Il cinema giallo-thriller italiano di Claudio Bartolini

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Le CinEnciclopedie


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Le CinEnciclopedie

Collana diretta da Enrico Giacovelli


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Claudio Bartolini

Prefazione di

DAVIDE PULICI


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Copertina: Francesco Partesano

Stampa: FP Design – Pavona (RM)

2017 © Gremese International s.r.l.s. – Roma

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere registrata, riprodotta o trasmessa, in alcun modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell'Editore. ISBN 978‐88‐8440‐992‐9


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Prefazione

È un’impresa quasi impossibile ideare una prefazione a un’opera come questa di Clau‐ dio Bartolini. Perché quest’opera è un “mostro”. Ma nel senso virgiliano, stupefacente, quindi magnificativo e nello stesso tempo spaventoso, del termine. Appunto quel monstrum horrendum informe ingens che unisce l’orrore e la paura alla grandezza, alla smi‐ suratezza, al senso di una massa che sgomenta, atterrisce e leva il fiato. Perché, diciamolo, il Giallo è un Ciclope. Anzi, il “Giallo all’italiana” è un Ciclope. È nato, ha allignato, è vissuto e forse ancora vive, ancorché accecato, in un posto re‐ moto, in una realtà separata. E non ha niente a che vedere con il resto del suo genere: con gli equivalenti del Giallo in Francia, Inghilterra, Germania, America, Spagna. Questo è un monstrum nostrum. Come diceva Quintiliano della satira, che è «interamente nostra». Quindi, noi sappiamo bene di cosa parliamo quando parliamo di Giallo all’italiana, lo “sen‐ tiamo” perché ne abbiamo una percezione vorrei dire ideale, metafisica prima che fisica. È una nostra forma mentale. Un nostro vantaggio che ha forse a che vedere con l’aria che abbiamo respirato. Perché, torno a ripeterlo a costo di sembrare ossessivo e morboso (il che andrebbe pure bene, in un simile contesto), il Giallo all’italiana ci appartiene total‐ mente. E intendo anche che ci appartiene, e ne rivendichiamo, totalmente, il possesso, da un punto di vista interpretativo, ermeneutico, di esegesi. Ne segue di conseguenza che non potesse essere se non uno di noi a tentare di domare il Ciclope, a prenderne le misure. A definirne le dimensioni spaziali e temporali, prima che a passare a studiarne l’essenza. Che cosa è e che cosa non è. La questione obiettiva‐ mente più complessa. Claudio Bartolini ha raggruppato, catalogato, indicizzato una quantità impressionante di materiale, dopodiché, smessi i panni tutto sommato comodi e puliti dello storico, ha dovuto passare a fare il lavoro più sporco, quello per cui ci si deve per forza compromet‐ tere. Ha posato gli spilli e ha brandito il bisturi. Da entomologo si è fatto notomista. Ecologia del delitto è diventato La corta notte delle bambole di vetro. Due film, tanto per scendere dall’astratto al concreto, che Bartolini ha inserito nel novero dei Gialli. E ci sarebbe mancato altro, perché il capolavoro di Mario Bava (che è uso dire abbia fondato concetto e forma dello slasher) e l’altrettanto capolavoro di Aldo Lado sono esempi per‐ fetti di quella Stimmung di cui si parlava poco sopra, della sensazione e percezione del Giallo che travalica il dato nudo e crudo o il feticcio (il guanto, la soggettiva, l’oggettistica, 5


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Prefazione

l’arma bianca da punta o da taglio) e tocca invece un’essenza, una fragranza, una perce‐ zione quasi sovrannaturale. Perché tutto si può dire dell’italico, cinematografico Giallo, tranne che sia stato un genere logico e razionale. Tra la logica, la razionalità, le sceneg‐ giature dimostrate more geometrico e questi nostri film, non c’è di mezzo il mare, ma l’Oceano. Per fortuna. Dario Argento nei primi anni della sua carriera andava pronunciando criptiche frasi a proposito delle «grandi vele d’inconscio» che solcavano il buio delle sale durante la pro‐ iezione dei Gialli. Lui parlava per sé, per le proprie opere, ma, in realtà, era una specie di oracolo di Delfi che in quel momento esprimeva, quasi medianicamente, verità di ordine superiore. Nessuno capiva bene, lì per lì, che cosa intendesse dire, ma ora, a distanza di decenni, noi afferriamo quella sensazione argentiana che cercava di essere espressa a parole. E capiamo che quelle “vele d’inconscio” non si riferiscono, banalmente, alle chiavi psicanalitiche, freudiane, che aprono le porte alle motivazioni degli assassini i quali am‐ mazzano, sventrano e squartano poiché nel loro passato è nascosto il trauma. Questa è la spiegazione che va bene per i poveri di spirito e che non spiega un bel niente. Soprat‐ tutto non spiega perché questi killer sono fatti così, perché si manifestano in questi modi arcani, come forze fantasmatiche e onnipotenti, divinità omicide, signore e padrone totali del proprio universo. Perché il Giallo italiano – inutile girarci attorno – è un genere trascendente, onirico e i migliori esemplari di esso sono quelli che ci lanciano il guanto (nero) di sfida dell’im‐ possibile. La sospensione dell’incredulità: quando mai sarebbe servita in quello che al‐ trove poteva avvicinarsi alla nostra idea di Giallo? La lunghissima linea francese, discendente da Georges Clouzot e I diabolici, che pure vivificò grandissima parte del proto‐Giallo italiano, non chiedeva allo spettatore che si mettesse in una posizione di to‐ tale apertura e di “fede”. È il Giallo vero, puro, totalmente nostro, quello che comincia a esigere questo tributo, e lo ha inventato Argento. Le “grandi vele d’inconscio” fanno riferimento a meccanismi e intrighi che sfiorano il preternaturale, lo accostano in un percorso che è nelle cose fin da quando Argento gira L’uccello dalle piume di cristallo e che in breve tempo si espliciterà, drizzerà e gonfierà la testa come un cobra, raggiungendo i grandi traguardi a cominciare da Profondo rosso. Anzi prima, da 4 mosche di velluto grigio, dove la preveggenza media‐ nica incrocia i più improbabili studi oculistico‐tanatologici per arrivare alla fine a togliere la maschera a un assassino sciroccato. Ma il Giallo italiano non è mai ciò che scopriamo nell’epilogo, non è mai la solutio, la quale dà sempre fastidio, perché delude, è vile. Quello è il giallo (minuscolo) che facevano altrove, motivazionale, d’intrigo, le lotte per le eredità o le questioni di corna. Che c’entra nella misura in cui è stato pratica anche di parecchi nostri registi, i quali non capivano fino in fondo la rivoluzione argentiana, non afferravano la fantasia gialla al potere, e gli si mettevano in scia ma perseguendo traiettorie note. Fu l’altra faccia del Giallo italiano che finì per diventare interessante solo nella misura in cui sviluppò la propensione al Perverso Erotico Polimorfo (uno spazio che Argento aveva lasciato libero, perché nella 6


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Prefazione

sua visione immaginifica del genere il sesso non solo non rientrava ma restava rigorosa‐ mente bandito – altro che «sensualità dell’omicidio») o enfatizzò la crudezza belluina della violenza – quella non estetizzata e resa “arte” dell’assassinio da Argento –, racco‐ gliendo un vecchio legato di carne, di sangue e di materia che proveniva dritto dritto dal neorealismo. Ecco, dunque, l’interesse e la bellezza di entrare nelle anse esoteriche, enig‐ matiche e morbose di un genere che in Italia brillò di tutti i colori del buio. Che erano, poi, le infinite iridescenze del «piumaggio cangiante del pavone», per usare una definizione che il panteista irlandese Scoto Eriugena coniò per rendere i labirintici significati della Sacra Scrittura ma che noi adattiamo, con un salto mortale pagano e si‐ nestesico, a tutto ciò che sentiamo nascosto, acquattato e pronto a colpire, a colpirci cioè a mesmerizzarci, tra le penne di cristallo dell’hornitus nevalis e gli stiletti policromi che offrirono a Susy l’arma finale per ammazzare la Regina Nera. DAVIDE PULICI

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Introduzione

Giallo di carta In principio è la letteratura. Perlomeno certa letteratura italiana di fine Ottocento, che adotta il feuilleton sociale come cornice, per innestarvi componenti criminali e violente e scuotere, così, le abitudini di lettori intrigati da trame macabre, nere, spesso ispirate dalla cronaca. Storie di periferie malsane, delittuose, popolate da figure senza legge né morale. Noir di casa nostra come Il delitto di via Chiatiamone, scritto da Matilde Serao nel 1892, ma soprattutto La mano nera di Cletto Arrighi (1883) e Il cappello del prete di Emilio De Marchi (1887), autentici successi popolari che spingono penne ed editori a dedicarsi al nero con sempre più frequenza, creando collane ad hoc atte a raccontare il lato oscuro del solitamente esangue romanzo sociale. Nel 1929, la svolta: con la pubblicazione del ro‐ manzo La strana morte del signor Benson, firmato da S.S. Van Dine nel 1926, nasce la serie «I gialli Mondadori», vera pietra angolare nella definizione del genere. I volumi che com‐ pongono il catalogo si distinguono per il prezzo accessibile, la provenienza import dei loro autori (ora britannici, ora statunitensi, ora francesi), l’ingranaggio narrativo whodunit – con delitto e indagine circa autore, meccanica e movente criminale – e in particolar modo per la veste estetica. Le copertine presentano infatti continuità grafica, mediante il ricorso a un cerchio con perimetro rosso all’interno del quale è collocata un’immagine di richiamo, ben disegnata e colorata allo scopo di catalizzare l’attenzione del lettore e riflettere i con‐ tenuti “criminosi” dell’opera. Il tutto si staglia su uno sfondo monocromo, giallo al pari di costa e quarta. Giallo, appunto, ed ecco coniato il termine da consegnare al Novecento per la classificazione di tutte quelle drammaturgie imperniate su omicidi, detection, deduzioni e svelamenti di killer più o meno seriali. Certo, all’interno del catalogo di «Gialli Monda‐ dori» nascono e proliferano i filoni più disparati – dal giudiziario al terrore, dal poliziesco al familiare – ma l’assassino, reale e perciò turbativo per chi legge e coglie la prossimità con la propria quotidianità, permane al centro dell’ordito romanzesco.

