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SISMAGAZINE

questo giornale non ha valore periodico; stampato con il contributo dell’Alma Mater Studiorum


TESSERATI AL SISM... ...perchĂŠ stiamo preparando un grande evento che vi stupirĂ !

Impaginatore Giulio Vara Correttore di bozze Hana Privitera Hrustemovic Oroscopo Francesca Matassoni Beatrice Scarpellini Giochi Chiara Crescentini Disegni Marianna Costa

CONTATTI La Redazione: benedetta.orsini@libero.it Senza peli sulla lingua: senzapelisullalingua.sism@gmail.com


Ad E., che in poco tempo ci ha trasmesso ciò che nessuno aveva fatto in tanti anni. Ad E., che ci sprona ogni giorno ad essere medici migliori. Grazie con tutto il cuore. La cosa peggiore dei medici è che ti guardano come se tu non fossi te stesso. Ramón Gómez de la Serna La medicina dovrebbe studiare il modo di far cessare il dolore, piuttosto che la malattia. Giuseppe Prezzolini Ci siamo trovati a riflettere improvvisamente su cose che avevamo sempre ignorato, non per nostra cinica volontà, ma per pura e semplice leggerezza. Non ci sentiamo medici, sebbene siano anni che indossiamo il camice e vaghiamo per i reparti. Non ci sentiamo tali e quindi non ci preoccupiamo di ciò che è dovere ed interesse del medico: il paziente. Noi siamo impegnati a studiare, ad apprendere, immagazzinare. Ci troviamo in questo limbo in cui non siamo medici ma vestiamo come tali, lanciati in una corsa che ha come solo obiettivo quella corona d’alloro che pare un miraggio. Come se la vita dovesse cominciare una volta ottenutala. Oggi, però, la nostra attenzione è chiamata ad una riflessione nuova, che ci coglie impreparati e che pretende un passo in avanti da parte nostra. Passare gli anni della nostra formazione a inabissarci nel mondo delle malattie ci renderà inevitabilmente, un giorno, ciechi all’umanità; concentrati sul particolare, perderemo di vista il generale: la persona che porta con sé quella malattia, che non è involucro privo di interesse, ma silenzioso spettatore della nostra superficialità e freddezza, timido sofferente che non ci contraddice mai, che non chiede mai, che talvolta ci osserva persino con venerazione. E noi, avvolti nel nostro candido sudario sempre sgualcito, osserviamo tutto con gli occhi di chi non sa nulla, di chi è curioso ed entusiasta. Per ora. Ci nasconderemo anche noi sotto una calda coperta di paroloni incomprensibili? Indosseremo anche noi la maschera della divinità irraggiungibile e disinteressata? Immaginiamoci, per un istante, di essere dall’altra parte. Patior: sopportare, resistere, accettare. E’ da qui che deriva il termine paziente. Andando ancora più indietro, fino alle radici profonde del verbo, si scopre come patior trovi il suo corrispettivo greco in πάσχω , che indica provare un determinato sentimento o sensazione. E’ un esempio perfetto di quello che ci hanno insegnato a chiamare vox media: in questo termine non vi sono connotazioni né positive né negative. Ed è da qui che nascono parole come simpatia ed empatia, provare sentimento con qualcuno. Parole che scavano nell’abisso. Parole che non dobbiamo sottovalutare. Un giorno -prima o poi accadrà, per un motivo o per un altro- ci troveremo in un letto di ospedale, coperti da una triste camicia azzurrina, accanto ad altri malati sconosciuti. Il nostro camice bianco non avrà alcun significato in quel momento, lo rimpiangeremo, ma non potremo averlo. E chiederemo solo una cosa a chi, davanti a noi, legge la cartella senza guardarci negli occhi: empatia. Il malato ha una dignità intima, che fatichiamo a riconoscere, perché abbiamo la bocca piena di tutte quelle parole che ci rendono criptici e mistici. Non dobbiamo mai perdere la lucidità che è fondamentale per svolgere il nostro compito, tuttavia dobbiamo ricercare sempre nel nostro animo il rispetto per l’essere umano. Tanti anni di professione medica tendono a condurre inesorabilmente verso il cinismo più bieco, ma dobbiamo portare con noi l’entusiasmo e l’umanità dello studente. Ed è quindi oggi il giorno in cui dobbiamo andare a fondo. Perché, è vero, non siamo medici, ma lo saremo presto. “Una gran parte di quello che i medici sanno, è insegnata loro dai malati.” Marcel Proust La Redazione

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LA PRIGIONE DI NASSER Nel gennaio 2013 sono tornata nel mio Paese, il Djibouti, per le vacanze invernali, e l’ho rivisto. E’ difficile immaginare Nasser com’era sei anni fa. Lo incontrai per la prima volta nel 2007, quando lavoravo nell’ospedale del mio Paese; era molto magro, soffriva di una grave forma di scoliosi che gli impediva di svolgere le normali attività quotidiane, era debole e aggressivo. Era sieropositivo, ma non se ne curava e non credeva nemmeno all’esistenza dell’HIV, pensava fosse una credenza popolare, nulla di reale.

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“Sei anni fa le cose erano molto difficili qui”, mi dice Nasser, elegantemente vestito, in forma, quando ci incontriamo nello stesso ospedale a distanza di sei anni. E’ lì per ricevere la sua terapia gratuita antiretrovirale. Dice di essere stato molto fortunato perché per questa terapia viene selezionato solo il 5% della popolazione più bisognosa di cure. E lui ne fa parte. Nasser è affezionato all’ospedale, dice, perché lì dentro “siamo tutti uguali”: tutti necessitano di cure, lui non si sente diverso e discriminato perché malato, cosa che invece oggi ancora succede in certi luoghi dove la sieropositività è vista come una punizione di Dio o una cosa inventata dagli scienziati per eliminare i più emarginati nella società. Queste sono solo alcune delle tante credenze ancora esistenti su questa infezione. “Io ho perso mia moglie; in realtà era la mia fidanzata, non ci eravamo sposati”, mi racconta malinconico. “Ci nascondevamo, nessuno di noi aveva abbastanza forza o coraggio per affrontare gli sguardi di disapprovazione della gente. Non appartenevamo alla stessa tribù e già questo era motivo di malelingue e di maledizioni verso di noi.” E’ morta di AIDS nel 2006. L’AIDS è chiamata dagli anziani “la malattia delle donne”; essi non credono di poterla contrarre, si sentono

