre la dea bendata, al momento di stabilire l’ordine di ingresso tra i canapi delle diverse contrade, a giocare un ruolo primario, dato che la posizione in cui ogni fantino dovrà muoversi può risultare decisiva. Il rito appare con tutta la sua forza con la benedizione del cavallo, che avviene nell’ora-

© Emanuela Cattaneo

La contrade vive

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Con una felice intuizione il giornalista Tonino Virone scrisse oltre vent’anni fa sulla rivista Testimonianze che per capire il Palio di Siena bisognerebbe sedersi su uno dei palchi che circondano la piazza del Campo, qualche ora dopo la conclusione della corsa. Quando la tensione che si era accumulata al massimo si spezza nell’urlo di chi ha vinto e quando il resto della città, come ripresasi da un momento di paralisi, torna lentamente al suo vivere. Possibile, si chiede, che questa spettacolare messa in scena finisca lì? E se invece, come il giovane Holden di Salinger, si provasse a immaginare che fine fanno le anatre nel laghetto del Central Park quando d’inverno è tutto ghiacciato e nessuno le vede? Cosa accade, in altre parole, quando si spengono i riflettori sulla corsa?

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Possibile che tutto questo eccesso di emozioni si esaurisca in questo modo? Il paragone regge, perché il Palio di Siena è un fuoco che brucia mostrando le sue fiamme per otto giorni, due volte l’anno. Ma non esisterebbe senza le braci che per tutto il resto del tempo covano profonde in migliaia di cittadini senesi e vengono custodite in diciassette luoghi: le contrade. Le contrade di Siena sono state studiate in modo approfondito da storici e archivisti, ma anche da sociologi e antropologi. Il perché è presto detto: gli antichi rioni che da secoli dividono il territorio della città storica, quella ancora totalmente racchiusa nelle mura medievali, sono entità vive e non semplici giubbetti colorati con i quali immedesimarsi o tifare durante il Palio. Perché ciò che è accaduto a Siena nel corso di un’evoluzione urbanistica e sociale che affonda le sue radici nel Medioevo e prende forma a partire dal Cinquecento è probabilmente unico al mondo. Le contrade, infatti, non sono i suggestivi ma vuoti contenitori che corrispondono ai rioni più antichi di

qualunque città europea che ne conserva i nomi per tradizione e comodità topografica. Come all’opposto non sono minimamente paragonabili alle moderne circoscrizioni, vive dal punto di vista amministrativo ma senza storia e, soprattutto, senza vissuto. I diciassette rioni di Siena sono da almeno cinque secoli il primo punto di riferimento per il potere centrale del Comune. Hanno ciascuna un governo, al cui capo c’è un Priore (in due casi Rettore o Governatore), eletto insieme a una giunta (sedia o seggio), con i suoi vicari, e una serie di ministri che si occupano di finanze e bilancio, beni immobili, organizzazione, solidarietà, giovani. E, soprattutto, ogni contrada ha un popolo che si riconosce non solo nei suoi colori e nelle sue insegne, ma in quella fetta di città che gelosamente è rivendicata come il proprio territorio. E a quel territorio si sente di appartenere non solo nel momento più eclatante, quello del Palio, ma sempre. Ogni contrada ha il suo luogo religioso (oratorio) e locali (la società di contrada) aperti tutti i giorni dell’anno, che fungono da punto di riferimento per grandi e piccoli. Ci sono diciassette gruppi sportivi, diciassette gruppi di donatori di sangue. Ogni contrada ha la sua piccola compagnia teatrale, le iniziative culturali, quelle dedicate

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ai più piccoli. Organizza corsi, cene, gite, mostre. Edita un suo giornale, ha un suo sito web. Ha le sue assemblee, le sue elezioni, un suo museo, che custodisce non solo gli agognati drappelloni del Palio, ma soprattutto memorie di secoli di vita quotidiana di una micro comunità e archivi che ne descrivono dettagliatamente la storia, i più antichi datati a metà del XVI secolo.

Da rioni a luoghi dell’anima Continuità è forse il termine più adatto per descrivere ciò che le contrade di Siena sono riuscite a garantire col passare dei se-

coli e che è stata la chiave non solo della loro sopravvivenza, ma della capacità di vivere il presente di una città che è naturalmente e profondamente cambiata. Nate prima come distretti amministrativi di tipo militare per inquadrare le milizie cittadine nel Medioevo e poi aggregatesi attorno alle parrocchie di riferimento ai tempi della perdita dell’indipendenza e dell’ingresso di Siena nella sfera di influenza fiorentina, le contrade hanno percorso quasi mezzo millennio di storia inserite nel tessuto cittadino e non sarebbero riuscite, senza adattarsi ai cambiamenti, a farsi custodi del passato e delle tradizioni ed essere soprattutto i rioni della vita quotidiana. L’editto con cui Violante di Baviera, governatrice della città per conto dei Medici, fissò una volta per tutte nel 1729 gli attuali confini dei diciassette rioni, non fu un inizio, ma l’ufficializzazione di uno status quo, l’esistenza delle contrade, già da tempo riconosciuta. Esempi più vicini a noi ne confermano l’importanza nel tessuto cittadino. Agli albori dello Stato unitario sono infatti le contrade a farsi promotrici al proprio interno di quelle Società di Mutuo Soccorso che tanto merito ebbero nell’aiutare lavoratori e famiglie costrette a fare i conti con la miseria, quando non c’era lo stato sociale. Sempre le contrade, con le loro bandiere spiegate a festa, accolsero gli eserciti alleati dopo la liberazione della

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città nel 1945 e, quasi a segnare il ritorno alla normalità dopo gli orrori della guerra, si pretese a furor di popolo di organizzare un Palio straordinario per il giorno dopo. Forse per spiegarne l’importanza nella vita di tanti senesi basterebbe guardare ancora oggi come la bandiera della contrada segnali la nascita di un bimbo, lo accompagni durante l’esistenza non mancando di essere presente al suo matrimonio o nell’estremo saluto di un funerale. Sono questi i momenti nei quali si percepisce in modo forte un senso di identità e appartenenza che si tramanda da generazioni, non solo a parole.

È su questi presupposti che le contrade, impegnate a cambiare insieme alla società per continuare a esserne parte attiva, stanno affrontando oggi l’ennesima sfida della propria esistenza. Di fronte all’inesorabile spopolamento del centro storico della città, che, come tutte, si terziarizza e vede negozi, uffici e residenze universitarie sostituirsi alle abitazioni, le contrade stanno imparando a adattarsi. Venuto a mancare il rapporto diretto tra rione e abitante, ora che la maggior parte dei senesi vive fuori dalle mura, in terra di nessuno, la contrada lotta per continuare a rimanere un centro d’aggregazio-

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ne naturale, trasformandosi da rione a luogo dell’anima. Il battesimo contradaiolo, introdotto negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso per sancire una volta l’anno l’ingresso nella comunità dei nuovi arrivati, è diventato il simbolo di un’appartenenza che da fisica si fa sempre più spirituale, mentre le strade dove un tempo si nasceva e si trascorreva una vita diventano i luoghi dove continuare a tornare per respirare la propria appartenenza. Da qui la capacità delle contrade di saper offrire la quotidianità attraverso lo stare insieme tutto l’anno, aspettando i due momenti nei quali, con il Palio, le braci rianimano un fuoco visibile a tutti.

Il Palio è vita Il Palio, a questo punto dovrebbe essere chiarissimo, non è un gioco e nemmeno una gara sportiva. È una giostra dove le rivalità tra contrade, la politica, le astuzie e gli accordi possono valere quanto l’abilità nello stare a cavallo e concorrere a determinare il risultato finale. Ma provare a vincere non è tutto, perché la soddisfazione di vedere la propria rivale fallire un successo, magari tanto atteso e alimentato dalle aspettative è pari a quella di avere il miglior cavallo nella stalla. Questo è l’humus del quale si nutre la sfrenata corsa di tre giri attorno a una delle più belle piazze del mondo e nel quale il desiderio

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© Emanuela Cattaneo (2)

di arrivare primo si impasta e diventa tutt’uno con un retroterra di tradizioni, sentimenti e vivere quotidiano che generazioni di senesi si tramandano di padre in figlio. I rituali si possono costruire, inventare, perfezionare fino a far credere a chi vi prende parte che si è sempre fatto così, quando magari la pro loco locale è soltanto andata a ripescare da libri polverosi una festa o una tradizione da fare risorgere. A Siena, invece, le anatre del giovane Holden non scappano dal lago con i primi freddi. Ci sono sempre, rintanate al caldo delle loro contrade e sono la dimostrazione concreta di quanto sia vera la definizione più essenziale, ma forse più azzeccata, che mai sia stata formulata per definire la festa della città toscana. Quando infatti si dice che il Palio è vita si riassume al meglio ciò che custodisce questo rito, già di per sè affascinante anche al primo approccio, che ogni anno fa tremare i cuori di una città intera e - se inteso un po’ più a fondo - trasforma un turista in un appassionato.

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Mangiare in contrada è importante. Lo sanno bene gli appartenenti ai diciassette rioni di Siena, perché durante tutto l’anno l’appuntamento con pranzi e cene, soprattutto nei fine settimana, è il modo più semplice e diretto per mantenere viva l’appartenenza e il senso di socialità quando il Palio è lontano. Con l’estate, però, l’enogastronomia diventa uno dei punti di forza della macchina organizzativa di ciascuna contrada. A ridosso delle rispettive “Feste Titolari”, nelle quali viene celebrato il Santo patrono di ciascuna, le iniziative conviviali si moltiplicano. Ma non solo.

Da molti anni il calendario della città nei mesi estivi è scandito anche da grandi fiere gastronomiche, che alcune contrade ospitano nei giardini e nelle piazze adiacenti alle proprie sedi. Sono una vera e propria occasione di apertura nei confronti del resto della città e anche dei turisti. Si va da rassegne gastronomiche tout court, come quelle organizzate dalla Torre, dal Nicchio, dal Bruco, ad appuntamenti monotematici: il braciere per la Selva, il gelato per il Leocorno, il vino novello per la Civetta, tanto per fare qualche esempio.

Tradizioni italiane

di Emiliano Raccagni

Gastronomia e contrade

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© Emanuela Cattaneo

Durante i giorni del Palio, poi, un’altra spettacolare celebrazione dello stare insieme attorno a un tavolo è rappresentata dalla “Cena della Prova Generale”. Un appuntamento che fino agli anni Settanta era riservato a poche decine di persone e che oggi si è trasformato nel momento della speranza di vittoria, per il quale le contrade riescono a mettere a tavola nelle proprie strade centinaia, se non migliaia di commensali la sera prima della corsa. Tra una portata e l’altra, i discorsi dell’attesa di dirigenti e fantino e i canti dei contradaioli scandiscono la serata, anch’essa aperta agli ospiti che abbiano acquistato saggiamente un posto nei giorni precedenti. L’augurio di tutti è quello di ritrovarsi dopo pochi mesi, ancora una volta sotto il cielo, alla Cena della Vittoria, un vero e proprio gala celebrativo nel quale il posto d’onore, tra migliaia di commensali, è tutto per il cavallo arrivato primo in piazza il 2 luglio o il 16 agosto.

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di Giulia Battafarano

Nelle Langhe batte un cuore di pietra molitoria risalente ai primi del Novecento. Qui, in una struttura che era una filanda, da quattro generazioni la famiglia di Renzo macina i grani e li trasforma nell’oro bianco che permette a pochi fortunati panificatori, professionisti e non, di creare prodotti dal sapore “antico”.

Un tempio dell’arte bianca Un campanello suona, un uomo corre, sale di corsa tre gradini di legno, imbraccia un enorme sacco e versa del grano in un’antica macchina. Questa l’immagine che ci accoglie quando arriviamo al Mulino Sobrino. Entrando nell’edificio ci si trova davanti a uno spettacolo di altri tempi: un mulino a pietra dove mani sapienti versano il grano e dal quale esce una cascata di farina.

Il produttore

Sugli scaffali dei supermercati si trova una notevole quantità di farine diverse per tipo e marca, preparate per usi specifici. Una simile varietà potrebbe perfino mandare in panico il consumatore. Ma da dove vengono le farine? Ed è vero che in fondo sono tutte uguali? Evidentemente no, se Renzo Sobrino ha deciso, nonostante corra l’anno 2011, di continuare a macinare il grano secondo metodi antichi, scegliendo soltanto materie prime che non abbiano subito alcun tipo di alterazione da parte dell’uomo. Il mulino si trova in una viuzza del comune di La Morra, nel cuore delle Langhe, patria di altri e ben più noti prodotti e i suoi muri sembrano quasi rivestire un ruolo di barriera protettiva nei confronti di un vero gioiello di architettura

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Il “moderno” metodo per sapere quando è il momento di versare nuovamente il grano è costituito solo da un vecchio campanello che, come ci viene spiegato, non ha i problemi dei moderni macchinari, non si inceppa mai. Tutto ebbe inizio nel 1960 e oggi il Mulino Sorbrino è uno dei pochissimi piccoli esemplari ancora in attività: in essi si lavoravano principalmente i cereali prodotti dalle aziende agricole della zona e per lo più le macinazioni erano effettuate dal mugnaio come contoterzista (macinava il grano per i contadini che ritiravano poi le farine e pagavano per il lavoro). Questo è avvenuto anche qui fino a quando il padre di Renzo, diversamente da suo padre e dal padre di suo padre, dalla metà degli anni Cinquanta ha iniziato a sostituire gradualmente la macinazione per conto terzi con la lavorazione e la commercializzazione delle farine. Giusto per avere un’idea di cosa si intenda per piccolissimi mulini basta sapere che qui, sommando la produzione delle macine in pietra a quella dei laminatoi, si lavoravano circa 600 kg di cereali all’ora; un mulino industriale della metà dell’Ottocento (come per esempio il celebre Molino Stucky di Venezia) poteva lavorare 6000 kg all’ora; oggi i mulini industriali più piccoli arrivano a 3000-4000 kg all’ora, quelli medi arrivano a 10.000/11.000 e quelli grandi perfino a 60.000/70.000. Tornando al Mulino Sobrino, la produzione delle farine avviene utilizzando macine in pietra naturale a lenta rotazione (2 coppie di macine facenti parte della dotazione delle quattro coppie di pietre del mulino costruito alla fine dell’Ottocento) e un mulino di concezione moderna costruito nell’estate del 1950, ancora in gran parte in legno (per queste sue caratteri-

stiche esclusive vorrebbe essere definito “mulino storico” dal Politecnico di Torino).

Trasformare significa rispettare Chiacchierare con il mastro mugnaio è talmente piacevole che ci si potrebbe fermare ore e ore ad ascoltarlo raccontare di come rispetti tutto quello che gli permette di creare un prodotto d’eccellenza. Il primo ingrediente è la scelta dei produttori di grano, tutti selezionati con cura, tutti seguaci dei principi legati alla biodinamica e soprattutto tutti della zona (a eccezione del produttore di grano duro che proviene dal Centro e Sud Italia e del Kamut®). Qui il concetto di filiera corta è applicato da sempre e a essere rispettati sono anche i contadini stessi che garantiscono qualità a fronte di un pagamento del 20-30% superiore a quello che otterrebbero sul libero mercato (con una punta del 250% in più sul mais da polenta, giustificato dall’altissima qualità).

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Un cuore di pietra

Il secondo è il rispetto per il grano (qui si conserva l’antica usanza di lavare il grano prima di macinarlo) e per il consumatore che ha la certezza dell’origine della farina che ha tra le mani, con la sicurezza che essa non contenga nemmeno un chicco OGM, né enzimi aggiunti, lattosio, acidificanti, antifungini, addensanti, stabilizzanti o altri additivi. Solo ed esclusivamente grano coltivato, macinato e conservato come una volta. Già, perché qui non si vedono nemmeno silos: tutto è stivato sopra al negozietto, in quello che era e ancora è il granaio, esattamente come facevano i contadini e i mugnai di un tempo. I cereali vengono stoccati in sacconi da 10/11 quintali, suddivisi e identificabili per produttore e per qualità, in modo da sapere in qualsiasi momento, con riferimento al lotto di macinazione, le varietà e la provenienza del grano. Insomma, ecco il vero concetto di tracciabilità che oggi va tanto di moda!

Anche la scelta di utilizzare ancora il mulino a pietra fa parte di questa filosofia del “rispetto”. Questo tipo di macinazione, infatti, impedisce la separazione (e la conseguente eliminazione) del germe, la parte dei chicchi ricca di sostanze nutrienti e inoltre non scalda inutilmente ed eccessivamente il chicco stesso. E, se si chiede a Renzo cosa ne pensa di chi sostiene che nelle farine macinate a pietra restino inevitabilmente residui di pietra, meglio prepararsi a una risposta cordialmente colorita, secondo il modo di fare tipico dei piemontesi. Renzo ci spiega che i rulli in acciaio dei mulini industriali più volte all’anno sono oggetto di manutenzioni che consistono nell’incidere il metallo per rigare i rulli (i quali, con l’attrito provocato dalla macinazione, tendono a diventare lisci). Dove sarà mai finito l’acciaio che si è consumato? Le macine in pietra naturale, per via dell’attrito con i cereali, subiscono un’infinitesima abrasione, è innegabile, ma per cercare di

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quantificare quanto sia piccola la perdita di polvere di calcare basta ragionare sul fatto che le macine che si utilizzano qui hanno oltre 100 anni, hanno sempre macinato cereali senza subire interruzione nella lavorazione e si stima possano lavorare ancora per decine di anni. È importante specificare che si parla di “macine in pietra naturale”, perché quelle moderne sono costituite da scagliette di pietra legate da un composto sintetico. Ma non finisce qui: in questo luogo magico si rispetta anche il passato. Renzo ammette con orgoglio di potersi vantare di essere stati (probabilmente) i primi a puntare sulle vecchie varietà nella ricerca della massima qua-

lità organolettica delle farine. Quando Slow Food si chiamava ancora Arci Gola, quindi più di 25 anni fa, una delle prime eccellenze alimentari delle quali si occupò fu proprio la farina di mais da polenta prodotta da questo mulino utilizzando le vecchie varietà locali.

Non solo grano Il frumento infatti non è l’unico cereale che viene macinato da Renzo. Al Mulino Sobrino si producono anche farine di segale, avena, farro, Kamut®, grano saraceno, monococco (considerato il padre di tutti i cereali, il primo a essere coltivato dall’uomo), riso e perfino quella di castagne.

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C’è una farina che rende il mugnaio particolarmente orgoglioso: quella di mais. E non una qualunque. Il prodotto che gli ha regalato il riconoscimento da parte di Gambero Rosso come miglior blend per polenta è infatti un mix di antichi cultivar di granoturco (8File, Marano e Pignoletto) macinati per ottenere la tradizionale pietanza nella versione delle Langhe sia integrale, sia fioretto, sia bramata. Ecco le parole usate nel febbraio 2010 dal crostaceo gourmand: “L’aspetto è come deve essere, grezzo ma elegante, di un bel colore giallo bronzato carico. Ottimo profumo tipico di mais fresco e pulito. Consistenza granulosa. Eccellente sapore, pieno, autentico, appagante, con in evidenza la nota vegetale. Quello che ti aspetti da una grande vera polenta”.

