La Piramide

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Juan Villoro La Piramide Traduzione di Maria Cristina Secci

«In questo magnifico romanzo di Villoro non c’è tregua». El País



gran vía original • narrativa spagnola e latinoamericana



Juan Villoro

La piramide Traduzione di Maria Cristina Secci

gran vĂ­a


Esta publicación fue realizada con el estímulo del Programa de Apoyo a la Traducción (protrad) dependiente de instituciones culturales mexicanas. Quest’opera è stata pubblicata grazie al contributo del Programma di Sostegno alla Traduzione (protrad) promosso dalle istituzioni culturali messicane.

Titolo originale: Arrecife Copyright © 2012 Juan Villoro 2012 Editorial Anagrama s.a. © 2013 gran vía s.c.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: novembre 2013 isbn 978-88-95492-28-5 Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it La citazione di Malcolm Lowry è tratta da Ultramarina, edizione Feltrinelli del 1984, traduzione di Valerio Riva.


La Piramide



Troverò un giorno una terra corrotta e depressa oltre ogni nozione, dove i bambini sono affamati perché manca il latte, una terra infelice, benché immersa nell’ignoranza, e griderò: ‘Qui starò, finché non abbia fatto migliore questo posto’. malcolm lowry



Ho passato la prima parte della mia vita cercando di svegliarmi e la seconda cercando di dormire. Mi chiedo se ci sarĂ una terza parte.



«Vattene» disse Sandra, ma lasciò la porta aperta. Un impulso paranoico mi fece sospettare di lei. Ma l’eccitazione era più forte della necessità di mettermi in salvo. Spinsi la porta. La sua stanza mi sembrò il doppio della mia. Attraversai una saletta d’ingresso, seguendo il rumore del televisore che proveniva dalla sua camera. Sentii ansimare. Sandra stava guardando un programma porno? L’ultima luce del pomeriggio rigava le pareti con un raggio violaceo. Deviai lo sguardo sullo schermo. Sandra si era sintonizzata su un programma di chirurgia plastica. Cercai il telecomando. «Non lo spegnere!» gridò dal bagno. Un medico sosteneva con cautela delle protesi, come se fossero gelatine sacre. Nel frattempo parlava di “naturalezza” e di “fiducia”. «Ti piace guardare questo?» domandai in direzione della porta. «Mi rilassa» rispose mentre usciva dal bagno. Indossava un accappatoio. Il logotipo della Piramide – le quattro direzioni del cielo – risaltava sul suo seno sinistro. Un bagliore rossastro fuoriusciva dallo schermo, tappezzando i muri. Questo calmava Sandra? Le piaceva guardare corpi martirizzati dal bisturi dopo aver passato otto ore nella palestra in cui insegnava un misto di yoga e arti marziali. 11


Contemplai i suoi piedi, provati dall’esercizio. Il sole, ormai debole, riusciva ancora a infastidire chi si era bevuto cinque vodka con succo d’ananas. «Spegni l’aria» chiese Sandra. Mi piacque sentirglielo dire. Sospendere l’aria condizionata creava uno strano isolamento. Sandra si portò la mano alla cintura dell’accappatoio e la lasciò lì, come una specialista della posposizione. Quella mattina mi ero alzato con maggiori probabilità di combattere contro una manta che di entrare in quella stanza. Ma qualcosa era cambiato a metà pomeriggio. Forse per la vodka, o forse per un’orrenda canzone che d’improvviso mi sembrò epica: Feelings. Io e Sandra ci conoscevamo da un anno ma era la prima volta che bevevamo qualcosa insieme. Chiese un martini e si lamentò del suo lavoro. Con il secondo martini si ricordò di un impiego peggiore: per anni aveva ballato dentro una gabbia, in una discoteca di Kukulcan. Al terzo martini disse: «Toccami con il tuo dito». Il mio “dito” è un moncone. Ho perso la falangetta con l’esplosione di un petardo. «I mutilati conservano la sensibilità delle parti che perdono. Mio padre ha perso una mano in Corea. Puoi sentirmi con il tuo dito?» chiese, avvicinando il viso. Mi ricordai della prima scena erotica che mi aveva sedotto in un film. Charlton Heston interpretava il Cid e aveva dormito con Sophia Loren. Al risveglio, lei sfiorava il profilo dell’eroe con un dito affusolato. A dodici anni quella carezza mi era sembrata insuperabile: il dito di Sophia scivolava sul Cid come a disegnarlo. Quarant’anni dopo una donna mi chiedeva di “toccarle” il viso con la falange che non avevo più. 12