esenti dall’infezione. “Voi donne siete portatrici di un sacco di merda!” mi dice Nasser, sorridendo. Vedendolo scherzare sulla sua condizione, con un sorriso quasi a voler dire che è tutto a posto e ora sta bene, mi sono ricordata di quando sei anni prima, durante le mie guardie notturne, lui mi diceva “Vorrei solo morire” e sul pavimento accanto a lui, come sempre, c’erano una bottiglia di vodka, un po’ di soldi per comprare il khat (droga legale molto usata nel Corno d’Africa) e qualche vestito sporco. “Dopo che lei è morta ho cominciato ad avere febbre, tosse, debolezza …”. Nasser si rese conto della gravità della sua situazione nel momento in cui non riusciva più a sorreggersi in piedi, privo di forze e anche malato di tubercolosi. Nasser è analfabeta, come tanti altri malati che ho visto in questi anni nel mio Paese. I medici gli prescrissero dei farmaci per la tubercolosi ma lui, non sapendo leggere, non aveva capito di doversi recare in farmacia, così lasciò perdere. Per questo la malattia peggiorò e Nasser si rivolse al centro di Malattie Tropicali e Infettive. Qui gli fu diagnosticata anche l’infezione da HIV. Nasser fu ricoverato e sottoposto ad una terapia continuativa con i farmaci antiretrovirali, terapia a pagamento perché non era considerato “un vero povero”: i medici pensavano che essendo giovane, con una famiglia alle spalle, potesse pagarsi la cura. Ma dopo due mesi a Nasser mancavano i soldi e per tre mesi io stessa lo aiutati economicamente a continuare la terapia, tempo necessario affinché i medici potessero dichiarare la sua condizione di estrema povertà e inserirlo così tra la fascia di popolazione che riceve gratuitamente la cura. La terapia ha un costo di 200$ mensili, il reddito medio della popolazione del Djibouti è di 100$ al mese. “E’ dura lottare contro questa dannata


malattia, ma ancora più duro è lottare contro una società che non ti vuole vedere. La tua famiglia ti abbandona perche sei un peso, una vergogna”, mi confidò Nasser. Io ero in imbarazzo, ascoltavo questi racconti senza poter fare nulla di concreto per lui e per gli altri nella sua stessa condizione. “Molti dei miei amici sono morti perché non potevano permettersi queste medicine”, disse Nasser. Lavorare in ospedale è pericoloso anche per il personale sanitario: i pazienti sieropositivi sono persone che hanno perso tutto, in una società che li abbandona, non li aiuta, li emargina e discrimina. Sono frequenti episodi di violenza e aggressività da parte di questi pazienti che, sentendosi rifiutati o non aiutati sufficientemente, vogliono riversare la loro frustrazione e rabbia contro chi li aiuta in ospedale; la violenza si manifesta in contagi effettuati volontariamente dagli stessi pazienti che quando si vedono prelevare il sangue prendono la siringa e la rivolgono verso il personale sanitario, contaminandolo con sangue infetto. Questo provoca in loro un senso di soddisfazione, colpire qualcun’altro e contagiarlo è come non sentirsi più soli in quella condizione. Stiamo parlando di una società che non ha una sicurezza sanitaria adeguata, tutto è lasciato in mano a poco personale che deve riuscire a cavarsela come meglio può. Nel 2007 creai un gruppo di sostegno con alcune infermiere per aiutare a pagare per il cibo e soprattutto per la medicazione dei pazienti sieropositivi. Giorno dopo giorno, grazie al passaparola, si presentavano sempre più pazienti, soprattutto rifugiati dal Corno d’Africa. “Siamo intrappolati, senza lavoro. Dicono che sia giusto e giustificato discriminare i sieropositivi. Nessuno ci vuole, siamo senza famiglia, considerati ‘i dannati scelti

da Dio’”. Siamo nel 2013 e ancora non esiste la consapevolezza di queste situazioni drammatiche, non immaginiamo il costo di questi medicinali, la stigmatizzazione degli infetti da HIV, la loro condizione disastrosa e le false credenze che ancora vivono e sono alimentate dall’ignoranza. Se l’HIV è davvero la nuova peste del millennio, auguro a tutti quelli che stanno ancora soffrendo negli oscuri reparti ospedalieri, dimenticati oppure confinati nelle loro prigioni mentali, di continuare a lottare. Chiediamoci perché le case farmaceutiche non aiutano queste persone, quali interessi ci sono dietro, perché queste persone valgono meno di un italiano, di un tedesco o di un americano. Molti malati che ho conosciuto si sono abbandonati semplicemente accettando la morte perché il costo delle cure non era sostenibile. Ho provato a chiamare Nasser recentemente, mi aspettavo di sentire come d’abitudine il suo “donnaccia, come stai?” Non risponde. Sicuramente è fuori a scolarsi la sua bottiglia di vodka preferita. Fozia

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MA VOI CHI SIETE? Intervista ai coordinatori delle aree del SISM Il Segretariato Italiano Studenti in Medicina, così come noi lo conosciamo, esiste nelle Facoltà di Medicina dal 1970; oggi ha 37 sedi locali in Italia e fa parte di una rete di associazioni di scala mondiale, l’IFMSA. E’ in queste acque internazionali che nuotano con dedizione i ragazzi che organizzano per noi Professional Exchange (SCOPE) e Research Exchange (SCORE): Elisa, Ottavia e Andrea. Non si occupano solo di permettere agli studenti di Bologna di fare esperienze di tirocinio o ricerca in tutto il mondo, ma anche di accogliere gli studenti stranieri nella nostra Università. Insomma, gran cuore. La prima domanda è quella di rito: Il SISM è definito come un’associazione apartitica e blablabla. Sul serio, cos’è per te il SISM? E: Il SISM è stata la svolta; è ciò che mi ha legato indissolubilmente a Bologna e a questa facoltà. E’ una palestra di vita, una sfida che si rinnova ogni giorno. Il SISM è come la Coop: sei tu. O: E’ il modo più rapido, nobile ed indolore per uno studente di medicina di andare incontro all’esaurimento nervoso. E’ soprattutto libertà di pensare: in una facoltà che tende ad annullare il nostro senso critico il SISM rappresenta la spinta ad interrogarci ogni giorno sulle nostre esigenze e sul nostro ruolo nella comunità in quanto futuri medici. A: SISM, connecting people. Vi sarà chiaro sin da questa prima domanda quanto il contributo di A. Carini (Scusate, Andrea C.) sia fondamentale non solo nell’intervista, ma più in generale nelle attività di SCOPE e SCORE. No, mi correggo: la sua presenza è fondamentale per la sopravvivenza del SISM in toto. Raccontateci di un incontro particolare che avete fatto grazie al SISM O: Il SISM vive sulla base dell’incontro,