Fior di Farine Il tempo pare essersi fermato non solo nei locali adibiti alla macinazione dei cereali.

Da qualche anno infatti ci sono altri piccoli spazi entrando nei quali si respira l’aria di una volta. Renzo e Margherita hanno deciso di permettere a tutti di godere di un soggiorno in questa magica atmosfera: hanno recuperato l’antica casa di famiglia e l’hanno resa un accogliente bed&breakfast. Come è facile aspettarsi da due persone incredibili come loro, la ristrutturazione è stata eseguita in modo conservativo ed è stata fatta la scelta di mantenere la disposizione originale delle camere nonché una parte degli arredi. Qui, al Fior di Farine, per iniziare la giornata alla grande, Margherita prepara - a mano, utilizzando esclusivamente prodotti di prima qualità, tra i quali ovviamente le loro farine – una colazione da leccarsi i baffi. Un consiglio: regalatevi un fine settimana in quest’oasi delle Langhe. Un consiglio nel consiglio: non perdetevi per nessuna ragione al mondo i croissant.

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S PA Z I O E V E N T I - M I L A N O

O EVENTI - MILANO

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O EVENTI - MILANO

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di Fabrizio Cimino

Tradizioni italiane

Papa Celestino V e la Festa del Perdono

Pietro Angeleri detto Pietro da Morrone nacque a Isernia nel 1209; dopo aver preso i voti a Roma si trasferì in un eremo sul Monte Morrone, vicino Sulmona, dove fondò la congregazione dei Frati di Pietro da Morrone come ramo dei Benedettini; questa congregazione fu riconosciuta da Papa Gregorio X. La sua fama di frate eremita, in odore di santità, aveva raggiunto tutte le genti cristiane e il suo nome era rispettato e venerato anche dai regnanti di tutta Europa. In quel periodo, dopo la morte di Papa Niccolò IV, il 4 aprile 1292, non si riusciva a eleggere un papa che fosse gradito a tutti i regnanti. Il 5 luglio 1294, dopo 27 mesi di sede vacante, gli 11 cardinali che in quel tempo costitui-

vano il Sacro Collegio elessero un pontefice “di transizione”, un frate eremita che non aveva alcuna esperienza di governo, ma era sicuramente uomo di grande carisma e notorietà. La notizia gli fu comunicata da tre vescovi nel suo eremo sul Morrone; inizialmente rifiutò, poi, per senso del dovere, accettò e divenne il 192° papa della Chiesa Cattolica. Fu quindi accompagnato dal re Carlo D’Angiò all’Aquila dove, il 29 agosto 1294, nella splendida basilica di Santa Maria di Collemaggio, fu incoronato con il nome di Celestino V. Uno dei suoi primi atti ufficiali fu l’emissione della Bolla del Perdono, un editto con il quale Celestino volle dare un forte segnale a tutto il mondo cristiano.

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Bonifacio VIII, nel timore che qualcuno lo rivolesse come papa, fece internare Celestino in una fortezza di proprietà della famiglia Caetani, il castello di Fumone, presso Anagni, dove il frate del Morrone morì il 19 maggio 1296.

© Raniero Pizzi (3)

In un’epoca nella quale l’indulgenza plenaria era spesso appannaggio esclusivo dei ricchi e dei potenti che potevano permettersi di pagare il proprio perdono, egli consentì a tutti, una volta l’anno, pentiti e confessati, di essere mondati da tutti i peccati attraversando la Porta Santa della Basilica di Collemaggio dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29 agosto di ogni anno. Il “Papa Santo” in questo modo anticipò di sei anni il primo giubileo, istituito nel 1300 dal suo successore, Bonifacio VIII. Quest’ultimo fu colui che fece di tutto per far abdicare Celestino, il quale rinunciò al soglio pontificio il 13 dicembre 1294; solo 10 giorni dopo, il 23 dicembre, fu eletto papa, con il nome di Bonifacio VIII, il cardinale Benedetto Caetani. Egli cercò in tutti i modi di recuperare la Bolla del Perdono affinché non fosse più applicata. Nonostante tutti i suoi sforzi non riuscì però a trovarla perché essa era custodita in un luogo segreto.

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Oggi le sue spoglie riposano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila. A partire da quel 29 agosto di oltre 700 anni fa all’Aquila si celebra questa festa. Oggi la Bolla è conservata nei forzieri del Comune, e le celebrazioni si preparano con molta attenzione e dedizione.

Un comitato di esperti si riunisce per organizzare gli eventi che precedono le celebrazioni religiose e, nel rispetto delle tradizioni celestiniane, tutte le manifestazioni sono gratuite e aperte a chiunque voglia parteciparvi. Si comincia una settimana prima con l’arrivo del Fuoco del Morrone: una staffetta di giovani podisti parte da Sulmona e arriva fino all’Aquila con i tedofori che trasportano il fuoco che accenderà il braciere della Perdonanza nella torre del Palazzo Comunale. Dopo il sisma del 2009 le manifestazioni non si svolgono più nei bellissimi cortili dei palazzi nobiliari ancora devastati dalla furia del terremoto ma nelle piazze e nelle strutture realizzate durante l’emergenza post sismica. Nei giorni della festa L’Aquila ospita le delegazioni di molte città e di tutti i comuni rappresentanti gli antichi contadi che nel 1254, come raccontano le cronache dell’epoca, contribuirono a fondarla. Si tramanda che fossero 99 le contee che vollero riunirsi in una nuova città: infatti essa ha 99 piazze, 99 chiese, 99 fontane.

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Questa festa non è molto nota in Italia, nonostante l’importanza religiosa dell’evento, ma la sua popolarità aumenta di anno in anno, tanto è vero che nel 2010 l’apertura della Porta Santa è stata celebrata dal cardinale Walter Kasper, prefetto della Congregazione per l’Unità dei Cristiani. Quest’anno sarà la volta del cardinale Angelo Comastri, Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano. Dopo la processione, gli aquilani continuano i festeggiamenti a casa con gli amici di sempre; si preparano le ricette tradizionali che in una località di montagna sono tutte a

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© Raniero Pizzi (4)

Nel pomeriggio del 28 agosto inizia la sfilata in costume d’epoca con tutte le delegazioni delle contee e i gonfaloni delle città ospiti; il corteo della Perdonanza parte dal palazzo del comune e arriva fino alla Porta Santa della Basilica di Collemaggio. La “Dama della Bolla” accompagnata da un “Giovin Signore”, in coda al corteo, reca con sé la Bolla del Perdono. Arrivati davanti alla Porta Santa, un rappresentante del Sacro Collegio bussa tre volte alla porta, che viene aperta dall’interno. Da quel momento, per un giorno intero, chiunque può attraversare la porta e ricevere il perdono da tutti i peccati. Dopo il tramonto del 29 agosto, chiusa la Porta Santa, la Bolla rientra in comune in corteo, stavolta scortata solo dagli aquilani, gli sbandieratori cittadini e le autorità locali. La serata trascorre in festa con orchestre e spettacoli all’aperto fino a concludersi con un’esibizione di bellissimi fuochi d’artificio.


Il condimento di questo primo piatto tradizionale aquilano è costituito essenzialmente da questi spinaci selvatici prima scottati e poi “ripassati” in padella. Carla cuoce la pasta in abbondante acqua bollente e, appena è al dente, inizia a mantecare la pasta con la verdura. Aggiunge olio extravergine di oliva e, dopo pochi minuti, i piatti sono in tavola. Un sapore inimitabile, delicato e intenso. Il tutto è accompagnato da un vino spumante rosato di Montepulciano Cerasuolo d’Abruzzo 2010 sboccatura 2011 che ben si abbina ai piatti detergendo i grassi con l’effervescenza naturale. Per secondo propone un rolleé di vitello al forno farcito con salsicce e odori. Poi crostata di albicocche e frutta a piacere. Per finire chiudiamo la serata con un nocino casereccio come è tradizione aquilana.

© Fabrizio Cimino (4)

base di quegli ingredienti che la natura aspra può offrire. Noi abbiamo la fortuna di essere invitati da Carla Zoppi, una grande donna, madre di tre splendidi figli, ma soprattutto una cuoca sopraffina. Ci offre una cena indimenticabile a base di “olaci”. Gli olaci sono spinaci selvatici di montagna che dalle parti dell’Appennino aquilano crescono da fine maggio a luglio inoltrato vicino agli stazzi degli ovini a quote superiori ai 1700 m. La passione di Carla per le cose buone non ha fine, e in questo caso è andata a cercare gli olaci personalmente, da sola - lo ammettiamo, su nostra richiesta - sui monti del Gran Sasso. Iniziamo con una frittata agli olaci come entreé, accompagnata da una nuvola dolcissima di ricotta di capra di montagna. Il piatto forte sono le mezze maniche con gli olaci.

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L’Associazione Res Tipica è stata creata dall’ANCI nel 2003 per promuovere in Italia e nel mondo le identità territoriali e ad oggi riunisce 27 Associazioni di Identità, 1.842 Comuni, 4 Unioni di Comuni, 40 Province, 2 Regioni, 51 Comunità Montane, 8 Enti Parco, 8 Strade del Vino, 11 Camere di Commercio, per un totale di quasi 2000 Enti locali.

ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI

Il network, rivolto principalmente ai Comuni di piccole e medie dimensioni, intende preservare e favorire l’immenso patrimonio che incorpora i saperi delle comunità, le caratteristiche dell’ambiente e le produzioni tipiche, trasformando questo grande capitale culturale e sociale in qualità della vita e in occasioni di sviluppo sociale ed economico rispettoso dei valori e della cultura locale.

www.restipica.net


di Enzo Meli

Un piacere per la gola, un piacere per il corpo Ma c’è anche la carota novella, ortaggio che a Ispica rappresenta un’importante fonte di ricchezza economica, e che da gennaio ha ottenuto in via definitiva il riconoscimento IGP. La Carota Novella di Ispica ha la sua peculiarità proprio nel periodo di produzione, che è compreso tra il 20 febbraio e il 15 giugno; è un prodotto che non viene “frigoconservato”, ha una colorazione intensa e un profumo deciso. Croccante, fresca e dietetica. Tra le sue proprietà vanta la ricchezza di betacarotene e di

Eccellenze italiane

Turismo ed economia, strumenti di crescita strettamente correlati, per un territorio, quello di Ispica, in provincia di Ragusa, che punta a un ulteriore salto di qualità. Il piccolo comune siciliano continua a investire nelle ricchezze che la natura gli ha regalato e che la sua gente è riuscita a tutelare e sviluppare. Tardo barocco ma anche antiche vestigia di culture rupestri, palazzi nobiliari e monumenti che nel Val di Noto fioriscono e s’impongono nel panorama locale.

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altre vitamine dei gruppi B, PP, D ed E, che la rendono importante per la vista e la pelle; recenti ricerche avrebbero messo in evidenza le sue proprietà antitumorali. Ma non è tutto. Per la Carota Novella Igp di Ispica si aprono nuovi scenari. Resta un punto fermo, naturalmente, il prodotto in sé, apprezzato per le sue qualità riconosciute dal marchio di Indicazione Geografica Protetta, ma la promozione delle peculiarità dell’estratto di “Carotispica” per uso cosmetico sta spalancando nuovi orizzonti. Se ne è discusso a Ispica nel corso di un convegno dal titolo “Sviluppi e scenari futuri della Carota Novella di Ispica IGP”, organizzato nell’ambito della manifestazione Carotispica 2011, prima uscita ufficiale dopo l’ottenimento del marchio. “Dal 7 gennaio il marchio Igp alla Carota Novella di Ispica è definitivo - spiega il sindaco Piero Rustico - e il ruolo del giovanissimo Consorzio di tutela continua a essere fondamentale. Il 2011 è l’anno che segna l’avvio di una

nuova stagione che porterà nuovi brillanti risultati in termini di aumento di produzione e commercializzazione. Segnali importanti per la crescita economica di tutto il territorio, ulteriormente qualificato dal riconoscimento Igp di uno dei suoi prodotti d’eccellenza”. Un Consorzio di tutela giovane ma determinato, che intende ampliare i propri orizzonti. “È fondamentale mettere in moto la macchina - spiega il presidente dell’organismo, Carmelo Calabrese - con 14 aziende produttrici per una superficie certificata di circa 300 ettari. Siamo riusciti a vendere il primo prodotto con imballaggi unici, pur con i problemi fisiologici presenti in ogni start up aziendale, ma i risultati cominciano ad arrivare. Il primo monitoraggio verrà effettuato a giugno, quando l’organismo deputato al controllo delle superfici, dalla coltivazione al confezionamento alla vendita, in base al disciplinare Igp, trarrà le prime conclusioni”. Ma ci sono ulteriori possibilità, quelle legate alla cosmesi: Emanuele Egiziano, dottorando all’Università di Pisa, nella sua relazione dal titolo “Aspetti funzionali dell’estratto di Carota Novella di Ispica IGP: applicazioni cosmetiche”, è entrato nel dettaglio.

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L’Università di Pisa, nei laboratori di Tecnica Farmaceutica della Facoltà di Farmacia, ha assunto un ruolo di coordinamento con le aziende (Extracta snc, Devè srl, Egeria Pharm sas) e di valutazione dell’efficacia degli estratti della Carota Novella di Ispica Igp rispetto agli estratti attualmente in commercio. Quattro le formulazioni sulle quali il laboratorio ha operato: un olio abbronzante, una crema solare, una crema viso e una crema corpo. I risultati sono lusinghieri: “Abbiamo verificato che gli estratti della Carota di Ispica ricavati in laboratorio presentano un’attività antiossidante superiore a quella degli estratti attualmente in commercio. I carotenoidi contenuti, invece, sono leggermente inferiori agli altri analizzati, questo a indicare che l’attività antiossidante non è legata direttamente alla concentrazione di carotenoidi ma all’intero fitocomplesso presente nell’estratto. Anche quest’ultimo dato può essere letto in chiave positiva: una presenza inferiore di carotenoidi rende l’estrat-

to più chiaro e per questa ragione è possibile, per esempio, inserirne una maggiore quantità in una crema, potenziandone l’efficacia senza rischiare di macchiare la pelle”. Uno sviluppo da non sottovalutare in un quadro generale molto ambizioso: “In Sicilia ci sono circa 1500 ettari di coltivazione di carote novelle - dice il vicepresidente del Consorzio, Massimo Pavan - e nei prossimi tre anni puntiamo a raggiungere il 30% di prodotto commercializzato con il marchio Igp della Carota Novella di Ispica. Il percorso per fare conoscere il prodotto al consumatore non è semplice ma ci stiamo impegnando a fondo. Abbiamo ovviamente avviato i contatti con la grande distribuzione - italiana ed estera - e stiamo lavorando anche sul fronte della promozione attraverso bandi regionali, nazionali e comunitari per intercettare risorse”. Torniamo al cibo: cotta o cruda, per le diete e per la vista, per stare bene, insomma, la carota novella può avere diversi utilizzi, anche per accompagnare il gelato. Per info: www.carotanovellaigp.it

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Ecco quindi alcuni spunti per esaltare il sapore della Carota Novella di Ispica Igp, suggeriti da Giuseppe Bono, consulente enogastronomico de “Il Mercato” di Ispica.

Lolli con guanciale, anice stellato e Carota Novella di Ispica

Flan di Carota Novella di Ispica Ingredienti: (dosi per 4 persone): 400 gr. di Carota Novella di Ispica Igp - 300 gr. di ricotta vaccina - 50 gr. di olive verdi - sedano - cipolla - basilico - sale - aceto di vino rosso - olio extravergine d’oliva Preparazione: far stufare la carote in una pentola con cipolla, sedano, un filo d’olio e aceto. Ridurre a crema con un frullatore a immersione, amalgamare la ricotta e aggiungere del basilico. Prendere degli stampini conici da forno, oliarli e riempirli con il composto ottenuto. Cuocere in forno a 130° per 10 minuti. Sfornare tiepidi e servire.

Reginette con canocchie e crema di carote al cardamomo nero Ingredienti: (dosi per 4 persone): 350 gr di pasta formato reginette - 300 gr. di Carota Novella di Ispica Igp - 500 gr. di canocchie - porro - sedano cardamomo nero - sale - olio extravergine d’oliva Preparazione: soffriggere il porro e il sedano con l’olio extravergine, aggiungere le canocchie e fare cuocere per pochi minuti. Aggiungere la crema di carote e aromatizzare con il cardamomo. Far cuocere la pasta, scolare e fare saltare in padella con la crema ottenuta. Servire calda.

Gelato alla carota Ingredienti: 450 ml d’acqua - 300 gr. di Carota Novella di Ispica Igp - 130 gr. di zucchero - 5 gr. di farina di semi di carrubo Preparazione: lavare le carote e passarle con il passaverdura. Unire il succo di carota ottenuto all’acqua tiepida. Mescolare lo zucchero con l’addensante e aggiungere la miscela al composto di carota e acqua. Mantecare il tutto nella gelatiera e servire con foglie di basilico e timo limonato.

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Ricette

Ingredienti: (dosi per 4 persone): 500 gr. di lolli (pasta tipica iblea) - 400 gr. di Carota Novella di Ispica Igp - guanciale di maialino nero dei Nebrodi - anice stellato - aglio - sale - pepe nero Preparazione: saltare il padella insieme all’aglio la carota ridotta a mirepoix con l’olio e il guanciale. Aromatizzare con l’anice stellato. Cuocere la pasta e farla saltare con la crema ottenuta. Servire caldo.


di Francesco Maria Montella

La vacanza

L’estate di Grado tra spiagge, casoni e buona cucina Gustare l’Italia 34


Scoprire davvero Grado significa conoscere tutto ciò che rende unica una vacanza in questa località di mare: qui storia, tradizione, mare, natura, enogastronomia e un ricco calendario di eventi fanno dell’isola d’oro, così chiamata per la sua sabbia finissima baciata dal sole, una meta turistica capace di regalare emozioni sempre nuove e una vacanza dalle molteplici sfaccettature. Prediligere Grado significa avvalersi di strutture altamente qualificate e di una ricettività

che risponde a qualsiasi esigenza di vacanza: si può scegliere tra numerosi alberghi, oppure attrezzatissimi e moderni campeggi, residence turistici, appartamenti e affittacamere. Arrivando da Nord, costeggiando il luccicante specchio d’acqua della laguna e attraversando il ponte girevole del Belvedere costruito nel 1936, si giunge finalmente sull’Isola di Grado. Viceversa, arrivando da Est e oltrepassando l’ordinata campagna si arriva alla Pineta, il polmone verde dell’isola.