Non c’era nessun altro al bar Canario. Le sedie vuote perfezionavano la nostra intimità. «Mi senti?» domandò. «Andiamo in camera tua». «Cosa senti?» «Te lo dico su». «Su di me?» sorrise. Si appoggiò alla spalliera della sedia, mordendosi un’unghia, e recitò una delle sgradevoli massime che aveva imparato nello Iowa dov’era nata: «Don’t shit where you eat». Le ricordai che lavoravamo assieme. Vivevamo nella Piramide: il resort rappresentava la Città. Eravamo isolati, al margine. Al di là dei nostri limiti, la vita veniva registrata da radar. La fortuna venne in mio aiuto. Juliancito, barman maya di un metro e mezzo che preparava drink su uno sgabello, intuì che volevo sentire lo stesso brano, una e un’altra volta. Feelings riprese a suonare. Ci sono canzoni la cui impudenza sentimentale rivela le inconfessabili emozioni di un’epoca. Ciò che hai provato e che allora non hai osato dire si materializza lì. Il veleno che hai ripudiato mentre apparteneva al momento torna come il meraviglioso miele dei giorni perduti. Ai miei tempi da bassista d’hotel, avevo suonato un’infinità di volte quella marmellata. Mi mancavano mezzo dito e molto talento per essere Jaco Pastorius e avevo perso numerose battaglie in nome dell’heavy metal. Avevo accettato il repertorio musicale del locale notturno come chi ripete la tavola periodica degli elementi: suonavo Feelings con la stessa neutralità con cui qualche volta avevo recitato la valenza chimica del cloro. Quel pomeriggio, alla Piramide, la melodia ricomparve per vendetta. Finché Feelings era di moda, potevo ancora rischiare di 13


rovinarmi la vita. Forse fu proprio quello che mi colpì: ricordarmi come qualcuno che la sciagura ce l’ha davanti. «È la tua canzone?» mi chiese Sandra. «Ti sembra strano?» «Non sapevo che fossi sentimentale». «Non sono sentimentale. Non mi piace neanche il succo d’ananas eppure lo sto bevendo. Ci sono fastidi che aiutano a chiudere una giornata spiacevole». Sandra chiese un altro martini e mostrò interesse nei confronti della mia giornata spiacevole. Descrissi la sonorizzazione dell’acquario. Il mio amico Mario Müller aveva inventato per me un lavoro bizzarro: musicalizzare pesci. Collocavo dei sensori sotto la sabbia dell’acquario per trasformare i loro movimenti in suoni. Le armonie rilassavano gli ospiti, ma irritavano i pesci. Durante le notti di luna piena, i pesci erano particolarmente nervosi. A nulla serviva vaporizzare sull’acqua un sedativo che penetrava attraverso le branchie. «Fai lo psichiatra dei pesci». Sandra mostrò i suoi enormi denti bianchi. Non mi piacciono i denti corazzati delle nordamericane. Ma ci sono cose che migliorano con la vodka: il succo d’ananas, il sorriso di Sandra. «I tuoi animali sono nevrotici» mi disse, «i miei sono solo animali. A fine giornata, ciò che mi fa più male sono le guance. Sorridere per così tante ore è roba tosta». Sandra stava in Messico da vent’anni. Non aveva perso il suo accento, ma parlava spagnolo più fluidamente degli impiegati maya e usava più frasi idiomatiche di me, ex musicista rock che aveva rinnegato la controcultura, quella pomposa maniera di trasformare la ribellione in un sistema di lamentele più o meno redditizio. Dopo aver appeso il basso elettrico al chiodo, avevo 14


giurato che mi sarei suicidato prima di utilizzare nuovamente espressioni come “un tubo”. «Non puoi lavorare senza sorridere?» le domandai. «L’esercizio è un dolore allegro. Insegno yoga ashtanga, kung fu tibetano, dance contact. Tutto ciò ha un punto in comune: l’istruttrice deve sorridere. Cosa ti è successo al dito?» Le raccontai che a sedici anni mi era esploso in mano un petardo triangolare. Avevo schizzato con il mio sangue una ragazzina. Non ricordavo il suo nome, ma davanti a Sandra la chiamai Rebeca. Lei si era lasciata scorrere il sangue sulle guance, non si era pulita, assorta di fronte alla mia ferita, di fronte a quell’incidente che ero io. Avevo tenuto in mano il petardo per mettermi in mostra ai suoi occhi. Sandra faceva yoga: meritava una spiegazione complessa. La verità è che al momento dello scoppio avevo pensato solo alla fortuna che valeva il petardo: cinque pesos buttati al vento. «Il petardo era una paloma?» domandò lei, con quel suo gusto per le espressioni vernacolari. «Sì». «Sei fuori di cotenna!» Odio i colloquialismi come solo può fare chi li ha usati fino a farli diventare intravenosi. Non volevo essere né “fuori” né “di cotenna” per Sandra, anche se a cinquantatré anni mi era difficile essere qualcos’altro per una donna di trentasette. «E la gamba?» chiese. Si riferiva al fatto che fossi zoppo. «Mi ha investito un’auto» dissi, senza voglia di dilungarmi su quella ferita. «Prima o dopo il petardo?» «Prima». «Eri già zoppo quando ti sei fatto saltare il dito?» I suoi occhi si accesero. «Sei sentimentale» sentenziò. «Non l’avrei mai detto». 15