Ed ecco il cinema, eterno secondo La serie «I gialli Mondadori» non è ben vista dal regime fascista che governa l’Italia al momento della sua nascita. Benito Mussolini considera quei volumetti immorali, forieri di deviazioni dall’agognato e distorto ideale di purezza veicolato dal regime. Cionono‐ 9


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Introduzione

stante, il cinema italiano occhieggia come sempre alla letteratura popolare e, negli anni ’30 e ’40, inizia a dare vita a propri esperimenti anche sulla base di quelle importazioni editoriali dall’immediata riconoscibilità. A dire il vero, fin dagli anni ’10 lo spettatore ita‐ lico aveva avuto modo di imbattersi in figure ed episodi in qualche modo legati alla sfera criminale, ma personaggi come Za‐La‐Mort – interpretato da Emilio Ghione in Zà-la-Mort (1915), Anime buie (1916) e I topi grigi (1918) – erano più che altro fumettistiche varia‐ zioni sul tema del giustiziere operate a partire da modelli esteri quali Rocambole o Arse‐ nio Lupin. A partire dal 1931 il delitto inizia a farsi strada con sempre maggiore frequenza tra i fotogrammi immortalati dalle macchine da presa nazionali. Sono quattro le pellicole che, più di altre, posso essere considerate a ragion veduta le radici del giallo cinematografico italiano: L’uomo dall’artiglio di Nunzio Malasomma (1931) costituisce il primo tentativo di costruzione di suspense in un universo urbano, scosso da feroci delitti compiuti con un artiglio d’acciaio (simile, per certi versi, a quello utilizzato dal killer del futuro Sei donne per l’assassino di Mario Bava [1964]); Il treno delle 21.15 di Amleto Palermi (1933) inaugura la detection filmica con omicidio, indagine e risoluzione in ambiente chiuso, in‐ seguendo palesemente il modello offerto dalla scrittrice britannica Agatha Christie con il suo Assassinio sull’Orient Express; Il caso Haller di Alessandro Blasetti (1933) è un em‐ brione psico‐thriller costruito come variante italiana del romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson: schizofrenia patologica, perdita del senno e follia violenta; infine Giallo di Mario Camerini (1933) è, fin dal titolo, un tentativo di aggancio al neonato filone letterario popolare, seppure in una versione tendente al rosa. Il campionario anni ’30 a seguire è quantomai vario e discretamente ricco, sebbene non possa essere ricondotto a stilemi e modi operandi ricorrenti che vadano oltre la ca‐ tena narrativa basilare: i proto‐gialli di Raffaello Matarazzo (Il serpente a sonagli [1935], Joe il rosso [1936], L’Anonima Roylott [1936]), il mistero sull’assassinio di un conte da cui prende le mosse L’orologio a cucù di Mario Camerini (1938), l’onda anomala di produzioni rasenti il genere datata 1939 (su tutti, L’ospite di una notte di Giuseppe Guarino, Traversata nera di Domenico Gambino e L’albergo degli assenti, ancora di Matarazzo) e gli enigmi familiari sottesi a L’ispettore Vargas di Gianni Franciolini (1940) sono soltanto alcuni tra gli esempi che testimoniano il crescente interesse della nostrana cinematografia nei con‐ fronti di soggetti a tematica delittuosa. La prima metà del successivo decennio non fa che ribadire quanto espresso da quello precedente, tra le peripezie dei giallisti accusati di omicidio in Brivido (1941) e Cortocircuito (1943) di Giacomo Gentilomo, gli intrecci giu‐ diziari di Labbra serrate di Mario Mattoli (1942), la seconda onda anomala datata 1943 (su tutti, l’antesignano del thriller gotico La statua vivente di Camillo Mastrocinque, i se‐ greti indicibili di La casa senza tempo di Andrea Forzano e le svolte sentimentali di Quarta pagina di Nicola Manzari) e tanti altri prodotti minori, ma quasi sempre funzionali all’in‐ casso, in quanto capaci di intercettare il gusto nascente di un pubblico “medio” desideroso di fruire di quel proibito così apprezzato tra le “pagine gialle”. Il cappello del prete di Fer‐ dinando M. Poggioli (1944), infine, segna di fatto un apice importante per il proto‐giallo, 10


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Introduzione

in quanto archetipico ensemble di pazzia, abbozzi di psicanalisi, (falsi) preti e delitto ec‐ cezionalmente mostrato su schermo. Tutti elementi, questi, che confluiranno nel sistema‐ genere a seguire.

Neorealismo nero A partire dal dopoguerra, però, qualcosa si inceppa. La produzione di pellicole am‐ miccanti al giallo letterario rallenta fino quasi ad arrestarsi, salvo operazioni di maniera come Fumeria d’oppio di Matarazzo (1947), che riprende temi e figure di Za-la-mort e utilizza come attore protagonista, non a caso, Emilio Ghione Jr. Nel frattempo, irrompe una forma del tutto peculiare di racconto noir calato nella realtà nazionale post‐bellica. Se da una parte, infatti, il cinema italiano racconta la ricostruzione mediante la pratica neorealista, dall’altro vi inocula elementi crime in un filone disomogeneo vagamente ap‐ parentabile al noir. Apripista di questa corrente è Il bandito di Alberto Lattuada (1946), che racconta storie di malavita in uno scenario urbano restituito con angolazioni di ri‐ presa estreme e un bianco/nero altamente contrastato. Seguono, tra gli altri, gli emble‐ matici Tombolo paradiso nero di Giulio Ferroni (1947) e Il bivio di Fernando Cerchio (1952), entrambi improntati sulla messa a tema delle disfunzioni criminali legate alla coeva povertà della gente comune italiana. A tale humus cinematografico controcorrente prestano il loro contributo anche le macchine da presa di Michelangelo Antonioni e Pietro Germi. Se il primo sperimenta il proto‐giallo antiborghese in Cronaca di un amore (1950) – dove il senso di colpa e il mistero intrecciano le loro essenze, nella noia esistenziale della classe abbiente – il secondo interseca forme debitrici al noir statunitense a digres‐ sioni sociali su base nazionale in ben quattro film: Il testimone (1945), Gioventù perduta (1947), La città si difende (1951) e Un maledetto imbroglio (1959). Quest’ultimo titolo è una cerniera di fondamentale importanza, uno spartiacque tra la conformazione episo‐ dica del proto‐genere pre‐anni ’60 e la sua futura canonizzazione. Trasposizione su schermo del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda – del quale adotta soltanto le componenti riconducibili al giallo – è anch’essa un’indagine incuneata nel cuore del mondo borghese ma, soprattutto, un grimaldello il cui successo smuove le stagnanti acque editoriali e cinematografiche a tema criminale, portando alla ribalta da una parte i romanzi gialli fatti in casa (ovvero scritti da autori italiani, che vanno ad affiancare quelli stranieri da tempo in auge nella collana Mondadori), dall’altra una serie di pellicole che ne ricalcano stilemi e intuizioni. Sono film‐preludio realizzati a inizio anni ’60, aventi un tocco marcatamente autoriale e i crismi del nascente genere, ma a esso non assimilabili per mere ragioni cronologiche. Tra questi è obbligatorio citare al‐ meno Il rossetto dell’esordiente Damiano Damiani (1960), ambientato in una Roma op‐ primente, interpretato proprio da Germi e percorso da linee di trama sentimentali; L’assassino di Elio Petri (1961), storia di un innocente accusato di omicidio e, insieme, meditazione esistenziale e percorso di autoanalisi; La commare secca (1962), spaccato malavitoso con omicidio, false piste e delinquente psicotico scritto da Pier Paolo Pasolini e diretto da Bernardo Bertolucci; L’orribile segreto del Dr. Hichcock di Riccardo Freda 11


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Introduzione

(1962), ibridazione tra le grammatiche visive gotiche di derivazione anglosassone in voga a inizio anni ’60 e la razionalità d’intreccio propria del futuro thrilling.

Nascita di un genere Il cinema italiano sviluppa e sistemizza i propri generi quasi spontaneamente, sul ver‐ sante creativo per rispondere ai bisogni d’intrattenimento di un pubblico popolare, su quello produttivo‐industriale per diversificare l’offerta, creando prodotti da realizzare in serie a costi ridotti. Per questo motivo i singoli generi presentano ricorrenze produttive, narrative, stilistiche e iconiche ben definite, che assieme vanno a comporre griglie (tal‐ volta vere e proprie gabbie) all’interno delle quali sono chiamati a muoversi sceneggia‐ tori, registi, cast tecnici e artistici. I singoli filoni italiani nascono e si sviluppano come imitazioni di quelli contemporaneamente più praticati in Inghilterra, Francia o Stati Uniti, prelevandone ricorrenze per poi piegarle a un linguaggio più diretto – più sleazy, più pulp – tanto drammaturgicamente, quanto lessicalmente. A inizio anni ’60, mentre il giallo fa le prove di commerciabilità, fioriscono il peplum, il film musicale e il western, rispettiva‐ mente (ri)definiti “sandaloni”, “musicarelli” e “spaghetti‐western” – con altezzoso piglio snob – da certa conclamata e miope critica engagé legata a doppio filo a binarie classifi‐ cazioni da “politica degli autori”. Accanto ai tre pilastri della celluloide popolare si fa strada il gotico, nato per soddisfare la richiesta di spaventi degli spettatori sulla scia della letteratura di Edgar Allan Poe (e di altri mostri sacri dell’orrore anglosassone) e dei mo‐ delli di celluloide offerti soprattutto dall’inglese Hammer Film Productions e dalla factory dello statunitense Roger Corman. Germogliato nella bottega di mastro Riccardo Freda (I vampiri [1957]), trova esito compiuto grazie all’abilità dell’artigiano Mario Bava, che apre (La maschera del demonio [1960]) e chiude (Operazione paura [1966]) una stagione go‐ tica all’insegna di castelli, indemoniati, mad doctor, ombre espressioniste, angoli di ri‐ presa estremi e sperimentazioni sui colori primi. Parallelamente emerge la corrente di spionaggio mutuata dal successo british dell’agente 007, i cui emuli italiani hanno spesso nomignoli ammiccanti (077, 070, 001, 009…) e si muovono all’interno di storie alimentate da mistero, azione e – perché no – delitti. Tra il 1963 e il 1964, la svolta. Come sempre, a guardare nella sfera di cristallo dei generi è Bava, che intuisce come la paura a base di pipistrelli, esperimenti e ragnatele – nonché le peregrinazioni internazionali di agenti speciali spesso prossimi alla macchietta – abbiano vita breve. Con La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l’assassino (1964) l’autore (sì, autore) ligure getta i semi per una nuova tipologia di terrore made in Italy, seguendo la scia dei generi più in voga per uniformarli alle esigenze sempre più estreme di un pubblico popolare bisognoso di spaventi maggiormente vicini, realistici, spesso attinenti la cronaca. La ragazza che sapeva troppo è, a tutti gli effetti, il prototipo del giallo cinematografico all’italiana: ambienta‐ zione urbana nazionale; estremizzazione degli stilemi della serie «I gialli Mondadori» (la protagonista è, non a caso, una divoratrice dei suddetti romanzi); impianto razionale, senza sconfinamenti nel soprannaturale; côté visivo dai tagli di luce gotici; linea senti‐ mentale ad affiancare la detection, in conformità al dettame eurospy; infine elementi de‐ 12


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stinati a entrare nell’alfabeto della futura età dell’oro del genere come il detective improv‐ visato, il testimone del primo delitto a cui manca un dettaglio, la pura follia come movente omicida, il familiare‐complice del killer, le telefonate anonime e i nastri registrati come in‐ dizi rivelatori. Sei donne per l’assassino, invece, apre i cancelli a un thriller puro, spiazzante, iper‐violento e visivamente sperimentale: calco letterario prelevato dal Krimi tedesco, no‐ nostante la fotobusta promozionale offra l’inconfondibile immagine in cerchio rosso pre‐ sente sulle copertine dei «Mondadori»; sceneggiatura secondaria rispetto alla messa in scena; donne‐vittima e donne‐killer; barocchismo scenico, con oggetti simbolo (su tutti, il manichino associato all’essere umano) da consegnare all’armamentario anni ’70 del ge‐ nere; palette cromatica con accostamenti stridenti, acidi, antirealistici; grammatiche di messa in quadro esasperate da lenti grandangolari e primi piani a focali lunghe, con co‐ stante ricerca della profondità di campo; infine centralità dell’assassino e del suo operato, restituita tramite un look identificativo (volto coperto, impermeabile, cappello a tesa e guanti neri), omicidi in soggettiva (ora della vittima, ora del carnefice) e brutalità grafica. Le due pellicole baviane, autentiche schegge di paura inaspettate e scardinanti, producono suspense cognitiva (La ragazza che sapeva troppo) e scenica (Sei donne per l’assassino), ponendosi come pietre miliari per i due rami del nuovo cinema nero italiano: da una parte il giallo, con le sue indagini cervellotiche, (auto)ironiche e intrise di pulsioni erotiche; dal‐ l’altra il thriller, con i suoi fiumi di sangue e le sue atmosfere sospese tra prossimità con‐ testuale e astrattismo scenografico. Ecco spiegate le ragioni in base alle quali il presente tomo considera il 1963 come anno di nascita dell’oggetto d’analisi.