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Il centro storico Grado conserva intatto il fascino senza tempo di un’isola lagunare dalla lunga storia, testimoniata dall’intreccio di calli e campielli con monumenti di straordinaria bellezza, e la suggestione di una laguna quasi incontaminata, che attraggono turisti e nel corso degli anni hanno anche ispirato scrittori, artisti e registi. Considerata fin dall’Ottocento la più ambita spiaggia dell’Impero Austro-Ungarico, Grado, antico borgo di pescatori situato tra l’omonima laguna e il Mare Adriatico, vanta una storia che risale alla Gradus romana del II sec d.C. e che continua ad affascinare turisti e artisti di tutto il mondo. Basta addentrarsi nell’intreccio di strade racchiuse fra le mura del castrum (V sec. d.C.) per scoprire opere di rara bellezza, iscrizioni latine, frammenti scultorei, architetture medioevali e i caratteristici camini, opera e marchio inconfondibile di fantasiosi manovali. Le mura del castrum raccontano di un passato lontano che s’intreccia con quello di Aquileia - della quale Grado fu prima porto marittimo, poi rifugio e infine rivale, - e con quello di Venezia, di cui l’Isola del Sole può considerarsi la “madre” in senso storico e re-

ligioso, avendole trasmesso il prestigioso titolo patriarcale. Nel V e VI secolo le ricorrenti minacce barbariche trasformarono l’abitato in fortezza, dove trovarono rifugio i vescovi di Aquileia.

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È a quest’epoca che risalgono le splendide chiese che ancora oggi caratterizzano il centro storico. In Campo dei Patriarchi, proprio nel cuore della città, si affaccia, infatti, la triade di mirabili edifici paleocristiani: la Basilica di Santa Eufemia, il Battistero e la Basilica di Santa Maria delle Grazie. Il Duomo (Basilica di S. Eufemia) custodisce le testimonianze dei suoi quattordici secoli di storia, come l’ambone romano, la pala veneziana in argento e, nell’abside, l’affresco gotico del “Cristo in gloria”. L’armoniosa architettura degli interni è scandita dal ritmo dei colonnati e dal mirabile mosaico pavimentale, mentre a destra dell’abside centrale si apre la cappella-mausoleo del patriarca Elia, fondatore della chiesa, dove sono custodite le preziose opere di oreficeria e argenteria dei secoli VI e VII del Tesoro del Duomo. Nel lato sud si erge il campanile medioevale sulla sommità del quale svetta l’inconfondibile Angelo segnavento, dono veneziano e simbolo, ormai, di tutta la comunità di Grado.

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Il turismo nei tipici “casoni” Scenario naturale d’indiscutibile bellezza e straordinaria ricchezza naturale, la laguna di Grado comprende due riserve che ne custodiscono la biodiversità, e accompagnano i turisti alla scoperta di questo ricco patrimonio. Qui, per far sperimentare in prima persona la vita in laguna, è stato realizzato il primo albergo diffuso in ambiente lagunare in Europa, che verrà inaugurato a breve. Meno di un secolo fa tutta la vita dei gradesi si svolgeva nelle oltre 200 isole della laguna, come testimonia il paesaggio disegnato da canali e valli da pesca per l’allevamento di cefali e branzini, isole puntinate di “casoni” e sporadiche costruzioni. Abitazioni umili interamente costruite con materiali reperibili in laguna (legno, fango, canna palustre), i “casoni” fungevano inizialmente da riparo per i pescatori che facevano la spola tra Grado e Marano. Essi costituiscono oggi una straordinaria testimonianza della storia della laguna e del rapporto equilibrato e rispettoso mantenuto tra i graesani e il loro ambiente.

Con l’obiettivo di conservare e valorizzare al meglio il patrimonio storico-culturale lagunare, la Regione Friuli Venezia Giulia ha cofinanziato la realizzazione del primo albergo diffuso in laguna a livello europeo attraverso la ristrutturazione e lariqualificazione dei “casoni” in chiave ecocompatibile. Il progetto “Ospitalità originale in laguna” rappresenta un modo per promuovere una tipologia di turismo sostenibile con benefici sul

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recupero degli ambienti, possibilità di integrazione del reddito per i privati coinvolti, ma soprattutto uno strumento interessante e non invasivo per scoprire e sperimentare in prima persona la vita in laguna in tutti i suoi aspetti, dalla natura alla storia, dalle tradizioni all’eccellente gastronomia. Tra pochi mesi, la nicchia di turisti più esigenti, alla ricerca di un’oasi inconsueta di benessere e relax, avrà così la possibilità di soggior-

nare nei casoni ristrutturati della laguna, sperimentando le attività che essa offre, dalla pesca alla canoa, in un ambiente assolutamente unico nel suo genere.

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Un spiaggia su misura Record nazionale con 22 Bandiere Blu, tre spiagge interamente rivolte a sud e quindi esposte tutto il giorno ai raggi solari, 120.000 mq di sabbia dorata e ricca di minerali, strutture qualificate e un ricco e variegato programma di animazione con iniziative per tutta la famiglia fanno di Grado una destinazione balneare di primo livello. Un vero paradiso per il turismo balneare: Grado detiene il record nazionale di assegnazioni grazie alla 22esima Bandiera Blu ottenuta nel 2010 (la 21ma consecutiva) e vanta il primato di essere l’unica località dell’Adriatico a essere interamente rivolta a sud e quindi esposta ai raggi solari per tutta la giornata. Circa 120.000 mq di sabbia dorata e ricca di preziosi minerali suddivisi in tre spiagge che offrono servizi differenziati ai propri turisti, suggerendo un modo nuovo di vivere la spiaggia.

• Spiaggia GIT: nel cuore di Grado, addossata alla zona centrale dell’isola, a due passi dai principali hotel, negozi e ristoranti, si apre l’ampia spiaggia GIT: una distesa di sabbia d’oro, fiore all’occhiello dell’offerta

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• Spiaggia costa azzurra:

concentrandosi soprattutto sulle esigenze dei suoi piccoli ospiti e delle famiglie, la spiaggia Costa Azzurra di Grado, situata alle spalle del centro storico, sfrutta l’ampia distesa di sabbia come scenario d’eccezione per rappresentazioni fiabesche, giochi, racconti e iniziative speciali, anche sotto le stelle.

• Spiaggia di Grado Pineta: balneare gradese per l’alta qualità delle strutture e dei servizi offerti, che ha ottenuto l’Oscar per l’ospitalità 2009 dalla rivista “Spiagge d’Italia” nell’ambito della seconda edizione del concorso che premia i 12 stabilimenti balneari italiani più innovativi. Una spiaggia curata e controllata, con accesso a pagamento, per assicurare la massima sicurezza e mantenere un alto livello di servizio per tutti i propri ospiti.

infine, a circa un km dal centro, al quale è collegata da una comoda pista ciclabile, si estende la spiaggia di Grado Pineta dove il profumo del mare si fonde con quello dei pini, il colore dorato della sabbia al verde degli alberi. A due passi dal verde, con una sezione riservata agli amici a quattro zampe, Grado Pineta organizza nei mesi di luglio e agosto molteplici attività d’animazione per grandi e piccini, distribuite durante l’intero arco della giornata.

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Grado, una laguna da gustare La ricchezza e il fascino della laguna, scrigno di storia e natura, si manifestano anche a tavola, nella qualità e nel gusto dei prodotti tipici dell’enogastronomia locale. Dall’asparago bianco di Fossalon, la cui produzione è iniziata oltre due secoli fa, al pesce azzurro di cui è particolarmente ricca quest’area dell’alto Adriatico, fino al santonego, una speciale qualità di assenzio marino dalle foglie color verde argentato, molto aromatico e con proprietà digestive. Nelle sue specialità tradizionali Grado è riuscita a trasporre sul piano del gusto l’incontro tra mare e terra, combinando sapientemente i sapori in un risultato di qualità che racchiude il fascino del luogo e delle sue tradizioni. Così il “boreto a la graisana”, il pesce azzurro e l’asparago bianco di Fossalon sono diventati emblemi del gusto dell’Isola d’Oro. Ogni anno Grado dedica a queste tre specialità, primizie per i palati, alcune rassegne, occasione per locali e turisti di assaporare la qualità unica dei prodotti della zona e scoprire ricette tipiche e nuove interpretazioni.

L’asparago bianco di Fossalon, tenero e prelibato, si avvia al riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.) da parte della Comunità Europea. In Friuli Venezia Giulia lo si coltiva su circa 250 ettari complesivi, certificandone la provenienza con il marchio Igp (Indicazione Geografica Protetta Regionale). I suoli d’elezione, comunque, sono quelli sabbiosi, senza ciottoli, costituiti dalle alluvioni recenti del Tagliamento, del Torre e dell’Isonzo, dalle dune costiere prospicienti la laguna di Grado, nonché da alcuni terreni ottenuti con la bonifica di Fossalon. D’estate, con il fulcro nel mese di luglio, il protagonista indiscusso delle tavole e delle rassegne gastronomiche proposte dai ristoranti del centro è il pesce azzurro, che in quest’area dell’alto Adriatico è considerato dagli intenditori il migliore e il più saporito, proprio in virtù dell’elevata salinità del mare e dalla compresenza dei bassi fondali nella laguna gradese. Con il termine “pesce azzurro” si designano tutti i pesci di mare che vivono lontano

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dalle coste, ma che comunque non hanno consuetudine col fondo marino. Sono pesci valutati in base al sapore, adatti a cotture semplici e immediate. Per essere apprezzati in tutta la loro bontà devono essere consumati molto freschi, cosa che a Grado è assicurata dal lavoro della Cooperativa dei pescatori che ogni mattina al mercato ittico scarica in abbondanza di pescato freschissimo, oggetto di un’animata asta riservata ai commercianti Il piatto gradese per eccellenza rimane però il “boreto a la graisana”, la cui ricetta racchiude la storia stessa dell’Isola di Grado. Emblema di una vita fatta di mare e di pesca, nell’incantevole scenario della laguna, il boreto è una pietanza unica per la semplicità degli ingredienti e della preparazione, creata in origine dai pescatori locali e tramandata di generazione in generazione. Primario sostentamento dei gradesi che abitavano i “casoni”, le tipiche abitazioni di paglia e canne palustri degli isolotti lagunari, è entrato presto nelle mense delle famiglie abitanti l’antico borgo del castrum e da lì innalzato fino alle alte sfere della cucina gradese.

Come accompagnamento un ottimo vino friulano, preferibilmente rosso, come lo “Schioppettino”, visto che in passato il bianco, avendo la tendenza a trasformarsi presto in aceto, finiva nella preparazione stessa del boreto. Mentre il digestivo principe è il “santonego”, una speciale qualità di assenzio marino, pianticella perenne dalle foglie verde argentato, aromatico e digestivo.

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Tradizioni gradesi Fedele alle proprie tradizioni, da secoli l’Isola di Grado dedica il primo week-end di luglio alle celebrazioni religiose del “Sabo Grando” e “Perdon de’ Barbana”, con la caratteristica processione in barca verso l’Isola di Barbana per rendere grazie alla Vergine che nel 1237 salvò l’isola da una terribile epidemia di peste. Da secoli il sentimento religioso e l’attaccamento alle proprie tradizioni rivivono con la più bella e sentita festa dell’isola. I festeggiamenti interessano tutta l’area del centro storico, dove sono allestiti mercatini di prodotti tipici, si svolgono concerti e degustazioni enogastronomiche; la zona del porto dal quale parte la variopinta processione di barche addobbate a festa che, attraversando la

laguna, raggiunge il Santuario della Madonna di Barbana nell’omonima isola, nel quale viene officiata la funzione religiosa vera e propria. Il santuario sorge nel punto esatto nel quale, secondo la tradizione, nel 582, dopo una violenta mareggiata, fu ritrovata una statua lignea della Madonna. Interpretando il fatto come espressione della volontà divina, il patriarca Elia vi fece costruire una chiesa dedicata alla Vergine, che da quel momento divenne il fulcro del culto mariano dei gradesi. La devozione per la Madonna di Barbana fu rafforzata da un altro episodio cruciale della storia della città: la fine di una terribile epidemia di peste che afflisse l’isola nel 1237, il cui merito fu attribuito a un intervento della Santa Vergine.

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• Sabo Grando (sabato grande): rappresenta una straordinaria occasione di ritrovo nella quale riscoprire e assaporare il folclore della vita gradese. La vigilia della tradizionale processione lagunare del “Perdon de’ Barbana” è, infatti, una vivace giornata di festa, che anima calli e i campielli del Castrum con mercatini di prodotti tipici, canti, danze e musiche gradesi, con l’esibizione della Banda Civica, e che culminano in un suggestivo spettacolo pirotecnico sul mare.

Perdon de’ Barbana La domenica si svolge il tradizionale pellegrinaggio in barca verso l’Isola di Barbana per sciogliere un voto risalente al 1237. La mattina il porto di Grado si affolla di pescherecci addobbati a festa con pennoni, ortensie, ghirlande, bandiere e gran pavese. Al grido di “In nome de Dio avanti!”, un variopinto corteo di barche con a bordo le autorità religiose e civili e i capofamiglia della comunità gradese lascia il porto e inizia il pellegrinaggio via mare per ricondurre al Santuario di Barbana la statua lignea della Madonna degli Ange-

li (conservata all’interno della chiesa paleocristiana di Santa Maria delle Grazie, situata nel centro cittadino). Al termine di una messa solenne nel monastero dell’isola, il corteo riporta la statua a Grado per il “Te deum” lasciandosi alle spalle una scia di ortensie, staccate dalle imbarcazioni dei fedeli.

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di Alessandro Milani

Le tante sfide del Tonno Colimena ”Le acciughe fanno il pallone che sotto c’è l’alalunga se non butti la rete non te ne lascia una”

Il produttore

Così cantava Fabrizio De Andrè, grande amante e conoscitore del mare, citando un modo di dire popolare genovese. Le acciughe, nelle acque di fronte a Genova, si uniscono in branco a forma di palla e fuggo-

no ad alta velocità non solo dalle reti dei pescatori, ma soprattutto da quel grande predatore che è il tonno alalunga. Anche lui, a sua volta, non se la passa bene, però, visto che la sua pesca è stata da tempo regolamentata e fortemente ridotta. Per evitare che esso scompaia dalle tavole italiane è stato necessario selezionare al massimo gli operatori del settore ai quali concedere il permesso di continuare a inseguirlo, tra le

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onde mediterranee, in una lotta che sarà sempre impari, ma il cui risultato non è già scontato e che costa fatica anche al vincitore. La scelta su chi possa avere l’onore e l’onere di questa sfida è caduta su pescatori di provata onestà e metodi antichi: le tonnare di Torre Colimena e la cooperativa dei pescatori di Porto Cesareo, nello Jonio. Sono loro che hanno ancora oggi la possibilità di provare a catturare questi grandi signori del mare e della tavola italiana. E spetta poi al “Tonno Colimena” il compito (ma anche la felicità e l’orgoglio di lavorare e commercializzare lo straordinario pescato. “Tonno Colimena” - per tutti in paese semplicemente “la fabbrica del tonno” - ha sede nella zona industriale di Avetrana (TA), le

barche tra la baia di Torre Colimena e Porto Cesareo e il motore nella famiglia Scarciglia/ Lomartire. Chi pensa che inseguire i propri sogni di bambino non porti da nessuna parte non avrà interesse per questa storia, ed è libero di non leggerla o di non crederci, ma tutto nasce da un bambino di 5 anni, il piccolo Franco, che - dopo aver costruito un arco e delle frecce di legno - invece di fingersi Robin Hood e inseguire lepri e conigli, se ne stava ore e ore sott’acqua ad aspettare i pesci più grandi, come un novello Achab a sfidare tante Moby Dick. Quando quel bimbo tanto amante del mare è cresciuto, emigrato al Nord e tornato, e ha aperto un ristorante, ha subito voluto che il primo passo fosse riprendere la caccia a quei

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pesci. Non più soltanto per sé, per il gusto della sfida personale, ma anche per i suoi clienti, che dovevano poter godere dei frutti dello Jonio, quel mare che si faceva ammirare, vicinissimo, dai tavolini del locale. Più aumentavano i frequentatori del ristorante, più occorreva pescare tonno. Era venuto il tempo di coinvolgere anche quei gruppi di pescatori che rischiavano di perdere un mestiere o snaturarlo entrando nel circuito della pesca intensiva. Era anche venuta l’ora di regolamentare un’attività tradizionale con tanto di certificazioni e garanzie. Nacque così in Franco, nel fratello Pompeo e nel cognato Agostino, di riattivare l’antica tonnara di Torre Colimena e creare una fabbrica per lavorare quei tonni che - nonostante la crisi e la crescente penuria di pesce - Franco continuava a pescare per passione.

Tonno Colimena inizia la sua attività nel 2007, forte di tutta l’esperienza di anni e anni di pesca tradizionale. Può sembrare una banalità, ma qui davvero i ritrovati della tecnologia e la possibilità di lavorare in una struttura industriale sono semplicemente messi al servizio di tecniche e procedimenti antichi, e molte fasi della lavorazione avvengono ancora come secoli fa, grazie al solo lavoro delle mani. Come poteva accadere di vedere un tempo, di notte gli uomini salpano con le loro barche, lanciano le reti ferrettare o il palamito, e tornano sulla costa con il pesce: tonno alletterato (o tonnetto), tonno alalunga e palamita. Una volta giunti a Torre Colimena trasportano il pescato in fabbrica, dove - come faceva fino a qualche tempo fa Franco - il tonno viene lavorato in giornata: pulito, cotto (rigorosamente

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non al vapore ma nel brodo di cottura, accompagnato soltanto da acqua, sale, olio pugliese, aceto e aromi mediterranei), tagliato e messo sotto vetro (non dentro latte metalliche). Alla fabbrica lavorano molte donne, che esaltano ulteriormente la bontà del prodotto con la loro manualità e la passione di chi sta preparando il pranzo per la propria famiglia. In locali nei quali - difficile a credersi per chi abbia visitato impianti industriali dei più svariati settori dell’alimentare - non si sente nemmeno “puzza” di pesce, ogni fase è controllata e rispetta anche le più rigide norme europee, grazie a un’altro dei figli di Franco, Paolo, quello che più degli altri ha seguito le orme del padre pescatore, diventando un punto di riferimento nella “fabbrica del tonno”. Aldilà del rispetto delle regole, i capisaldi del Tonno Colimena sono altri, e alla famiglia

Scarciglia piace presentarli come le 4 S: saporito, sano, sostenibile e salentino. Già, perché oggi che si parla tanto di filiera corta e prodotti a kilometro zero, sapere che qui arriva soltanto pesce che nuotava a poche miglia dalla costa di questa parte dello Jonio tra Taranto e Gallipoli è una bella garanzia. Questa “bottega artigiana ingrandita” può infatti vantarsi di rispettare la stagionalità della pesca, di non sporcare i mari come i grandi pescherecci oceanici, di non compiere mattanze di delfini e altri cetacei, di non soccombere alle leggi della pirateria industriale.