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che sia la riunione del mercoledì o uno degli interminabili pomeriggi passati in ufficio. Ho portato rapporti già esistenti a profondità che non credevo raggiungibili e ho creato relazioni nuove in cui ho messo più di quanto credessi possibile e non so quale di questi aspetti mi abbia dato più soddisfazione. E: Gli eventi nazionali sono momenti incredibilmente formativi, durante i quali incontri persone di tutti i tipi e ti accorgi che fare Medicina è ciò che ci permette di conoscerci, ma ciò che ci unisce è molto altro. La mia area, inoltre, mi permette di conoscere gli insegnanti e i medici che accolgono gli incoming; talvolta trovi una porta chiusa, altre volte, invece, trovi comprensione ed apertura, che pongono le basi per un’ottima collaborazione. Il vero cuore del SISM, però, è la Sede Locale: ogni persona è continuamente una sorpresa, una smentita, una conferma. E’ bellissimo ed è ciò che ha reso speciale tutto questo tempo. A: Se non fosse per il SISM non avrei mai conosciuto Miks, un lettone pazzo come un cavallo, che prima di fare Medicina vendeva armi agli Stati Uniti. Non so se mi spiego. Perché fare la contact person o ospitare in casa propria un incoming? O: Prima di fare la contact person per una ragazza brasiliana (la contact person accoglie a Bologna uno studente straniero e durante i primi giorni di soggiorno lo accompagna in reparto e in sede SISM, cercando di impedire che questo povero fanciullo si perda per i viali del Sant’Orsola, ndr) non sapevo neppure cosa fosse il SISM. Ora vivo in ufficio, cerco di fare di tutto e vorrei fare di più. Ho imparato molto da lei, ho parlato contemporaneamente quattro lingue che non conoscevo. A: Cioè dovrei spiegarvi perché ospitare un casa una studentessa di Medicina australiana/bulgara/brasiliana?! Maddai!! E: Fare la contact person o ospitare un incoming dà la possibilità di portare a casa propria un pezzettino di mondo. Abbiamo tutti smania di viaggiare, ma si può apprendere tanto dal mondo anche solo ascoltandolo!


Perché partire? A: Partire è sempre bello: vai in posti in cui non pensavi di finire e puoi imparare molto. O: Il mondo è grande e bello, pieno di tante cose che non si possono studiare sui libri! E: Vuoi che muoro?! Rimanere infossati nella propria quotidianità è deleterio: non ci si mette mai in discussione. Il SISM ci permette di partire per un’esperienza low cost didattica e di vita. Cosa vuoi di più? Perché dovrei voler far parte di SCOPE/ SCORE? E: Perché la nostra area non dorme mai! Vi portiamo mezzo mondo a Bologna e vi mandiamo ovunque. Lavoriamo nell’ombra, ma è davvero stupendo. E’ impegnativo, ma ne vale la pena. A: Siamo in contatto con gente che proviene da ogni parte del mondo, abbiamo sempre un piede sulla porta. O: L’anno prossimo, a causa di lauree ed Erasmus, non ci sarà più nessuno ad occuparsi di quest’area. Niente area, niente scambi! Fatevi coraggio! Se ce l’ho fatta io... e poi abbiamo Andrea Carini, non è forse questa una ragione sufficiente?! Scambi di ricerca o professionali? A: Sono fantastici entrambi. Se preferisci un progetto flessibile per orari ed impegno, è meglio il Research Exchange; se hai voglia di rimboccarti le maniche, gli scambi professionali sono fatti per te. E: La ricerca all’estero funziona, non come da noi in Italia. Lo scambio clinico rappresenta l’opportunità di frequentare per la prima volta il reparto che si desidera. Un consiglio per chi non conosce la lingua del paese ospitante: scegliete un reparto chirurgico, così non avrete l’imbarazzo di non capire ciò che dice il paziente! O: Lo scambio clinico attrae molto di più, perché consente di fare tutta quella pratica che in Italia ci viene appena concesso di vedere da lontano. Vorrei sollecitare, però, a non sottovalutare la ricerca: potrebbe essere l’unica esperienza per applicarsi in tale settore. La maggior parte dei paesi ospitanti offre progetti interessanti e ben organizzati.

Progetti futuri? A: Non conosco né i progetti futuri del SISM, né i miei. O: Ci sono numerosi cambiamenti in atto per quanto riguarda l’area SCOPE/ SCORE, seppur ancora tutti in fieri. Si sta lavorando, soprattutto a livello nazionale, al fine di rendere ancora più valido il programma Exchange e di ottenere il riconoscimento dell’attività di scambio da parte dell’Università. E: Sposare Binetti!

Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze [...] Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa’ che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu senza aspettarti ricchezze da Itaca. Senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti? Kostantino Kavafis Benedetta Orsini

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SISM, VIAGGIARE RESEARCH EXCHANGE IN TUNISIA

Ore 23 dell’1 settembre, la sirena della nave rompe il silenzio della notte, introducendo lo sguardo dei passeggeri ai fari d’ingresso al porto di Tunisi. Quante navi, quante genti, quante speranze attraverso quelle due pietre, due lanterne che segnano il confine del mare, davanti all’antichissima Cartagine, porta d’Africa. Sono in nave, esattamente come i tanti che hanno percorso la stessa rotta ma diretti a nord-est, verso la piccola Lampedusa. In nave, perché decisi che doveva diventare un’esperienza dal basso e null’altro poteva essere se volevo pretendere da essa un minimo di onestà e aderenza al reale. Infatti si sa, o si può facilmente immaginare, che in tali paesi meno ricchi chi si può permettere di studiare medicina, di parlare inglese e tramite internet entrare quindi in contatto con noi, non è certo molto rappresentativo del popolo nelle sue caratteristiche più diffuse. Era insomma la Tunisi “bene” quella che mi veniva proposta ed