Il ’68 del giallo Come nel caso del peplum, del western, del musicale e del neonato bellico – puntual‐ mente ribattezzato “makaroni kombat” con lo stesso, suddetto sarcasmo riservato ai pro‐ dotti popolari di inizio anni ’60 – anche il giallo‐thriller diventa sistema nell’arco di qualche anno, dopo tre stagioni cinematografiche in cui vedono la luce del proiettore spo‐ radici germogli ora legati a doppio filo al gotico (per esempio Libido di Ernesto Gastaldi e Vittorio Salerno (1965) o Il terzo occhio di Mino Guerrini [1966]), ora cresciuti su radici letterarie (Maigret a Pigalle di Mario Landi [1966], A ciascuno il suo di Elio Petri [1967]), ora innovativamente calati nella realtà italiana di provincia (La donna del lago di Luigi Bazzoni [1965]), ora eccentricamente autoriali (Col cuore in gola di Tinto Brass [1967]). A partire dal 1968 produttori, registi e sceneggiatori particolarmente abili nell’annusare l’aria del tempo e nell’anticipare (talvolta, dettare) i gusti del pubblico danno vita a un’on‐ data di pellicole dagli esiti artistici tra loro disomogenei, ma accomunate dalla predile‐ zione per una tessitura narrativa gialla cui affiancare l’elemento sentimentale, finanche sexy. È il caso, appunto, del sexy‐giallo coniato da Il dolce corpo di Deborah di Romolo Guerrieri (1968), che inaugura una contaminazione tra eros e thanatos in contesto bor‐ ghese avente in I diabolici di Henri‐Georges Clouzot (1955) il modello di partenza da ri‐ modulare sul perimetro dei triangoli amorosi e su ambientazioni internazionali debitrici all’eurospy. Carroll Baker, attrice protagonista, diventa icona di un cinema che, tra il 1968 13


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Introduzione

e il 1970, la vede oggetto del desiderio (sessuale, omicida) nella trilogia di Umberto Lenzi posta a vertice del filone e formata da Orgasmo (1968), Così dolce… così perversa (1969) e Paranoia (1970). E mentre il sexy‐giallo produce figli, figliocci e figliastri (su tutti il boat-thriller, che ne declina i tratti in un’ambientazione balneare mutuata da Il coltello nell’acqua di Roman Polanski [1962] e piegata ai voleri dell’eros), il genere inizia a rami‐ ficarsi in propaggini noir (Un detective di Romolo Guerrieri [1969]), contestatarie (Vergogna schifosi di Mauro Severino [1969]) e sociali (I ragazzi del massacro di Fernando Di Leo [1969], tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Scerbanenco). Il giallo diventa spesso cornice nella quale inserire istinti rivoluzionari, sottotesti anti‐borghesi e soprattutto pulsioni sessuali con cui condire omicidi e indagini. Anche da un punto di vista produttivo‐creativo il giallo inizia a diventare sistema, pro‐ dotto compatto e coeso, stretto attorno a consuetudini industriali e artistiche che lo ren‐ dono facilmente replicabile ed esportabile: modelli cinematografici alti (i citati I diabolici e Il coltello nell’acqua, ma anche tanto Alfred Hitchcock e Claude Chabrol); operazioni di co‐produzione, soprattutto con Spagna, Francia e Germania Ovest, spesso condite dal ri‐ corso a pseudonimi esterofili e atte a dirottare certe narrazioni in scenari esotici e inter‐ nazionali, ma anche a convogliare soldi e maestranze; budget ridotti, da ottimizzare con ingegno ed estro artigianali; linguaggio pulp – come da tradizione italiana di genere – alla cui riuscita contribuiscono in modo determinante montaggio, fotografia e colonne sonore, affidati a professionisti di grande inventiva e sicuro mestiere. Il meglio, tuttavia, deve an‐ cora venire.

Nitrati d’Argento, animali da thriller e sottogeneri Nel 1970 esce nelle sale italiane L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Niente, nel genere, sarà più come prima. Il neo‐regista romano porta a compimento il progetto in nuce in Sei donne per l’assassino di Bava, intrecciandolo allo straniamento spaziale e drammaturgico di Blow-Up di Michelangelo Antonioni (1966) – altro fonda‐ mentale precursore teorico – e calandolo in un contesto urbano, nazionale e contempo‐ raneo utile all’identificazione dello spettatore e alla creazione di quel senso di prossimità indispensabile alla buona riuscita del nuovo prodotto di paura. Coltellate feroci in detta‐ glio, donne brutalizzate da altre donne – da cui l’accusa di misoginia, superficiale e ino‐ pinata, spesso rivolta all’autore e al genere di inizio anni ’70 –, soggettive di ripresa scioccanti, musiche catalizzanti, spazi cittadini che diventano non‐luoghi notturni, de‐ strutturati e dechirichiani: ecco il thriller italiano nella sua forma prototipica, articolata dallo stesso argento nella trilogia (completata da Il gatto a nove code [1971] e 4 mosche di velluto grigio [1971]) che dà la stura a una serie di titoli ed emulazioni il cui insieme pare un giardino zoologico. Anguille, scorpioni, farfalle, iguane, lucertole, tarantole, cobra, iene e ovviamente gatti compongono un bestiario onomastico quantomai vario, spesso pretestuoso ai fini dell’intreccio, ma commercialmente valido a immettere sul mercato prodotti immediatamente connotati, dunque indentificabili e vendibili. Il triennio 1970‐ 1972 costituisce la golden age del genere, nel quale si cimentano – con esiti talvolta illu‐ 14


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minati, talvolta di maniera o fragorosamente trash – pressoché tutti gli autoctoni artigiani della macchina da presa. Inevitabile, dunque, che si moltiplichino sotto‐generi e filoni nati dalla creatività di sceneggiatori alla ricerca di un thrilling sempre più ardito. Se i cosiddetti argentiani divagano su uno spartito ben preciso e codificato (da Chi l’ha vista morire di Aldo Lado [1972] al dittico di Luciano Ercoli La morte cammina con i tacchi alti [1971]‐La morte accarezza a mezzanotte [1972], da La tarantola dal ventre nero di Paolo Cavara [1971] a L’etrusco uccide ancora di Armando Crispino [1972]), altri sperimentano varianti sostanziali. È il caso del thriller gotico, sviluppato da Mario Bava (Il rosso segno della follia [1970]), Emilio Miraglia (La notte che Evelyn uscì dalla tomba [1971] e La dama rossa uccide sette volte [1972]), Romano Scavolini (Un bianco vestito per Marialé [1972]) e altri sotto il segno della contaminazione tra i neonati stilemi e le precedenti convenzioni del genere dei pipistrelli; del thriller rurale, elaborato da Lucio Fulci in Non si sevizia un paperino (1972) invertendo l’associazione buio=paura tra gli scenari soleggiati e inospitali della provincia meridionale; dello psico‐thriller, elevazione a potenza del sexy‐giallo modellata da Sergio Martino (Lo strano vizio della signora Wardh [1971], Tutti i colori del buio [1972], Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave [1972]) sulla forma ora di modelli francofoni, ora hitchcockiani, ora del terrore condominiale messo in scena da Roman Po‐ lanski in Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York (1968); del thriller sociale, inaugurato nella sua accezione più drammatica e scabrosa da Massimo Dallamano con Cosa avete fatto a Solange? (1972), in cui una storia di aborti clandestini di minorenni è calata nel pieno del cinema degli assassini. Non mancano, poi, schegge impazzite che, dal giallo‐thriller, prendono strade peculiari e differenti, seppur sempre in conformità con le ormai solide gabbie imposte dal genere: Aldo Lado dà forma all’obitoriale e mitteleuropeo La corta notte delle bambole di vetro (1971), Nelo Risi allo straniante e opprimente Ondata di calore (1970), Elio Petri allo scardinante e grottesco Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), Maurizio Lucidi al disperato e romantico La vittima designata (1971), To‐ nino Valerii al claustrofobico e scioccante Mio caro assassino (1972). Questo laboratorio industriale e creativo porta a compimento il processo iconico in embrione nel decennio precedente. Nel campo del montaggio Eugenio Alabiso, Amedeo Giomini, Mario Morra, Vincenzo Tomassi e Franco Fraticelli si affermano come editor pri‐ vilegiati grazie a una canonizzazione sempre più sistematica del raccordo sull’asse, della moltiplicazione di immagini in rotazione, dell’alternanza presente/passato eletta, in al‐ cuni casi, persino a cifra d’intreccio privilegiata. In quello musicale Ennio Morricone, Stel‐ vio Cipriani, Giorgio Gaslini, Bruno Nicolai, Riz Ortolani, Carlo Savina e Piero Umiliani compongono tappeti sonori ora aperti a vocalizzi (solitamente affidati a Nora Orlandi), ora contraddistinti da main theme riconoscibili al punto da essere citati, anni dopo, anche oltreoceano (Quentin Tarantino docet). In quello fotografico Mario Bava, Carlo Carlini, Giancarlo Ferrando, Luigi Kuveiller e Vittorio Storaro sono i principali alfieri di illumina‐ zioni pop, stranianti e lisergiche. Il genere è compatto, racchiuso tra le ascisse dei tecnici professionisti e le ordinate di volti e corpi (arche)tipici: se tra gli uomini svettano i ricor‐ renti George Hilton, Franco Nero, Jean Sorel e Ivan Rassimov – oltre a uno sterminato sot‐ 15


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tobosco di caratteristi italiani e iberici – tra le donne primeggiano Edwige Fenech, Nieves Navarro, Florinda Bolkan, Anita Strindberg, Ida Galli, Barbara Bouchet ed Erika Blanc, oggetti del desiderio spettatoriale e (s)oggetti di quello diegetico. In questo magma compatto s’impone per importanza lo slasher, inaugurato – ça va sans dire – da Mario Bava con Ecologia del delitto (1971) e portato a compimento da Ser‐ gio Martino con (la seconda parte di) I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973). Basato sull’eliminazione progressiva delle vittime in ambiente circoscritto e con armi da taglio (da qui il termine, mutuato dal verbo inglese to slash, squarciare), questo filone è tra i principali luoghi di import/export del genere: se in un primo momento, infatti, il ci‐ nema statunitense si appropria dello stile nostrano per partorire Halloween. La notte delle streghe di John Carpenter (1978), Venerdì 13 di Sean S. Cunningham (1980) e La casa di Sam Raimi (1981), negli anni ’80 e seguenti si avrà modo di assistere a un feno‐ meno inverso. Già, perché il thriller italiano è spesso soggetto citazionista, ma altrettanto di frequente anche oggetto di citazione e omaggio. Il rapporto tra il cinema di Dario Ar‐ gento e quello di Brian De Palma è, in tal senso, paradigmatico.