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Parlando con Giuseppe Scarciglia, figlio di Franco, bastano due semplici frasi per capire come si ragiona da queste parti. Se infatti gli si chiede quale sia la più grande soddisfazione che gli ha dato questa sfida, non ha esitazioni nel rispondere che consiste nel fatto di non aver ancora incontrato qualcuno esperti del settore compresi - che non abbia detto che il Tonno Colimena non sia buono. La seconda svela con naturalezza la mission aziendale: dopo avermi chiesto se avessi visto il servizio realizzato da Report sulla pesca intensiva del tonno, Giuseppe mi dice che è la prima cosa che fa vedere ai suoi agenti di vendita, per dire: ecco, da noi non avviene niente di tutto ciò. Citando Montale: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non stupisce quindi che di questo prodotto se ne sia innamorato Slow Food, sempre alla ricerca di quei “presidi” che rappresentano e tutelano prodotti tradizionali di qualità ed eccellenza, e lo abbia voluto presente a Slow Fish, a Genova.

Forte della propria origine salentina e anche di un’offerta che spazia ormai dai filetti di tonno alla ventresca, dal conditonno per la pasta ai pomodorini ripieni, al Tiavolik, in salsa piccante, oggi il Tonno Colimena non ha difficoltà a imporsi per qualità sul mercato nazionale e anche su quello estero, come dimostrato dai successi raccolti in fiere internazionali, di settore e non. E pensare che questa sfida è nata “semplicemente” dalla saggezza dei pescatori dello Jonio…e dalla passione di un bambino di 5 anni che giocava con l’arco e le frecce sott’acqua! Per informazioni: www.tonnocolimena.it

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di Alessandro Milani

OspitalitĂ italiana

Reggia Domizia, dove si sposano classe e passione

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“Roma non è stata costruita in un giorno”, recita il proverbio. Ma senza scomodare la Città Eterna, nemmeno un albergo, un residence, un ristorante possono nascere in una notte, come funghi, soprattutto se basano la propria filosofia sul rapporto con il territorio. Andando a ricercare le molle che spingono verso un’azione, non sempre ci si trova di fronte a freddi calcoli, business plan, ragionamenti e pianificazioni aziendali.

Spesso ci si imbatte invece in intuizioni, passioni, talvolta azzardi, di certo molto più interessanti da raccontare e da conoscere. È il caso della storia di Reggia Domizia, lo splendido relais situato sulla strada che da Manduria porta a Sava, e poi ancora verso Taranto. Reggia Domizia è infatti il punto d’arrivo di un percorso iniziato oltre 40 anni fa, quando Pompeo Scarciglia, partito da Avetrana per andare a lavorare al Nord, per l’esattezza a Brugherio, tra Milano e la

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Brianza, viene raggiunto dal fratello Franco e dal cognato Agostino Lomartire. Sono loro, tre uomini, poco più che ragazzi, del Salento tarantino a comporre la squadra che otterrà quei risultati che porteranno a Reggia Domizia. Lavorando inizialmente nella gestione di alcune mense aziendali della cintura milanese, in poco tempo acquisiscono esperienza e soprattutto riconoscimenti tali da poter intraprendere attività in proprio nel campo della ristorazione. Il modo con il quale trattano la clientela e soprattutto sembrano anticiparne e cavalcarne gusti ed esigenze permette loro di diventare sempre più conosciuti, stimati e fuggire da quello stato di necessità che li aveva spinti a emigrare al Nord, abbando-

nando una terra meravigliosa ma arida di possibilità lavorative stabili. Mentre Agostino decide di continuare l’esperienza in Lombardia, Franco sente troppo forte il richiamo della sua terra, anzi, del suo mare, il suo habitat naturale. Senza di esso sta male e decide di tornare in Puglia. E qui cosa può fare? Continuare a lavorare nel campo della ristorazione, ovviamente. Individuato il luogo giusto, sulla costa, a Torre Colimena, occorre lanciarsi. A rispondere subito è ancora una volta la famiglia: il fratello e il cognato decidono di investire parte dei ricavi delle mense nella costruzione de La Scogliera, un locale sul mare che possa avere anche un residence per i turisti e grandi sale per i matrimoni. Al Nord questi ragazzi salentini hanno co-

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nosciuto un nuovo tipo di ristorazione e un certo senso degli affari, e capiscono che i gusti della clientela locale stanno cambiando: iniziano quindi a offrire la cucina del territorio, di terra e soprattutto di mare, con il pesce appena pescato. Il successo de La Scogliera è immediato, sia per i matrimoni, sia per chi vuole provare i piatti di Franco, al quale si devono la maggior parte delle ricette del locale. E i clienti sono quasi tutti del posto, o dei paesi vicini, persone che hanno trovato un angolo di paradiso dove festeggiare le nozze dei figli o assaporare pesce freschissimo, soprattutto tonno, godendo dello spettacolo dello Jonio attorno alla quattrocentesca torre d’avvistamento. La Scogliera è ancora oggi il locale ideale per gustare la vera cucina tradizionale di questa zona del Salento: pesce, come detto, e frutti di mare, ma anche tanta verdura (a metro zero, non a kilometro zero, visto che la maggior parte di casa proviene dall’orto di famiglia), legumi, carne, dolci e liquori fatti in casa. Una cucina basata su ingredienti semplici che si esaltano reciprocamente in uno straordinario trionfo di sapori autentici. Il successo de La Scogliera non ferma la fantasia e l’intuito di Franco, il quale, vista la crescita del turismo stagionale sulla costa, fatto soprattutto di giovani, pensa che occorra un locale apposta per loro: nasce così, sempre a Torre Colimena, lo Ziu Belo, pizzeria e discobar per cena e dopocena di ragazze e ragazzi. Lo affida ai due figli maggiori, Giuseppe e Antonella, ma il progetto ottiene ancora una volta l’ok entusiasta di tutta la squadra. Un affare di famiglia, nell’accezione migliore

possibile. Perché è la famiglia a passare dalla teoria alla pratica e fare gli investimenti, compreso chi è rimasto al Nord. Se dovessimo utilizzare una metafora calcistica, nella sq uadra della famiglia Scarciglia i ruoli sono sempre stati ben definiti: Pompeo, purtroppo recentemente scomparso, era il mediano, che faceva il lavoro di fatica e rubava palla agli avversari, Franco è il regista, con l’intuizione vincente, che sa già cosa fare prima ancora di avere il pallone tra i piedi, Agostino il trequartista, libero di spaziare per il campo con la sua simpatia immediata, il suo sorriso e il suo saper trattare, con il semplice cliente così come con il grande politico. I figli di Franco gli attaccanti, i finalizzatori, quelli che devono correre e buttare la palla in rete. Questa vera e propria “fabbrica di idee” non ne vuole sapere di fermarsi: un’altra nuova intuizione emerge, e tutti sanno che è quella giusta, ancora una volta. Organizzando ormai da anni matrimoni a La Scogliera, intuiscono che la tendenza nel festeggiare le nozze, soprattutto in una regione come la Puglia dove spesso si trasformano in un evento epocale, si sta spostando dalla costa verso l’interno.

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Cavatelli al conditonno Colimena

Ingredienti per 4 persone: un vasetto di conditonno Colimena da 180 gr; 400 gr di cavatelli freschi; 150 gr di pomodorini; olio extravergine d’oliva; uno spicchio d’aglio; 50 gr di cipolla fresca; 100 gr di prezzemolo. Ingredienti facoltativi (per gli amanti dei sapori intensi): 50 gr di olive nere; 10 gr di acciughe sott’olio; peperoncino fresco Procedimento: Far bollire l’acqua, salarla e versarvi la pasta. Nel frattempo versare in un saltiere l’olio e portare a fiamma alta: aggiungere la cipolla tritata e lo spicchio d’aglio (anche intero, per poi toglierlo dopo la cottura) e far rosolare. Una volta imbiondita la cipolla, unire i pomodorini e far rosolare a fiamma alta, spolverando con il prezzemolo tritato fresco. Completata la cottura dei pomodorini (circa 5/7 minuti), spegnere il fuoco e versare nel saltiere il contenuto del vasetto di conditonno. Ultimata la cottura della pasta, unirla al composto preparato e mantecare bene a fiamma spenta spolverando con prezzemolo tritato fresco e servire. Gli ingredienti facoltativi per gli amanti dei sapori forti sono da aggiungere in fase di rosolatura.

Il territorio vanta ville antiche e numerose masserie che ben si prestano a ricevimenti sfarzosi, in ambienti spaziosi e protetti, lontani dai paesi, molte volte in contesti suggestivi e carichi di storia. Pompeo, Franco Agostino questo lo capiscono prima del boom delle nozze in masseria, ma per “buttarsi” devono trovare un luogo adatto, non una location qualsiasi. Reggia Domizia nasce così nel 2007, magari un po’ in ritardo rispetto ai piani, ma finalmente là dove in grado di trasformarsi da uno dei tanti posti per novelli sposi in un relais straordinario, dove i fidanzati possano sognare “quel giorno” di invitare orgogliosi amici e parenti. Reggia Domizia, infatti, è questo ma anche molto di più. Gestita da Giuseppe, che ha lasciato lo Ziu Belo alle cure della sorella Antonella e di suo marito Filippo, ha sì un occhio di riguardo per le coppie nel giorno del sì, ma anche per una vacanza all’insegna del relax e dell’alta gastronomia di qualità. La struttura originaria del complesso è

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composta da una villa ottocentesca e dall’annessa masseria. La prima cosa che si è voluto fare è stato il recupero, il più fedele possibile, dell’impianto iniziale, adeguatamente ristrutturato rispettando vincoli edilizi e architettonici, ma anzitutto il gusto e il “senso” della villa. Ai lavori ha sovrinteso anche Franco in persona, rispolverando studi e passione di quando, ragazzo, frequentava il liceo artistico di Lecce. Oggi Reggia Domizia può vantare, in ambienti perfettamente riadattati, saloni per ricevimenti e salette per colazioni, cene e pranzi più intimi, cortili e stanze eleganti. Attorno al complesso, in un’area di 32 ettari complessivi, prati, strutture en plein air sempre per i banchetti e una piscina con giochi d’acqua e di luce che sembra fatta apposta per le foto di rito del book degli sposi. Tutto ciò permette realmente una personalizzazione totale della festa di matrimonio, che può consistere in un aperitivo all’aperto, un banchetto a bordo piscina, una lussuosa

cena nei saloni interni, una festa danzante, un ricevimento di classe e raffinato. Qui chi convola a nozze può davvero creare da sé la festa che ha in testa da anni. Il servizio è il fiore all’occhiello di Reggia Domizia. Nel solco della tradizione e sfruttando l’esperienza di famiglia, qui tutto sembra possibile agli ospiti. Chi sceglie questo relais può godere di una dozzina di stanze veramente accoglienti, la maggior parte delle quali senza dubbio definibili come suite, anche a due piani o con l’idromassaggio. Piccoli angoli felici dai soffitti altissimi, con le volte a botte oppure le travi a vista, scale in ferro battuto e rifiniture di classe, accompagnate da bagni ampi e funzionali, frigobar e tv satellitare. La ricezione dell’hotel verrà ulteriormente potenziata a breve, con un progetto di aumento degli spazi adibiti a camere e con la piena funzionalità di un centro benessere con sauna, bagno turco, percorsi nella

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natura e cromo, aroma e musicoterapia. In attesa che anche i devoti dello stare bene olistico inseriscano questo indirizzo nella loro rubrica, Reggia Domizia ha già di che gratificare gli amanti del benessere concesso ai mortali attraverso l’alta gastronomia. Il ristorante del relais è infatti di livello elevatissimo: qui i piatti della tradizione salentina si sposano con la sperimentazione culinaria dei moderni chef senza perdere di vista i veri protagonisti dei piatti, cioè i prodotti del territorio. Idealmente complementare a quella de La Scogliera, la cucina di Reggia Domizia utilizza i tesori della terra e del mare in modo più sofisticato, reinterpretando le ricette tradizionali. Non si punta alla semplicità, ma all’elabo-

razione creativa e fantasiosa. Il risultato è straordinario, grazie alla maestria dello chef e del suo staff, ma anche perché a fornire la materia prima è la stessa azienda agricola di famiglia che circonda la villa. L’ultimo assist della famiglia è per Francesco, l’ultimo dei figli di Franco, che ha raggiunto Giuseppe a Reggia Domizia, posizionandosi nelle grandi cucine, con il compito di mantenere alta la bandiera della cucina che negli anni ha regalato tante soddisfazioni. Ma cosa rende davvero unica Reggia Domizia in un contesto geografico nel quale sono sorte e ancora stanno sorgendo numerose strutture che offrono più o meno gli stessi servizi? Le risposte emergono già tra le righe, dall’altissimo livello del servizio alla fantasia in cucina, dalla genuinità dei prodotti alla possibilità per gli sposi di personalizzare il “gran giorno”. Un ingrediente però soggiace a tutto: la passione per il proprio lavoro. È soltanto la passione che spinge a curare il dettaglio, ed è solo il dettaglio a rendere un posto unico, come Reggia Domizia. Se nel tempo, nella comunicazione turistica, il concetto di “conduzione” o gestione familiare non fosse finito a indicare quel tipo di accoglienza sì calorosa e invitante, ma anche semplice, “alla buona”,

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implicitamente segno di ristrettezza di mezzi per poter fare di più, si potrebbe utilizzare anche per Reggia Domizia. La sua è infatti una conduzione familiare - parlando con chiunque di loro appare evidente che ciò che ha reso possibile tutto è stata ed è la forza del legame familiare - ma oggi questa famiglia di ristoratori salentini vanta ormai nel campo dell’accoglienza esperienza e professionalità tali da essere paragonati a una grande dinastia di imprenditori. Del resto, anche la FIAT è sempre stata un’azienda a conduzione familiare… Per informazioni: Reggia Domizia c/o C. da Pozzucupo – SS. 7 Ter. Manduria-Sava (TA) Tel. 099.9745111 www.reggiadomizia.it

La ricetta di Antonio Gentile, Chef di Reggia Domizia: filetto di tonno in crosta di pistacchi e pinoli su insalatina di ortaggi e gamberi viola di Gallipoli al finocchietto selvatico Ingredienti per 4 persone : 600 g di filetto di tonno - 100 g di pistacchi sgusciati - 60 g di pinoli - 12 gamberi viola - mezzo finocchio - un cuore di sedano - 6 ravanelli - un cetriolo - una carota - un limone - un albume d’uovo olio extravergine d’oliva - finocchietto selvatico - farina pepe bianco - sale Procedimento: pulire i gamberi viola dal carapace tenendo attaccati testa e coda, e condirli con olio, sale, pepe, finocchietto selvatico, succo e buccia di limone. Pulire le verdure, tagliarle a listarelle e creare un’insalatina di ortaggi condita con olio, sale e pepe. Prendere il filetto di tonno e condirlo con sale e pepe bianco a mulinello. Passare il tonno in poca farina, poi nell’albume snervato e infine avvolgerlo nel trito di pistacchi e pinoli. Successivamente dorarlo in una padella antiaderente con un filo d’olio caldo e terminare la cottura in forno a 180° per una quindicina di minuti.

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di Roberto Mottadelli

Il consorzio agroalimentare

Il mosaico (liquido) di Otranto Si fa presto a dire Puglia. Un solo nome per almeno otto “sub-regioni” differenti, terre e tradizioni distinte, a volte in reciproca contraddizione, separate da storiche rivalità: in rigoroso ordine alfabetico, Arco Ionico, Gargano, Murge, Salento, Subappennino Dauno, Tavoliere, Terra di Bari e Valle d’Itria. Forse avevano ragione i maestri elementari

di una volta, quelli che, quando recitavano il rosario delle regioni del nostro Paese, scandivano “le Puglie”, rigorosamente al plurale. E con la bacchetta discendevano lungo la carta geografica picchiettando per qualche istante sul tacco dello Stivale, ché occorreva concedere il tempo necessario per far memorizzare la nozione.

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Š oliopuglia.it (4)

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Si potrebbe obiettare che ad accomunare tutte o quasi le anime della Puglia - anzi, delle Puglie - ci pensa il prodotto tipico locale per antonomasia: l’olio, oro liquido, ovviamente d’oliva ed extravergine. Ma basterebbe approfondire un poco l’indagine per scoprire che quello di “olio pugliese” è un concetto relativo. Perché le diverse varietà di olive coltivate nella regione, e la natura eterogenea dei terreni e dei microclimi, danno vita a prodotti non certo identici tra loro, per quanto accomunati dal livello qualitativo eccellente e da alcune macrocaratteristiche ricorrenti. Prendiamo l’olio “Terra d’Otranto DOP”. Se non si conoscesse la geografia della regione,

lo si potrebbe pensare un prodotto originario della sola città che gli dà il nome, celebre per il mare e per gli straordinari mosaici della cattedrale. In realtà la sua zona d’origine è decisamente più ampia. Include infatti tutta la provincia di Lecce, l’area orientale della provincia di Taranto e alcuni comuni meridionali della provincia di Brindisi. Una striscia di terre rosse e brune, poggianti su rocce calcaree, che unisce la costa orientale a quella occidentale: l’ambiente perfetto per coltivare due tipologie di olivi, la Cellina di Nardò e l’Ogliarola salentina. E proprio queste varietà, secondo il rigoroso disciplinare di produzione, sono alla base dell’olio “Terra d’Otranto DOP”: la raccolta dei frutti deve avvenire direttamente dalla pianta prima dell’inizio di febbraio, mentre l’oleificazione (che può avvalersi solo di processi meccanici o fisici) deve avere luogo entro due giorni dalla raccolta. La cultivar Cellina di Nardò si distingue da subito per l’altezza degli alberi, che possono superare i 12 metri: dai loro frutti si ricava un olio dall’aroma fruttato con note di frutta e verdura, dal sapore armonico che rilascia sensazioni di mandorla, pomodoro ed erba, piccante e persistente, con retrogusto amaro. L’Ogliarola dà invece vita a un’extravergine sapido ma delica-

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to, con note fruttate mai eccessive, leggermente amaro e piccante, con sentori di carciofo. Dall’incontro tra queste olive nasce un olio di colore verde o giallo-verde e di sapore frut-

tato, con media sensazione di amaro e una sottile nota di piccante: caratteristiche “standard” che variano leggermente in base al peso che ogni produttore attribuisce alla Cellina piuttosto che all’Ogliarola, e che possono acquisire ulteriori sfumature grazie all’aggiunta di percentuali minori di altre olive, rigorosamente coltivate in loco. Si spiega anche così l’incredibile versatilità dell’olio “Terre d’Otranto DOP”, che può accompagnare tanto i primi piatti di pasta, quanto legumi e verdure cotte; si abbina ottimamente alla carne, ma dà risultati di assoluto livello anche con il pesce… Ed ecco che, quasi senza volerlo, si scopre che le Puglie e l’olio “Terra d’Otranto DOP” condividono lo stesso segreto, la stessa inesauribile fonte di fascino: entrambi sono il frutto dell’incontro felicissimo tra identità vicine eppure differenti. Preziosi mosaici composti con tessere tra loro perfettamente complementari, note squillanti che si fondono in inattese armonie.