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io, pur accettando di buon grado la sua compagnia e guida alle bellezze del territorio e della Storia, volevo conoscere la vera Tunisi: quella che abita in periferia, che usa l’autobus, che vive accanto alle montagne di immondizia, che frequenta bar, moschee e hammam; chi insomma, al di là di politica, tradizione e storia, incarna la cultura di un popolo e trova anche in sé le ragioni per emigrare verso l’Europa, incendiare scuole e ambasciate americane e rivoltarsi contro i dittatori. Questi viaggi proposti da SISM-IFMSA non possono, secondo me, essere sprecati in un semplice turismo da villeggiatura, perché possono essere fonte di reciproca conoscenza e scambio tra popoli e culture, indispensabili pilastri su cui poggia la pace. Il mio progetto, poi, era volutamente di ricerca: non sapendo parlare arabo e cavandomela veramente male con il francese non avrei potuto trarre molto insegnamento da pazienti o medici indaffarati, né tantomeno essere di una qualche utilità. Quindi, se posso permettermi, vorrei dare un consiglio a chi


SISM, VIAGGIARE dovesse partire: tenete conto che senza alcuna capacità comunicativa con il paziente non otterrete nessuna informazione più interessante di quella che possa darvi un libro (neanche il più brutto reparto italiano può così poco) … ovviamente fanno eccezione le chirurgie e le silenziosissime terapie intensive. Io volevo invece fare esperienza di Ricerca oltre che, come detto sopra, della Tunisia, nella sua interezza e diversità. Il progetto di ricerca che scelsi e mi fu proposto era sulla Leishmaniosi viscerale, parassitosi endemica nel Nord Africa nonché nel Sud Europa (Italia compresa) e si incentrava sull’individuare e convalidare nuove metodiche di diagnosi. Fu molto difficile all’inizio far capire perché io fossi lì, tutti si ostinavano a farmi guardare un tipo che, grattando unghie,

vi sconsiglio un progetto di ricerca in un Paese in via di sviluppo. Infatti, nonostante la pazienza e gentilezza dei ricercatori nel cercare di coinvolgermi e spiegarmi (en anglais), le risorse a loro disposizione ovviamente erano minori di quelle che abbiamo in Italia. Nonostante tutto ho avuto modo di imparare il metodo, osservare l’esecuzione di innumerevoli Western-Blot, ecc. Ma mai fare qualcosa di persona o chiedere di ripetere dei test: anche volendo, non potevano permetterselo. I contatti dell’associazione locale (Associamed) erano gentilissimi e ho stretto con loro bei rapporti, l’unico problema, che anche chi era stato ad agosto aveva notato, è che ti consideravano un turista. Ti portavano sempre in auto nei luoghi di lusso, a vedere bei paesaggi, club, ville in campagna. Proponevano taxi e artificiali tour guidati nel deserto, sconsigliavano ingenuamente e in buona

analizzava splendide onicomicosi…un reparto di diagnostica, dunque. Scoprii infatti che i miei predecessori non erano stati molto sul pezzo e si limitavano a presenziare, sorridere e raccontare entusiasti dei loro eterni weekend turistici. Però il camice dava un grande senso di serietà! Ci misi quindi una settimana a far capire che io ero lì per quello studio; vi consiglio di essere piloti del vostro scambio e chiedere esattamente quello che volete! Ovviamente non posso scrivere i frutti e metodi della loro ricerca perché sono stato invitato alla riservatezza, ma in generale, Signore e Signori,

fede tutto ciò che con un pizzico di intraprendenza e incoscienza poteva invece darti sapore in bocca: una sorta di Buddha nella gabbia dorata. Io poi sono partito a settembre, perdendo un’intera sessione di esami, per cui dovevo studiare come una vacca nella biblioteca di facoltà, insieme a tunisini neolaureati che si preparavano per il test nazionale (solo noi, eh!!). Per questo ero a mio modo un incoming anomalo, ma anche molto apprezzato, mi è sembrato di capire, e questo comunque mi aiutava ad avere giornate il più possibile simili a un qualsiasi studente tunisino. Quindi alla fine il bilancio di questo viaggio è

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stato positivo nella misura del sudore che ho versato dalla fronte. Il progetto in sé aveva, purtroppo, i limiti dettati dal luogo, ma anche questo lo rendeva a suo modo interessante. Non è stato facile studiare in fretta il francese, sforzarsi a parlarlo per poi ricevere per strada risposte in berbero, è stato stressante tutti i giorni aspettare per ore quel maledetto autobus che partiva ma non si sapeva se arrivava, è stato discriminatorio ricevere sempre prezzi personalizzati in base alla mia carnagione, è stato divertente sconvolgere tutti i passanti con la mia barba lunga da terrorista ma la pelle chiara durante le mie eterne camminate sotto il sole di mezzogiorno tra l’istituto e la facoltà, è stato nostalgico vedere ancora bambini arrampicati sui tram in movimento, è stato meraviglioso spendere ore e ore a parlare di cos’è l’Islam e chi sono i musulmani, chi gli arabi e chi invece i tunisini (berberi), è stato curioso poter comprare la birra tutti i giorni tranne il venerdì, fumare il narghilè tutte le sere, addormentarsi guardando i tetti di Tunisi mentre rimbombava nell’aria l’eccitazione di una festa nuziale, è stato stimolante girare per la medina durante il festival delle arti dove

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gli abitanti aprono le antiche case per ospitare gli artisti, è stato mistico udire il canto del muezzin nel tiepido vento del tramonto ed entrare nel maestoso silenzio di una moschea, è stato traumatico ma galattico il massaggio energico nell’hammam dove un robusto ragazzo ti frizionava ogni parte del corpo sbattendoti come uno straccio sul pavimento, è stato imbarazzante sentirsi dire da metà della gente che incontravi per strada, ridendo, “ah italiano! Io stato in Italia: 10 anni in prigione!”, è stato eccezionale riempirsi gli occhi e le orecchie dei bellissimi paesaggi e della Storia di questa nazione, è stato commovente notare l’orgoglio ferito di un popolo che sapendo ribellarsi alla prepotenza del potere si è ritrovato guidato da un gruppetto di estremisti che sbucando dal silenzio hanno approfittato del vuoto politico, è stato faticoso ma è stato come più reale non poteva essere. E sul battello del ritorno vedevo i miei compagni di viaggio, con gli occhi tristi, i passaporti verdi e una storia dimenticata. Lorenzo Rabbi


POESIE Scultore di parole Scritto da Paquito Puto Loco Di queste sciocche parole oggi mi faccio scultore e sperando di far cosa gradita alle signore scrivo un elogio al sederone. Sì, perché il didietro mi piace come un bignè bello pieno, che occupi posti per tre. Lo amo tanto quanto un giapponese ama il sakè. Se il pompon è spagnolo e redondo me pone muy cachondo, se è afroamericano I’m lovin’ that deretano! Ma ciò che amo di più è quando un bel bubù, ballando shakera su e giù e il mio cuore come un treno fa ciù ciù!