Quando il sistema si incrina, ecco gli autori Un altro caso rilevante di appropriazione (in)debita – ma a direttrice inversa – è il rape & revenge movie, corrente composta da un manipolo di opere che, a partire dal 1975, adotta L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) come punto di partenza dal quale sviluppare storie di stupro e vendetta. L’ultimo treno della notte di Aldo Lado (1975), Emanuelle e Françoise. Le sorelline di Aristide Massaccesi (1975), Autostop rosso sangue di Pasquale Festa Campanile (1977) e La settima donna di Franco Prosperi (1978) costituiscono gli esiti più rilevanti di tale sotto‐genere, avente nel thrilling la propria essenza e nella violenza (emo‐ tiva, grafica) i propri codici espressivi. A partire dalla metà degli anni ’70, però, il giallo‐thriller conosce una sensibile riduzione di titoli. I gusti del pubblico sono in via di cambiamento, le asticelle della violenza e del‐ l’erotismo si alzano vertiginosamente e il genere degli assassini si sclerotizza su meccaniche e narrazioni ormai risapute. Così, assuefatto da se stesso, cerca vie d’uscita nella contami‐ nazione con altre tipologie di spettacolo filmico popolare. In primo luogo con il neonato poliziesco – di nuovo, ridotto a “poliziottesco” dai puristi dell’autorialità – in operazioni de‐ finibili come poliziothriller: forze dell’ordine ufficiali sempre più presenti, ispettori ritagliati sulla sagoma dello statunitense Harry Callaghan (modi spicci e inclini al giustizialismo), in‐ seguimenti con Alfa Romeo a sirene spiegate per le strade cittadine, sparatorie e scazzottate diluiscono il thriller puro e lo ibridano in prodotti come Morte sospetta di una minorenne di Sergio Martino (1975) o Una Magnum Special per Tony Saitta di Alberto De Martino (1976). In seconda istanza con l’erotico, in operazioni ad alto tasso di esportabilità e di frenquente tagliate con inserti pornografici per volere dei produttori, spesso all’insaputa di cast e registi. Su tutti, è celebre il “caso Play Motel” di Mario Gariazzo (1979). Così, il sistema si incrina e il giallo‐thriller diventa un fenomeno sempre più episodico. Come spesso accade in questi casi, il genere viene adottato da alcuni autori che ne rivisi‐ 16


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tano i presupposti e lo piegano alle proprie vocazioni creative. È il caso, per esempio, di Francesco Barilli, che in Il profumo della signora in nero (1974) accentua le componenti polanskiane dello psico‐thriller a beneficio di un vero e proprio trattato di psicanalisi del terrore. Oppure di Armando Crispino, che in Macchie solari (1975) rivisita i rapporti tra‐ dizionali di spazio e tempo in una Roma cotta dal sole. O ancora di Luigi Bazzoni, che in Le orme (1975) apre a incubi fantascientifici i quali, tuttavia, rimangono nell’alveo della razionalità cara al giallo. L’elenco, intrigante e quantomai vasto, comprende poi il gotico padano di La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati (1976), la segregazione politico‐ carnevalesca di Todo modo di Elio Petri (1976), la discesa nella follia di Anima persa di Dino Risi (1977), l’indagine a ritroso di La ragazza dal pigiama giallo di Flavio Mogherini (1977) e l’incubo pre‐cognitivo di Sette note in nero di Lucio Fulci (1977). Comprende, soprattutto, Profondo rosso (1975), apice della carriera di Dario Argento e summa del thriller italiano a cavallo tra autorialità e genere. Tutte queste sono opere artisticamente ricercate, raffinate, evolute. Sono gli epitaffi dell’età dell’oro.

Anabolizzanti e passerelle La prima metà del decennio post-mortem del giallo‐thriller nazionale vive soprattutto di due anime. Da una parte ci sono i vagiti dei maestri ancora in attività: Dario Argento sforna le stranianti dominanti bianche di Tenebre (1982) e la magniloquenza di Opera (1987), Lucio Fulci realizza oltreoceano il poliziothriller Lo squartatore di New York (1982) e rivisita lo statunitense musical adolescenziale Flashdance di Adrian Lyne (1983) nell’ultrapop Murderock. Uccide a passo di danza (1984), Sergio Martino riduce a film per il cinema un’iniziale serie televisiva a carattere archeologico, trasformando Lo scorpione a due code in Assassinio al cimitero estrusco (1982). Dall’altra emergono nuove leve di in‐ dubbio talento, che ereditano le partiture baviane e argentiane nell’intento di mantenere in vita quel cinema industrialmente agonizzante. Ruggero Deodato – già attivo da più di un decennio – sperimenta il rape & revenge con La casa sperduta nel parco (1980), lo slasher con Camping del terrore (1986) e il thriller‐mélo con Un delitto poco comune (1988). Lamberto Bava, figlio di Mario, esordisce con le suggestioni orrorifiche di Macabro (1980), per poi realizzare un tris di pellicole (La casa con la scala nel buio [1983], Morirai a mezzanotte [1986] e Le foto di Gioia [1987]) contraddistinto dall’afflato citazionista (Hitchcock e Argento i numi tutelari), da soluzioni di ripresa ricercate e da una messa in scena sempre più a connotazione televisiva. Le foto di Gioia, in particolar modo, è un per‐ fetto esempio di come il canone di genere muti in relazione al cambio di scenario audio‐ visivo italiano. Nel Belpaese irrompono le griffe, lo yuppismo, le città da bere, l’edonismo e le palestre, con il loro inevitabile carico di apparenza e anabolizzanti. Il giallo‐thriller assimila e restituisce tali input in forma di messe in scena maggiorate (l’esibizione sosti‐ tuisce definitivamente l’allusione, anche per tenere il passo del crescente horror splatter e di erotici sempre più al confine con l’hardcore), di corpi sempre più monumentali (Se‐ rena Grandi e Luigi Montefiori, in Le foto di Gioia, tracimano le inquadrature) e, soprat‐ tutto, di intrusioni dell’haute couture nella narrazione e nella rappresentazione. Nasce 17


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il thriller d’alta moda, elevazione a potenza del thriller d’atelier di Sei donne per l’assassino e dei set fotografici di Nude per l’assassino di Andrea Bianchi (1975). Passerelle, modelle‐attrici (Renée Simonsen, Randi Ingerman), intrighi interni alle maison, fotogra‐ fia patinata e glam, delitti a colpi di forbici: Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina (1985) è il punto di partenza per un profluvio di produzioni dall’estetica ammiccante alle riviste, al videoclip, alla pubblicità. Sangue ed eros trovano un territorio di rilocazione simbolica, a sua volta diversificato nella corrente d’alto bordo (copyright Vanzina, di nuovo, con il precedente Mystère [1983]) e in grado di tener vivo il cinema per mezzo di un immagi‐ nario non‐cinematografico. Piuttosto, è la televisione ad appropriarsi dei codici di genere e del mercato, obbligando il sistema‐giallo a una migrazione di massa sul piccolo schermo. A fine anni ’80 il cinema di genere, in Italia, non è più in grado di produrre an‐ ticorpi per contrastare il fenomeno catodico e se nei decenni precedenti i due media avevano convissuto pacificamente e con reciproche soddisfazioni – da una parte i fan‐ tastici sceneggiati e i contenitori Rai anni ’60 e ’70, dall’altra Mario Bava, Dario Argento & co. – ora la tv fagocita il nobile parente per una confluenza di ragioni. Innanzitutto le strategie produttivo‐distributive, orientate sull’importazione di prodotti di genere, piut‐ tosto che sulla loro creazione interna. In secondo luogo l’incapacità dei registi italiani di “fare gruppo” al di là di un tentativo – breve e rapidamente imploso – di factory-Argento comprendente Lamberto Bava e l’emergente Michele Soavi, reduce dal brillante slasher d’esordio Deliria (1987).

Omicidi in videocassetta Come reazione all’implosione sul mercato interno, il giallo‐thriller cinematografico tenta, tra gli anni ’80 e ’90, la strada dell’esportazione su quello straight-to-video, soprattutto sta‐ tunitense. Mentre l’industria italiana dei generi sforna uno scult dietro l’altro – prodotti in serie, ma ormai senza idee, maestranze a supporto né garanzie distributive – anche registi di consolidato mestiere come Umberto Lenzi, Claudio Fragasso, Stelvio Massi e Sergio Mar‐ tino si concedono parentesi oltreoceano dietro pseudonimi. Così Lenzi diventa Harry Kir‐ kpatrick in Nightmare Beach. La spiaggia del terrore (1989) e torna a essere Humphrey Humbert in Paura nel buio (1989), Massi firma come Max Steel Taxi Killer (1988) e Arabella. L’angelo nero (1989), Fragasso utilizza il nome Clyde Anderson per Non aprite quella porta 3 (1990) e Martino si anagramma in Raminto in Spiando Marina (1992). La qualità di queste pellicole, mediocre nei migliori dei casi, decreta il fallimento del nuovo modello commer‐ ciale e, insieme, quello definitivo del genere come sistema. Il giallo italiano, dunque, muore per rinascere nel terzo millennio in forme completamente mutate.

Variazioni eccentriche e produzioni in proprio Cos’è il giallo‐thriller italiano, nel XXI secolo? Sicuramente, verrebbe più facile affermare cosa esso non è: un genere prolifico, una fonte di reddito per produzioni, distribuzioni e artisti, un territorio simbolico dotato di proprie regole costanti, di archetipi o di gabbie. Ciò detto, in quasi un ventennio sono emerse potenziali figure di riferimento che, tut‐ 18


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tavia, hanno pagato ben presto lo scotto di un contesto poco collaborativo nei confronti della loro vocazione thrilling: Alex Infascelli, Eros Puglielli, Gabriele Albanesi, Cosimo Alemà, Federico Zampaglione e i Manetti Bros. sono solo alcune – le più brillanti – pro‐ messe di genere non mantenute, implose più per cause esterne che per effettivi limiti re‐ gistici. Costretti a lavorare in condizioni economiche proibitive e relegati ai margini dal mercato, questi abili artigiani del digitale si sono presto convertiti al piccolo schermo, alla pubblicità, al videoclip o ad altre forme narrative per cercare adeguate remunera‐ zioni, mentre i loro titoli restano nella memoria del genere in forma di rimpianti. A tenere in vita il giallo italiano, negli ultimi anni, sono invece affermate figure d’autore (Gabriele Salvatores con Quo vadis, baby? [2005], Giuseppe Tornatore con La sconosciuta [2006] e La migliore offerta [2013], Carlo Mazzacurati con La giusta distanza [2007], Pupi Avati con Il nascondiglio [2007], Paolo Virzì con Il capitale umano [2013]) che lo utilizzano come involucro di base da riempire di contenuti propri. Oppure autori in erba (Andrea Molaioli con La ragazza del lago [2007], Giuseppe Capotondi con La doppia ora [2009], Gianclaudio Cappai con Senza lasciare traccia [2016]), ai quali il genere consente speri‐ mentazioni e libertà altrimenti precluse dai diktat commerciali. Nel mentre, gli antichi maestri cercano invano i numeri prim(ordial)i del loro cinema – tentando di ripercorrere strade thrilling ormai anacronistiche – e uno stuolo di registi emergenti prova a farsi strada in percorsi no‐budget spesso confinati ai festival di settore. Lo scenario, per il nostrano giallo‐thriller, non è dei migliori. Ciononostante, il corpo del genere che fu è scosso da sporadici sussulti, affidati a coloro che non demordono. Lucas Pavetto, Joe Verni e Marco Risi sono i nomi di punta tra coloro che ancora resistono, coltivando sogni in forma di incubi.

Un volume per tirare le somme Ed eccoci al presente lavoro, nato dall’esigenza di fare il punto – in modo esaustivo ed enciclopedico – su un genere troppo spesso confinato al periodo 1963‐1979 come se, dal 1980 in avanti, pellicole come La casa del tappeto giallo di Carlo Lizzani (1983), L’amico d’infanzia di Pupi Avati (1994), Il delitto di via Monti Parioli di Antonio Bonifacio (1998), Cattive inclinazioni di Pierfrancesco Campanella (2003) o Sotto il vestito niente. L’ultima sfilata di Carlo Vanzina (2011) fossero da considerare, storicizzare o analizzare sulla base di parametri altri rispetto a quelli del giallo‐thriller. Se la fine della commedia all’italiana non può essere considerata la fine della comme‐ dia italiana, riformulata continuamente anche al di fuori della stagione aurea, analoga‐ mente la fine del giallo cosiddetto all’italiana – quello, per intendersi, inaugurato nel 1963 da La ragazza che sapeva troppo e chiuso nel 1973 dall’ultima annata inondata di pellicole d’assassini – non coincide con la morte del giallo‐thriller italiano, bensì con l’inizio di una sua ridefinizione e diversificazione. Con un’espansione, insomma, dei suoi confini cano‐ nizzati, oltre i quali intercettare filoni, nuove consuetudini, autori e modi che, dalle spe‐ rimentazioni di Beppe Cino, si spingono fino ai direct-to-video di Bruno Mattei e alle derive torture porn del terzo millennio. 19