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Quando si parla di carne è facile sentire l’espressione “tagli nobili”. Ovviamente non esistono ceti sociali tra le parti di un animale da macello, piuttosto esistevano in passato diverse destinazioni delle suddette porzioni. Ai ceti più abbienti erano riservati tagli pregiati quali filetto, fesa, costata e via dicendo, mentre gli scarti, ovvero ghiandole e interiora, erano recuperate dalle classi più povere. Da qui l’aggettivo nobili. Da qui anche la grandissima capacità di riciclo tipica della cultura gastronomica italiana. Molto spesso agli appassionati di cucina risulta difficile riprodurre tecniche di preparazione e cottura tipiche del passato proprio perché la situazione sociale è totalmente mutata e i mezzi di allora sono stati soppiantati da strumenti più moderni.

Un tempo fu proprio la necessità a far aguzzare l’ingegno: rendere non solo commestibili, ma anche di ottimo livello qualitativo, cibi di scarto è sempre stata la grande arte culinaria del nostro Paese. Uno degli esempi di questa tradizione è rappresentato dagli involtini di frattaglie tipici della Puglia noti come torcinelli nel nord della regione o turcinieddhri o gnummareddi nel centro-sud.

Paese che vai, ricetta che trovi Sono infinite le varianti della ricetta degli appetitosi involtini di carne: non solo cambiano da paese a paese, ma anche da rosticceria a rosticceria e addirittura da famiglia a famiglia. Tutte comunque prevedono l’utilizzo di parti di scarto quali fegato, polmone, ro-

Il cibo di strada

di Marco Locatelli

I turcinieddhri, scarti d’autore

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gnone e timo avvolti da pezzetti di budello di agnello o capretto. Ogni cuciniere provvede poi alla speziatura che ritiene più adeguata al risultato desiderato. Purtroppo oggi è sempre più difficile procurarsi le parti necessarie per la preparazione poiché smaltite subito dal macellatore. E se anche qualcuno avesse la fortuna di avere l’amico macellaio disposto a recuperare per lui le parti di scarto, sorgerebbe una nuova difficoltà: la pulizia delle interiora. Questo processo è particolarmente lungo e richiede una profonda conoscenza in quanto le parti in questione sono organi interni con funzioni sicuramente indispensabili, ma allo stesso tempo poco nobili. Lasciare residui in fase di pulitura vorrebbe dire compromettere irrimediabilmente l’alimento alterandone spiacevolmente il sapore. Superati tutti gli scogli del caso è il momento di effettuare una scelta su quali frattaglie utilizzare. Alcuni escludono il fegato in quanto eccessivamente saporito, altri invece lo rendono protagonista; c’è chi insaporisce con la ghiandola endocrina, chiamata timo o animella, e chi invece preferisce usare quest’ultima parte dell’animale “in purezza” poiché considerata oggi prelibatezza gastronomica. Ma soprattutto è necessario creare tra le varie parti un equilibrio dal quale nascerà la ricetta personale del rosticcere. Ora si passa alla cottura, doverosamente alla brace, ma questo merita un capitolo a parte.

gnummareddi sono cotti nel tipico fornello della Murgia. In entrambi i casi il periodo di esposizione al calore deve essere prolungato in modo da permettere agli involtini di cuocere perfettamente, al cuore e alla retina che li avvolge di sciogliersi e amalgamarsi uniformemente. L’abilità del grigliatore sta quindi nel dosare il quantitativo di brace in modo da ottenere la temperatura ottimale. Ciò accade ancor più nel fornello, strumento tipico della Valle d’Itria, dove il processo di cottura avviene con calore indiretto: gli spiedi vengono posti sopra questa enorme griglia a una distanza dal fuoco tale da permettere al calore di giungere morigeratamente e alla carne di sostenere un periodo d’esposizione superiore.

Chi va piano…cuoce meglio! Come già detto, è la cottura alla brace la caratteristica distintiva di questo prodotto, ma il vero segreto sta nel tempo di cottura. Mentre i torcinelli vengono perlopiù preparati su apposite griglie alimentate a legna, gli

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© oliviaemarino.it

Non bastano le parole per descrivere la magia di queste rosticcerie antiche, è necessario visitarne almeno una e assaporarne, oltre agli ottimi prodotti, i profumi e l’atmosfera così caratteristici e affascinanti. Scegliere la migliore è praticamente impossibile poiché ognuna è unica e speciale, ma una può vantare di essere la più antica: da Vito Serio, noto anche per gli abitanti del suo paese, Martina Franca, come “U Salvasoda”. Oggetto di vanto per gli abitanti del paese, ma anche per tutti i tarantini in genere, questo locale spartano, dove il consumo sul posto è effettuabile esclusivamente sui banconi a muro, trasuda tradizione e storia da tutti i pori. Detto questo una visita alla terra del cibo di strada più ghiotto, dei salumi più rinomati e dei pani più pregiati (per esempio quello di Altamura o quello di Laterza) pare d’obbligo!

Cibo di strada, ma anche di sentiero Indubbiamente gli gnummareddi, il cui nome deriva dal termine latino glomu passato poi in volgare in gnomerru che significa gomitolo, sono stati e sono tuttora un cibo di strada contadino. Nella valle centrale della Puglia il consumo di questi involtini altamente calorici e altret-

tanto energetici, era all’ordine del giorno per i pastori e gli agricoltori che abitavano i trulli durante le faticose giornate lavorative. A maggior ragione l’apporto energetico fornito dai torcinelli (da torcere, attorcigliare) era fondamentale per i pastori che praticavano la transumanza spostando interi greggi dall’Appennino abruzzese fino ai Monti Dauni. Attraverso i tipici sentieri montani, detti anche tratturi, per effettuare la traversata, le soste per rifocillarsi erano spesso caratterizzate dal consumo dei golosi involtini cotti su qualche falò improvvisato, magari accompagnati da pecorini prodotti in altura. Quella che oggi potremmo definire come “pausa gourmet” era allora una pratica all’ordine del giorno e il termine cibo di strada aveva un reale significato, molto meno radical chic, se così si può dire, rispetto ai nostri giorni. Bisogna inoltre riconoscere che gran parte del merito per la salvaguardia e il recupero di queste tradizioni gastronomiche popolari va riconosciuto all’associazione Slow Food che, in stretta collaborazione con la condotta di Alberobello, da anni promuove e sostiene la scienza di questi artigiani della carne, diffondendo i loro meravigliosi prodotti anche al di fuori dei confini regionali tramite manifestazioni gastronomiche nelle quali sarebbe da folli non effettuare almeno una sosta per degustare un’animella, uno gnummareddo o una bombetta.

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di Emiliano Raccagni

Il consorzio vitivinicolo

Una regione, un vino, molte anime Al vino rosato, fare il fratello povero tra bianchi e rossi va oggi sempre più stretto: dalla Daunia al Salento, passando per le Murge, in Puglia a questo vino si crede da decenni, al di là delle mode. Nel mondo del vino, abituato a una buona dose di mode più o meno passeggere, c’è una categoria che oggi sta conoscendo un momento di grande visibilità e crescita. È quella dei rosati. Considerati per moltissimi anni come i figli molto minori del dio Bacco, questi vini stanno riguadagnando spazio, per quel che conta, nelle guide e nei giudizi degli

esperti e, questo è più importante, nei gusti dei consumatori. La conseguenza? Un fiorire di produzioni più o meno tipiche in tutto lo stivale, alle quali non si sottraggono molte nobili casate del vino italiano che oggi non mancano di offrire “a catalogo” almeno un rosato. Con buona pace della tipicità, della storia e dell’utilizzo di uve adatte. Fare rosato, infatti, non è solo prendere una parte delle proprie uve da rosso e pigiare un po’ meno sull’acceleratore per ottenere vini più scarichi di colore e complessità. Sarebbe troppo facile.

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Che non lo sia ce lo insegnano quei territori dove questa tipologia di vino è sì in crescita, ma ancorata a una forte storicità produttiva. Dove, insomma, il rosato non si costruisce a tavolino, ma lo si fa da decenni. Si pensi all’Alto Adige, con le denominazioni Santa Maddalena e Lago di Caldaro a base di uva schiava, al Chiaretto del Garda, al Montepulciano Cerasuolo dell’Abruzzo e ai rosati pugliesi.

In Puglia si parla al plurale Per la produzione di quest’ultima regione, è d’obbligo utilizzare il plurale, tanto diversificata e complessa è la realtà territoriale nella quale si produce rosato, che forse – qui più che altrove – non è mai stato considerato una via di mezzo tra bianchi e rossi, ma un prodotto perfettamente calato nella storicità enologica locale. Prova ne sono le aziende che almeno dalla metà dell’Ottocento proponevano e commerciavano il proprio rosato, creando un vino che

finalmente avesse una propria identità, sottraendo uve e mosti a un sistema che dalla Puglia parevano servire solo per il taglio atto a irrobustire più prestigiosi ma cagionevoli vini del Nord. Se si dovesse scegliere poi una data simbolica per lo sdoganamento definitivo del rosato pugliese, forse andrebbe fissata nel 1943, quando nella Salice Salentino occupata dagli Alleati, Salvatore Leone De Castris ebbe l’intuizione di vendere agli americani il suo Cinque Rose dentro bottiglie di birra chiuse con il tappo a corona. Il “Five Roses”,, che secondo leggenda mutò così il suo nome, aprì la strada a numerose altre aziende che, lavorando le uve specificamente per produrre rosati, dalla Daunia alle Murge, scendendo fino al Salento, hanno fatto di questa tipologia una delle più importanti bandiere del vino pugliese.

Almeno tre anime Difficile, se non impossibile, parlare di Rosato al singolare in Puglia. Ce lo dimostra anche Rosati in terra di Rosati, la manifestazione che da diciotto anni, con una serie di eventi, porta per le piazze e nei ristoranti della regione la selezione (che avviene in primavera a Vinititaly) del meglio di quanto sa dare la Puglia in rosa e, nella settimana dal 24 al 31 luglio, anche in tanti “luoghi del vino” italiani. Al plurale, dunque. Di fatto non è facile districarsi e uniformare una produzione estesa in territori diversi, lontani

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come solo in Puglia possono essere le province tra loro, ognuna delle quali fa il suo rosato con uve e denominazioni differenti. In generale, si può comunque dire che, pur ammiccando in alcune delle produzioni più recenti a una moda che chiede vini scarichi, facili da degustare e quasi caramellosi nell’impostazione, i rosati prodotti in Puglia si sono sempre distinti per essere vini di nerbo e carattere, certamente più pieni e complessi di quanto il gusto più comune (e banale?) di oggi voglia imporre. Per comodità, ma soprattutto per identità, possiamo individuare tre grandi macroaree enologiche “rosate”. La prima, localizzata in provincia di Foggia nelle zone di Lucera e San Severo, vede utilizzate soprattutto il Sangiovese e il Montepulciano accanto al Bombino Nero. Quest’ultima uva diventa protagonista scendendo nel barese, dove nella zona di Castel Del Monte, si è riusciti a ottenere da poco la prima Docg dedicata proprio ai rosati a base di Bombino, uva principe accanto al Nero di Troia.

Infine, il Salento, dove il Negroamaro è l’indiscussa bandiera di celeberrimi rossi e rosati. Diversità di latitudine, storia, vitigni e tecniche di lavorazione: quello dei rosati pugliesi è un universo complesso che cerchiamo di conoscere un po’ meglio parlando di e con tre

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realtà rappresentative di altrettante zone produttive che meritano di essere conosciute e approfondite.

Tradizione, sperimentazione innovazione Un viaggio ideale nelle tre anime del rosato pugliese parte da Sud, dove incontriamo Stefano Garofano dell’azienda Monaci. La cantina, interamente ristrutturata negli anni Novanta, segna la continuità produttiva per una delle realtà storiche del rosato salentino, legata più che mai al nome del padre di Stefano, Severino, uno degli enologi al cui lavoro si deve la rinascita qualitativa di molti vini del Sud. Nella masseria di Copertino, in provincia di Lecce, il Negroamaro è protagonista della tradizione, sia per dare potenti rossi, sia per produrre rosati. “Quest’uva - ci

dice Stefano - è per noi attaccamento al territorio. Continuiamo a lavorarla con la tecnica del salasso, che consiste nel prelevare una certa quantità di mosto fiore destinato ai vini rossi che, vinificato in bianco, dà i più tipici rosati della zona, come il nostro storico Girofle, l’esempio di come si possa ottenere equilibrio e delicatezza da un’uva capace di esprimere vini molto potenti”. Per il rosato è un bel periodo, come del resto per il Salento a tutto tondo. Giusto definire questo vino una possibile colonna portante per la promozione enogastronomica di un territorio intero? Dalla Monaci ci confermano l’ottimo stato di salute per questa produzione tradizionale, già oggi cresciuta al 20% del totale del vino aziendale, con proiezioni ancora in aumento. Sarà la moda che rifugge più degli anni scorsi vini troppo carichi e impegnativi, fatto sta che le aziende della vecchia guardia salentina stanno dimostrando di gradire questa tendenza positiva e - perché no - contribuire con il loro lavoro alla crescita enoturistica di un territorio intero, potendo partire da solide radici. Radici che hanno saputo valorizzare al massimo duecento chilometri più a nord, nella Murgia Barese, dove il rosato è espresso

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principalmente dal Bombino Nero e dove il distretto produttivo di Castel Del Monte, primo e finora unico in Puglia per questa tipologia di vini, è riuscito a ottenere il riconoscimento della Docg. Inevitabili le polemiche: perché proprio loro? A comprensibili questioni di campanile risponde Giulio Iannini, direttore commerciale di Torrevento, una delle aziende più attive della zona, da anni a guida del Consorzio Tutela Vini Castel Del Monte. “Per noi - ci dice - la Docg non è una bandiera da sventolare per dimostrare alcunché nei confronti di nessuno. È, semmai, il premio a un territorio che ha saputo fare sistema come raramente si è visto finora non solo in Puglia, ma nel Sud Italia, come prova il Consorzio cui aderisce praticamente la totalità dei produttori. Gente che ha saputo credere nelle proprie radici ma anche aprirsi alla modernità delle tecniche produttive ed è riuscita a fare fronte comune per promuovere la propria identità, che con la Docg potremmo difendere ancora di più e meglio”.

Diversità significa anche versatilità. Ben lo sanno ancora più a Nord, nel foggiano, i tre soci della D’Araprì che, compiendo una scelta davvero rivoluzionaria negli anni Settanta, si misero a spumantizzare con il metodo classico le uve locali, Bombino Bianco e Montepulciano in testa. Volevano creare qualcosa di nuovo, guardando allo Champagne quando le uve dei contadini di San Severo erano pagate poco o nulla. Visti all’epoca come eretici, sono oggi rispettati per essere stati i primi a rispettare le proprie origini, scegliendo un antico palazzo di San Severo per far maturare i propri vini, come per dire: il territorio e la sua storia lo rispettiamo perché gli apparteniamo noi stessi. Oggi la realtà è solida e il sogno è quello di fare proseliti, coinvolgendo altre cantine locali in un più ampio progetto spumantistico. Tre storie diverse, tre modi di lavorare rispettando le proprie radici ma allo stesso tempo puntando a crescere. In Puglia, di realtà del genere, se ne contano a decine.

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di Alessandro Milani

Brandisio, musica per il palato un nativo di Taranto ricordare quel Primitivo bevuto nella vigna dei nonni. Meno facile immaginare che un alto ufficiale della Marina Militare decidesse di rientrare in Puglia e diventare un produttore vitivinicolo. È invece proprio quello che è successo a Oreste Tombolini, passato da ammiraglio a “creatore” del Brandisio. Creatore, non semplice produttore, e vedremo il perché. Forse per carattere, forse per la sua formazione militare, peraltro accentuata dal ricoprire un ruolo di prestigio e responsabilità, Oreste non si è avvicinato al mondo vitivinicolo con leggerezza o superficialità.

Il produttore

Chissà se l’ammiraglio Horace Nelson, prima o dopo una battaglia non importa, guardando la linea dell’orizzonte pensava a casa. Probabilmente sì, magari alla famiglia, agli amici, a una donna. Ma quando, pur essendo inglese, voleva festeggiare un trionfo, doveva ricorrere al Marsala prodotto in Sicilia. Più facile invece che un ammiraglio nato qualche migliaio di chilometri più a sud del trionfatore di Trafalgar, soprattutto quando era particolarmente lontano dalle sue amate coste joniche, pensasse al vino di casa. Si dice che più ci si allontana dal proprio paese e più emergono i ricordi positivi. Normale quindi per

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Si è messo a studiare, non solo la storia dei vini della provincia di Taranto, ma anche quei trattati di agricoltura che potevano giovargli in questa nuova avventura. È così che Oreste ha compiuto una scoperta straordinaria, e, non contento, l’ha messa in pratica creando un prodotto davvero unico. Il sistema che viene utilizzato nelle vigne di Monteparano consiste infatti nell’applicazione di una sintesi degli studi di due scienziati giapponesi, Teruo Higa e Masanobu Fukuoka. Essi, pur partendo da punti differenti e applicando metodologie diverse, arrivano a quella che può sembrare la scoperta dell’acqua calda, cioè l’affermazione del primato della coltivazione naturale delle piante. Facile a dirsi, meno a farsi, perché nella loro accezione del termine naturale non c’è posto per la chimica e nemmeno per minerali come zolfo e rame, usatissimi in campo vitivinicolo. Quindi come fare? Visto che la bontà del vino deriva soprattutto dalla salute della vigna e quest’ultima è dovuta alla salute delle piante, il primo punto da affrontare deve essere la cura e la tutela dell’equilibrio biochimico del suolo. Teruo Higa afferma che fornendo al terreno alcuni microorganismi effettivi, essi saranno efficaci nel permettere alle piante di crescere autonomamente sane, e addirittura di più: saranno in grado di rendersi quasi autoimmuni

alle malattie, in sostanza di curarsi da sole. Uno straordinario effetto collaterale consiste poi nel fatto che il terreno, grazie a questi microorganismi, combatte ed elimina eventuali tracce di diossina (ahimè largamente presenti nei terreni di questa zona del Tarantino). Il trattamento proposto dagli scienziati nipponici, che Oreste sta applicando da un paio di anni alla coltura della vite, permette di non usare anticrittogamici e concimi chimici. In questo modo si va addirittura oltre quel concetto - positivo, sia ben chiaro - di biologi-

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co che tanto si vuole sottolineare oggigiorno, ma la cui prassi talvolta prevede sostanze di sintesi qui completamente assenti. Un aspetto assolutamente evidente del trattamento di Oreste alla sua vigna è dato dalle erbacce. Tutte quelle piante che crescono liberamente attorno alle viti, solitamente sfalciate (quando non eliminate con metodi decisamente più dannosi), qui vengono ignorate. Le viti che Oreste cura sull’unica collina presente in tutto il territorio del Primitivo convivono infatti in armonia con tutte le piante che la natura ha deciso di far germogliare tra i filari.