Enjambement Scritto da Paquito Puto Loco Non so cosa significhi, ma se è un insulto, allora “enjambement” a te e a tutta la tua famiglia.

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MEDICINEMA Come alcuni di voi sapranno il 17 Maggio si celebra la giornata internazionale contro l’omofobia; il SISM organizzerà un Cineforum dedicato a questo tema e noi abbiamo deciso di proporvi questo mese alcuni film a riguardo, tanto per non farvi arrivare impreparati all’appuntamento. Vi lascio con una bellissima citazione presa dal film Milk, ovviamente seguita da tutte le recensioni. Buona lettura! “Io chiedo questo, che se dovesse esserci un omicidio, in 5, in 10, in 100, in 1000 siano a levarsi in piedi. Se una pallottola mi trapasserà il cervello, che serva a distruggere ogni muro dietro cui ci nascondiamo; io chiedo che il movimento continui perché non è questione di guadagno personale, e non è questione di individualismo e non è questione di potere, è questione dei “Noi” là fuori; e non solo i gay, ma i neri e gli asiatici e gli anziani e i disabili, i “Noi”. Senza la speranza i “Noi” si arrendono; so che non si può vivere solo di speranza, ma senza la speranza la vita non vale la pena di essere vissuta; e quindi tu, e tu, e tu, dovete dar loro la speranza…”

Boys don’t cry (Kimberly Peirce, 1999) Film tratto da una storia vera, che narra di Teena Brandon, ragazza ventunenne con un forte problema di identità sessuale. Siamo nell’anno 1993, Teena a tutti gli effetti appare come un giovane ragazzotto solare, carino, pieno di energia, nascondendo a tutti il suo segreto e presentandosi alla società come Brandon Teena. Le vicende iniziano a mutare quando Brandon decide di trasferirsi da Lincoln a Falls City (Nebraska), città nota per la grande chiusura mentale e tristemente conosciuta per passati episodi di omofobia. Ben presto il ragazzo viene accettato in un gruppo di giovani locali, formato dalla timida Candace e dai ben più esuberanti John e Tom, ottenendone il rispetto a suon di imprese da vero uomo. Brandon conquista numerose ragazze ma nessuna riesce a colpirlo come Lana, una giovane ragazza chiusa e introversa, ex convivente di John. In un primo momento la ragazza sembra essere totalmente insensibile alle attenzioni di Brandon ma successivamente tra i due si instaurerà un rapporto di enorme passione. Tuttavia Lana è all’oscuro del segreto nascosto da Brandon fino a quando, una notte, il ragazzo viene arrestato dalla polizia e in seguito a successivi accertamenti viene svelato l’arcano; Lana paga la cauzione per la libertà di Brandon nonostante rimanga incredula nel vederlo detenuto nel carcere femminile con il nome di Teena. Brandon spiega la situazione alla ragazza, che inizialmente fatica a comprendere, ma poi lascia spazio ai sentimenti e accetta Teena così com’è; tuttavia attorno alla loro storia d’amore la situazione inizia a precipitare, la storia di Teena Brandon viene pubblicata sulla prima pagina del giornale locale e tutti, compresi John, Tom e la madre di Lana vengono a conoscenza del segreto. E’ l’inizio di una persecuzione, di un dramma interiore, di un amore vero ma osteggiato in ogni maniera. Il film, nonostante la non grandissima conoscenza a livello internazionale, ha ricevuto giudizi entusiastici, ha sconvolto e ha ottenuto a quasi

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tutte le rassegne a cui è stato presentato premi per migliore attrice protagonista e non protagonista per le interpretazioni di Hilary Swank (Teena) e Chloé Sevigny (Lana). Milk (Gus Van Sant, 2008) “Sono Harvey Milk e oggi è il 18 novembre (1978), venerdì; questo nastro dovrà essere ascoltato solo nell’eventualità che io venga assassinato. Durante una delle mie prime campagne mi venne di aprire il discorso con una frase che sarebbe diventata una sorta di film: Il mio nome è Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti.” Ecco, vi ho rovinato il finale! Sto scherzando, questo è l’inizio del film e saprete benissimo come andrà a finire sin dalle battute iniziali non solo perché lo sceneggiatore ha deciso così, ma anche perché Milk narra la storia vera di Harvey Milk, il primo omosessuale dichiarato a ricoprire una carica politica negli Stati Uniti; saranno infatti, poco dopo, alcune immagini di repertorio a mostrare il momento del comunicato ufficiale riguardante l’omicidio. Come avrete capito, la storia ci viene raccontata proprio dalla voce narrante di Harvey (interpretato dal Premio Oscar Sean Penn, magistrale in questo frangente), che ripercorre passo passo tutta la sua ascesa, partendo dal 1970 quando, a New York, conobbe il suo compagno Scott e con lui decise di trasferirsi a San Francisco. Harvey e Scott si trasferiscono a Castro, il quartiere più ghettizzato di tutta San Francisco, l’unico in cui siano anche solo minimamente accettati gli omosessuali e qui aprono un piccolo negozietto di fotografia, il “Castro Camera”. Milk è un uomo intraprendente e non può più sopportare di vivere nell’ombra il proprio amore; convinto che questo obiettivo debba essere condiviso da tutti i gay, decide di lottare per i diritti degli omosessuali di tutta America. Castro Camera diventa in poco tempo luogo di incontro, di discussione, di festa per tutti gli omosessuali di San Francisco e parallelamente l’intero quartiere Castro diventa come una terra promessa per gli stessi. Harvey è un comunicatore nato e con la forza delle parole


e con l’autoironia riesce a conquistare sempre più attenzione e consenso da parte di giovani, anziani, donne, omosessuali ed eterosessuali, consenso che lo spinge a candidarsi per la prima volta al posto di consigliere per la città di San Francisco. Già al primo tentativo il risultato elettorale è eccezionale, ma ancora non sufficiente; per la vittoria bisognerà attendere la terza candidatura, nel 1977. Questa vittoria sarà figlia anche della grande opposizione messa in atto dalla comunità gay, ma non solo, contro la famosa Proposition 6, vera e propria legge discriminatoria contro gli omosessuali che ne prevede l’allontanamento dal ruolo di insegnanti e ne legittima il licenziamento da qualunque luogo di lavoro, ponendoli alla stregua di tossicodipendenti e criminali. San Francisco ormai pare essere l’ultima spiaggia, l’ultima speranza di resistere, di arginare l’ondata di omofobia che sta invadendo il paese e che sta portando, stato dopo stato, ad approvare la scandalosa legge proposta dal senatore californiano John Briggs e sponsorizzata dalla cantante Anita Bryant. Harvey e i suoi sanno che se non riusciranno a vincere ai voti dovranno, quanto meno, scatenare la più grande protesta di sempre. In questo clima il film volge verso l’epilogo, con la battaglia all’ultimo voto e la narrazione degli ultimi attimi del paladino Harvey Milk.