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Questo volume, insomma, si (pro)pone come un oggetto compatto e variegato, un mo‐ saico composto da tante tessere ognuna della quali diversa, ma funzionale alla definizione del quadro complessivo. Quel quadro è, con ogni evidenza, il giallo‐thriller italiano, mentre le tessere sono, altrettanto palesemente, i film che ne hanno riempito il catalogo. Arbitraria e perciò inesatta per definizione, la scelta dei titoli da includere nel suddetto catalogo è stata operata a partire da alcuni criteri che potremmo definire scientifici. La domanda di base, inevitabilmente, è stata: cosa definisce l’appartenenza di un’opera al giallo‐thriller italiano? La risposta non può essere altro che l’enunciazione dei criteri di inclusione. Per essere considerato un giallo‐thriller italiano, un film deve esibire: – Suspense narrativa (giallo) o scenica (thriller), nel primo caso dovuta a un mistero da risolvere (esempio: La migliore offerta) e nel secondo a una costruzione di alcune se‐ quenze finalizzata alla tensione (esempio: L’ultimo treno della notte); – Impianto razionale, con concessioni al soprannaturale che non superino la valenza di orpello (esempio di inclusione: l’incontro con la medium nell’incipit di Profondo rosso; esempio di esclusione: i fenomeni paranormali in Shock di Mario Bava [1977]); – Presenza di un crimine (in prevalenza, ma non obbligatoriamente, il delitto) come fulcro della narrazione (esempio: Il capitale umano, che a prima vista potrebbe essere escluso dal presente lavoro, ma invece deve rientrarvi poiché interamente imperniato sulla ricerca di un colpevole di omicidio, seppure involontario); – Assoluta predominanza delle succitate componenti rispetto a ogni altra struttura di genere, anche quando quest’ultima è presente in misura considerevole. Se, per esempio, in Morte sospetta di una minorenne la detection e la ritualità degli omicidi del killer supe‐ rano per importanza scenico‐drammaturgica gli inseguimenti e i pestaggi (che, altrimenti, avrebbero determinato la catalogazione del film alla voce “poliziesco”), in Giallo napoletano di Sergio Corbucci (1979) i toni da commedia diluiscono il costrutto giallo al punto da renderlo quasi innecessario. Assunti tali parametri come diktat di riferimento, si è tenuto altresì conto dei lavori realizzati per il piccolo schermo dai registi aventi all’attivo almeno un giallo‐thriller da sala (da Dario Argento a Lamberto Bava, da Mario Foglietti a Corrado Colombo). Spesso, infatti, è utile analizzare opere televisive per tentare di comprendere meglio soprattutto quei decenni che – come visto – hanno costituito un luogo temporale di scambio tra il medium cinematografico e quello catodico. Inoltre, considerare soltanto una parte – quella legata al grande schermo – del corpus filmografico dei registi in questione non avrebbe reso giustizia al loro percorso nel genere. Per ragioni di spazio e rilevanza, si è optato di escludere dal catalogo i tv‐movie realizzati da registi di giallo‐thriller esclusi‐ vamente televisivi e non appartenenti a contenitori tv. Il risultato è un’opera animata – ma non accecata – dall’istinto completista. Un libro che a ogni titolo ha voluto riservare dignità di analisi, senza adottare la qualità artistica o commerciale come parametro uni‐ voco per attestare la dignità di un film. Per accostare il lettore alle pagine che seguiranno, lo si invita a sperimentare tre dif‐ ferenti modalità di fruizione del testo, tutte possibili e auspicate: 20


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– Mosaico storiografico: ogni scheda offre digressioni aneddotiche e produttive – molte delle quali di prima mano, apprese dai registi diretti interessati – circa il film in questione, le sue ispirazioni e aspirazioni, il suo rapporto con il momento storico del genere e del‐ l’autore. Assieme, le singole disamine restituiscono il quadro complessivo di oltre 50 anni di giallo‐thriller, permettendo una cartografia di genere. Per questo tipo di lettura, si con‐ siglia di procedere in ordine cronologico; – Dizionario enciclopedico: il volume può essere adottato come guida alla visione, al recupero e alla selezione dei titoli. A questo proposito, non ci si è sottratti a un giudizio qualitativo delle opere, espresso talvolta in modo discorsivo (contestualmente alla singola scheda) e sempre in coda al volume, dove l’indice riassume in forma di simboli una valu‐ tazione affibbiata con il ricorso a una scala di valori da 1 a 5. In essa, 1 significa scult, 2 discreto, 3 buono, 4 ottimo e 5 capolavoro. I giudizi sono stati elaborati esclusivamente con ottica interna al genere (o al singolo regista), mai in senso assoluto. Per questo tipo di lettura, si consiglia di procedere in ordine sparso, a seconda dell’esigenza dello spet‐ tatore; – Analisi critica: ogni scheda è un saggio breve nel quale, accanto ad aneddoti, curiosità e note produttivo‐distributive, trova spazio una disamina drammaturgica‐tecnico‐stili‐ stica dell’opera. Ciò consente, per esempio, l’individuazione di costanti interne alla fil‐ mografia di un regista, a un filone o a un’annata. Coglierle, isolarle e fruirle vorrebbe dire compiere un lavoro importante sul lessico e le ricorrenze di un genere e, dunque, acco‐ starsi a esso secondo prospettive ora semiotiche, ora filmologiche. Per questo tipo di let‐ tura, si consiglia di procedere previa selezione di un corpus filmico definito.

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Ringraziamenti I ringraziamenti più grandi vanno, ovviamente, all’editore Gremese e al direttore di collana Enrico Giacovelli, che dal primo momento ha incoraggiato e sostenuto questo co‐ lossale e a tratti folle progetto editoriale. Ringrazio Ilaria Floreano per il supporto morale – soprattutto nei momenti di risacca creativa – e professionale nella lettura delle bozze di ogni singola parte del libro. Supporto che, nell’arco della mia vita lavorativa (e non), è sempre stato costante e indispensabile. Ringrazio Davide Comotti e Massimiliano Martiradonna per il loro contributo, quan‐ tificabile nella scrittura delle schede relative ai film diretti da Moroni (Martiradonna), Campanini, Ferlito, Fratter e Sigon (Comotti). Ringrazio inoltre Mario Gerosa, la cui no‐ tevole opera di redazione delle schede riguardanti gli sceneggiati gialli diretti da Anton Giulio Majano è purtroppo esclusa dal volume, sorte capitata a ogni altra scheda relativa a serie, miniserie e sceneggiati Tv. Ringrazio Manlio Gomarasca, socio prezioso nell’avventura «Nocturno» e fonte ine‐ sauribile di spunti e consigli, nonché di materiale raro e sommerso. Ringrazio Davide Pulici, senza la cui onniscenza in materia questo libro non sarebbe probabilmente esistito. Perlomeno, non in questa forma. Ringrazio, infine, tutti coloro che hanno preso parte direttamente – nelle forme più svariate e stimolanti – alla realizzazione del volume: Ruggero Adamovit, Matteo Andreolli, Valerio Bartolini, Anna Benvegnù, Massimo Bezzati, Stefano Calvagna, Gianclaudio Cappai, Manuel Cavenaghi, Beppe Cino, Corrado Colombo, Francesco Crispino, Toni D’Angelo, Ro‐ berto Della Torre, Ruggero Deodato, Daniele Magni, Sergio Martino, Domenico Monetti, Luigi Pastore, Giulio Sangiorgio, Jacopo Sgroi, Stefano Simone, Joe Verni, Fulvio Wetzl, Paolo Zelati.

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A Ilaria, la mia scream queen, e a Giulia, la mia scream princess


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I FILM


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A …a tutte le auto della polizia…

(Mario Caiano, Italia 1975, col., 95’). Con Antonio Sabàto (commissario Fernando Solmi), Enrico Maria Salerno (capo della polizia Antonio Carraro), Gabriele Ferzetti (dottor Andrea Icardi), Luciana Paluzzi (ispettore Gio‐ vanna Nunziante), Elio Zamuto (dottor Giacometti), Ma‐ rino Masé (Francesco Pagano, come Marino Masè), Bedy Moratti (Emilia Icardi), Franco Ressel (ginecologo); sog‐ getto: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru (romanzo Violenza a Roma); sceneggiatura: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru; montaggio: Romeo Ciatti; fotografia: Pier Luigi Santi; musiche: Coriolano Gori (come Lallo Gori). A Roma viene assassinata Fiorella, figlia del medico Andrea Icardi. Le indagini vengono affidate al commissario Fernando Solmi, che scopre un racket di prostituzione minorile gestito da Francesco Pagano per conto di clienti altolocati. A uccidere Fiorella, prostituta del giro, è stato l’amico di famiglia Giacometti, anche responsabile della sua gravidanza.

Soggetto e sceneggiatura sono opera degli abili giallisti Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, che adattano al ci‐ nema il loro scioccante romanzo Violenza a Roma, pub‐ blicato nel 1973 per Garzanti. La vicenda si innesta nel filone del thriller sociale inaugurato da Massimo Dalla‐ mano con Cosa avete fatto a Solange? (1972) e La polizia chiede aiuto (1974) – di quest’ultimo è anche riutilizzata la sequenza che mostra la ricerca compiuta dalle unità cinofile – dei quali ripropone temi e sviluppi narrativi: delitto iniziale; indagine scabrosa, connessa al mondo della prostituzione minorile; coinvolgimento delle alte sfere della vita pubblica; uccisioni collaterali di testi‐ moni; arresto del colpevole, il cui movente risiede nel‐ l’insabbiamento di un turpe vizio (in questo caso, Giacometti uccide Fiorella Icardi per scongiurare lo scandalo della sua gravidanza). La detection sposa l’ac‐ corata denuncia, incarnata da un inflessibile commissa‐ rio di sinistra (numerose sono le sue frecciate “di classe”) e corroborata da un capo della polizia poco in‐ cline agli accomodamenti offertigli da politici e medici corrotti che, non a caso, sono inquadrati mentre leggono «Il Giornale». Luoghi comuni a parte, l’intreccio offre una prima parte corposa e metodica, che assume i toni del giallo d’inchiesta e procede come un poliziothriller. Felisatti e Pittorru conoscono la materia e dispiegano un

armamentario esaustivo di tecniche investigative che vede coinvolte e valorizzate le forze dell’ordine tra poli‐ goni di tiro con sagome semoventi, addestramenti di cani, esami balistici, rilievi scientifici, con calchi di ruote e perizie chimiche, esami autoptici e un inseguimento finale in automobile. Il terzetto che conduce le indagini è inoltre composto da Carraro, Solmi e Nunziante, per‐ sonaggi creati dal duo di sceneggiatori nel 1973 per la serie televisiva poliziesca in sei episodi Qui, squadra mobile, diretta da Anton Giulio Majano. L’ultimo segmento dell’opera, della durata di 25 minuti, svolta invece con decisione nel thriller più puro e convenzionale. In que‐ sto frangente Mario Caiano – alla sua seconda espe‐ rienza nel genere dopo L’occhio nel labirinto (1972) – tradisce eccessiva fretta (gli omicidi del ginecologo, del testimone Enrico Tummoli e della baby‐prostituta Carla si susseguono, senza sosta, nell’arco di poche sequenze) ma altrettanta, tracimante, euforia. L’eros della prima parte – consumato in nudi integrali tra i quali fa capolino anche quello di una giovane Ilona Staller – cede il passo a delitti compiuti con furia di argentiana derivazione, in‐ canalata in (semi)soggettive del killer con guanti neri, sospiri anonimi di accompagnamento, squarci aperti da armi bianche e fiotti di sangue splatter. La morte di Carla, in particolare, è straziante per contenuto grafico e lessico di montaggio, con tagli secchi su inquadrature anatomiche parziali a mostrare gli effetti del martirio pur senza restituirne l’atto nel suo compiersi. Diretto come un pugno e disturbante come un gesso sulla lava‐ gna, il film è un valido e professionale esempio di ibrido d’impegno civile. Girato a Roma e nei pressi del Lago Al‐ bano e prodotto da Renato Angiolini per Capitol Inter‐ national e Jarama Film, nelle sale italiane incassa oltre 180 milioni di lire soprattutto per merito del volano of‐ ferto dal divismo degli interpreti Gabriele Ferzetti ed Enrico Maria Salerno.