Le viti coltivate senza additivi conferiranno un’uva sana, dalla quale se ne può ora ricavare vino. Pensare che finisca qui l’originalità di quella che fin dall’inizio abbiamo definito la “creatura” di Oreste sarebbe però sbagliato: la raccolta è totalmente manuale e anche durante il processo di trasformazione da uva in vino viene evitato ogni prodotto chimico (a esclusione di una piccolissima aggiunta di bisolfito di potassio, che funge da antisettico). Dopo la raccolta anche l’intervento umano si limita al solo controllo della temperatura durante le due settimane di fermentazione, prima dell’affinamento in barriques di rovere francese. E ancora non è finita: durante i 10 mesi nei quali il vino riposa in barrique, nella barricaia di Oreste risuonano le note di Mozart, Chopin e dei canti gregoriani, che creano un rapporto sinestetico tra il vino e la musica. Sembra infatti che il legame tra il frutto della vite e la musica classica si mantenga forte, e che, dopo un assaggio di Brandisio accompagnato dall’ascolto di una sinfonia, si crei un rimando tra l’uno e l’altra anche quando vengono sperimentati separatamente. Un’esagerazione? Non resta che mettersi alla prova. Oreste ha infatti voluto che sulla contro-etichetta di ogni bottiglia venga precisato da quale opera musicale il vino è stato accompagnato nel suo riposo in barrique. A quel punto ognuno sarà in grado di giudicare la verità dell’affermazione, nella quale noi crediamo ciecamente. Non dovrebbero ora esserci dubbi sul perché abbiamo sempre parlato di “creazione” e di “creatura”. Vediamo adesso come godere di questa prelibatezza rara, che prende il

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nome dal nonno materno di Oreste, Brandisio, il quale è un simbolo del ritorno all’antico, a quella terra alla quale l’ammiraglio aveva a lungo preferito il mare. La meraviglia che potrebbe nascere da questa storia è infatti nulla rispetto a quella che si prova, individualmente, se si ha la fortuna di assaggiare questo Primitivo. Una volta stappata la bottiglia, meglio almeno un paio d’ore prima di servire in tavola, e aver scaraffato il vino con l’ausilio di un colino per trattenere i depositi, è tempo di bere. I depositi sono dovuti al fatto che il Brandisio non è stato filtrato, per non fargli perdere alcune importanti caratteristiche organolettiche, e consigliamo di non buttarli, ma utilizzarli magari per cucinare un risotto al Primitivo. Servito in adeguati balloon a calice ampio a una temperatura di 18/20 gradi, il Brandisio, a contatto con l’aria, inizierà a sprigionare i suoi aromi con il passare dei minuti e

sarà pronto a sposare piatti saporiti, carni alla brace e formaggi di capra o pecora non molto stagionati. Un vino straordinario al gusto e buono, anche per la salute: è stato dimostrato che le tecniche colturali di Oreste consentono un incremento del contenuto di polifenoli tale da stupire anche gli esperti del Centro enologico di ricerca di Asti. Sono infatti i polifenoli, associati all’alcool, a produrre nell’organismo umano una maggiore concentrazione di Omega 3. Il tutto ottenuto semplicemente rispettando la natura e curando il terreno, senza violentarlo con la chimica o con colture intensive. Con tecniche antiche, come l’aratro di nonno Brandisio che Oreste ha fortemente voluto sull’etichetta. Oltre il biologico, naturale. Meno male che l’ammiraglio è tornato a terra per crearlo... Per informazioni: www.brandisioilprimitivo.it

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di Alessandro Milani

Quelli che le guide non dicono

“La Martinella”, tradizione e modernità

Se si alzano gli occhi verso il cielo si vedono stagliarsi, vicinissimi, i nuovi grattacieli che ospitano gli uffici della Regione Lombardia. Lo stabile però è esattamente di fronte al complesso medievale noto come Cascine delle Abbadesse, nell’omonima via. Qui dove un tempo le monache gestivano un’azienda agricola ante litteram e prosperavano campi e i vigneti, oggi vengono prese le decisioni sull’amministrazione della regione più ricca d’Italia. Modernità e tradizione, tradizione e modernità. Le stesse parole d’ordine che sono alla base della filosofia del ristorante La Martinella.

Nato negli anni Ottanta con la famiglia Favini, storici trattori milanesi, gioviali, accoglienti, pronti alla battuta in dialetto, è oggi gestito da Antonio Melfi, anche lui ristoratore d’esperienza, ma originario di qualche centinaio di chilometri più a sud, in Basilicata. È stato lui, insieme al cugino Tommaso, che ha gestito per anni l’Antica Pizzeria da Giulio in corso San Gottardo, a rilevare, nel 2008, La Martinella, e a donarle una seconda anima lucana, senza cancellare quella meneghina. Le due componenti che contraddistinguono il locale non si limitano allo spazio della cucina, ma caratterizzano ogni aspetto de La Martinella.

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© Lidia Montanari (7)

A volte è più evidente l’una, a volte l’altra. A pranzo, quando gli impiegati e i dirigenti si concedono una pausa pranzo “come si rispetti”, emerge l’anima milanese, basata sulla comodità, la velocità, l’ottimo rapporto tra qualità e prezzo Qui quelli che un tempo venivano chiamati travet possono trovare tutto ciò che un self service non può offrire loro: il servizio al tavolo (in sala lavorano mediamente 6/7 persone), la tranquillità, e in estate il fresco dehor. Alla sera prevale lo spirito lucano, con piatti legati alla cultura di quel territorio, un clima più rilassato, Antonio tra i tavoli che ama conoscere e scherzare con gli habitué, così come fa Biagio alla cassa. Di sera si sentono più forti anche le impronte della cucina e della gastronomia della Basilicata. Se infatti di giorno il target è rappresentato da chi lavora in zona, a cena la clientela è composta da persone maggiormente dispo-

ste ad assaporare piatti e prodotti sconosciuti, o a ritrovare quei sapori magari scoperti al Sud in vacanza. Ciò che accomuna le due componenti è la ricerca della qualità. Su questo Antonio non transige: sceglie personalmente la frutta e la verdura, si rifornisce di carne perlopiù bavarese della quale ha la certificazione di tutta la filiera, serve ai clienti pasta prodotta ad Andria, e il pesce servito a tavola arriva a La Martinella, freschissimo, tutti i giorni. Qualità che spesso si sposa con un ritorno alle radici, con il gusto della propria terra, come nel caso dei salumi (soppressata, capicollo, salame piccante) e dei formaggi (su tutti il canestrato di Moliterno), che provengono direttamente dal Parco del Pollino.

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Linguine all’astice Ingredienti per 4 persone: 2 astici - 1 etto di pomodorini - 400 g di linguine - un ciuffo di prezzemolo - aglio - vino bianco - olio extravergine d’oliva. Procedimento: Dividere a metà gli astici e rosolarli in padella con olio extravergine d’oliva e aglio, sfumandoli con vino bianco. Aggiungere i pomodorini e far cuocere. A parte cuocere le linguine in abbondante acqua bollente salata. A cottura ultimata aggiungerle all’astice e saltare il tutto. Guarnite il piatto di portata con un ciuffo di prezzemolo e servite.

Prodotti tipici lucani, come anche i fagioli di Sarconi IGP e i peperoni di Senise IGP, che arricchiscono le ricette antiche della regione dei due mari. Mare che permette di variare, soprattutto in estate, con piatti freschi e leggeri una cucina che in inverno ha la sua forza nei classici della tradizione meneghina e in quelli dell’interno della Basilicata. Oltre ad Antonio, chi “orienta” verso Nord o verso Sud i piatti della settimana è lo chef, Um-

berto Favini. Figlio dell’ex gestore de La Martinella, dopo aver studiato con Sadler, finita quella gavetta che trasforma un semplice cuoco in uno chef, ha oggi le redini della cucina. Aiutato da altri due cuochi e ispirato dalla musica dei Pink Floyd, è lui il massimo creatore dei cavalli di battaglia del locale. Fautore di una cucina saporita ma al tempo stesso leggera, nella quale la bontà dei piatti non dipende certo dal quantitativo di condimenti, realizza ormai con nonchalance le ricette di entrambe le tradizioni: la cassöeula e l’ossobuco con il risotto o con la polenta, così come le linguine all’astice o gli strascinati alla lucana. Laddove da un lato dosa sapientemente burro e grana, dall’altro esalta le ricette con olio extravergine e cacioricotta. Sempre all’insegna della tradizione. Un po’ ancora trattoria milanese, un po’ un angolo di Basilicata a Milano. In un momento non faci-

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Baccalà gratinato con cipolle rosse di Tropea Ingredienti per 4 persone: un filetto di baccalà da 1 kg - 3 cipolle rosse di Tropea IGP - 2 pomodorini ramati - 2 etti di pangrattato - farina bianca q.b. - olio extravergine d’oliva - prezzemolo. Procedimento: infarinare il baccalà e friggerlo in abbondante olio extravergine d’oliva bollente. Adagiarlo in una terrina da forno con fondo oleato. A parte stufare le cipolle e versarle sopra il pesce aggiungendovi il pangrattato e i pomodorini tagliati a cubetti. Mettere in forno a 250° fino a che sia completamente gratinato. Si consiglia di servire su un piatto caldo, con un pizzico di prezzemolo e un filo d’olio extravergine crudo. le per la ristorazione, tra la concorrenza straniera e la crisi economica, che toccano proprio quel ceto medio al quale si rivolge La Martinella, se si chiede ad Antonio la sua più grande soddisfazione, emergerà il suo orgoglio lucano: il suo vanto è infatti quello di aver

fatto conoscere e apprezzare anche a Milano i piatti antichi e i prodotti della sua terra. Senza aver buttato via la velocità, la comodità e il rapporto qualità/prezzo tanto richiesti dai milanesi.

Ossobuco con risotto alla milanese Ingredienti per 4 persone: 400 g di riso Carnaroli - 4 ossobuchi di vitello, meglio se di gamba posteriore - una bustina di zafferano - mezza cipolla - 2 carote - 2 gambe di sedano - 2 patate - vino bianco - burro - Parmigiano grattugiato - brodo vegetale q.b. - olio extravergine d’oliva. Procedimento: Infarinare gli ossibuchi e rosolarli in padella in modo omogeneo su entrambi i lati. Adagiarli in una teglia da forno con base di cipolla e olio extravergine d’oliva. Ricoprire il tutto con un misto di patate, sedano e carote. Riporre in forno a una temperatura costante di 200°. A metà cottura estrarre le verdure frullandole fino a formare una crema densa e riversarle sopra gli ossibuchi. Nel frattempo tostare il riso con il vino bianco e la cipolla, allungandolo con brodo vegetale. Durante la preparazione aggiungere lo zafferano e il midollo, mantecandolo infine con il burro e il formaggio grattugiato.

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Il latte è il primo alimento che conosciamo nella nostra vita. Intriso di significati, accompagna la nostra crescita fino a diventare la base per delizie del palato che coinvolgono i cinque sensi. La mozzarella di bufala ne è l’esempio: bianca e lucente alla vista, morbida al tatto, di antichi profumi inebria l’olfatto, prelibata al gusto, e all’udito lascia l’entusiasmo di chi la degusta. Amore a prima vista è stato per Claudio Bisio che in “Benvenuti al Sud”, interpretando un rigido direttore milanese trasferitosi in Cilento, abbandona l’ottimo gorgonzola portato da casa per farsi trascinare dalla “zizzona”, la mozzarella di bufala della piana del Sele.

Sarà invece un crogiolo di caglio, country campano e canzoni neomelodiche a coinvolgere i protagonisti di “Mozzarella stories”, film di prossima uscita. La mozzarella di bufala è un prodotto che unisce, risulta fortemente rappresentativo del nostro Paese all’estero, dove l’export è in continua crescita (per esempio in Francia, Stati Uniti, Germania e Regno Unito), nonostante il dilagare dell’agropirateria e dell’italian sounding. Biglietto da visita della tavola italiana, la mozzarella di bufala campana si fregia della DOP, marchio che assicura i consumatori e specifica il territorio di produzione, racchiuso in un’area che va dal basso Lazio alle provin-

Le città di Res Tipica

di Paolo Bonagura

Sulle orme della bufala

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ce di Caserta e Salerno, con qualche caseificio anche a Venafro e nel Foggiano; a seconda delle zone la bufala prende il nome di “aversana” (come quella citata da Totò in “Miseria e nobiltà”), “pontina”, “piana del Sele”. La regina della cucina mediterranea è uno dei maggiori punti di forza delle economie locali, soprattutto in Campania e nel Lazio. Ciò ha spinto alcuni comuni di tradizione bufalina a dar vita, nel 2009, all’associazione nazionale “Città della Bufala”. L’associazione si propone di predisporre e attuare, nei territori di origine, progetti di valorizzazione degli allevamenti della specie bufalina e delle produzioni casearie derivanti dal latte di bufala, con particolare riferimento alla mozzarella, attraverso politiche di tutela e di sviluppo eco-compatibile della zootecnia e dell’attività casearia, e di assumere iniziative di difesa della tipicità, dell’autenticità e della qualità delle produzioni. La più importante di queste è sicuramente l’istituzione del concorso nazionale “Mozzarella In Comune”, la cui prima edizione, nel

2009, ha visto partecipare oltre ottanta aziende bufaline. “Città della Bufala” mira anche a diventare un’opportunità per la diffusione del crescente segmento del turismo enogastronomico, rurale e naturale. Uno degli esempi è “Sulle orme della bufala”, manifestazione di promozione dell’intera filiera bufalina (mozzarella, ricotta, carne, gelato, yogurt) che ogni anno a Priverno, in provincia di Latina, propone degustazioni, convegni e visite guidate a siti culturali e ai caseifici dove avviene la “mozza” e dove i bufalari - narrati nel loro rapporto simbiotico con le bufale dal poeta Scotellaro in Contadini del sud, la sua inchiesta sulla cultura rurale meridionale - e gli allevatori danno vita all’“oro bianco”, unico e inimitabile.

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di Raffaele Montagna

Gli itinerari di Res Tipica

Tra il Volturno e il Garigliano “O è così, o non è”: sembra uno strano diktat invece è solo lo slogan del Consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana DOP per affermare che o è mozzarella di bufala campana, o non è affatto mozzarella. Chi ha avuto la fortuna di assaggiarla, appena prodotta, sa che il suo sapore è puramente “inconfondibile” (e rende superflui ulteriori esami - visivi, olfattivi, gustativi - né obbliga a riflettere sulle differenti sensazioni che procura, quali consistenza, elasticità, flavour, gusto e via dicendo). Questo sapore lo si porta in uno dei cassettini della memoria, catalogato come una delle più piacevoli emozioni alimentari. Secondo Roberto Saviano la mozzarella di bufala è al primo posto nell’elenco delle 10 cose per le quali vale la pena vivere! Fu Bartolomeo Scappi, famoso cuoco alla corte pontificia, il primo a citare, in un suo ricettario nel 1570, la parola mozzarella (ovviamente non nel senso contemporaneo del termine); oggi, secondo il decreto che ha riconosciuto la denominazione di origine protetta, la mozzarella è un formaggio a pasta filata, molle, crudo, con un particolare e indimenticabile bouquet, prodotto esclusivamente con latte di “bufala mediterranea”, in alcuni territori della Campania, del Lazio, delle Puglie e del Molise; non si deve confondere con il “fior di latte”, ottenuto con latte vaccino (meno particolare e pregiato).

La mozzarella (il cui nome deriva dall’operazione di “mozzatura” compiuta per separare dall’impasto i singoli pezzi) è apprezzata da tutti per le pregiate qualità, sia alimentari, sia gustative, ed è considerata la “regina” della cucina mediterranea. Il latte con il quale viene prodotta è quello intero di bufala mediterranea italiana (Bubalus bubalis, del genere dei ruminanti, sottofamiglia

bovini), razza proveniente dall’India, importata in Sicilia dai Saraceni e da qui introdotta dai Longobardi nelle terre paludose comprese tra il Garigliano e il Volturno.

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Se si dovesse giudicare il bufalo, quello della mozzarella, solo dall’apparenza si dovrebbe avere paura e darsela a gambe; con la sua mole imponente, le grandi corna appiattite e rivolte all’indietro, mostra una corporatura massiccia, con pelo corto di colore scuro, un portamento che sembrerebbe a prima vista selvaggio e ribelle, occhi scaltri e quasi malvagi; ma non si tarda molto, invece, a scoprire che si tratta di un animale docile, che si può affidare senza alcun timore anche a un bambino. Ama le zone paludose e si rotola volentieri nel fango per difendersi dai parassiti della pelle e dall’esagerato irradiamento solare estivo. È molto probabile incontrare mandrie di bufali lungo l’itinerario che proponiamo. Iniziamo la nostra esplorazione dalla bellissima Mondragone, centro turistico balneare e

termale d’antica tradizione; dopo l’occupazione romana del territorio (sottratto agli Aurunci) sorse la colonia di Sinuessa, frequentatissima all’epoca, sia per la mitezza del clima, sia per la facilità dei collegamenti - visto che la Via Appia, la regina viarum, attraversava proprio questi luoghi (a essa si aggiunse, successivamente, la Via Domiziana) - e sia per gli impianti termali, che richiamavano la nobiltà romana, soprattutto le giunoniche matrone (pare che le acque curassero la sterilità femminile). Qui si gustava il prelibato Falerno, vino magnificato dal sommo Virgilio nelle Georgiche come “nettare degli Dei” e celebrato da Marziale, Orazio, Catullo e Cicerone. Tanti sono i luoghi d’interesse di questa cittadina e lunga è la sua storia, testimoniata dai resti, tuttora visibili, del basolato dell’Appia antica, della Torre del Paladino, mausoleo d’epo-

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La Torre del Paladino a Mondragone

ca romana, della Rocca sul Monte Petrino, edificata nel X secolo (da cui si domina tutto il Golfo di Gaeta) e dalla statua della Venere di Sinuessa (attribuita a Prassitele e conservata al Museo Nazionale di Napoli). Interessanti risultano le numerose chiese e i palazzi nobiliari, tra i quali spicca il Palazzo Ducale con la sua imponente torre. A Mondragone si possono acquistare fagioli cannellini – freschi (i cosiddetti “spollichini”) nel periodo della raccolta o secchi, durante tutto l’anno – oltre ai prodotti caseari, quali scamorze, caciocavalli e ovviamente mozzarelle di bufala.

bullo chiedeva spesso di avere una coppa di quello vecchio e affumicato: “nunc mihi gumosus veteris proferte falernos”). A Carinola e nelle sue tante frazioni possiamo visitare monumenti considerevoli, testimonianze d’antico splendore: il convento di San Francesco, i Palazzi Marzani, Novelli e Petrucci, la Cattedrale dell’XI secolo, i resti del Palazzo Baronale e possiamo recarci in una delle innumerevoli fattorie nelle quali è possibile visitare gli allevamenti di bufali allo stato brado e partecipare alla produzione delle gustose mozzarelle Dop. Qui si possono acquistare due straordinari prodotti tipici: le mele annurca - considerate tra le più gustose e le più antiche, citate già da Plinio il Vecchio - e il vino Asprinio di Aversa Doc, il cui vitigno viene coltivato “ad alberata”, nel senso che si fa arrampicare “maritato” con i pioppi e produce uva a 15 metri di altezza. Notevole per importanza storica e graziosa nella sua attuale struttura architettonica è Francolise, della quale possiamo ammirare il