Sandra interpretò la mia condotta nella seguente maniera: avevo osato farmi del male quando mi ero già fatto del male. Non le sembrai autodistruttivo bensì sentimentale. Rebeca si era schizzata col mio sangue. Questo spiegava Feelings. Era insolito parlare di passato alla Piramide. Tutti stavamo lì perché ci era andato storto qualcosa da un’altra parte. Uno degli accordi più gradevoli stipulati con l’hotel prevedeva che nessuno sentisse curiosità per la vita precedente. Sandra rompeva il protocollo, mostrava interesse verso quel che io non ero più. Solo a quel punto capii che stavamo flirtando. «Senti qualcosa al dito?» riprese l’argomento. Mi raccontò che le sue sessioni iniziavano con dieci “saluti al sole”. Il clima dei Caraibi si era guastato, a mio giudizio non a sufficienza. Di sole per me ce n’era sempre d’avanzo. Non dissi nulla e l’ascoltai parlare di tecniche di rilassamento. Affermò di essere stufa di corpi perfezionati dall’esercizio. Le mie lesioni le interessavano come se il mio corpo si esprimesse in un’altra lingua, il francese delle ferite. Non risposi alla sua domanda sulla sensibilità del mio dito. Allora mi parlò del suo passato. Era arrivata nei Caraibi a diciassette anni, in compagnia di un veterano della guerra del Vietnam che si svegliava con incubi notturni. Si erano accampati su spiagge deserte e avevano fumato marijuana fin quando a lui non era venuto un ictus: «È tornato negli Stati Uniti dentro un sacco di plastica. Pensava che sarebbe tornato così da Saigon, non dal Messico». Sandra rimase a vivere sulla costa e passò un’epoca che chiamava «la mia miseria». Frequentò tutte le discoteche indossando una maglietta con la scritta Too drunk to fuck che non sortì grande effetto. Si rigenerò con una strana forma di sofferenza, ballando dentro una gabbia. Era stato come scontare una sentenza penale. Poi, a un certo punto, scoprì la sobrietà, l’esercizio, il 16


denaro sicuro, la vita negli hotel. La Piramide era il suo miglior impiego. Avevo sempre pensato che lo yoga fosse quello a cui i gruppi rock si dedicavano quando il successo li annoiava. Sandra usava tecniche di una complessità a me ignota: riusciva a far controllare ai turisti la loro aggressività e a farsi imitare da attori che avevano problemi a stabilire un contatto viscerale con le loro emozioni. «Però sei stanca di sorridere»­commentai, per ricordarle che aveva bisogno di un rimedio. Sandra mi piaceva, ma non tanto come la situazione che avevamo creato. Avvicinò la mano e “toccò” la parte inesistente del mio dito. «Mi senti?» «Sì» mentii. «Ora è il tuo turno» e distese il palmo della sua mano. Il nostro primo contatto fisico fu quella chiromanzia. Percorsi il suo palmo senza toccarla. Aveva poche linee. La sua pelle sembrava fatta di recente. Le mostrai i miei palmi, pieni di linee. «Le tue mani sono come una cartina di Città del Messico» disse, «le mie come una cartina dello Iowa». Prese il mio dito e “succhiò” la falange mancante: «Cosa senti?» «Andiamo in camera tua». Non volevo andare da me perché i libri rendono l’ambiente inquietante. Nella Piramide, cittadella in cui i letti venivano rifatti con rigore chirurgico, una stanza come la mia suggeriva un’esistenza bizzarra: quella di uno sceneggiatore che si è allontanato per adattare un romanzo incomprensibile, di un lettore compulsivo in un luogo in cui gli altri leggono solo etichette di abbronzanti, di un professore allergico all’aria aperta, di un disturbato in attesa del momento giusto. «Siamo ragionevoli» disse Sandra. 17


«Ho sentito qualcosa di molto particolare». La frase era veritiera, anche se non si riferiva al dito. «Ho succhiato aria, ma era qualcosa di diverso» concesse lei. Chiese il conto e insistette per pagare. Voleva concludere in modo generoso: le sue banconote sussurravano con garbo che non sarei arrivato al suo letto. «Mi è piaciuto parlare con te» e si alzò. La seguii meccanicamente. Entrammo insieme nell’ascensore. La sua stanza era al quinto piano, la mia al settimo. Lei schiacciò solo il numero 5. Buon segno. Cercai di baciarla. «You better don’t» disse, facendo resistenza. Apprezzai il fatto che mi respingesse in inglese, la sua vera lingua. Le andai dietro fino alla sua stanza. Fu a quel punto che disse: «Vattene». Ma lasciò la porta aperta.

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gran vía original • narrativa spagnola e latinoamericana

Juan Villoro La Piramide La Piramide prosperava sul riposo inteso come isolamento e sul divertimento come rischio. Un luogo dove le luci e la musica ambientale creavano una realtà sospesa e dove i programmi di divertimento acceleravano la circolazione del sangue. «Un cast ricco di personaggi antitetici in situazioni estreme dà vita a un geniale gioco il cui risultato romanzesco è spettacolare». La Razón «Lucida e poderosa lettura del presente e del passato, dove la paura, il sacrificio dei propri dèi e il mito si confondono». La Vanguardia

ISBN 978-88-95492-28-5

Foto di copertina: © Paul Knight / Trevillion Images Cover design: Mirko Visentin

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