A.A.A. Massaggiatrice bella presenza offresi…

(Demofilo Fidani, Italia 1972, col., 85’). Con Paola Sena‐ tore (Cristina Graziani), Jack Betts (Enrico Graziani, come Hunt Powers), Simonetta Vitelli (Paola, come Si‐ mone Blondell), Ettore Manni (commissario), Renato Rossini (Oskar, come Howard Ross), Jerry Colman (Franco), Yvonne Sanson (signora Graziani), Mario Val‐

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A.A.A. Massaggiatrice bella presenza offresi… demarin (Fabretto); soggetto: Demofilo Fidani; sceneg‐ giatura: Demofilo Fidani, Mila Vitelli Valenza (come Mila Vitelli); montaggio: Piera Bruni, Gianfranco Simoncelli; fotografia: Aldo Giordani; musiche: Coriolano Gori (come Lallo Gori). Roma. La giovane Cristina Graziani, in cerca di fortuna, abbandona i genitori, si trasferisce dall’amica Paola e inizia a prostituirsi per conto del protettore Oskar. I suoi altolocati clienti vengono però uccisi da un misterioso killer. La polizia sospetta di Cristina ma, dopo accurate indagini, scopre che il colpevole è il padre Enrico, deciso a riscattare l’onore della figlia.

In momentanea trasferta dal prediletto western, Demo‐ filo Fidani esordisce nel genere degli assassini con una produzione povera, coordinata in prima persona e pa‐ trocinata da Tarquinia Internazionale Cinematografica. I crismi sono quelli dell’operazione familiare: Fidani co‐ sceneggia assieme alla moglie Mila Vitelli e assembla un peculiare cast femminile al cui interno – accanto a Paola Senatore e a una Yvonne Sanson all’ultima prova per il cinema – trova spazio sua figlia Simonetta Vitelli. Il co‐ pione tenta di sfruttare la popolarità del thriller nazio‐ nale proponendo un intreccio che, supinamente, si adagia sulle usanze più in voga nel coevo cinema di Dario Argento ed emuli. Complice la messa in scena, però, il colpevole risulta evidente appena dopo il primo omicidio quando, in un’inquadratura a figura intera, En‐ rico Graziani sfoggia impermeabile e cappello nero. Di‐ sinnescata la suspense narrativa, le sottotrame risultano ininfluenti (il rapporto tra Cristina Graziani, Paola e i ri‐ spettivi fidanzati) e l’indagine gialla procede, inerte, verso un finale telefonato. Girato tra Roma e provincia, il film è un esempio di artigianato povero, mosso da im‐ pennate d’inventiva (i titoli di testa pulp, con fermo‐im‐ magine su ogni personaggio in corrispondenza del nome del suo interprete) ma contraddistinto da una fi‐ siologica confezione sleazy, che riverbera nella povertà scenografica e in una consequenzialità di ritmi e inqua‐ drature che appare spesso improvvisata. In prossimità dei delitti, la pellicola ospita congiunzioni argentiane (il maniaco si muove in soggettiva e uccide con un rasoio, il cui taglio è inquadrato in primissimi piani sfuggenti sulle gole) ma, al contempo, le demistifica tramite i biz‐ zarri guanti gialli del killer, che segnano la riduzione del‐ l’archetipo visivo a stereotipo, dunque il suo grottesco superamento. Accanto all’impianto thriller scorrono ri‐ voli morali piuttosto ingenui, che al presupposto fem‐ minista del racconto (la ricerca della libertà sessuale di Cristina) fanno seguire sottotesti anti‐borghesi di ma‐ niera (Cristina si ribella alla famiglia conservatrice, il padre uccide invece di dialogare) e denunce al sistema riversate negli «alti papaveri» che sfruttano la prostitu‐ zione popolando, in forma di macchiette, gli incontri ses‐ suali della prostituta. L’imprenditore culturista Mario, il ricco igienista D’Angelo e l’assicuratore feticista Santino vorrebbero incarnare un potere vizioso, ma finiscono per esserne solo un’innocua e sbiadita caricatura. Anche i temi erotici sono sviluppati senza mordente tra inno‐ cue perversioni, esibizioni in nudo integrale di Cristina

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e amplessi graficamente scarni, che trovano nel montag‐ gio parallelo tra i rapporti di Cristina e Oskar l’unico mo‐ mento di ispirata creatività. Finale cult, con la protagonista che cammina sul Ponte Flaminio sotto le note di Circus Mind, cantata dal ghanese Mack “Sigis” Porter. Uscito nelle sale italiane alla fine di luglio del 1972 – e penalizzato dal fuorviante titolo, più consono a una commedia erotica – il film incassa poco e circola con un rullo supplementare, riservato alle proiezioni notturne e contenente sequenze osé.

The Accidental Detective

(Vanna Paoli, Italia 2003, col., 103’). Con David Kriegel (avvocato David Bailey), Cristina Moglia (Dianora Mazzi Tinghi), Tomas Arana (Matt Brandon), Sarah Miles (Smeralda Mazzi Tinghi), Philippe Leroy (Mario Del Marro), Franco Interlenghi (Nardini), Sergio Fantoni (Baroni); soggetto: Cristina Acidini (romanzo La scritta sul vetro); sceneggiatura: Patrizia Bittini, Vanna Paoli; montaggio: Vanna Paoli, Fiorenza Müller; fotografia: Franco Di Giacomo.

Chicago. Esther Ann, rimasta vedova del ricco Aaron Silbermann, scopre che questi – prima di morire – aveva investito oltre venti milioni di dollari per acquisire un palazzo a Firenze. Ingaggia allora l’avvocato David Bailey il quale, giunto in Toscana, con l’aiuto della giovane Dianora Mazzi Tinghi scopre la presenza di un dipinto inedito di Botticelli nascosto tra due muri dell’edificio.

Alla sua prima esperienza nel genere, Vanna Paoli auto‐ produce con la Corvo Cinematografica (e con l’aiuto del Ministero dei Beni e delle Attività culturali) il libero adattamento del romanzo La scritta sul vetro, scritto dal sovrintendente museale Cristina Acidini nel 1992 e pub‐ blicato da Alberto Bruschi Editorie. La sceneggiatura – che Paoli firma assieme a Patrizia Bittini – affronta il giallo‐rosa immergendolo nel mondo affascinante, cor‐ rotto e falso dell’arte, tra falsari senza scrupoli, direttori di gallerie e antiche casate nobiliari in declino. Nelle in‐ tenzioni vi è una rivisitazione del capolavoro F come falso di Orson Welles (1973), poderosa riflessione sulla finzione dell’arte, ma gli esiti restano distanti dalle aspi‐ razioni: lo script è fin troppo articolato e, con il proce‐ dere della storia, si rarefà in un nugulo di personaggi, sottotrame, sottotesti e divagazioni storiche privo di ba‐ ricentro, nonché affidato a personaggi secondari piatti, utili soltanto ad affidare camei prestigiosi e alimentari (Sarah Miles, Philippe Leroy, Franco Interlenghi, Sergio Fantoni, Paolo Bonacelli). Persino la love story tra l’av‐ vocato David Bailey e la nobile decaduta Dianora Mazzi Tinghi è priva di mordente, appiattita su dialoghi dal timbro televisivo e interpretata da David Kriegel e Cri‐ stina Moglia senza il necessario mordente. Realizzato nel 2000 in una Firenze suggestiva e svelata nei suoi an‐ fratti artistici più misteriosi (la Galleria Palatina, per esempio, apre al cinema per la prima volta), il film trae linfa vitale dalla cura scenografica di Andrea Crisanti e dalla raffinata fotografia di Franco Di Giacomo, sfog‐ giando un registro estetico inappuntabile. L’esperienza nel settore museale di Acidini consente, inoltre, la rea‐


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A… come assassino lizzazione filologicamente corretta di un finto Botticelli (spacciato per autentico in sede diegetica) su un legno del ‘500 e di un breve documentario interno al film che illustra i procedimenti di restauro. Sono segnali, questi, della pervicace vocazione formalista della regista, che tuttavia sfocia nel calligrafismo dal momento in cui la messa in scena diventa unica ragione d’essere del‐ l’opera, fagocitando storia, personaggi e intrigo giallo sotto il segno dell’esattezza decorativa. Nel complesso, insomma, The Accidental Detective sembra – a partire dalla scelta di un titolo in lingua inglese – un prodotto concepito per essere destinato al mercato estero, di certo attratto dalle meraviglie del capoluogo toscano e dai suoi segreti nascosti. Il pubblico italiano, desideroso di assistere a un crescendo di suspense e pathos, diserta in larga parte le sale, dove la pellicola viene distribuita nell’aprile 2003.

A ciascuno il suo

(Elio Petri, Italia 1967, col., 89’). Con Gian Maria Volonté (Paolo Laurana), Gabriele Ferzetti (avvocato Rosello), Irene Papas (Luisa Roscio), Salvo Randone (professor Roscio), Laura Nucci (madre di Paolo), Luigi Pistilli (Ar‐ turo Manno), Mario Scaccia (prete); soggetto: Leonardo Sciascia (romanzo A ciascuno il suo); sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro; montaggio: Ruggero Mastroianni; foto‐ grafia: Luigi Kuveiller; musiche: Luis Enríquez Bacalov.

Antonio Roscio e Arturo Manno – noto dongiovanni che ha ricevuto lettere anonime minacciose – vengono uccisi durante una battuta di caccia. Si pensa a un delitto d’onore, con Roscio liquidato in quanto testimone, ma il professor Laurana, amico di entrambe le vittime, scopre che il vero obiettivo è sempre stato Roscio e mandante l’avvocato Rosello, cugino di sua moglie. Prodotto da Cemofilm, il quinto lungometraggio di Elio Petri segna l’inizio di collaborazioni importanti per lo sviluppo del suo cinema: non solo Ugo Pirro co‐sceneg‐ giatore, ma anche Luigi Kuveiller direttore della fotogra‐ fia e Gian Maria Volonté attore protagonista. Dopo averne sparso i semi nel folgorante esordio L’assassino (1961), costruzione noir a flashback dagli echi kafkiani, l’autore segue il proprio senso per il giallo e orchestra un film compatto, inesorabile, capace di fondere magni‐ ficamente certi sintagmi che diventeranno tipici del thriller – sopra tutti l’uso del fuori fuoco e dello zoom repentino, che gli vale la critica feroce della neonata ri‐ vista «Cinema&Film», e gli arrangiamenti ottoni‐piano‐ campanelli di Bacalov – con istanze politiche di sapore godardiano («Un padre è sempre colpevole, sempre re‐ sponsabile», afferma il vecchio professor Roscio, il bor‐ gesiano oculista diventato cieco; e il discorso sulla responsabilità di Nanà in Questa è la mia vita è di soli cinque anni precedente). Un ritratto spietato, girato tra Palermo e Cefalù, della Sicilia arcaica dove i reati diven‐ tano «capolavori», mossa ineluttabilmente dall’onore e dallo scandalo, abitata da notabili corrotti, “amici”, donne fatali, ingenui ricercatori di giustizia. Petri alterna campi e controcampi a dettagli di granite e insetti o pri‐ missimi piani, di profilo o scorciati con irruenza da Nou‐

velle Vague, assecondando uno stile in futuro più feb‐ brile, qui ancora raggelato nonostante l’afa che trattiene in casa le donne brutte (la moglie del farmacista, in una delle prime sequenze, passa il tempo leggendo un libro della collana «I Gialli Mondadori», forse Delitto a bordo). Per definire Laurana come l’intellettuale di sinistra, «im‐ potente» e «astratto/distratto», che finirà “esploso” per non avere saputo relazionarsi alla realtà, inquadra qua‐ dri di Picasso in una casa matriarcale dove le poltrone non servono a sedersi. Eppure, la necessità di rendere pace ai morti spinge all’azione quest’uomo che va sem‐ pre in giro con una copia di Moby Dick: gli basta un rita‐ glio di giornale dall’«Osservatore Romano», che in paese leggono solo i preti – figure archetipiche del genere, qui rese straordinarie dal parroco che «non crede in niente» o forse crede a «troppe cose» – per innescare una recherche che sembra condurre a intrighi di palazzo, in‐ vece trattasi di mera questione di sesso. Torbida nella sua geometricità, sancita dalla chiusura circolare ri‐ spetto all’incipit: al funerale di Manno e Roscio con cui si erano dettate le coordinate dell’universo di riferi‐ mento, fotografato “alla seconda” anche dalla polizia in cerca degli assassini, risponde il funerale di Laurana. Solo per un attimo. Là i concittadini si erano riuniti attorno alle vittime, qui si ritrovano sul sagrato per festeggiare il matrimonio tra la vedova di Roscio (la sublime Irene Papas, le cui gambe velate di nero scatenano passioni: come da cliché, come quelle di Stefania Sandrelli in Sedotta e abbandonata [1964]) e suo cugino avvocato (l’al‐ trettanto sublime Gabriele Ferzetti), innamorati da sempre, impossibilitati a sposarsi, a meno di… (uccidere e corrompere meglio). Ecco il capolavoro, ecco l’eterno ritorno. Laurana l’ha spiegato a uno studente parlando di un frate mandato al rogo perché anelava alla verità, ma lui per primo non ha ascoltato il consiglio per cui «Certi fatti è meglio lasciarli nell’oscurità». Quell’oscurità fatta di persone che, avanzando lungo la navata mormo‐ rando padrenostri e baciamolemani, diventano ombre attaccate tra loro, sempre più sfuocate, fino al nero totale. Nonostante la programmazione in sala ritardata dal se‐ questro dei manifesti – dove un uomo tenta di baciare una donna vestitissima di cui si intravedono appena le cosce – ordinato da una censura particolarmente pelosa, il film incassa circa 500 milioni di lire.