Dirigiamoci alla volta di Carinola. Lungo il tragitto - nel comune di Falciano del Massico - possiamo ammirare la riserva naturale del Lago di Falciano e l’Oasi WWF del Monte Massico. Non dimentichiamo di acquistare una buona bottiglia di Falerno del Massico Doc, il vino più apprezzato e costoso dell’antichità: il poeta TiLago di Falciano

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Il castello normanno di Francolise

severo castello normanno dell’XI, secolo e la Chiesa di Santa Maria a Castello (belli il portale e il rosone romanico e interessante il dipinto della “Madonna del Cardellino”, di scuola giottesca). A Grazzanise, luogo scelto per la realizzazione del terzo hub aeroportuale italiano, l’economia si basa sull’agricoltura e sull’allevamento bufalino, che costituisce senza dubbio la più sviluppata attività produttiva e fa del comune uno dei territori d’origine della mozzarella di bufala; qui si possono visitare le chiese dedicate a San Giovanni Battista e alla S.S. Annunziata, nonché l’ambiente fluviale del Volturno. A Cancello ed Arnone (il cui abitato è stato quasi completamente distrutto dai micidiali bombardamenti dell’ultima guerra) si producono grandi quantità di foraggi, ottimi per gli allevamenti di bufali, che nel comune

sono numerosi. Visitabili su richiesta, vi si può assistere al processo di lavorazione della vera mozzarella. Concludiamo il nostro breve itinerario a Castel Volturno, popoloso borgo a ridosso dell’ultima ansa del fiume, immediatamente prima della foce. Anche questa cittadina è ricca di storia: era abitata dagli Opici, molto prima dell’occupazione romana, che ne fecero un porto fortificato. Attualmente è una raffinata località balneare con 25 km di spiagge. Si possono osservare e visitare il castello che dà il nome all’abitato, la Torre Patria, la chiesa dell’Annunziata (che custodisce una bella pala d’altare quattrocentesca), la Cappella di San Castrese, dall’ architettura singolare, che conserva un interessante ciclo di affreschi sulla vita del santo, e le Cappelle di San Rocco e Santa Maria della Civita. Castel Volturno

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di Marco Locatelli

Bufala e pizza

Il matrimonio s’ha da fare Eh già! Forse non tutti sanno che la vera mozzarella è proprio quella fatta con latte di bufala al 100%. Con questo non si vuole sminuire la pasta filata di latte vaccino, bensì precisare che il nome mozzarella in origine indicava esclusivamente il prodotto bufalino. Nei periodi nei quali la costa tirrenica presentava difficoltà d’allevamento dovute alle vaste zone paludose, il bufalo costituiva una buona soluzione al problema, in quanto robusto e capace di adattarsi. Rimangono incerte le origini della mozzarella, ma, in base a varie testimonianze, si può risalire più o meno al XII secolo. Il termine “mozzarella” deriva dalla procedura di lavorazione che consiste appunto nel mozzare la pasta filata a mano, formando i famosi bocconcini di latte. Le pezzature possono variare a seconda delle esigenze ma l’importante è che il consumo, se non addirittura subitaneo, sia effettuato nel minor lasso di tempo possibile.

La deperibilità di questo prodotto è sottolineata perfino in antiche testimonianze dove la mozzarella veniva classificata non edibile addirittura dopo solo una trentina di ore. Dopo l’Unità d’Italia nasce ad Aversa un mercato di mozzarelle e formaggi che mette ufficialmente in commercio la bufala. A questo punto il passaggio al suo utilizzo su un noto prodotto del territorio limitrofo è stato quasi scontato: fu così che la mozzarella di bufala incontrò la pizza. Questo “matrimonio” così importante è sancito anche dal disciplinare della pizza napoletana STG che prevede la denominazione Margherita Extra nella versione con mozzarella di bufala.

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di Martino Negri

Il cibo nell’arte

Delizie lunari:

le fantasie culinarie nell’opera di Antonio Rubino Nei racconti e nei disegni di Antonio Rubino, storico fondatore del “Corriere dei Piccoli” e padre del fumetto italiano, sono ricorrenti ed estremamente vari i riferimenti a inusitate prelibatezze gastronomiche, così come a contesti di iperbolica sovrabbondanza alimentare che rimandano alla tradizione letteraria del Paese di Cuccagna o di Bengodi. Appartenente all’alta borghesia di Sanremo di fine Ottocento, Rubino vantava una solida cultura letteraria che spaziava dai classici latini a quelli italiani, passando per i contemporanei, anche francesi, e nel mettere sulla pagina, a uso dei figli della borghesia di inizio secolo, il tema - tanto caro all’immaginazione infantile - del godimento sensoriale legato al cibo, pesca in un immaginario consolidatosi nei secoli; in esso la memoria dell’età dell’oro evocata da Virgilio nella quarta egloga delle Bucoliche si mescola alla meno aulica, ma senz’altro più godereccia, tradizione popolare del rovesciamento carnevalesco del quale l’immaginario Paese di Bengodi descritto nel Decamerone di Boccaccio è forse l’esempio più celebre. Un primo riferimento alle delizie del Paese di Bengodi, dove «si legano le vigne con le sal-

sicce» e scorrono fiumi di «vernaccia» compare in alcune scene del racconto a fumetti intitolato “Il Collegio ‘La Delizia’”, pubblicato a puntate sulle pagine del “Corriere dei Piccoli” tra il 1913 e il 1914. Qui viene narrata la vita d’ozii e bagordi di un gruppo di collegiali poco propensi al sacrificio e alla disciplina che lo studio dovrebbe comportare, i quali sembrano aver trovato il luogo ideale dove condurre la propria vita da

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fannulloni golosi: guidati dal prof. Pandispagna e dai suoi colleghi, i ragazzini si baloccheranno tra giochi e dolciumi fino a che una sana nausea non li spingerà a una vera e propria rivoluzione nei confronti dei professori. Ma prima che questo avvenga Rubino riesce a mettere in scena una gustosissima variante del Paese di Bengodi nella quale confluiscono anche spunti derivati dalle pagine collodiane sul Paese dei Balocchi. È però in un albo illustrato pubblicato intorno al 1920 dalla ditta Bonatti, produttrice di cioccolato, che Rubino pare accogliere pienamente l’eredità del Boccaccio, sbizzarrendosi nella messa in scena di un paese fondato sull’arte della cucina, il regno di Leccornìa: dove le case son di cioccolato e le montagne sono di ricotta, dove gli alberi fanno i pasticcini e in croccanti si selciano le strade, dove se piove son cioccolatini se vien la neve è zucchero che cade, dove gli uccelli cantano arrostiti, dove nuotano i pesci nel Madera e per farfalle volano i canditi e i cani sono fatti a bomboniera!

divina terra cinta di mistero appartenente quasi alle leggende, che sorge alla sinistra un po’ del Vero e a destra della Favola si stende. Quella descritta nell’albo, intitolato “Fortunello, Cirillino e la Vispa Teresa nel Paese di Leccornìa”, è una «terra beata»:

E tuttavia anche questa «terra beata» sarà teatro d’una guerra, spaventosa per quanto combattuta con armi assai singolari: «terribili spiedi», «forchettoni, schidioni e pestelli», «bombarde di bricchi di smalto», «cavalli di Frisia costrutti/con spaghetti nel brodo ed asciutti»; una guerra in seguito alla quale i tre protagonisti usciti dalle pagine del “Corriere dei Piccoli” - Fortunello, Cirillino e la Vispa Teresa, appunto - verranno fatti prigionieri e condannati a morte, riuscendo infine a sottrarsi al destino avverso e fuggire solo grazie a una tavola di cioccolato Bonatti con la

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quale corrompono la guardia della prigione. Tra le tante coloratissime tavole che testimoniano un piacere squisitamente rubiniano dell’invenzione visiva, una delle più riuscite è senz’altro quella della pirotecnica battaglia vinta dal Re Acquolina con un fitto lancio di «proiettili alla crema», che costringe alla resa i tre ignari avventurieri del “Corrierino”. Diversamente, in “Viperetta”, romanzo illustrato del 1919 nel quale si narrano le peripezie terrestri e ed extra-terrestri di una bimba trascinata dai propri capricci fin sulla luna, Rubino ha l’occasione di sbrigliare la sua fantasia culinaria, inventando prelibatezze lunari che non vengono esibite all’occhio del lettore attraverso tavole a colori o vignette al tratto, ma semplicemente evocate dalla forza del loro nome: che sapore avrà l’idromèle sbattuto o il chiar d’uovo di pesce-luna? I semi di lunaria cotti al forno e i chifferi di

farina crescente? Nessuno può dirlo con certezza, perché Rubino non tenta nemmeno di descrivere tali leccornìe: chi legge è così chiamato a risolvere la questione con il proprio personale contributo immaginativo e il nome del piatto finisce con l’evocare, almeno potenzialmente, sapori infiniti. Rubino era un profondo conoscitore del pensiero infantile ed è per questo motivo che, in un’epoca in cui il mercato dei dolciumi per bambini non aveva ancora raggiunto l’odierno e sfrenato parossismo industriale, sceglie spesso di incamminarsi lungo i terreni delle fantasie alimentari, certo di agganciare i lettori più giovani. E tuttavia, quando affronta il tema del cibo e, massimamente, quello della golosità dei bambini, Rubino finisce spesso con lo scivolare nel didascalico, tradendo una naturale vocazione pedagogica che, quando non supportata dalla presenza di invenzioni

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tavia il desiderio di educare il lettore penalizza la qualità letteraria del racconto: quando l’autore non rinuncia a una certa perfidia di marca schiettamente rubiniana, gli riesce di regalarci dei veri e propri gioiellini narrativi. Esemplare, in questo senso, la deliziosa e «miseranda» storia del «bimbo che divorava i dolci con gli occhi», apparsa nel 1919 sul Corriere dei Piccoli, dove è raccontato il caso di un bambino, Zuccherino, che a causa della sua golosità, peraltro alimentata solo attraverso la vista, finisce col trasformarsi in dolciume lui stesso ed essere esposto in vetrina, alla mercé di altre bocche golose, in una sorta di grottesco e inquietante contrappasso dantesco:

spiazzanti e liberatorie, risulta ai nostri occhi un po’ pedante, per quanto sempre, ovviamente, assennata. “Fata Acquolina”, insieme alla storia de “Il Collegio ‘La Delizia’”, ne è l’esempio più calzante, portatore com’è di una morale dell’equilibrio e del buonsenso, che non può certo essere biasimata ma che lascia il lettore contemporaneo - parlando per figure - un po’ a bocca asciutta. In “Fata Acquolina”, infatti, il piacere dell’invenzione di favolosi universi gastronomici non è fine a sé stesso, e dunque gioioso e pienamente liberatorio, com’era invece in “Viperetta” o nell’albo pubblicato dalla Bonatti, ma funzionale a un preciso scopo educativo e dunque subordinato, incapace di mantenere intatto il proprio fascino a distanza di tanti decenni. Non sempre tut-

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Finalmente d’acquolina Zuccherino inzuccherato nel succhiarsi la manina sente un gusto mandorlato. Commestibile diventa ed in mezzo alla vetrina, tra due calici di menta, viene messo alla berlina.


di Roberto Mottadelli

Ricorrenze

La profezia di Pellegrino “I promessi sposi”, “Le avventure di Pinocchio”, forse una copia ormai ingiallita de “Le mie prigioni” di Silvio Pellico. E “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, o più semplicemente “l’Artusi”, dal cognome del suo autore, che di nome faceva Pellegrino. Ecco che cosa c’era nelle librerie degli italiani (almeno di quelli alfabetizzati e che potevano permettersi l’acquisto di libri) agli inizi del XX secolo. Tre opere fondamentali della nostra letteratura, ancora oggi protagoniste dei programmi scolastici fin dalle elementari, e un autore a lungo negletto. Trascurato non dalla gente comune, sia chiaro, ma dalla cultura “alta”, quella che storce il naso all’idea che la cucina possa essere considerata alla pari delle altre arti che hanno reso grande il nostro Paese. Eppure chiunque abbia un minimo di senso estetico sa bene che la gastronomia non ha nulla da invidiare alla poesia, alla musica, alla pittura… è semplicemente un’altra espressione di quella ricerca del bello (e del buono) che da sempre costituisce la caratteristica migliore della nostra Penisola. Ne era convinto l’Artusi, nato a Forlimpopoli il 4 agosto 1820 e scomparso a Firenze il 30 marzo 1911, critico letterario, scrittore e, per necessità di sussistenza, anche intermediatore finanziario.

Nel 1891, all’età di 71 anni avvertì l’esigenza di dare alle stampe un volume assolutamente originale, che fosse insieme un’esaltazione conviviale del piacere di mangiare bene e una raccolta ragionata delle migliori ricette italiane, presentate con accuratezza positivistica. Passione e precisione scientifica. Dovette stampare il libro a sue spese. L’idea, infatti, non aveva convinto nessun editore, e anche i primi riscontri di critica e pubblico furono deludenti. Lo stesso Artusi ricorda un episodio significativo accaduto nella sua Forlimpopoli, alla quale aveva donato due copie del libro per arricchire l’elenco dei premi di una lotteria: i vincitori dei volumi, ritenendoli perfettamente inutili, si erano subito recati da un tabaccaio cercando di rivenderli per pochi spiccioli. Per fortuna la situazione cambiò in tempi abbastanza rapidi. Grazie al passaparola, alla

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caparbietà di Artusi e all’appoggio inatteso di uno dei grandi scienziati dell’epoca, il medico e antropologo darwinista Paolo Mantegazza, arrivarono i giorni del successo. Le mille copie della prima tiratura andarono esaurite: nei vent’anni successivi sarebbero state pubblicate altre 15 edizioni curate e ampliate personalmente dall’autore, fino a raggiungere il considerevole numero di 790 ricette prese in esame. Nel 1896 così scriveva il poeta Olindo Guerrini: ”Non si vive di solo pane, è vero; ci vuole anche il companatico, e l’arte di renderlo più economico, più sapido, più sano, lo dico e lo sostengo, è vera arte. Riabilitiamo il senso del gusto e non vergogniamoci di soddisfarlo onestamente, ma il meglio che si può, come ella [Artusi] ce ne dà i precetti.” Un trionfo di popolo che non si interruppe nemmeno con la morte del grande Pellegrino, tanto che nel 1958 un intellettuale acuto e tutt’altro che conformista come Giuseppe Prezzolini poteva rivolgersi alla sua opera con quella deferenza che si deve ai grandi classici: “Dammi l’Artusi”. “Cercalo nell’Artusi”. “Cosa dice l’Artusi?”. L’opera dell’Artusi è un’autorità e un classico… È un libro unico, un capolavoro, apparso inspiegabilmente nella maturità di una vita dedita ad altri scopi, illuminato da un’ispirazione che pare quasi come grazia divina.

100, 120, 150 Il 2011 è l’anno della riscoperta di Pellegrino Artusi e della sua consacrazione anche da parte delle accademie (ammesso e

non concesso che si sentisse il bisogno di tardive investiture ufficiali). Ricorre infatti il centesimo anniversario della sua scomparsa e La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene festeggia i suoi primi 120 anni, proprio quando l’Italia celebra con orgoglio il 150° dell’Unità del Paese. Una coincidenza che ha spinto gastronomi, storici e studiosi a prendere in esame il ruolo di Artusi nella ricerca (e perché no, anche nella definizione) delle caratteristiche peculiari della cucina nazionale. Perché fu lui a mettere insieme per la prima volta le ricette di babà e baccalà, krapfen e cappelletti, risotto alla milanese e triglie alla livornese, budino alla napoletana, broccoli alla romana e nasello alla palermitana… Finalmente gli si riconosce l’enorme merito di aver favorito l’unità gastronomica di uno

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Stato che trent’anni prima ancora non esisteva. Patriota convinto, mazziniano fin nel profondo dell’animo, profetizzò un’Italia di sapori condivisi, nella quale il Nord potesse apprezzare i piatti del Sud, l’Adriatico le specialità del Tirreno, la montagna i profumi del mare. Se quella che alla fine dell’Ottocento era soltanto una speranza oggi è una splendida realtà, bisogna ringraziare per primo proprio Pellegrino Artusi. Ecco perché è doveroso celebrare degnamente questo triplice anniversario. Lo hanno fatto a Forlimpopoli nel mese di giugno, con le degustazioni, le mostre e gli incontri della Festa Artusiana, dedicata alla cucina nazionale. E con l’Artusi Jazz Festival, rassegna musicale di profilo internazionale dedicata alla memoria del gastronomo.

Ma le celebrazioni sono andate molto oltre i confini della cittadina romagnola, imboccando innanzitutto la cosiddetta “Via Artusiana”, che attraversa l’Appennino e approda a Firenze dopo aver esplorato straordinarie eccellenze gastronomico-culinarie di provincia: itinerari e pacchetti turistici ideati per l’occasione stanno seducendo gli appassionati di buon mangiare e buon bere.

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Manifestazioni in onore del padre della nostra cucina si sono tenute anche all’estero (“La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” è stata tradotta in ben 6 lingue), in particolare a Francoforte. E Artusi è tornato in primo piano anche nelle librerie: nel 2010, anticipando i tempi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è stata ripresentata da Alberto Capatti in un’edizione critica; perfino un’altra sua opera, di genere completamente diverso, è tornata a disposizione dei lettori: la Vita di Ugo Foscolo, ristampata da Carta Canta. Perché non di solo pane (e companatico) vive l’uomo. Artusi è addirittura tornato a parlare, sia pure nei panni del protagonista di un romanzo, un giallo in stile Agatha Christie ambientato alla fine dell’Ottocento: “Odore di chiuso” di

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Marco Malvaldi. Eccolo in tutta la sua umanità, gentiluomo capace di infervorarsi per alti ideali, mentre a tavola spiega ai commensali la sua idea di Italia unita facendo ricorso a una ricetta profetica. Una metafora che più artusiana non si può: “Io non discuto che per essere unito un Paese debba avere leggi comuni, e questo è un grande traguardo. Mi limito ad osservare questo, che gli alberi non crescono tirandoli dall’alto. Ci vuole tempo, concime e criterio. Questo Paese è stato costituito da tempo immemorabile da due tronconi estranei l’uno all’altro, e pretendere che essi diventino un solo Paese con uno schioccar di dita, a furia di leggi, mi sembra francamente troppo sperare. Permettetemi una breve digressione di cucina. Il nostro pesce è condito con della maionese. Essa è una emulsione stabile di olio in una base acquosa, costituita da succo di limone e aceto. In pratica è come se fosse un insieme di minutissime goccioline d’olio disperse in una matrice acquosa: la stabilità di tali gocce è data da un componente del

tuorlo d’uovo, detto lecitina. Quest’ultima ha la funzione di ancorare le gocce all’ambiente acquoso, evitando che l’emulsione si rompa, e il tutto si smescoli tornando ad olio che galleggia in acqua. Per fare la maionese bisogna procedere con calma e metodo: sbattere alquanto i rossi d’uovo, e poi aggiungere olio a filo, pian pianino, all’inizio quasi goccia a goccia, mescolando col cucchiaio finché non sia tutto incorporato. Alla fine si aggiunge il succo di limone, oppure l’aceto o la senape come fanno i francesi. Abbiamo ottenuto una maionese, qualcosa che non è acqua e non è olio, eppure è assai più pregiato delle componenti di partenza, con una consistenza tutta sua, tale da risultare soda e cremosa, anche se viene ottenuta mescolando dei liquidi. Ci vuole pazienza, non si può fare con la forza bruta. E ci vuole qualcosa che convinca acqua e olio a stare insieme, che agisca su entrambe allo stesso modo”.1 1 - M. Malvaldi, Odore di chiuso, Sellerio, Palermo, 2011.