legale. A prendere in carico il suo caso è Joseph Miller (Denzel Washington), avvocato afroamericano, fieramente eterosessuale, che fra l’altro si era già trovato in passato a scontrarsi con Beckett in aula. Joseph è inizialmente riluttante all’idea di difendere Andy in quanto questo andrebbe nettamente contro una società fortemente omofoba, ma soprattutto contro i propri principi. Tuttavia, una volta venuto a capo del suo conflitto morale, Miller si metterà anima e corpo in questa nuova sfida, e piano piano inizierà anche a comprendere e ad avvicinarsi al mondo di Andy e del suo compagno. Vedremo così procedere in parallelo la battaglia in tribunale e la malattia di Andy, accompagnate da una colonna sonora meravigliosa, premiata con l’oscar per la stupenda “Streets of Philadelphia” del Boss Bruce Springsteen, a cui si affiancano anche Neil Young e Peter Gabriel. Eccezionali ovviamente sono anche le performance dei due “mostri” di Hollywood Washington e Hanks, che basterebbero abbondantemente a giustificare la visione del film. Giulio Degli Esposti

Philadelphia (Jonathan Demme, 1993) Andrew “Andy” Beckett, è un giovane e rinomato avvocato di Philadelphia (interpretato da Tom Hanks, che conquista qui il suo primo premio Oscar da miglior attore), ingiustamente licenziato dallo studio legale presso il quale lavora. I motivi ufficiali del licenziamento sono “inefficienza e inaffidabilità” ma si capisce subito che sotto c’è ben altro, poiché all’interno dello studio erano iniziate poco prima a circolare voci riguardanti l’orientamento sessuale di Andy e l’ormai incipiente sviluppo dell’AIDS. Beckett non ci sta e, grazie alla spinta morale che gli viene data dal suo compagno, decide di intraprendere una battaglia

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RADIO TERAPIA WHP (https://www.facebook.com/WHPLAYGARDEN) Negli ultimi numeri vi ho raccontato le storie di artisti che si sono esibiti in città, per questo numero ho invece pensato di entrare nel mondo del clubbing bolognese, sfruttando l’opportunità di intervistare alcuni degli ideatori e organizzatori di WHP: non solo un party che si svolge con cadenza mensile qui a Bologna, ma un concetto di organizzazione eventi che si vuole distinguere da tutti gli altri in città. M: Ciao ragazzi, innanzitutto vi ringrazio per il tempo che ci state dedicando. Cominciamo: chi siete? WHP: Ciao e grazie a voi per l’opportunità che ci avete offerto! In realtà è molto semplice, siamo un gruppo di 12 ragazzi accomunati dalla passione per la musica e per il divertimento. Ci siamo conosciuti lavorando nei vari locali bolognesi, in particolare al Kindergarten, dove partecipavamo alla realizzazione di una serie di eventi conosciuti con il nome di “Playhouse”. Ciò che ci ha portati a ideare il progetto WHP è stata la comune ambizione di voler creare qualcosa di nuovo e diverso dalla proposta bolognese, nel quale noi, e speravamo anche altri, ci saremmo potuti meglio riconoscere. Così ci siamo uniti formando una “crew” chiamata “Playgarden”, un nome strettamente correlato con le nostre origini, visto che il privé dove organizzavamo eventi era chiamato così. M: Quindi mi sembra di capire che foste già ben inseriti nel mondo della nightlife bolognese prima di cominciare il vostro progetto. Allora cosa vi ha spinto a cambiare così radicalmente direzione? WHP: Sì eravamo, chi più chi meno, tutti coinvolti in questo mondo, ma non eravamo particolarmente soddisfatti della proposta cittadina e pensavamo che unendo le nostre forze e le nostre idee avremmo potuto creare qualcosa di valido sia in termini di divertimento che di qualità. M: Qualità? Cosa intendete con questo termine?

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WHP: Beh è un discorso un po’ complicato, non vorremmo scontentare nessuno. M: Ragazzi, abbiamo una rubrica chiamata “senza peli sulla lingua”, vi pare possa essere un problema? WHP: D’accordo. Oggi, purtroppo, il mondo della nightlife è dominato dalla volontà di guadagnare soldi e questo fine viene perseguito in tutti i modi possibili: chiamando il bello di “Uomini e donne”, noto programma culturale in onda su Mediaset, migliorando i divanetti del locale, proponendo un prodotto musicale quasi scontato, nel senso che quando vai in quel locale sai le canzoni a memoria, ecc … Il risultato di tutto questo meccanismo vizioso è la mediocrità. Oggi conta avere il locale pieno di gente, avere l’artista mainstream anche se musicalmente inadeguato/incompetente, avere tanti pr, o ancor peggio dj pr, della serie “suoni se mi porti gente”! Tutti sono pronti a stressarti sul fatto che il loro evento sia il più bello, il più profumato, il più costoso! Questo è il problema: tutti questi obiettivi vengono realizzati a scapito del cliente, che deve pagare ticket esorbitanti solo perché quello è il posto figo, ricco di attrazioni … Quello che cerchiamo di fare noi è riportare la musica e, più in generale, l’arte in senso lato, al centro della scena notturna bolognese.