A… come assassino

(Angelo Dorigo [come Ray Morrison], Italia 1966, b/n, 76’). Con Mary Arden (Angela Prescott), Giovanna Gal‐ letti (Marta Prescott), Sergio Ciani (Giacomo, come Alan Steel), Ivano Davoli (Armando), Ivano Staccioli (George Prescott, come John Heston), Aïché Nana (Adriana Pre‐ scott, come Aiche’ Nana’), Charlie Charun (Julien Pre‐ scott, come Charlie Karum), Giovanna Lenzi (Mary, come Barbara Pen), Gilberto Mazzi (ispettore Matt Sadwick, come Gilbert Mash); soggetto: Ernesto Gastaldi; sceneg‐ giatura: Sergio Bazzini, Roberto Natale; montaggio: Nella Nannuzzi; fotografia: Aldo Tonti; musiche: Aldo Piga.

John Prescott viene ucciso. I sette eredi, sospettati, vengono costretti dal testamento a convivere per un mese nel

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A doppia faccia castello di famiglia: soltanto tre di loro potranno incassare la fortuna di John. Al termine di intrighi e tradimenti che provocano cinque morti, gli unici sopravvissuti restano Marta – arrestata per l’omicidio del fratello John – e il nipote Julien, mentalmente disturbato. Il soggetto di partenza, firmato da Ernesto Gastaldi, ha destinazione teatrale e presenta in potenza gli archetipi dei futuri sexy‐gialli da lui scritti: movente ereditario, relazioni familiari e sentimentali con delitti, critica fe‐ roce alla società borghese. Sviluppata in sceneggiatura da Sergio Bazzini e Roberto Natale, la storia viene affi‐ data dal produttore Walter Brandi (Bival Film) ad An‐ gelo Dorigo, che nel 1965 aveva diretto Assassino senza volto destinato, però, a essere distribuito soltanto nel 1968. Il regista di Belluno continua nel solco del suo pre‐ cedente lavoro, girando nuovamente – nella location unica del castello Piccolomini di Balsorano (L’Aquila) – un giallo le cui tinte gotiche sono innanzitutto evidenti nell’abbondante utilizzo di pseudonimi dal suono britan‐ nico. Anche il modello narrativo è a matrice anglosas‐ sone, con la letteratura di Agatha Christie come fonte cui abbeverarsi tra personaggi scaltri, alleanze continua‐ mente ridefinite, tradimenti a catena, burattini ingannati e burattinai ingannatori. Il gruppo di famiglia in un in‐ terno con whodunit, l’annuncio del defunto John Prescott attraverso il magnetofono (utile alla presentazione dei personaggi) e le riunioni nel salone del castello – luogo deputato ai verbosi e continui riepiloghi delle deduzioni – evocano esplicitamente il romanzo Dieci piccoli indiani, mentre il segmento con gli interrogatori al commissa‐ riato e le ricostruzioni soggettive a catena – in flashback menzogneri e tra loro contraddittori – sembra rifarsi agli esempi offerti dalle indagini dell’investigatore Hercule Poirot. Tra indizi, ipotesi e ribaltamenti, l’intrigo giallo poggia su basi la cui solidità è soltanto parzialmente mi‐ nata da personaggi fuori contesto (il disturbato Julien) e svolte incoerenti (come mai il mite George possiede una pistola?) che poco sposano la lineare sobrietà del co‐ strutto. Tuttavia, in sede di messa in quadro Dorigo non si discosta dall’origine teatrale del soggetto Gastaldiano e, nonostante qualche strizzata d’occhio al neonato thril‐ ler di Mario Bava (la protagonista Mary Arden e il tele‐ fono penzolante come in Sei donne per l’assassino [1964]), non compie il dovuto adeguamento dinamico al grande schermo. Complici le evidenti ristrettezze di bud‐ get, tenta di costruire la paura adottando un campionario gotico fatto di temporali, porte scricchiolanti, inquadra‐ ture in chiaroscuro sui saloni e scontri su guglie e torri, ma finisce per palesare l’eccessivo garbo di uno sguardo esangue e l’incertezza di toni narrativamente troppo gialli per essere gotici e visivamente troppo gotici per le esigenze di un giallo che ha già bisogno di un tributo di violenza ed eros. Qualitativamente superiore ad Assassino senza volto, nelle sale italiane il film ha una circola‐ zione limitatissima e priva di qualsivoglia riscontro.

A doppia faccia

(Riccardo Freda [come Robert Hampton], Italia/Germa‐ nia Ovest 1969, col., 88’). Con Klaus Kinski (John Alexan‐

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der), Christiane Krüger (Christine, come Christiane Kru‐ ger), Günther Stoll (ispettore Stevens, come Gunther Stoll), Annabella Incontrera (Liz), Sydney Chaplin (Brown), Margaret Lee (Helen Brown Alexander); sog‐ getto: Lucio Fulci, Romano Migliorini, Gianbattista Mus‐ setto (dal romanzo Il volto nell’ombra di Edgar Wallace); sceneggiatura: Riccardo Freda (come R. Hampton), Paul Hengge (come P. Hengge); montaggio: Anna Amadei, Jutta Hering; fotografia: Gábor Pogány (come Gaber Po‐ gany); musiche: Nora Orlandi (come Joan Christian). Il matrimonio tra John e Helen Alexander è in crisi, a causa della di lei relazione con la bella Liz. Quando Helen muore in un incidente – poiché l’auto è stata manomessa – John eredita la sua fortuna, ma sprofonda in un baratro di allucinazioni. La crisi, però, è la conseguenza di un piano ordito dal patrigno della vittima e Liz, per condurre John alla follia e impossessarsi dell’eredità.

Tornato in Italia dopo la parentesi francese, in cui ha realizzato anche il giallo ottocentesco Trappola per l’assassino (1966), Riccardo Freda sviluppa un soggetto ispirato al romanzo Il volto nell’ombra, scritto da Edgar Wallace nel 1924 e pubblicato in Italia nel 1931 nella serie «I Libri Gialli» (n. 31), antesignana di «I gialli Mon‐ dadori». Lucio Fulci, co‐autore del soggetto, partecipa anche al primo trattamento, per poi distanziarsi dal pro‐ getto quando Freda stravolge gran parte dello script. Al cineasta romano si deve, comunque, lo spunto hitchcoc‐ kiano (da La donna che visse due volte [1958]) utilizzato anche in Una sull’altra, da lui diretto sempre nel 1969. Girato a Londra con un budget risibile – al quale sono da imputare le abborracciate sequenze degli incidenti automobilistici, realizzate con modellini in scala – A doppia faccia è un sexy‐giallo poco personale, in cui il regi‐ sta subordina la propria inventiva ai dettami del genere più in voga. Appoggiandosi alle familiari consuetudini del gotico (il temporale notturno, i candelabri come fonti luminose nella casa deserta) e a espedienti già spe‐ rimentati negli anni ’60 (le apparizioni del presunto fan‐ tasma in Lo spettro [1963], il motivo musicale amato dalla defunta e ripetuto ossessivamente in L’orribile segreto del dr. Hichcock [1962]), dà forma a un’opera for‐ malmente inappuntabile, dove è possibile rintracciare il completo bric-à-brac del filone da più punti di vista: nar‐ rativo, poiché è perpetrato il canonico inganno con falsa pista soprannaturale e successiva rivelazione razionale del movente economico‐ereditario; tematico, con crisi della famiglia estrinsecata da un patrigno disposto a uc‐ cidere la figliastra per incassarne l’eredità; teorico, nel‐ l’escalation psico‐thriller di John Alexander condotta con zoom repentini sul volto allucinato di Klaus Kinski, in perenne vagabondare tra le strade psichedeliche di una Swinging London a colori acidi. La linea gialla presta il fianco a una vis erotica malsana, torbida, che dall’ini‐ ziale tradimento saffico (la sposata Helen, inquadrata nella vasca da bagno mentre Liz le massaggia la schiena) sconfina in un doppio voyeurismo, con John che dap‐ prima spia la moglie e Liz attraverso una fessura, quindi visiona ripetutamente un nastro pruriginoso Super 8, in cui la presunta defunta amoreggia con Christine. La


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Al calar della sera donna, con il viso coperto da un panno nero, incarna un feticismo (l’anello, la cicatrice) dal retrogusto necrofilo (è creduta morta), depotenziando la sensualità della vi‐ sione spettatoriale a beneficio di un crescente e morboso disagio. Freda, muovendosi senza patemi nelle gabbie di genere, non lesina nell’inquadrare corpi nudi – ai quali, nella versione italiana, vengono fatti indossare innocenti slip, mentre in alcune edizioni estere compaiono inserti pornografici girati ad hoc – e consegna alle sale un pro‐ dotto a uso e consumo del pubblico popolare, che ri‐ sponde determinando il notevole incasso di 124 milioni di lire. In Germania Ovest, paese co‐produttore, il film esce come Das Gesicht im Dunkeln. Curiosità: nella parte conclusiva della colonna sonora di Nora Orlandi – accre‐ ditata come Joan Christian nei titoli di testa e come Silvie Saint Laurent in relazione alla canzone ricorrente Non dirmi una bugia – è presente uno stralcio di Dies Irae, fu‐ turo tema di Lo strano vizio della signora Wardh (1971) citato anche da Quentin Tarantino in Kill Bill Vol. 2 (2004).

Agenzia cinematografica

(Ninì Grassia [come Anthony Gray], Italia 1993, col., 85’). Con Alex Damiani (James), Saverio Vallone (George), Da‐ niela Paganini (Gloria Maxwell), Giovanna Chicco (Hula), Cristina Barsacchi (Baby); soggetto: Ninì Grassia (come Anthony Gray); sceneggiatura: Ninì Grassia (come An‐ thony Gray); montaggio: Alessandro Perrella; fotografia: Sergio Melaranci; musiche: Ninì Grassia, Aldo Tambo‐ relli (come Tamborelli‐Grassia).

James e George gestiscono un’agenzia cinematografica. Gloria Maxwell, fidanzata di George, un giorno viene ripresa da una videocamera mentre uccide il fattorino Mark, che aveva tentato di stuprarla. Ricattata da James in cambio di prestazioni sessuali, lo contro-ricatta filmandolo mentre tenta di violentare due aspiranti attrici. Poi decide di confessare tutto alla polizia.