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Agriturismo “Pianca” • LA LOCATION L’agriturismo “Pianca” si trova a circa 800 metri d’altezza, immerso in un’oasi di tranquillità a contatto con la natura incontaminata, all’interno di un parco naturale di circa 25.000 metri quadrati interamente recintato, con grandi alberi e prati. Qui è possibile fare piacevoli passeggiate seguendo il corso di un ruscello e, se si è fortunati, lungo il percorso è possibile imbattersi in cervi, caprioli, volpi e cinghiali, aquile, falchi e altri animali che ancora vivono nella zona.

Parco

• LA STRUTTURA Le camere si trovano nella dependance situata all’interno del parco, attualmente composta da quattro camere (tre doppie e una singola), ciascuna delle quali fornita di bagno privato completo di idromassaggio/doccia scozzese, una saletta interna per la prima colazione e una cucina indipendente a disposizione degli Ospiti. Un ampio terrazzo solarium e un parcheggio privato per le auto completano la struttura dell’agriturismo. Sala colazione

Aperto tutto l’anno

Camera doppia

Sala da bagno

Cucina

Percorso Vita

• I DINTORNI Pianca, la località che ospita l’Agriturismo, si trova in una posizione strategica. Qui il clima mite rende possibile, in tutte le stagioni, trascorrere serene e rilassanti giornate con pieno sole e con vista sulle catene montuose che circondano la valle. Oltre alle splendide passeggiate per le vie di San Fedele d’Intelvi (che dista soltanto 2 km), tra antichi lavatoi e tipiche case del centro storico, gli Ospiti che qui hanno sempre le “O” maiuscola possono usufruire di un centro sportivo dotato di piscina per adulti e bambini, palestra e sauna. Gli amanti del trekking avranno l’opportunità di raggiungere la vicina vetta del Monte Generoso, dalla quale godranno della magnifica vista della Pianura Padana e della Svizzera, mentre gli appassionati di mountain bike potranno affrontare percorsi idonei a ogni difficoltà.

Agriturismo “Pianca” - Via per Casasco, 1 - Località Pianca - San Fedele d’Intelvi (Co) Tel. e Fax: +39 031 841191 - Info Line: +39 346 4960185 - E-mail: bbpianca@libero.it



Rubriche

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MURI D’AUTORE Via Magenta, 31- 21100 Varese Tel. e Fax: 0332 830951 info@muridautore.it - www.muridautore.it

ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI Via Magenta, 31- 21100 Varese Tel. e Fax: 0332 289755 info@paesidipinti.it - www.paesidipinti.it


VERDURA: aglio - basilico - bietole - carote - cetrioli - cipollotti - fagioli - fagiolini - indivia - insalata da taglio - lattuga - mais dolce - melanzane - ortiche - patate - peperoncini - peperoni - piselli - pomodori - rape - ravanelli - scalogni - sedano - zucchine.

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Il calendario del gusto

Mesi caldi e assolati, dedicati almeno in parte alle vacanze e al riposo, luglio e agosto ci regalano frutti e verdure perfetti per vincere le alte temperature e ricaricarsi con gusto. Ecco un’ampia selezione delle specialità che si possono trovare fresche sui banchi dei mercati (in alcuni casi solo nelle prime o nelle ultime settimane del bimestre, più spesso per l’intero periodo): FRUTTA: albicocche - amarene - ciliegie - cocomeri - fichi - fragole - limoni - meloni - mirtilli - more - more di gelso - nespole del Giappone - pere - prugne - pesche - pesche noci - lamponi - ribes - susine.

di Roberto Mottadelli - Ricette di Laura Rangoni

L’orto di luglio - agosto


I cocomeri Bianco, rosso e verde. Rinfrescante, dolce e dissetante: il cocomero sembra nato apposta per celebrare l’estate del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Per i botanici è il citrullus lanatus, definizione scientifica che, in verità, suona piuttosto buffa. Più semplice chiamarlo con una di quelle espressioni dialettali che rendono straordinariamente esuberante la nostra lingua: anguria, popone, melone d’acqua, zipangolo, zoparacu… In fondo l’Italia è bella anche perché ha saputo conservare questa ricchezza di regionalismi, nella quale si conserva traccia sia del passaggio di dominazioni straniere (“melone

d’acqua”, per esempio, è la traduzione del nome attribuito al cocomero da molti popoli del Nord Europa), sia del proverbiale spirito ironico dei contadini. Vuole la tradizione, per esempio, che il termine calabrese zoparacu, letteralmente “zio parroco”, derivi dal fatto che il cocomero, così gonfio e tondeggiante, ricorderebbe il profilo di certi pasciuti curati di campagna… Un nome vale l’alto, perché il cocomero è straniero in Sicilia come in Lombardia, e per conoscerne l’appellativo originale bisognerebbe interrogare un boscimano. È infatti originario dell’Africa meridionale, come dimostrò il dottor David Livingstone, leggendario esploratore che si trovò di fronte decine di questi frutti rubicondi nel bel mezzo del deserto del Kalahari. Del resto, che provenisse dal Continente Nero lo avevano già intuito gli archeologi, studiando i geroglifici e ricostruendo le abitudini degli antichi Egizi: figurava infatti tra le provviste che venivano messe nelle piramidi per accompagnare i faraoni nel viaggio verso l’aldilà. Dall’Africa si diffuse in Asia e poi in Europa, forse al tempo delle invasioni arabe o forse grazie ai Crociati. Grazie al clima caldo e asciutto, il cocomero si adattò bene nelle regioni meridionali del nostro Paese e venne progressivamente apprezzato per le sue qualità idratanti.

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Contiene infatti oltre il 90% di acqua, risorsa preziosissima nei mesi più caldi, e una buona quantità di fruttosio e vitamine A e C, B1 e B6. Inoltre è un buon serbatoio di magnesio e potassio, importanti sali minerali che aiutano a combattere la stanchezza dovuta all’afa, e ha un basso contenuto in sodio. Ed è poco calorico, un dato da non trascurare quando si tiene alla linea… Per godere appieno di queste proprietà è importante, però, scegliere bene il frutto che si acquista: operazione non semplice, visto che a occhi inesperti i cocomeri sembrano assomigliarsi tutti. Buona norma generale è preferire i prodotti italiani e a filiera corta, che danno maggiori garanzie di freschezza. Il consiglio è poi di scegliere i cocomeri con il peso specifico maggiore e quelli che, percossi con le nocche,

rispondono con un suono nitido. Inoltre si può provare a grattarne la buccia con un’unghia: se lo strato più superficiale si stacca facilmente, significa che il frutto è maturo. Se pensate di non consumare il cocomero in tempi brevi (entro una decina di giorni circa), rimandate l’acquisto e non scegliete un esemplare acerbo: una volta colto, infatti, smette di maturare.

Ingredienti per 4 persone: 1 cocomero di circa 2 kg di forma regolare - 150 g di frutti di bosco misti - 1 limone - 4 cucchiai di zucchero -100 g di vino bianco. Preparazione piatto: tagliate il cocomero a metà e togliete un pezzetto di buccia alla base in modo che stia facilmente appoggiato su un piatto. Con l’apposito attrezzo scavate tante piccole palline, che disporrete in un’insalatiera insieme con i frutti di bosco precedentemente lavati e asciugati. Condite con il succo di limone, il vino elo zucchero. Lasciate macerare per circa 30 minuti in frigorifero. Terminate di svuotare il cocomero e ripulitelo all’interno. Al momento di gustare disponete la frutta macerata nella coppa di cocomero.

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Ricette

© Petr Kratochvil.

Cocomero ai frutti di bosco


Le pesche Amate dall’imperatore Dario III, in realtà le pesche provenivano da ancor più lontano. Erano nate in Cina, dove le si considerava simbolo d’immoralità (che i saggi orientali avessero già capito che mangiare molta frutta

© Petr Kratochvil.

Saturnine e nettarine, bianche e gialle, merendelle e montagnole. Sembra una filastrocca da cantare in girotondo con i bambini, magari all’aperto, in un’assolata giornata estiva. Invece sono solo i nomi di alcune tra le infinite varietà di pesche che rendono ancor più bella la bella stagione, dal suo timido affacciarsi dalle brume invernali fino al momento in cui cede il passo ai colori caldi dell’autunno: perché se le più precoci sono pronte già tra maggio e giugno, la maggior parte matura in luglio e agosto… e le tardive splendono sui rami ancora a settembre inoltrato. Difficile resistere. Una pesca matura, coltivata a regola d’arte, può far innamorare di sé ancor prima che se ne assapori il gusto dolce, con quella pelle vellutata e quel profumo delicato e insieme inebriante. Del resto, la pesca nasce da fiori che simboleggiano amore immortale e compiacenza reciproca. Forse il segreto del fascino multiforme di questo frutto, capace di sposarsi con il vino come con il tè e gli sciroppi, viene dalla sua origine esotica, svelata già dal nome scientifico: prunus persica. Dalla Persia, infatti, arrivavano quelle carovane di mercanti che nel I secolo dopo Cristo ne portarono in Europa i primi esemplari, destinati a mettere radici e a moltiplicarsi lungo le coste mediterranee.

allunga la vita?); e prima di attraversare il Mediterraneo erano arrivate in Egitto: qui un altro popolo di cultura raffinatissima le aveva consacrate ad Arpocrate, dio dell’infanzia, forse per via della loro rosea delicatezza. I Romani stavano per raggiungere l’apice della loro gloria e non avevano tempo per inseguire simili associazioni d’idee.

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© Teodoro S Gruhl

Ma, nel loro pragmatismo, amavano la buona tavola. Dunque apprezzarono le pesche per il contributo che potevano dare sotto il profilo gastronomico, che non è poca cosa. Oggi sappiamo che, oltre a soddisfare la gola e a prestarsi a un’infinità di ricette, le pesche fanno benissimo anche alla salute. Sono infatti un ottimo integratore naturale di potassio e contengono importanti vitamine e provitamine, come la A, la C e la PP; inoltre forniscono un apporto calorico moderato. Per trarne i massimi benefici sarebbe bene mangiarle lontano dai pasti, in modo da evitare ogni rischio di fermentazione a contatto con altri cibi, come i latticini. Inoltre è consigliabile sbucciarle, a meno che non si abbia la certezza

di una loro provenienza biologica, perché la delicatezza della pianta, soggetta agli attacchi di afidi e cocciniglie, fa sì che molti agricoltori utilizzino prodotti anticrittogamici che tendono a rimanere sullo strato più superficiale dei frutti.

Preparazione piatto: Immergete le mandorle per un minuto in acqua bollente, pelatele e tritatele. Pestate gli amaretti con un pestacarne, riducendoli in polvere. Lavate le pesche e, senza pelarle, apritele a metà, togliete il nocciolo e, con un cucchiaino, scavatele leggermente in modo da rendere un poco più profonda l’incavatura lasciata dal nocciolo. Fate sciogliere il burro in una pirofila che possa andare sul fuoco, larga a sufficienza per farvi stare comode le mezze pesche, sistemate nel recipiente le mezze pesche con la parte aperta rivolta verso l’alto, distribuite nell’incavo le mandorle tritate e gli amaretti, poi spolverizzate tutto con lo zucchero, irrorate le pesche con il bicchiere di marsala e lasciate cuocere a fuoco molto dolce, con il coperchio, per un’oretta. A cottura ultimata il sughetto di cottura delle pesche deve avere la consistenza di uno sciroppo. Servitele subito, distribuendo su ognuna qualche cucchiaiata di sciroppo.

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Ricette

Pesche ripiene all’emiliana Ingredienti per 4 persone: 4 grosse pesche 100 g di zucchero - 50 g di amaretti - 30 g di mandorle - 50 g di burro - 1 bicchiere di marsala.


I pomodori C’è un ortaggio che più di ogni altro si identifica con la nostra cucina, eppure non è nato in Italia. Abbiamo imparato a coltivarlo da poco più di quattrocento anni: sembrano molti, ma se li si rapporta ai tempi lunghissimi della natura si comprende come siano davvero poca cosa. E lo mangiamo da ancor meno tempo, visto che ha dovuto fare i conti con infondati sospetti di tossicità e a lungo è stato utilizzato soltanto per decorare parchi e giardini. Insomma, che cosa sarebbe la dieta mediterranea se dal Messico e dal Perù, insieme ai metalli preziosi e a tante altre specialità all’epoca sconosciute, nel tardo Cinquecento non fosse sbarcato in Europa anche il pomodoro? Ringraziamo i Conquistadores e le civiltà precolombiane se non siamo costretti a fare i conti con tavole e ricettari orfani dei più classici degli spaghetti e della più tipica delle pizze. Gli Aztechi, che ne erano ghiotti, lo chiamavano tomatl, parola dalla quale derivano i nomi con i quali questo ortaggio fu subito battezzato in molti Paesi: basti pensare all’inglese tomato e al transalpino tomate, termine usato anche in spagnolo e in tedesco, sia pure con diversa pronuncia.

Del “vero” nome del pomodoro rimane traccia pure nei dialetti di diverse regioni italiane che hanno vissuto dominazioni straniere, o hanno intessuto rapporti commerciali e culturali particolarmente intensi con il resto del continente: in molte campagne ancora oggi si sentono risuonare parole come tumàtes e tomàtica... Bisogna però riconoscere che “pomodoro” è un nome bello e simpatico. Evoca un’idea di preziosità, lucentezza, pienezza e, secondo alcuni, alluderebbe anche alle gioie dell’amore: a dar fede a un’affascinante teoria, deriverebbe infatti dall’espressione francese pomme d’amour, motivata dalle sue (presunte) virtù afrodisiache. Più probabile è che agli italiani e ai cugini transalpini, quando videro per la prima il tomatl, sia venuto spontaneo paragonarlo a una mela (“pomo”) d’oro. Pare che, in origine, il colore del pomodoro fosse proprio uno squillante giallo dorato. Alcune varietà con sfumature cromatiche particolarmente luminose esistono ancora.

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Anche se nell’immaginario collettivo il pomodoro è rosso e tondo, è noto a tutti che se ne coltivano molte tipologie diverse, ciascuna con le sue caratteristiche morfologiche. Basta girare per i banchi del mercato, o negli orti di campagna, per ricordarsi che ne esistono di adatti al consumo fresco o alla produzione di succhi e concentrati, alla trasformazione in pelati o in passata, o anche alla conservazione per essiccazione. Piccoli e grossi, tondi e oblunghi, Pachino e Cuore di bue, Camone di Sardegna e San Marzano, solo per citare alcune tra le varietà più pregiate diffuse nel nostro Paese. E, per tornare ai pomodori di colori insoliti, non si possono dimenticare quello giallo di Castelfiorentino, ottimo da cucinare ripieno, e quelli di Sorrento e Belmonte Calabro, che assumono invece nuances violacee e rosate. Già scorrendo questo ridottissimo elenco si intuisce come i pomodori vengano coltivati praticamente su tutto il territorio nazionale, e come in ogni zona si sia radicata la varietà più adatta al microclima locale. Un inno alla biodiversità, risorsa da difendere a ogni costo contro le omologazioni del gusto, del colore, della forma e perfino delle proprietà nutrizionali. Ogni tipo di pomodoro, infatti, ha caratteristi-

che proprie anche sotto il profilo chimico e biologico, e ciò determina diversi apporti di vitamine e sali minerali. Tutti, però, sono accomunati da un buon contenuto di potassio e fosforo, vitamina C, betacarotene e acido malico. Quest’ultimo, che in genere nel pomodoro si accompagna ad altri acidi, favorisce la digestione stimolando l’azione dello stomaco: ecco perché, oltre che buono da solo, il pomodoro è perfetto come accompagnamento di altri alimenti, a partire da quelli ricchi di fecole e amidi. Una verità che - lo dimostra la cucina mediterranea - la saggezza popolare ha compreso ben prima degli scienziati…

Ingredienti: 2 pomodori grossi tondi - 4 formaggini caprini - un ciuffo di erba cipollina - 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva - sale e pepe nero. Preparazione piatto: Tagliate a metà i pomodori, dopo averli ben lavati e togliete i semi con un cucchiaio. Tritate metà dell’erba cipollina e amalgamatela con il caprino. Insaporite con sale e pepe, unite un po’ di olio e mescolate bene. Riempite con il formaggio i pomodori, decorateli con qualche stelo di erba cipollina e servite.

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Ricette

Pomodori ripieni di caprino


della Redazione

Il grande libro dell’orto e della cucina naturale - Laura Rangoni Come scegliere il posto ideale per un nuovo orto, concimarlo, preparare il letto di semina; come seminare, irrigare, proteggere le colture da parassiti e malattie; quali sono le principali verdure, le varietà, i tempi della raccolta e i metodi di conservazione. Laura Rangoni risponde a tutte queste domande e a molte altre ancora, e ci regala tante deliziose ricette, per godere a tavola dei frutti genuini del nostro orto. Infine illustra, mese per mese, i lavori da fare, cosa seminare con luna crescente e con luna calante, come trapiantare, cosa raccogliere, e ci racconta tutte le curiosità legate al mito e alla tradizione contadina. L’ABC della coltivazione per uso familiare in un manuale semplice, pratico e rigoroso, che permetterà a ciascuno di creare da sé, con passione e senza difficoltà, il proprio orto ideale.

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33 Lolli con guanciale, anice stellato e Carota Novella di Ispica

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Flan di Carota Novella di Ispica Reginette con canocchie e crema di carote al cardamomo nero -

Indice ricette luglio - agosto

Gelato alla carota 56

Cavatelli al conditonno Colimena

61 Filetto di tonno in crosta di pistacchi e pinoli su insalatina di ortaggi e gamberi viola di Gallipoli al finocchietto selvatico

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Linguine all’astice

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Baccalà gratinato con cipolle rosse di Tropea Ossobuco con risotto alla milanese

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107 Cocomero ai frutti di bosco 109 Pesche ripiene all’emiliana 111 Pomodori ripieni di caprino

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