M: Arriviamo al punto chiave: è da ormai un anno che portate avanti questo progetto, chiamato WHP “Warehouse Project Playgarden”, di cosa si tratta esattamente? WHP: Si tratta di un evento che realizziamo mensilmente al laboratorio Crash, da sempre luogo molto sensibile dal punto di vista artistico. Questo locale ci viene messo a disposizione per realizzare il nostro progetto che ha come principale obiettivo quello di riportare la musica al centro dell’evento. Per farlo ci avvaliamo


di un’impiantistica di tutto rispetto (la musica deve suonare bene, altrimenti non è godibile al massimo) e di dj/liver che sappiano far divertire noi e coloro che partecipano alle nostre serate, cercando di proporre qualcosa di mai banale. Gli artisti che si sono susseguiti alla nostra consolle non hanno un nome, perché non sono tanto i loro nomi o i loro curricula ad essere importanti, quanto la musica che le puntine dei giradischi leggono. Infatti fin dalla prima serata sui nostri flyer c’è scritto “djs have no name”, perché ci vogliamo discostare da tutto ciò che è mainstream. M: Ma così non rischiate di non farvi conoscere da abbastanza gente? Non siete preoccupati in tal senso? WHP: Assolutamente no! Siamo molto umili. Infatti per noi non è tanto importante quanta gente c’è, ma quanto si diverte quella che c’è. Noi vorremmo che tutti i partecipanti ai nostri eventi potessero andar via con un sorriso (e magari senza il portafoglio vuoto!). Su questi precetti si basa anche la scelta di non avere pr “scassamaroni” e liste/listine/prevenditine/tessere. In pratica chi vuole partecipare, anche solo per vedere di cosa si tratta, può farlo presentandosi semplicemente all’ingresso e pagando una cifra che a noi serve per rimborsare il materiale e gli artisti che si succedono nei nostri eventi. M: Tutto chiaro. Ma cosa intendete con “materiale”? WHP: Ah! Ci stavamo dimenticando di una cosa importantissima. Il materiale ci serve per le varie installazioni che proponiamo durante gli eventi, in modo che la location abbia un qualcosa di diverso ad ogni nostra serata. Inoltre abbiamo sempre collaborazioni con artisti diversi che fanno esposizioni di quadri, sculture, proiezioni ed altro ancora nella stessa sala dove ci si può scatenare a tempo di musica. Bello no?! E non è tutto. Abbiamo anche una sala dedicata allo scambio/vendita/acquisto di vinili e abbiamo intenzione di organizzare anche un mercatino di abiti vintage. Insomma tutte cose abbastanza insolite qui in Italia, ma che all’estero stanno andando molto forte. Insomma ci piace molto il fatto che chiunque venga da noi possa godersi la serata come meglio crede: ballando, ascoltando dischi rari, vedendo le creazioni degli artisti che collaborano con noi, il tutto al prezzo più modico possibile visto che la maggior parte dei partecipanti sono, come molti di noi, studenti. M: Bene ragazzi, ci avete fatto una bella descrizione di quanto state facendo, ma purtrop-

po il nostro tempo (e spazio!) è finito. Non ci resta che venirvi a trovare in una delle vostre prossime serate! WHP: Sì assolutamente, ne saremmo onorati! Vi invitiamo il 25 maggio al Laboratorio Crash, dove si svolgerà il nostro 9° party, un traguardo importante. Non si sa mai che si porti dietro qualche sorpresa in più rispetto a ciò che vi abbiamo già svelato!

Consigli per gli acquisti by WHP 1. Model 500 – Sound of Stereo – 1987 Metroplex Records 2. Baby Ford – Oochy Koochy – 1988 Rhythm King Records 3. Gemini – A Moment of Insanity – 1995 Planet E Records 4. Paul Johnson – It’s House – 1995 Nite Life Records 5. MAD MAX – Frippery – 1998 Gold Plate Music 6. Lil’ Louise – I Called U (Why’d U fall) – 1990 Epic Records 7. Screamin Rachel – My Main Man – 1985 TRAX Records 8. Cajmere – Percolator – 1992 Cajual Records Matteo Fermi

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In mezzo agli uomini verdi È una mattina di primavera: la città si stiracchia pigra sotto i raggi del sole caldo, i passi della gente si rincorrono sotto le ombre dei portici, le voci si mischiano e s’innalzano fino a tintinnare nell’aria, la vita scorre come se nessuno potesse fermarla. Fuori. Qui, dentro, non c’è nessuna città e non ci sono passi e ombre di portici. Le voci sono sussurri soffocati dalle mascherine, la vita s’inceppa, è stentata, timorosa: balbetta e trema, ha paura. Qui dentro non c’è nessuna primavera. C’è un corridoio bianco e tante porte, tutte uguali. E poi ci sono loro: gli uomini verdi. Sono uguali, gli uomini verdi: non c’è il maschio e non c’è la femmina, non c’è una storia sotto la loro pelle verde, non c’è un cuore che fatica o un corpo che arranca. Anche loro, come le porte, sono tutti uguali: spariscono le forme dei corpi, il colore dei capelli, l’espressione delle bocche, la punta dei nasi, la lunghezza delle dita, il profilo delle spalle. Restano solo gli occhi. Sono iridi veloci, scattanti, che se riesci a incrociare sono più chiare delle parole che la stoffa copre, che questo mondo asettico distorce, in modo innaturale muta, rende estraneo. Ci sono tanti tubi, grossi e sottili, per la bocca e per le vene, per la colonna vertebrale e per le arterie. Ci sono tante fiale, liquidi trasparenti e lattiginosi, polveri e gas. E ci sono gli aghi, grossi e sottili, tutti impietosi, tutti in fila per fare a gara a pungerti, entrarti dentro, cercare il sangue, il pulsare del cuore lontano, la vita che si nasconde. Ha paura, la vita. Ma un uomo verde lascia scivolare nelle tue vene un po’ di quel liquido trasparente e tu ti senti più leggero, hai quasi meno paura, ti senti come un pesce in una boccia trasparente, con fuori tutti gli uomini verdi, a guardarti nuotare sempre più piano. Con dolcezza, ti sembra di scivolare sul fondo. Dimentichi di essere carne nuda, scoperta e tremante. Così terribilmente fragile. Dimentichi il tubo che ti scivolerà nella gola, dimentichi che dimenticherai di saper respirare. Dimentichi l’ago che ti resterà nelle vene, la lama che ti inciderà la carne. Dimentichi che la tua vita ha paura, così tanta che hai bisogno di dimenticare, che vuoi non pensare a questo mondo asettico, fatto di tubi e aghi e fiale e gas e polveri, fatto di uomini verdi che, quando dormirai, pesciolino adagiato sul fondo, apriranno il tuo corpo per cercarti la vita, per darle una spinta, per rimetterla in piedi, darle gambe e darle braccia, per ricordarle che non è ancora finita. E allora dormi, dormi senza ricordare, mentre gli uomini verdi si affannano attorno al tuo corpo nudo, disteso, che non può sottrarsi, non può protestare, non ha voce, non ha diritto. Ha solo fede. Dormi, coperto di verde anche tu, resta protesa nell’aria fredda solo la parte di te che verrà aperta, innaturalmente incisa, denudata ancor più profondamente di quanto già non sia. Dormi, muto e intrappolato tra le tue stesse membra, e c’è solo il bip costante dello schermo a dire che sei vivo, che anche se non parli e non ti muovi tu sei lì, tu esisti. Gli uomini verdi lavorano in fretta, t’illuminano la pelle e cercano la malattia, la cercano dentro, dove s’è attaccata alla tua vita e non vuole lasciarla più. Hanno mille strumenti, plastica e metallo, mani veloci, voci concitate, occhi a fessura. Loro lo sanno, gli uomini verdi, che la lama non deve tremare, che non possono sbagliare, che devono toglierti la malattia, reciderla, lasciare soltanto l’ostinazione di chi si vuole svegliare.