Sebbene La puritana (1989) e Sensazioni d’amore (1990) presentino elementi di genere (la violenta ven‐ detta nel finale del primo, l’omicidio di Ernesto e di Giu‐ lia – uccisa con un tagliacarte – nel secondo), Agenzia cinematografica è l’unico thriller tout court diretto da Ninì Grassia, che si occupa anche di soggetto, sceneggia‐ tura, musiche (assieme ad Aldo Tamborelli) e produ‐ zione per la Eurofilm 91. Il copione non si spinge oltre la sinossi qui riportata, consegnando uno scarno tessuto di ricatti con delitto a una macchina da presa incaricata di riempire gli enormi vuoti. Nella location pressoché unica dell’agenzia – ricavata in una galleria‐box condo‐ miniale, mentre le riprese in esterni si limitano a spora‐ dici intermezzi tra le vie di Rimini, con incursione a La Storta (Roma) in occasione della gita fuoriporta di Ge‐ orge e Gloria – il regista confeziona un’estenuante ca‐ tena di scene erotiche sempre dentro i limiti del softcore, sebbene l’amplesso tra George e Gloria e i saffismi do‐ mestici tra Hula e Baby (a letto, in vasca) siano a un passo dall’oltrepassarli. I primi 45 minuti di pellicola of‐ frono soltanto provini ad aspiranti attrici, che puntual‐ mente si trasformano in coiti con il regista James tra

dichiarazioni d’intenti delle ragazze con sottotesti pue‐ rili («Dopo di me, le puttane ti sembreranno delle colle‐ giali») e trovate oltre ogni credibilità (le lesbiche ultratrentenni Hula e Baby spacciate per minorenni). Il thriller irrompe nell’impianto erotico in forma di due tentativi di stupro, interrotti l’uno con un omicidio (Glo‐ ria Maxwell accoltella Mark, il cui cadavere era già stato mostrato senza ragione nel prologo), l’altro con una gi‐ nocchiata nei testicoli del laido James. Tuttavia, a ecce‐ zione di questi squarci di violenza – pur fondamentali all’esile narrazione – l’opera non abbandona mai la pro‐ pria predilezione per l’eros, continuando incessante‐ mente a produrre lesbismi tra loro pressoché identici e superflui momenti di corteggiamento. Gli standard au‐ diovisivi si attestano su livelli da soap opera tra primi piani statici sui volti degli improbabili interpreti, dialo‐ ghi di circostanza atti ad aumentare il metraggio e una colonna sonora di mero accompagnamento. Nonostante l’inconsistenza dell’intreccio, poi, questo presenta buchi logici (chi è stato a ritirare la telecamera che ha filmato il rapporto tra Hula e Baby dato che loro, una volta rien‐ trate a casa, hanno trascorso la notte in camera da letto?) che rendono il prodotto inaccettabile anche per un pubblico dalle limitate esigenze. Vietato ai minori di 18 anni, nelle sale italiane il film – dichiaratamente de‐ stinato all’esportazione, con il titolo Talent Agency – ha una circolazione limitata che frutta soltanto poco più di 200mila lire di incasso. Nel 2015, una revisione ministe‐ riale riduce il divieto ai minori di 14 anni.

Al calar della sera

(Alessandro Lucidi, Italia 1992, col., 96’). Con Daniela Poggi (Luisa), Paolo Lorimer (il maniaco), Gianluca Fa‐ villa (Giorgio); soggetto: Alessandro Lucidi; sceneggia‐ tura: Alessandro Lucidi; montaggio: Lilli Bonolis (come Maria Bonolis); fotografia: Giuseppe Maccari; musiche: Claudio Rovagna.

Luisa, modella per spot pubblicitari, abita in una villa fuori Roma. Qui, una sera, uno psicopatico da lei ossessionato la violenta, dopo avere ucciso suo marito Giorgio e legato l’amica Paola in salotto. Luisa, però, riesce a sottrarsi alla morsa dell’aggressore e, dopo avergli bucato una gamba con le forbici, lo investe ripetutamente con l’auto durante la di lui claudicante fuga. Terza e ultima regia firmata dal montatore Alessandro Lucidi, per la prima volta alle prese con la sceneggiatura e la direzione di un thriller. L’intreccio, con ogni evidenza ispirato a Oltre ogni limite di Robert M. Young (1986), offre un rape & revenge basato sul ribaltamento di ruoli tra vittima e carnefice (e tra uomo e donna) a seguito dello stupro. Luisa, rovesciata una tanica di benzina ad‐ dosso al sadico stalker, nell’ultimo terzo di pellicola lo tiene sotto scacco attestando il proprio ruolo di final girl e affrontando un sottotesto giustizialista non banale: parlando con l’amica Paola dopo avere immobilizzato il nemico, si chiede cosa accadrebbe in un processo dove l’imputato godrebbe certamente dell’infermità mentale e la donna sarebbe accusata di averlo indotto alla vio‐ lenza carnale con atteggiamenti provocatori. Decide, al‐

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Alcolista lora, di compiere una giustizia sommaria catartica, san‐ cendo la sfiducia nelle istituzioni e nei loro interpreti. Sebbene la svolta del pre‐finale (lei abbandona l’assas‐ sino legato in soggiorno per accertarsi che sua figlia neo‐ nata stia bene, lui si libera in un attimo e tenta la fuga) sia poco verosimile e piuttosto forzata, la storia è tesa e incalzante, messa in forma da una regia scolastica, ma totalmente devota al genere. Questo è evidente sin dal primo segmento narrativo che – dopo un incipit delit‐ tuoso ma esangue (l’omicidio di una donna, costretta sul letto, edulcora quello iniziale di L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento [1970]) e uno meta‐testuale (il set pubblicitario a tema horror ricorda quello pre‐ sente in Le foto di Gioia di Lamberto Bava [1987]) – mo‐ stra Luisa nelle sue mansioni quotidiane. Nel farlo sfoggia un corredo voyeuristico morboso, con l’obiettivo che sembra spiare la protagonista come se già coinci‐ desse con l’occhio del maniaco, mentre nella colonna so‐ nora di Claudio Rovagna si fanno strada chiari riferimenti alle musiche composte da Angelo Badala‐ menti per la serie I segreti di Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost, in onda in Italia tra il 1990 e il 1991. Così, il senso di prossimità indotto dalla routine di Luisa pre‐ dispone lo spettatore all’identificazione, aprendo la strada al profondo coinvolgimento tensivo costruito nel secondo tratto di film, quello centrale. In questa fase entra in gioco il filone home invasion, preannunciato dalle soggettive esterne alla villa dello psicopatico (mu‐ tuate dal capofila Halloween. La notte delle streghe di John Carpenter [1978]) e portato a compimento con l’anestetizzato omicidio off screen del marito Giorgio. Prodotto da Paolo Lucidi ed Enrico Coletti per C.P. Co‐ letti Productions – e con il contributo statale del Mini‐ stero del Turismo e dello Spettacolo (prossimo alla soppressione, datata 1993) e della Banca Nazionale del Lavoro – Al calar della sera è un thriller risaputo e deri‐ vativo, ma solido e implacabile come pochi altri di inizio anni ’90. Tuttavia non trova spazio nelle sale italiane, ap‐ prodando direttamente nei palinsesti Rai. Curiosità: in esergo trova spazio una dedica: «Gianluca sarai sempre nel nostro cuore». Il riferimento è all’attore Gianluca Fa‐ villa, morto in un incidente d’auto a soli 41 anni l’8 ago‐ sto 1991, a riprese appena ultimate.

Alcolista

(Lucas Pavetto, Italia 2016, col., 107’). Con Bret Roberts (Daniel), Gabriella Wright (Claire), Bill Moseley (vicino di casa); soggetto: Lucas Pavetto, Massimo Vavassori; sceneggiatura: Lucas Pavetto, Massimo Vavassori; mon‐ taggio: Marcello Saurino; fotografia: Angelo Stramaglia; musiche: Giuseppe Capozzolo.

In seguito alla morte di moglie e figlia, Daniel si trasferisce, sotto le mentite spoglie di Michael Fortis, nella villa accanto a quella del responsabile dell’incidente. Il suo scopo è ucciderlo, ma il suo vizio è diventato l’alcol. L’incontro con l’assistente sociale Claire sembra ricondurlo sulla via del perdono, ma il delirante piano terapeutico della donna prevede proprio l’omicidio del vicino. Secondo lungometraggio di Lucas Pavetto, dopo il thril‐

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ler coniugale The Perfect Husband (2014). Con l’opera prima, questa ha in comune la produzione targata Dea Film (dello stesso Pavetto), che qui si avvale del soste‐ gno della New York Film Commission come garante delle location statunitensi nei pressi di Buffalo e Niagara Falls (il finale con Claire, Veronica e la piccola Mia). Sotto il segno della continuità anche il copione a quattro mani (Pavetto e Massimo Vavassori) e la coppia di attori pro‐ tagonisti composta da Gabriella Wright e Bret Roberts. Quest’ultimo – arruolato in seguito alla rinuncia forzata ad Adriano Giannini e alle location italiane – arricchisce lo script di suggestioni del tutto personali e inerenti al tema principale: l’alcolismo, del quale l’interprete è stato vittima e riporta in forma di finzione situazioni ed eventi legati alla dipendenza, a lui realmente capitati. Daniel, preda di alcolismo post‐traumatico (indotto dalla perdita di moglie e figlia), è il centro nevralgico del racconto, il perno attorno al quale ruotano personaggi e sotto‐temi (l’eutanasia praticata da Claire nel passato, il senso di colpa soffocato dal vicino di casa) e prende vita la linea thriller, i cui tratti revenge sono sviluppati secondo un andamento drammaturgico e visivo debi‐ tore ai modelli statunitensi contemporanei. Muovendo la macchina da presa in modo fluido e sempre stabile, Pavetto pone l’accento sull’ambientazione domestica e claustrofobica che rappresenta il riflesso dell’interiorità tormentata di Daniel. La casa è abitata dai fantasmi del‐ l’inconscio partoriti nelle allucinazioni etiliche, viatici tensivi mediante un campionario di spaventi costruito in modo risaputo: ossessivi assalti sonori in crescendo; improvvise apparizioni visivo‐uditive; giochi di ombre ed effetti speciali tecnicamente su livelli dignitosi. Illu‐ minato dalla corposa fotografia di Angelo Stramaglia e montato con ritmo sincopato da Marcello Saurino, il film inizia legandosi al genere (l’alcolismo intreccia i tenta‐ tivi di vendetta ai danni del vicino di casa, con relative iniezioni di suspense), per poi discostarsene nella pro‐ lissa parte centrale – a carattere psicologico, ma ripeti‐ tiva e di superficie – e riabbracciarlo nel folgorante epilogo con delitto del suddetto vicino (la scena, lorda di sangue, presenta toni realistici scioccanti), previa ri‐ velazione dei deliranti piani terapeutici di Claire. A conti fatti, quest’ultima risulta il personaggio più sfaccettato in sede di scrittura: la bella assistente sociale è un incro‐ cio tra una mantide (i modi sexy e provocanti), una pre‐ murosa terapeuta (la cura di Daniel) e una folle mad doctor (la soluzione criminale), mentre il protagonista resta uguale a se stesso per tutto l’arco narrativo. Thril‐ ler psicologico e sociale di sicuro interesse e di ottima confezione, Alcolista esce nelle sale italiane nel 2017 dopo essere stato proiettato in numerosi festival inter‐ nazionali.

Alcune signore per bene

(Bruno Gaburro, Italia 1991, col., 91’). Con Dalila Di Laz‐ zaro (Allegra), Giovanni Vettorazzo (Giovanni), Florence Guérin (Bianca, come Florence Guerin), Gabriele Gori (Marco Tarlazzi), Rossy de Palma (Donatella Tarlazzi), Eva Grimaldi (Kiki Canonero), Paola Quattrini (suor Anna‐ bella); soggetto: Antonino Marino; sceneggiatura: Anto‐


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