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Ma tu dormi, se avevi paura l’hai dimenticata. Dormi e forse, quando hai chiuso gli occhi negli occhi di un uomo verde, hai pensato che avevi paura di non svegliarti più. Gli uomini verdi sanno quanto ossigeno c’è nel tuo corpo, sanno quanto veloce va il tuo cuore, quanti respiri devi fare, quanto tempo hanno ancora per finire. Sanno che la malattia si è abbarbicata alla tua vita: con la stessa forza con cui tu vuoi svegliarti lei non vuole lasciarla. E per tranciare quel contatto insano, quell’abbraccio che lentamente ti sta spegnendo, ci vogliono scienza e cuore, dita ferme e mente vigile, pazienza e sudore. Gli uomini verdi lo sanno che il tuo posto è fuori, che è lì che devi tornare. Fuori, dove la vita scorre senza che nessuno possa fermarla. E tagliano e aspirano, bruciano e tamponano, non si fermano fin quando la tua vita torna a scorrerti dentro senza impaccio, sola nel tuo corpo come deve essere, fin quando sei di nuovo più vicino al fuori che al dentro. Ricuciono tutto, gli uomini verdi. Aghi sottili e fili impalpabili per lasciarti il ricordo più lieve, l’ombra di un dolore finito. L’ultimo punto s’annoda, l’ultima goccia di sangue ti viene pulita. Sei pronto. Non dormire più. Impara di nuovo a respirare, ricordati cosa significa, impara di nuovo, respira. L’ultimo uomo verde spinge i bottoni, ruota manopole, con la sua voce traccia un sentiero per portarti alla luce. Aggrappati. Non è forse la vita la cosa più preziosa che hai? Svegliati.

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OROSCOPIA ARIETE “Non tutto ciò che luccica è oro”. Tenetelo a mente come un tesoro perché spesso prendete grandi abbagli accorgendovi solo dopo degli sbagli. Non tutte le iniziali scommesse si trasformano in terre promesse. Riconoscerete le persone importanti, altro che oro, saranno diamanti. TORO Il proverbio dice: “chi va piano va sano e va lontano”; niente di più adatto a voi tori, che spesso vi adagiate sugli allori e ben poco vi sforzate dando spesso le cose per scontate. Ma una cosa l’avete capita: senza stress, è più bella la vita! GEMELLI Tanto talento è spesso sprecato a causa del vostro agire disordinato. Vi entusiasmate tanto, ed è positivo, ma poi abbandonate presto l’obiettivo. Per fare le cose nella giusta maniera dovrete applicarvi con costanza vera; fate del concetto il vostro caposaldo, “battete il ferro finché è caldo”. CANCRO “Ride bene chi ride ultimo”, pensate quando le vostre idee vengono attaccate. Che siate permalosi, non è una novità ognuno d’altronde ha difetti e qualità. Cercate di prendere con filosofia le critiche o la sfiducia di chicchessia, tanto come sempre dimostrerete che, come dice il proverbio, ragione avete. LEONE “Meglio tardi che mai”, vi dicono spesso. Ora cercate di capire il nesso tra questo proverbio e il vostro difetto (d’altronde si sa, nessuno è perfetto). Rimandare è il vostro sport preferito nel fare ciò che non vi è gradito. Ma prima o dopo fortunatamente concludete tutto diligentemente. VERGINE “Chi la fa l’aspetti”, certo è azzeccato per quelli che di rispetto vi han mancato. Siete sempre abituati a lasciar passare i brutti gesti e le parole amare che verso di voi vengono rivolte, spesso fingendo di non averle colte. Ma è il momento di reagire, una piccola vendetta vi potrà alleggerire.

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BILANCIA Vivete in maniera piuttosto lineare così come siete abituati a pensare. L’equilibrio è per voi fondamentale ma rischiare a volte non vi farebbe male. “Chi non risica non rosica” è un detto, ma tenete bene a mente il concetto. Provate a mettervi alla prova, sarà senz’altro un’esperienza nuova. SCORPIONE Introversi e di indole riservata, rischiate di dare l’impressione sbagliata. Difficilmente vi lasciate andare e la vostra fiducia è da meritare; “Chi fa da sé fa per tre” è il pensiero accompagnato dal portamento altero. Lasciatevi aiutare e siate fiduciosi, non c’è motivo di fare i noiosi. SAGITTARIO “Chi disprezza compra”, sapete? Sono certa ve ne ricorderete quando i soliti criticoni faranno commenti poco buoni. La maggior parte delle volte l’uso di parole stolte è solo un modo per tenere celato un interesse che pare non ricambiato. CAPRICORNO Un segno, certo, determinato con un fare piuttosto inquadrato. L’ambizione non vi manca e lavorare non vi stanca. Il problema è la competizione, perché l’invidia la fa da padrone. ”L’erba del vicino è sempre più verde”, ma con la gelosia spesso ci si perde. ACQUARIO “L’abito non fa il monaco”, certo, ed un atteggiamento più aperto migliorerà la qualità dei rapporti evitando discussioni e toni forti. Non fidarsi dell’apparenza è sempre un buon punto di partenza e non esprimere giudizi affrettati vi renderà soggetti meno scontati. PESCI “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”; è questa l’età giusta per imparare che a frequentare compagnie sbagliate si fa presto a combinare stupidate. Piuttosto, con la vostra indole matura, siate da esempio di personalità pura e con i migliori obiettivi da perseguire rendete voi stessi modelli da seguire.


GIOCHI

PAROLE DA INSERIRE: 4 lettere: rame, boro, elio 5 lettere: olmio, osmio, cloro, radon, sodio, argon, bromo 6 lettere: bohrio, dubnio, fermio, hassio, piombo, iridio, cadmio 7 lettere: fosforo, francio, selenio, vanadio, argento, platino 8 lettere: arsenico, mercurio 9 lettere: gadolinio, milibdeno, seaborgio, manganese 12 lettere: rutherfordio

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Per informazioni e per consultare la versione online di SISMagazine:

bologna.sism.org


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